Oggi, domani / Paolo Di Paolo

“Nella storia della distruzione è un particolare tra centinaia di particolari; nell’affresco spaventoso di una guerra è l’angolo in basso della tela. Da lì sbuca un muso di cane, e ci guarda: con quello sgomento muto che a volte c’è solo negli occhi dei cani. Il cane piccolo e atterrito – però vivo – ritrovato in un’auto con i finestrini distrutti. Il grosso cane dal pelo chiaro che accompagna una famiglia in viaggio verso il confine. E quello che sosta per ore in una stazione, confuso alla folla degli umani, accucciati come lui al freddo. Il randagio che percorre le strade di città sventrate, affamato. L’ospite di un canile abbandonato, che guaisce e sussulta per il rumore dei bombardamenti. (…) Il cane rimasto ucciso insieme alla sua famiglia umana – freddata alle spalle mentre era in fuga.

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Una vicenda enigmatica al ritmo della commedia brillante

Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso, Marsilio 2022 (pp. 240, euro 16)

Non è la prima volta che la famiglia dell’autore dei Promessi Sposi attira la curiosità di uno scrittore: “un tentativo di ricostruire e ricomporre per disteso la storia della famiglia Manzoni”, “sparpagliata in diversi libri, per lo più introvabili”, l’aveva fatto quarant’anni fa Natalia Ginzburg, che nella nota di prefazione al suo La famiglia Manzoni avvertiva che si tratta di una vicenda “tutta cosparsa di vuoti, di assenze, di zone oscure. Come d’altronde ogni storia famigliare che si cerchi di rimettere insieme. Tali vuoti e assenze sono incolmabili”. Sono proprio le storie lacunose, forse, che si prestano ad essere rivisitate, sull’onda di un’immaginazione capace di colmare quei vuoti. Ciò che a suo modo fa Zaccuri, convinto – come si è letto in una recente recensione del suo libro apparsa sul “Giornale di Brescia” – di come fosse “indispensabile, per raccontare la storia Manzoni o immaginarne una alternativa, narrare la storia di Giulia, figura decisiva nella sua vicenda personale”.

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Oggi, domani / Antonio Prete

“La prossimità, l’aiuto, il soccorso rivolti alla popolazione ucraina, l’accoglienza messa in campo per i profughi, tanto più possono attingere a una compassione per dir così pura, e profonda, quanto più includono nell’orizzonte dello sguardo e della cura, e nelle ragioni dell’indignazione, altri feriti, o sottoposti a violenze, sotto altre latitudini, sotto altre condizioni. Si tratta insomma di non respingere tra gli invisibili i campi profughi libanesi, le metodiche occupazioni e aggressioni nella striscia di Gaza, i campi-lager libici, e così via”.

Una vita piena di vite degli altri

Daria Bignardi, Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, Einaudi 2022 (pp. 168, euro 16,50)

“Temevo di ‘fare la figura di quella che pubblica perché va in tv’”: il timore dell’autrice e conduttrice televisiva, ammettiamolo, non era campato per aria. La riluttanza a leggere i romanzi da chi è segnato dalla “lettera scarlatta della tv”, secondo le parole della stessa Bignardi, ha le sue ragioni. Ma dimentichiamo o mettiamo fra parentesi, l’amabile, e non banale, interlocutrice di attori e cantanti, scrittori e politici: questo romanzo ci propone – facendo seguito agli altri libri pubblicati negli ultimi anni, uno per tutti: Storia della mia ansia (Mondadori 2018) –, un’autobiografia fatta di note che si richiamano fra loro, di semplici appunti, si direbbe a volte, che lasciano però emergere con chiarezza alcuni fili conduttori. Primo fra tutti la passione compulsiva per la lettura che restituisce una trama ininterrotta di autori e titoli. Come è logico avvenga, quando l’autore è anche un lettore di questo genere, il racconto della sua vita si intreccia con quello dei romanzi che ha letto, con il modo in cui hanno segnato i suoi giorni, con il posto che hanno via via preso nella sua storia. Innanzitutto quelli amati nonostante, anzi: proprio perché hanno avuto l’effetto richiamato nel titolo ma hanno saputo dare alla lettrice l’impressione di parlare proprio a lei.

