L’arroganza di raccontare

Raymond Federman, A tutti gli interessati, Einaudi 2021 (pp. 151, euro 18)

“L’arroganza di raccontare”: fra i vari titoli che l’autore non esita a confessare di aver pensato per questo suo racconto c’è anche questo. Perché la storia di Sarah, bambina che una retata nazista separa dai suoi e sopravvive grazie alla compassione di una prostituta che la nasconde, e di suo cugino, che si salva solo perché si rinchiude in uno sgabuzzino mentre la sua famiglia viene portata via, non è “una storia particolarmente originale. Molti ragazzi e ragazze vennero abbandonati per le strade o nascosti negli sgabuzzini durante la guerra, e molta gente caritatevole, prostitute o suore, si curarono di quei bambini e li trassero in salvo, per cui alla fine tutto risulta banale”. E allora, perché scriverla, ma soprattutto perché leggerla una storia del genere? che cosa la distingue nel mare di racconti e romanzi sulla deportazione? se pure si rivolge a qualcuno, chi sono i destinatari? Se lo domanda l’autore stesso, che con l’ironica disinvoltura che attraversa tutta la narrazione non sa trovare altra risposta che “dire semplicemente che è indirizzata, indecisa e informe com’è, A tutti gli interessati”.

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Malattia dell’oblio, malattia della speranza

Adriano Prosperi, Un tempo senza storia. La distruzione del passato, Einaudi 2021 (pp. 122, euro 13)

Ogni epoca ha i suoi maestri di pensiero o, se preferiamo, i suoi intellettuali di riferimento: da tempo è tramontata quella che li aveva individuati negli storici ed è sorta quest’altra, in cui la parola spetta agli economisti (o a una loro sottospecie, i banchieri*). I quali alla storia sembrano allergici, convinti che il nostro sia “un Paese troppo rivolto al passato”. Ha buon gioco l’autore a rilevare, in tempi come quelli che viviamo, di quanto sia vero il contrario: “Se lo fosse stata – rivolta al passato – (l’Italia) avrebbe mantenuto e rafforzato le difese che secolo dopo secolo erano state erette contro la minaccia delle epidemie”. Non si tratta solo di aver dimenticato – si fa per dire – il ruolo di quella che abbiamo imparato a definire “medicina territoriale”. La perdita di memoria è andata più in là, giungendo a oscurare la consapevolezza che “Epidemie e pandemie sono il sordo rumore di fondo che accompagna l’evoluzione storica della specie, ne azzera le conquiste, la richiama alla sua condizione di precarietà e di dipendenza dalla natura”.

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Un’apocalisse taciuta

Peter Terrin, Il guardiano, Iperborea 2021 (pp. 269, euro 17)

Dopo qualche pagina ti aspetti il colpo di scena, ma non arriva. I due guardiani relegati nei garage seminterrati del palazzo hanno un bell’aspettare l’attacco di possibili intrusi, ma quelli non arrivano. L’editore stesso suggerisce analogie con i tartari di Buzzati e il Godot di Beckett, ma qui ad occupare lo spazio narrativo, insieme all’attesa, è il senso soffocante, claustrofobico in cui si muovono Harry e Michel. Il primo, veterano di questo lavoro assurdo, e per questo, oltre che per la sua cifra caratteriale, figura dominante; il secondo, arrivato dopo, eterno apprendista, sottomesso – in ogni senso – all’altro.  Entrambi funzionari di basso livello dell’“Organizzazione”, l’“azienda”, misteriosa, imperscrutabile, che garantisce la sicurezza ai residenti attraverso una rete di guardiani nella quale si distinguono gerarchie di merito: non per nulla Harry, e quindi l’obbediente Michel, aspirano alla promozione che potrebbe farne membri dell’ “élite” dei guardiani scelti, non obbligati ad abitare in un autorimessa senza luce, a cibarsi di alimenti da carcerati, a mancare dei comfort più elementari ma delegati alla sorveglianza di lussuose e ariose ville. Non costretti quindi, come loro due, a vivere praticamente senza poter avere rapporti con l’esterno. Dove qualcosa è accaduto. Qualcosa di tremendo, di totale.  È un mondo postapocalittico quello in cui si trova l’edificio che i nostri sorvegliano e che fa venire in mente, cogliendo qua e là cenni al suo assetto, a certi condomini della più recente generazione, condomini-fortezza, immersi nel contesto urbano e pure da esso separati, chiusi da cancelli che si presentano come lastre corazzate, invisibili a chi passa per strada, esclusivi al punto da non lasciar immaginare chi possa abitarci.

