scrivere, leggere / Michel Foucault

“Questo legame [della scrittura con la morte] rovescia un tema millenario; il racconto o l’epopea dei Greci aveva lo scopo di perpetuare l’immortalità dell’eroe (…). In maniera diversa il racconto arabo – qui penso alle Mille e una Notte – aveva anch’esso come motivazione, come tema e pretesto, il non morire: si parlava, si narrava fino all’alba per evitare la morte (…). A questo tema del racconto o della scrittura fatti per scongiurare la morte, la nostra cultura ha fatto subire una metamorfosi, ormai la scrittura è legata al sacrificio, al sacrificio stesso della vita; è un eclissarsi volontario che non deve essere rappresentato nei libri poiché esso si compie nell’esistenza stessa dello scrittore. L’opera il cui dovere era di conferire l’immortalità ha ormai acquisito il diritto di uccidere, di essere l’assassina del suo autore. Guardate Flaubert, Proust, Kafka”.

La paura della morte che avvelena la vita

Gustavo Zagrebelsky, Qohelet. La domanda, il Mulino 2021 (pp. 162, euro 14)

“V’è tempo di nascere, e tempo di morire”, “di piangere e di ridere”: chi non ha sentito, o detto, in occasioni e contesti diversi, massime simili, magari dimentico della loro fonte? Il Qohelet – o Ecclesiaste, in quanto immaginato dal suo ignoto autore, fra il III e il II secolo a. C., come un seguito di proposizioni da proporre a un’assemblea di uditori – è una miniera di citazioni, assemblate senza un ordine preciso, a volte contraddittorie, ma collegate da un concetto preciso: tutto è vanità, comprese la vita e la morte, compresa la meditazione che su di esse si può fare. E questo proprio perché la morte azzera ogni significato, ogni scopo.

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scrivere, leggere / Luca Doninelli

“Solo con l’esperienza avrei capito l’importanza della pubblicazione, del libro rilegato con titolo, copertina, casa editrice, prezzo, codice a barre. Tutte queste cose formano un argine contro il Tempo e, insieme, ne istituiscono uno nuovo. È come se le parole varcassero i confini di un nuovo paese, nel quale vige una giurisdizione completamente diversa. (…) Una volta entrate nel meccanismo della pubblicazione, le mie parole sarebbero diventate prigioniere dell’aspetto economico del lavoro, del comprare e del vendere, e avrebbero perso la capacità di stabilire un rapporto fisico e mimetico con la geografia circostante: gli angoli delle vie, per esempio, o i cancelli, l’odore dei tigli e dei gelsomini, il piacere dei passi (…)”.

Tutti narcisisti, ma non allo stesso modo

Vittorio Lingiardi, Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi 2021 (pp. 124, euro 12)

È un narcisista, si dice di una persona le cui qualità appaiono limitate da un tratto inaggirabile, da un vizio che ne mina le potenzialità, senza badare al fatto che “Il meccanismo auto-erotico allogasi, qual più qual meno, in tutte le anime”. Così Carlo Emilio Gadda, citato in esergo da Lingiardi che ne conferma la tesi: “Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità”. Ecco il punto: c’è l’amor proprio e c’è l’amor di sé, diceva Rousseau – uno che di narcisismo se ne intendeva –, si tratta di considerarne le rispettive proporzioni. “Funambolo dell’autostima, Narciso cammina su una corda tesa fra un sano amor proprio e la sua patologica celebrazione”. Ma dove, come e perché, finisce la salute e inizia la patologia?

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Dalle nuvole degli scrittori alle nubi degli scienziati

Vincenzo Levizzani, Il libro delle nuvole. Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, il Saggiatore 2021 (pp. 276, euro 22)

“Ora sia il tuo passo / più cauto: a un tiro di sasso / di qui ti si prepara / una più rara scena / (…) Sopra il tetto s’affaccia una nuvola grandiosa”, scriveva Montale, e “nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…”, notava Calvino.