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L’abisso interno

Henning Mankell, Nel cuore profondo, Marsilio 2021 (pp. 472, euro 18)

Atmosfere cupe, fra tempeste e banchise ghiacciate del Baltico; una natura che non consoce altra legge che quella del più forte, tanto più in un’epoca nella quale il mare è percorso dalle corazzate tedesche e russe che si affrontano nella più distruttiva delle guerre fino allora combattute, la prima guerra mondiale: il senso di una catastrofe incombente percorre questo romanzo fin dalle prime pagine – occupate da un’anticipazione angosciosa, il tentativo di fuga di una pazza dal manicomio in cui era rinchiusa da ventitré anni – e accompagna la narrazione che ci riporta alle missioni del capitano esperto in misurazioni batimetriche, capace di rilevare inesattezze nelle carte nautiche ma in realtà sempre “alla ricerca di qualcos’altro: un punto in cui il batimetro non sarebbe mai riuscito a raggiungere il fondo. Un punto in cui il batimetro cessava di essere uno strumento tecnico per trasformarsi in un mezzo poetico”. Non è tuttavia nell’idillio che la sua storia sfocerà, ma nella tragedia, perché la profondità del suo cuore è irraggiungibile, sulla sua vita gravano ombre di cui ignora la natura e lo portano ad azioni che, a posteriori, gli sembrano compiute da un altro. E che Mankell racconta guardandosi dall’attingere all’onniscienza del narratore, preferendo il ruolo di testimone, apparentemente distaccato, delle menzogne nelle quali il protagonista si imprigiona: “volevo riflettere sul perché al mondo ci siano troppi uomini che mentono quando si tratta di sentimenti”, ha raccontato lo scrittore nel 2014, dieci anni dopo l’uscita del libro: “uomini che agiscono senza controllo dei sentimenti nei riguardi delle donne, e se un uomo perde il controllo, può sprofondare nell’abisso interno e può accadere di tutto”.

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Intuire la singolarità dell’esistenza

John Gardner, Il mestiere dello scrittore, Marietti 1820, 2021

“Leggere libri e riviste, prestando attenzione alla lingua”, ma al tempo stesso non leggere “alla maniera dello specialista della lingua, ma alla maniera di un romanziere”, che si chiede “che cosa avrebbe fatto lui nella stessa situazione e se il suo metodo sarebbe migliore o peggiore”, e dunque leggere “sia con dedizione, sperando di imparare da un maestro, che in modo critico, attento a ogni possibile errore”. Sottinteso appena accennato: scegliere che cosa leggere, evitando il peggio, ossia “la narrativa ‘di buon livello’ scadente”. Il libro “scritto bene” ma superfluo, quantomeno. Leggere sì, e molto, dunque, ma selezionando le proprie letture: il consiglio dovrebbe estendersi ai libri che parlano di scrittura, tanto numerosi ormai da occupare nelle librerie lo spazio un tempo riservato ai testi di critica letteraria – ha osservato Vanni Santoni in una recensione recente di questo libro. Ma come orientarsi? Anche in questo campo troviamo infatti proposte discutibili: perorazioni ed elogi dello scrivere come viene viene poi si vedrà; testimonianze entusiaste del valore terapeutico o liberatorio della scrittura, una risorsa che era già lì, da sempre a portata di mano; manuali fai da te che sommano consigli, prescrizioni, avvertenze senza curarsi della loro astrattezza o addirittura della loro contraddittorietà; saggi di spessore ma talmente legati alla cultura letteraria in cui sono nati da non parlare al di fuori di quella.

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Oggi, domani / Cesare Brandi (1968)

“La nostra civiltà che si razionalizza, in apparenza, sempre di più, si meccanizza quindi sempre di più, è tutta un enorme neoplasma, come un neoplasma al cervello che prima di distruggere completamente i centri, li comprime, li deforma, li annulla. Così il massimo della razionalizzazione coincide con l’atrofia di quello che fa uomo l’uomo, in primo luogo la contemplazione, l’ozio nel senso antico e non dispregiativo: vedere e mirare. Vedere e recuperare, mirando, il tempo remoto e quello nuovo, ricomporre il proprio essere avulso e sminuzzato dalle ore quotidiane, dal fracasso tecnologico. Né vale solo la campagna o la montagna o il mare per questo. La città, che è l’espressione stessa dell’uomo in quanto vive con l’uomo e fa civiltà e crea cultura, la città deve anche poter sospendere l’uomo dal suo flusso ininterrotto di affanni e di lavori forzati”.