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La nostalgia come attività creatrice

Vito Teti, Nostalgia. Antropologia di un sentimento del presente, Marietti 1820, 2020 (pp. 296, euro 20)

Un tema che non cessa di sollecitare ridefinizioni, quello della nostalgia. Ne è testimone la ricchezza di contributi che in proposito si susseguono, come quelli di Antonio Prete* e di Eugenio Borgna**, citati fra molti altri nel libro di Vito Teti. Sono diversi i punti di contatto fra queste ricerche – dalla ricostruzione del cammino che ha portato a vedere nella nostalgia, inversamente a quanto occorso alla depressione, non più una malattia ma un sentimento, alla constatazione che di un sentimento necessario, e non regressivo, si tratta –, ma quella che Teti ci propone si distingue per diversi aspetti. La sua ampiezza, certamente, che non sta solo nella varietà dei punti di vista richiamati ma anche in un incontro – praticato, non semplicemente auspicato – fra lo sguardo dell’antropologo con quello dello storico, storico della società ma anche della letteratura (come dimostrano i riferimenti puntuali ad Alvaro, Pasolini, Roth, Kundera…). Ma tutto questo non basterebbe ancora a spiegare la capacità di coinvolgere il lettore che caratterizza questo libro, una capacità che credo si inscriva entro due coordinate rinvenibili nel testo: da un lato, il taglio autobiografico che ricorrentemente vi affiora; dall’altro, l’efficacia con cui via via chi legge è indotto a prendere consapevolezza che la nostalgia, al di là delle sue personali esperienze, lo riguarda in quanto “sentimento del presente” – come recita il sottotitolo.

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“Le idee del romanziere non stanno nelle opinioni espresse dai suoi personaggi…”

“Le idee del romanziere non stanno nelle opinioni espresse dai suoi personaggi, o nelle loro introspezioni, ma nella situazione che ha inventato per loro, nella giustapposizione dei diversi personaggi (…). È nella loro densità, nella loro consistenza, nella loro esistenza vissuta, resa tangibile in tutti i diversi particolari, che le sue idee vengono metabolizzate. (…) le idee del romanzo si incarnano nel focus morale del romanzo. Lo strumento con cui il romanziere pensa è la scrupolosità del proprio stile”. (Philip Roth)

La passione del passato, la gioia di raccontare

Alessandro Barbero, Gli occhi di Venezia, Mondadori 2020 (pp. 432, euro 12,50)

La “passione del passato” cui dobbiamo sia saggi di storia che romanzi storici è al servizio, nei migliori di questi ultimi, della riflessione sul presente e su sé stessi. Un esempio (eccellente) per tutti: Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar, la quale, non a caso, negli appunti redatti in contemporanea alla stesura del romanzo affermava che “Ai tempi nostri il romanzo storico, o quello che per comodità si vuol chiamare così, non può essere che immerso in un tempo ritrovato: la presa di possesso d’un mondo interiore”. Non sono tuttavia da sottovalutare quegli altri romanzi storici, che, senz’altro con minori pretese, convogliano la narrazione di vicende trascorse semplicemente nella gioia di raccontare e proprio nella trasmissione al lettore di questo piacere   aprono le porte di quel che è per sempre andato. Un esempio di questo genere – richiamato in queste note il 7 ottobre 2018 – è Magellano di Gianluca Barbera (Castelvecchi 2018), in cui prevale, si diceva, il “piacere del racconto puro”, la “narratività” che era “caratteristica del romanzo storico classico”. Lo stesso si può dire del romanzo di un altro autore (dal nome per puro caso assonante con quello citato): Alessandro Barbero, storico di professione, figura divenuta negli ultimi anni popolare per la verve divulgativa dimostrata in documentari televisivi e libri ponderosi (come l’ultimo, Dante, Laterza 2020). Storico proclive alla narrazione, dunque, anche nell’esercizio delle sue funzioni, ha voluto già anni fa mettere le sue conoscenze alla prova del romanzo storico. Risale al 2011 infatti la prima edizione degli Occhi di Venezia, recentemente riproposto negli Oscar Mondadori.