Nuvole, dicono i poeti, gli scrittori; nubi, invece gli scienziati. Gli inglesi hanno un solo termine, cloud (che tra l’altro, nel web, ha conosciuto fortune recenti); gli italiani due, e nuvole, non c’è che dire, è il termine preferito dalla lingua quotidiana come da quella degli artisti, anche dei pittori, dalle nuvole stilizzate di Giotto, “asservite a un discorso teologico” a quelle enigmaticamente minacciose della Tempesta di Giorgione, senza dimenticare i “nuvoli” di cui parla Leonardo, “creati da umidità infusa per l’aria, la quale si congrega mediante il freddo che con diversi venti è trasportato per l’aria”: definizione scientifica, ma ancora ricca di suggestioni poetiche. Le quali cederanno il passo alla logica scientifica con Cartesio, che si proponeva di “spiegare la natura delle nubi in tal modo che non rimanga più nessun motivo di stupore”. Una scelta decisa, una perdita forse: “In principio tutto era vivo”, scrive Paul Auster: “Anche i più piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome”. Ma un nome ce l’hanno ancora, le nuvole, anche se non serve a nominarle incantati, ma a classificarle, secondo i principi della “fenologia”, la scienza delle nubi: i termini attuali echeggiano quelli ideati a inizio Ottocento da un inglese, Luke Howard, e impiegati anche da Goethe nel suo saggio La forma delle nuvole.

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La scrittura, l’oblio, la morte

Björn Larsson, Nel nome del figlio, Iperborea 2021 (pp. 211, euro 16,50)

“Ogni vita umana ha il diritto di essere ricordata e raccontata, ma non tutte si prestano a essere trasformate in letteratura, non tutte meritano di diventare modelli a cui attenersi o da cui scostarsi, a meno che l’autore non aggiunga o sottragga, non si serva della fantasia per raccontare una storia personale capace di convincere e coinvolgere il lettore. In fondo è raro che una vita reale abbia le caratteristiche estetiche ed esistenziali per diventare un buon libro”. Abbiamo di recente letto qualcosa di molto simile: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, diceva Paola Baratto (Malgrado il vento. Racconti, Manni 2021, ne abbiamo parlato qui): sta a chi raccoglie quei racconti, quei ricordi, leggerci ciò che contengono ma non dicono, ciò che solo la sensibilità dello scrittore può intravedervi.

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scrivere, leggere / Vargas Llosa

“Mia madre mi raccontò che le prime cose che io scrissi erano continuazione delle storie che leggevo, perché mi dispiaceva che finissero, oppure volevo cambiare il finale. E forse è ciò che ho fatto per tutta la vita senza saperlo: prolungare nel tempo, mentre crescevo, maturavo e invecchiavo, le storie che riempirono la mia infanzia di passione e di avventure”.

Raccontare i luoghi, raccontare il dolore

Germana Urbani, Chi se non noi, Nottetempo 2021 (pp. 209, euro 14)

Lui, lei, l’altra, l’amore e il disamore: sarebbe una storia come tante se non intervenissero due componenti decisive.

L’ambiente in cui la vicenda si svolge, innanzitutto, il paesaggio che ne è parte sostanziale: gli orizzonti sconfinati di terra e di acqua del Delta del Po, come nei film di Mazzacurati e nelle fotografie di Luigi Ghirri, come nel Celati di Verso la foce, nel Malguti di Se l’acqua ride (ne abbiamo parlato qui), nel Belpoliti di Pianura (ne abbiamo parlato qui) . Luoghi che segnano l’identità e il destino dei loro abitanti, fatti di “un impasto di terra e di acqua”, di un “fango che anche fuggendo lontano ti rimane addosso; luoghi che la scrittura di Urbani sa restituire in contrappunto alla narrazione dei fatti (“Con lo sguardo cerco sull’argine di fronte a me un filare composto di pioppi altissimi che, a intervalli perfetti, rompono la monotonia dell’orizzonte. Si alzano maestosi da queste terre piatte come monaci in processione, custodi mistici del silenzio naturale delle cose”).

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Una regione ignota e favolosa

Roberto Calasso, Memè Scianca, Adelphi 2021 (pp. 96, euro 12)

