Daniel Mendelshon, Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino, Einaudi 2021 (pp. 112, euro 16)
Una conferma ulteriore della vitalità di una forma capace di innovare e insieme conservare l’impianto narrativo che continua ad apparire, a molti di noi perlomeno, consustanziale all’arte del raccontare: questo troviamo nel nuovo libro di Mendelshon, esempio di romanzo-saggio o, se si preferisce, di saggio che trova il suo elemento unificatore in una cornice narrativa e in un susseguirsi di digressioni, in gran parte autobiografiche. Il tema, lo dice il sottotitolo, è quello dell’esilio; per alcuni, come per i tre autori di cui si racconta, destino che ha motivato e sorretto la loro opera. Il filo che percorre la “storia” è la riflessione sullo scrivere, e per chi sia tentato di leggervi il segno di un’autoreferenzialità dello scrittore vale quanto affermato recentemente da Elena Ferrante (I margini e il dettato, in queste note alla fine dello scorso dicembre): “ogni narrazione dovrebbe comprendere sempre, al suo interno, anche l’avventura dello scrivere che le dà forma”.
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