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Tre storie, un romanzo

Maja Lunde, Gli ultimi della steppa, Marsilio 2020 (pp. 507, euro 20)

Un romanzo fatto di tre romanzi, scritti in prima persona. Il narratore onnisciente c’è, ma non si vede, non interviene con la sua voce ma con la sua regia, che fa avanzare in parallelo, alternandole nei capitoli, le tre storie, i diversi personaggi che le animano, le differenti epoche in cui le loro vicende si svolgono.
Uno zoologo di San Pietroburgo all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, una veterinaria tedesca all’inizio dei Novanta del secolo scorso, una contadina – anche se non per vocazione – del 2064. Michail, Karin, Eva. Ognuno con il suo bagaglio di esperienze e dolori. Tutti mossi da un unico fine: la sopravvivenza dei takhi, i cavalli selvatici della Mongolia. I cavalli più antichi, quelli che si vedono nelle pitture rupestri: una storia vera la loro, vedi alla voce Equus ferus przewalskii (in wikipedia, ovviamente). Parenti dei nostri cavalli, anche se con due cromosomi in più.
Li si credeva estinti, verso fine Ottocento, ma il giovane zoologo russo va a cercarli, sull’onda dei sogni che fin da bambino gli hanno ispirato gli avventurosi membri della Società Geografica Imperiale Russa che gli accadeva di incontrare nella sua città. E dunque, trovata la guida ideale in un “cacciatore di animali vivi” – che poi rivende a giardini zoologici e a circhi come quello di Barnum –, lascia a malincuore la madre, con cui vive, e parte per la lontanissima, ai tempi, Mongolia, dove dovrà fare i conti con paesaggi, uomini e culture che sembrano di un’altra epoca. E qui il profumo che si sente è quello del Capitano Arseniev e della spedizione che lo aveva portato a incontrare Dersu Uzala, “il piccolo uomo della grandi pianure” protagonista del film russo-nipponico del 1975, diretto da Akira Kurosawa.

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Il tempo del lago

“Credevo di aver trovato finalmente un posto per vivere”. Tornato dopo molti anni nel luogo dove era nato e aveva vissuto fino alla prima giovinezza, Remo trova altro: l’occasione ineludibile di fare un bilancio del proprio lavoro di fotografo che si allarga a una riconsiderazione della propria vita, dei desideri e degli amori che l’hanno attraversata.
L’approdo è una consapevolezza nuova: “È il posto per guardare questo che ho ritrovato. Il posto dove sto imparando a guardare. Da solo. Senza sentire come una condizione indispensabile che ci sia qualcuno, vicino a me, a condividere il mio sguardo”.
E sono il lago, il suo ambiente, il suo paesaggio il tramite di questo cambiamento, vissuto in tempi nei quali la fatica di vivere è gravata da un inedito, pervasivo senso di insicurezza: “Imparare a guardare non chiede maestri né compagni. Significa arrivare a sentire che il lago, il monte, il cielo, le piante, gli uccelli che guardi non sono lì per te, a lasciarsi osservare come se tu ne fossi fuori, non ne fossi parte. Imparare a guardare signifi ca arrivare a non vedere altro che un mutamento sempre in corso. Di tutto. Anche di sé stessi. Anche di questo lago”.