La scomparsa dell’autore, contemporanea all’uscita del suo libro, ne complica la lettura, soprattutto quando si tratta di uno scritto autobiografico: la tentazione di scorgere segni premonitori del carattere e dell’opera del protagonista nelle sue reazioni ai fatti vissuti e nelle sue prime esperienze è incoraggiata dalla certezza che nessuna ulteriore notizia da parte di chi ha scritto, nessuna possibile messa a punto di quanto riferito potrà modificare ciò che leggiamo. Anche perché la fase della vita che si è inteso raccontare era, in questo caso, già circoscritta da una constatazione definitiva: “Una lastra impenetrabile e trasparente separa ciò che ho vissuto a Firenze sino alla fine del 1954 da tutto il resto. Per quanto remoto, quel resto, che ha inizio con Roma, fa già parte di oggi”. E ha dunque semmai lasciato tracce e seminato risonanze in altri generi di scritti. Quei primi dodici tredici anni di vita, invece, hanno tardivamente chiesto di essere evocati passando di ricordo in ricordo in ragione della significatività dei  ricordi stessi, del loro carattere in qualche modo iniziatico, il quale, in fondo, ne spiega la persistenza: un “glicine fiorito è il primo colore” che si offre alla pura contemplazione – “Lo guardavo soltanto” – ; una barriera fitta di alberi oltre il confine del giardino in cui si trova è “la prima apparizione dell’āraņya vedico, la foresta dei saperi segreti”; la predilezione per il sentir raccontare storie si manifesta inequivocabilmente di fronte alle rappresentazioni di un burattinaio; il fascino ineguagliabile che può ispirare la figura dello scrittore si fa esperienza nel racconto di un amico conquistato dalla lettura di Proust, che rappresenterà una precoce indimenticabile esperienza anche per un Calasso tredicenne.

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scrivere, leggere / Gregor von Rezzori

“(…) immagino che di fatto la scrittura, a livello più o meno consapevole, sia il tentativo di trovare un’identità. Conoscere il segreto dell’io che non può mai andare perduto nonostante tutti i cambiamenti che attraversa nel corso di una vita (…) Perché scrivere? Per scoprire se la persona che diceva io a cinque anni e la persona che usa lo stesso pronome a 35, 53 o 78 anni (…) hanno una continuità, se l’io persiste”.

Il giornalismo filosofico di Foucault

Michel Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti 1820, 2021 (pp. 264, euro 22)

Mentre non mancano ragioni per un Ritorno a Jean-Paul Sartre, come recita il titolo di un recente libro di Massimo Recalcati (ne parliamo qui), altrettanto convincenti sono le iniziative volte a richiamare l’attenzione su colui che gli fu successore, come alcuni sostengono, quale intellettuale engagée: dalla ripubblicazione di Io, Pierre Rivière (ne parliamo qui) un paio d’anni fa a quella recente della biografia di Michel Foucault, il filosofo del secolo, secondo Didier Eribon (Feltrinelli 2021), dall’uscita di Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, che riunisce alcune sue conferenze del 1974 (Donzelli 2021) alle riprese del suo pensiero che la pandemia e le misure adottate hanno stimolato, con Agamben e Zagrebelsky, e altre accese polemiche (fra tutte quella tra Paolo Flores d’Arcais, direttore di “Micromega”, e il filosofo Roberto Esposito, nel volume 8 del 2020).

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scrivere, leggere / Marcel Proust

“Senza dire a me stesso che quel che si nascondeva dietro i campanili di Martinville doveva essere qualcosa d’analogo a una bella frase, dacché mi si era rivelato sotto forma di parole che mi davan piacere, (chiesi) matita e carta (…), nonostante gli sbalzi della carrozza, per scaricarmi la coscienza ed obbedire all’entusiasmo (…) quando ebbi finito di scrivere provai una tal gioia, mi sentii liberato così pienamente di quei campanili e di quel che si celava dietro di loro, che (…) mi misi a cantare a squarciagola”.

Finché puoi, continui a non morire

Emmanuel Carrère, Yoga, Adelphi 2021, (pp. 312, euro 20)

“Fra il mio progetto iniziale di un libricino arguto e accattivante sullo yoga e il libro che (…) ho cominciato a mettere insieme (…) sono successe molte cose imprevedibili, alcune atroci”. “ Ora sono passati sei mesi e il libro è finito”.