Contro il totalitarismo economico

Serge Latouche, Breve storia della decrescita. Origine, obiettivi, malintesi e futuro, Bollati Boringhieri 2021 (pp. 144, euro 16)

Fa bene Serge Latouche a tornare periodicamente a spiegare la sua idea, a illustrarne presupposti e conseguenze, perché su di essa non è calato il silenzio, come su altre espressioni del pensiero critico, ma si è riversata una violenta reazione che l’ha caricaturizzata, in chiave regressiva o pauperista: dovremmo forse tornare alla candela? e che cosa ci sarebbe di felice nella rinuncia a molte delle cose che il progresso ci ha donato? Non è forse il sogno di chi queste cose le possiede, questa proposta di abbandonare la crescita come parametro attorno a cui tutto non può che ruotare (misure di contrasto alla pandemia comprese, verrebbe da aggiungere)? Una reazione non casuale, tanto più beffardamente ostile quanto più la proposta ha saputo giungere al cuore del sistema che governa la nostra società, le nostre vite.

Ecco allora una nuova lezione su quel che si deve intendere per decrescita, questa volta più di altre consapevole – si direbbe – dei fraintendimenti ormai sedimentati e disinvoltamente perpetuati da giornalisti e politici privi di remore nell’interpretare il progetto riduttivamente, come un programma immediatamente operativo: non senza qualche responsabilità del suo ideatore, c’è forse da dire – si notava sommessamente commentando un altro libro di Latouche (Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, uscito l’anno scorso e in queste note alla fine dell’agosto 2020).

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Il tempo, la vita / Jorge Louis Borges

“Ogni volta che ricordo il frammento 91 di Eraclito, ‘Non scenderai due volte nello stesso fiume’, ammiro la sua abilità dialettica, giacché la facilità con cui accettiamo il primo giudizio (‘Il fiume è un altro’) c’impone clandestinamente il secondo (‘Sono un altro’) e ci concede l’illusione di averlo inventato”.

Una federazione per la società civile planetaria che già esiste

Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli 2022 (pp. 204, euro 20)

Una “federazione di popoli” estesa a tutta la Terra: quella che a detta dell’autore stesso può apparire “un’idea chimerica”, tanto più in giorni segnati dal ritorno della guerra in Europa, risulta in realtà essere “l’inevitabile via d’uscita dai mali che gli uomini si procurano a vicenda”. A dirlo non è l’autore, ma – pochi anni prima della Rivoluzione francese – Immanuel Kant, convinto che gli Stati debbano “rinunciare, come i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno Stato di popoli”. Si tratta, secondo Luigi Ferrajoli, di “una chiara, sicura previsione del costituzionalismo globale” prospettato in questo libro e diffusamente illustrato in altre sedi (come il sito www.costituenteterra.it). Non è, questa, una delle tante, per quanto apprezzabili, prediche inutili ma un discorso circostanziato e rigoroso quanto lo può essere quello di un giurista e filosofo del diritto e della politica capace di mettere in luce “l’imprevidenza e l’inadeguatezza dei nostri sistemi politici” di fronte alle emergenze che la pandemia ha soltanto reso più evidenti e di dimostrare che l’unica risposta all’altezza delle “catastrofi globali” che incombono è “l’allargamento a livello planetario del paradigma del costituzionalismo” affermatosi “all’indomani della liberazione dai regimi fascisti”. Catastrofi ecologiche, minaccia di guerre nucleari, lesioni delle libertà e dei diritti fondamentali, sfruttamento illimitato del lavoro, migrazioni di massa: “le tante carte e convenzioni sui diritti umani” hanno dimostrato la loro inconcludenza in una realtà nella quale “l’umanità forma già una società civile planetaria”, “attraversata – tuttavia – da conflitti e confini che le impediscono di affrontare i suoi tanti problemi globali”, irrisolvibili da parte degli Stati nazionali, strutturalmente impossibilitati a contrastare i “crimini di sistema” commessi dall’“anarcocapitalismo globale”, crimini anche se non riconosciuti come reati  in quanto – secondo una visione giuridica arretrata e sclerotizzata – non classificabili come “illeciti penali”.

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Presentazione: una conversazione a partire dal romanzo di Carlo Simoni

Se viene qualcuno 
Giovedì 10 marzo, ore 19
nuova libreria Rinascita
Brescia, via della Posta 7

I posti a disposizione sono limitati: si consiglia perciò di segnalare la propria presenza: qui per prenotarsi

Perché scrivere di sé e della propria famiglia? Che cosa può trovare il lettore in storie di questo genere?  Sono domande sulle quali confrontarsi in una conversazione che metta in luce innanzitutto le risonanze che il racconto può suscitare, le analogie fra le vicende raccontate e quelle vissute da chi legge questo libro. Un romanzo fatto di racconti, che offre anche l’occasione di verificare in che modo e con quali risultati la scrittura possa nutrirsi della memoria, senza dimenticare il carattere indistinto e mutevole della relazione fra l’io che racconta e il personaggio che nel racconto dice “io”.

