
Bernhard Schlink, I colori dell’addio, Neri Pozza 2021 (pp. 240, euro 18)
Non è questo l’unico caso in cui Schlink preferisce, rispetto al romanzo, la raccolta di racconti. Sette, come in Bugie d’estate (pubblicato dallo stesso editore due anni fa), tenuti insieme però da un tema, quello richiamato nel titolo: l’addio, il commiato. Scelte inevitabili e che tuttavia, più che a un passo indietro, a un ridimensionamento dell’Io e delle sue pretese, costringono a una rivisitazione del proprio passato, impongono l’assunzione di un impegno in qualche modo eluso fino al momento del distacco e, anche, l’acquisizione della consapevolezza che la scomparsa dell’altro prelude alla propria: “Sono morti tutti: le donne che ho amato, gli amici, mio fratello e mia sorella e naturalmente i miei genitori, gli zii e le zie. Sono andato ai loro funerali, un tempo di frequente perché a morire era la generazione precedente alla mia, poi di rado e negli ultimi anni sempre più spesso perché stanno morendo quelli della mia generazione”. Ma andare ai funerali non è che mettere in scena una separazione che in realtà chiede di essere ben altrimenti elaborata: “Per lungo tempo ho pensato che un funerale potesse aiutare a congedarsi dai nostri morti. Del commiato c’è bisogno, perché sapere che un nostro caro se n’è andato continua a turbarci fino a quando, grazie a quella cerimonia, egli non trova la pace – e noi con lui. Ma in realtà un funerale non è di alcun aiuto. Rassicura chi è rimasto dell’importanza del defunto e in qualche misura lo rende partecipe di quella importanza. Rassicura chi vi assiste della dignità del rituale cui si dedicano un paio d’ore, durante il quale si vede e si viene visti, si rende l’ultimo omaggio al defunto e si porgono le condoglianze ai familiari, e in fondo in fondo il funerale dà una certa dignità anche ai partecipanti. Ma che serva ad affrontare meglio il commiato, questo proprio no”.
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