Che cos’è successo in questi sei mesi? Un corso di yoga e il proposito di scriverne, appunto, ma poi un’interruzione inaspettata, drammatica: l’attentato a Charlie Hebdo, e, ancor più drammatica, la caduta in uno stato mentale che richiede il ricovero e trattamenti drastici; ma ne esce, l’autore-personaggio: un soggiorno a Leros, isola asilo di rifugiati, e siamo all’epilogo: “Finché puoi, continui a non morire. Continui a non morire, ma non ci metti nessun entusiasmo. Non ci credi più. Sei convinto di non avere più niente da giocarti, e che non succederà più niente. Invece un giorno succede qualcosa. L’ignoto, desiderato e temuto, assume le fattezze di un’ignota particolare”. Happy end di una trama irraccontabile: l’autofiction pare essersi qui risolta – quanto ai fatti almeno – in autobiografia, ma l’ultimo romanzo di Carrère non si propone di dare una trama alla vita, di racchiuderla in un prima, un durante e una fine – come fanno o si continua nonostante tutto a credere debbano fare i romanzi. Ciò che ci offre è piuttosto un brano – o, meglio, alcuni brani in successione – di esistenza: un romanzo in scala uno a uno con la vita, ma solo a tratti, non alla maniera di Knausgård però (La mia battaglia, Feltrinelli 2014-2017). Nessun desiderio di dire tutto quel che è accaduto, giorno per giorno, momento per momento, ma di scrivere quel che ha contato in quel cammino di miglioramento di sé – dettato dalla “voglia di condurre una vita più coerente, unificata, meno inquieta” – ”, che il protagonista identifica come un proprio tratto caratterizzante anche se continuamente contraddetto dall’altro polo della sua personalità: “il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi) era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere, e la meditazione è fatta appunto per questo”. La meditazione: sono una quindicina le definizioni che di essa via via se ne danno, fino a giungere, verso la fine, non a una sintesi, ma solo a un elenco. È in ogni caso per imparare a praticarla che si fa yoga, e si fa yoga – lo si ribadisce più volte – per sconfiggere la prevalenza dell’ego. Senza grandi risultati, comunque: la meditazione dovrebbe metterci “al corrente dell’esistenza altrui (…) Se non lo fa, se resta una faccenda fra noi e noi, allora non serve a niente: l’ennesimo giochino narcisistico”, che è quello che il protagonista – ossia Emmanuel – ha paura che la meditazione sia, almeno per lui.

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“Questo libro che crede di essere un romanzo”

Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Mondadori 2021 (pp. 288, euro 18,50)

“Sanguina ancora”: che cosa? La ferita aperta da un libro, Delitto e castigo, “quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza”. E perché, sanguina? Perché, “in un certo senso” a lui, l’autore, piace sanguinare: “nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono salo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono ‘Come stai?’ (e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere ‘Benissimo!’ col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli”. Eccolo qui, Nori. Il Nori che conosciamo meglio, quello delle Parole senza le cose (Laterza 2016) e di Undici treni (Marcos y Marcos 2017), ne parliamo qui. Ma, in questo libro, a scrivere è soprattutto il Nori studioso di letteratura russa, lo stesso che un paio danni fa ha proposto un “viaggio sentimentale” con La grande Russia portatile (Utet 2019) e l’anno prima, offrendoci un “corso sintetico di letteratura russa”, ci ha informato che I russi sono matti (Salani 2018). Il professor Nori dunque, che però non rinuncia al suo periodare svagato: “Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, o Ricordi del sottosuolo, o Appunti dal sottosuolo, anche questa storia dei titoli, un volta ho visto un romanzo di Dostoevskij che si intitolava Gli indemoniati, ‘Vacca’ ho pensato, ‘un inedito’, invece era I demòni che gli avevan cambiato titolo”.

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Una lezione di metodo

Gianni Sofri, L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944-45, il Mulino 2021 (pp. 142, euro 12)

Suo allievo negli anni Cinquanta alla Normale di Pisa, Gianni Sofri scrive più di sessant’anni dopo di Arsenio Frugoni – bresciano d’adozione, medievalista, autore di Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XIII. Perché? Perché imparò da lui qualcosa di essenziale, un’“idea di ricerca” segnata dal “suo gusto del suggerire anziché dell’esplicitare”, dal suo invito continuo a leggere finemente nelle righe e fra le righe. E ancora, dal suo amore per la complessità”. Tutte qualità che possono essere attribuite alla ricerca di Sofri su quei dieci mesi nei quali Frugoni fece il pendolare – in bicicletta, più di 120 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno – fra Solto Collina, sul lago d’Iseo, dove stava la famiglia, Brescia e Gargnano, il paese gardesano in cui risiedeva Mussolini (circostanza che, fra altri, ha documentatamente ricostruito  il gargnanese Bruno Festa, giornalista e storico, in Polvere nera. I 600 giorni di Mussolini a Gargnano). Il fatto è – e qui sta una seconda motivazione della ricerca – non si conoscono con certezza le ragioni per cui il ventinovenne storico andasse là. Se non quelle ufficiali: padrone della lingua tedesca dopo un periodo di studio a Heidelberg e un soggiorno di lavoro a Vienna, trova impiego come insegnante di italiano e interprete presso l’Ufficio di collegamento fra l’Alto comando della Wermacht e la Repubblica sociale.

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