Scrivere, leggere / Chandra Candiani

“L’isolamento porta con sé la paura di rimanere tagliati fuori dal tormento del mondo e nello stesso tempo offre la possibilità, stando bene, di inviare il bene agli altri, di invitarli a non fossilizzarsi nell’antropocentrismo. Si può scrivere dal bene e non soltanto dall’angoscia. Si pensa: meno sofferenza, meno scrittura, ma non è vero. Il dolore dà una nota musicale diversa ma non c’è solo quella”.

Una favola antiglobalista

John Ironmonger, La balena alla fine del mondo, Bollati Boringhieri 2021 (pp. 414, euro 18)

Il corpo di un uomo sull’arenile di un paesino della Cornovaglia, una balena che poco dopo vi si spiaggia. Ma l’uomo non è morto: gli abitanti di St Piran lo salvano, ed è lui a guidarli poi nel salvataggio della balena, risospinta a forza in mare, lei che, a quanto pare, aveva a sua volta salvato l’uomo sospingendolo fin sulla riva. Questi i fatti da cui si sviluppa la storia, coinvolgente nel suo intreccio e nella galleria di personaggi che spiccano nella piccola comunità, ma anche nel suo tema di fondo: la differenza abissale fra il mondo del villaggio e quello della città, la City londinese da cui il protagonista era fuggito, convinto di aver mandato in bancarotta la finanziaria in cui lavorava affidandone le strategie al programma da lui ideato, capace di mettere a fuoco la miriade di connessioni che percorrono il pianeta globalizzato e prevederne l’evoluzione. È questa la sequenza che ha cambiato la vita di Joe Haak: “nello spazio di quarantotto ore, era passato da funzionario relegato alla scrivania nell’angolo buio di una banca della City a eroe di una minuscola comunità a centinaia di chilometri di distanza”, una comunità nella quale il tempo “si muoveva a un ritmo diverso. Un uomo poteva stare seduto con del sidro e osservare l’oceano, e le lancette dell’orologio avrebbero fatto il giro del quadrante e nessuno lo avrebbe chiamato per nome. Avevano ‘tempo’ nella City? Era lo stesso fenomeno?”.

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1772-2022. Il 250° di un uomo di scienza di livello europeo: Giambattista Brocchi

A ricordarmi l’anniversario è stato l’autore di un breve video reso per l’occasione disponibile sul canale youtube, uno studioso che insegna scienze naturali a Bassano, la città natale di Brocchi, nel liceo a lui intitolato. Ho conosciuto Francesco Mezzalira proprio nella sua scuola, dove mi aveva invitato a presentare il romanzo che narra la vita di Brocchi: I tempi del mondo, da me pubblicato dieci anni fa.

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Luoghi piante animali uomini / Jonathan Safran Foer

“L’abilità umana di adattarsi ai cambiamenti drammatici è tanto motivante quanto deprimente. Chi avrebbe pensato, un paio di anni fa, che non avremmo battuto un ciglio, che non avremmo pianto vedendo scuole piene di bambini che indossano mascherine? O che avremmo considerato normale un bus pieno di gente che fissa rettangoli di vetro nel palmo, invece di interagire in quello che consideravamo il ‘mondo reale’? (…) non sapevamo tutti che sarebbe successo? Non ce lo aspettavamo da anni? Non siamo quel tipo di persone che accettano una scienza incontrovertibile? Davvero è possibile che questa situazione ci vada bene? Non è chiaro ormai che, consapevolmente o meno, stiamo scegliendo il cambiamento climatico?

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L’inevitabilità del distacco, il segreto delle relazioni

Cees Nooteboom, Venezia. Il leone, la città e l’acqua, Iperborea 2021 (pp. 255, euro 19,50)

Fra coloro, non pochi, che ritengono che da una parte ci siano le città, tutte, e dall’altra Venezia, c’è sicuramente Nooteboom: Venezia – prevede, anche se ci ritorna dopo esserci già stato molte volte –, “ mi attirerà e mi respingerà (…), diverrà parte della mia vita mentre io non sarò mai parte della sua, vagherò come un granello di polvere attraverso la sua storia”, e anche se visitarla si risolve in un “esercizio di ripetizione, la città deve essere riconquistata ogni volta”, perché a coglierti è “sempre la stessa mescolanza di estasi e di smarrimento”. La si può conoscere in ogni angolo e sperimentare così la sottile sensazione dello spaesamento. Ma non si tratta solo di luoghi, di spazio. È la grana del tempo che è diversa: “Il tempo qui non pesa nulla”, anche se, contraddittoriamente, “le bronzee voci del tempo che in altre città non si sentono più, qui ti saltano addosso nei vicoli e sui ponti”, e non si tratta solo del tempo della giornata. È il tempo della Storia a venirti incontro in questa “città pieno di ombre e del ricordo di ombre, Monteverdi, Proust, Wagner, Mann”. È tutta la città a confondere il presente con il passato, a far continuare a vivere, e a lasciar intravedere, il passato nel presente: “Qui si va in giro un po’ disorientati, smarriti tra gli strati di passato, che a Venezia appartengono tutti contemporaneamente al presente. Qui l’anacronismo è l’essenza stessa delle cose”. Tanto più che il futuro stesso si aggira fra calli e campielli, un futuro che non si vuole immaginare, quello in cui la città “come un Titanic, tornerà a sprofondare nel molle terreno su cui sembra ancora galleggiare”. Meglio dunque affidarsi, in questo girovagare che si traduce in un minuto diario di sguardi e memorie, a guide che risalgono a tempi nei quali un simile destino era del tutto impensabile, al Baedeker del 1906, o alla guida del Tci del ’54 (un po’ come Michael Portillo nelle sue serie documentaristiche che la televisione da anni ci propone). Ma il proposito è presto scordato: la città si impone e “se hai buon senso ti lasci smarrire”, ti rendi conto dei vantaggi che ha perdersi, a Venezia; entrare “in un vicolo che finisce contro un muro o su una riva senza ponti” e in questo modo vedere “quelle cose che non avresti visto mai” se avessi seguito diligentemente i consigli di una guida, né avresti udito: è quando abbandoni le vie più battute che senti, nel suono dei passi, “il rumore dimenticato di un tempo senza automobili e che qui risuona ininterrottamente da tanti secoli”.

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Oggi, domani / Byung-Chul Han

“L’intrattenimento è in procinto di creare, ben oltre l’episodico, una nuova ‘condotta di vita’, una nuova esperienza del mondo e del tempo (…). La cornice ‘schermo’ definisce i film come intrattenimento, ma include anche le notizie, e l’identica cornice fa sì che l’intrattenimento e le notizie si mischino. Anche il confine tra ‘realtà vera’ e ‘realtà finzionale’, che contraddistingue l’intrattenimento, sfuma sempre più. Da tempo ormai l’intrattenimento comprende anche la ‘realtà vera’, modifica gli interi sistemi sociali senza tuttavia segnalare la propria presenza: così sembra consolidare un ipersistema coestensivo del mondo”.

L’inevitabilità del distacco, il segreto delle relazioni

Bernhard Schlink, I colori dell’addio, Neri Pozza 2021 (pp. 240, euro 18)

Non è questo l’unico caso in cui Schlink preferisce, rispetto al romanzo, la raccolta di racconti. Sette, come in Bugie d’estate (pubblicato dallo stesso editore due anni fa), tenuti insieme però da un tema, quello richiamato nel titolo: l’addio, il commiato. Scelte inevitabili e che tuttavia, più che a un passo indietro, a un ridimensionamento dell’Io e delle sue pretese, costringono a una rivisitazione del proprio passato, impongono l’assunzione di un impegno in qualche modo eluso fino al momento del distacco e, anche, l’acquisizione della consapevolezza che la scomparsa dell’altro prelude alla propria: “Sono morti tutti: le donne che ho amato, gli amici, mio fratello e mia sorella e naturalmente i miei genitori, gli zii e le zie. Sono andato ai loro funerali, un tempo di frequente perché a morire era la generazione precedente alla mia, poi di rado e negli ultimi anni sempre più spesso perché stanno morendo quelli della mia generazione”. Ma andare ai funerali non è che mettere in scena una separazione che in realtà chiede di essere ben altrimenti elaborata: “Per lungo tempo ho pensato che un funerale potesse aiutare a congedarsi dai nostri morti. Del commiato c’è bisogno, perché sapere che un nostro caro se n’è andato continua a turbarci fino a quando, grazie a quella cerimonia, egli non trova la pace – e noi con lui. Ma in realtà un funerale non è di alcun aiuto. Rassicura chi è rimasto dell’importanza del defunto e in qualche misura lo rende partecipe di quella importanza. Rassicura chi vi assiste della dignità del rituale cui si dedicano un paio d’ore, durante il quale si vede e si viene visti, si rende l’ultimo omaggio al defunto e si porgono le condoglianze ai familiari, e in fondo in fondo il funerale dà una certa dignità anche ai partecipanti. Ma che serva ad affrontare meglio il commiato, questo proprio no”.

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