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:

Mi sembra di non averlo mai visto tanto vicino, il monte dall’altra parte del lago: a seconda dell’ora, della luce, del vento che spira sulle acque, sembra allontanarsi, perdersi in una massa indistinta, quasi del tutto uniforme nei colori, chiuso in sé stesso, o venire a farsi vedere invece, come un animale in cerca di attenzione. I crepacci che per un buon trat­to lo tagliano dall’alto fino a mezza costa sembra­no rughe profonde, come quelle scavate dal sole e dall’aria nella nuca dei contadini. La cresta, con le sue cime, è nascosta nelle nuvole. Le case dei paesi a lago, nitide, lucenti, sembrerebbe di poterle contare una ad una.
Ha piovuto tutto il giorno. Solo adesso, alla fine del pomeriggio, prima di tramontare dietro i monti della nostra sponda il sole ha illuminato il lago, che però è rimasto di un colore fra il blu e il grigio, riflesso dei nuvoloni densi, foschi, che pesano bassi sulle acque ma lasciano vedere il verde brillante del­le pendici del Baldo.
Sul balcone sono rimato solo io. I pochi ospiti che non hanno ancora lasciato l’albergo già a me­tà settembre, sono andati a cena in uno dei paesi vicini o, quelli che s’accontentano dello spuntino freddo che di questi tempi è tutto ciò che l’albergo offre, si sono rifugiati nelle loro camere al primo rinfrescare dell’aria.
Non una vela, né motoscafi. Il lago è vuoto.
È acqua, monte, nuvole, brezza che ondula le acque, fremito degli ulivi e dei lecci qui sotto.
Smetto di scrivere.
Guardo.


Eravamo in viaggio da poco più di sei ore quan­do, appena fuori dalla galleria sopra Salò, il lago è apparso. Lucerna, Bellinzona, Como: le soste che avevo messo in conto, arrivato il momento, aveva­no perso ogni richiamo.
Poi Salò, Gardone, Villa: dove ci fermiamo? hai prenotato un posto dove dormire? mi ha chiesto quando erano ormai le sei del pomeriggio. Non le ho risposto, solo un cenno di rassicurazione: quan­do abbiano parcheggiato la macchina nel piccolo spiazzo del Miralago ha pensato che mi fossi ferma­to per guardare il panorama spettacolare che si gode da quel punto, e poi proseguire per uno dei paesi di cui le avevo fatto il nome.
L’ho guidata attraverso la sala fino al balcone, l’ho fatta sedere all’ultimo tavolino, quello da cui si vedono il lago e il Baldo come dalla prua di un battello, e in quello stesso momento Piero ci ha portato due bicchieri di vino bianco: benvenuti, vi aspettavamo. Sono il fratello di Remo, piacere…
Aurélie mi ha guardato, ha riso, ha alzato il bic­chiere ma poi l’ha rimesso giù e ha abbracciato Pie­ro, che ho visto arrossire, commosso.
Un volo di anitre, a fior d’acqua, mi ha fatto di­stogliere lo sguardo. Le ho seguite per un lungo trat­to finché sono sparite alla vista mentre distinguevo, lontano, le sagome dei due traghetti che nel loro andare e venire fra Maderno e Torri si incontrano a mezza strada e visti da qui sembrano sfiorarsi, come a scambiarsi un saluto, ogni volta.
Il lago era lì.
Era sempre stato lì.


È steso a terra, il muso poggiato su una zampa, e guarda, di sotto in su, qualcuno che lo sta foto­grafando.
Monte, il cane dei nonni, sussurro, come lo di­cessi solo per me quel nome che chissà quante volte avevo chiamato e che da più di cinquant’anni non pronunciavo. Monte. Il cane che aveva accompa­gnato gli anni della mia prima infanzia.
Era il cane dei nonni, il mio cane quando non avevo ancora sei anni: ricordo persino il giorno in cui la signora che aveva affittato delle stanze in una casa vicina, una villeggiante, gli aveva fatto questa fotografia. Poi ce l’aveva mandata evidentemente, ma questo no, non lo ricordavo.
Piero dice qualcos’altro ad Aurélie, ma io non li ascolto: resto a guardare Monte. I suoi occhi.
Non ho mai fotografato animali, se non lontani, immersi nel paesaggio. Non ho mai fotografato il loro sguardo. Mi è sempre risultato insostenibile. Una vicinanza e insieme una distanza che evocano la morte. Un nodo di fratellanza ed estraneità che non ho mai saputo sciogliere. E adesso stavo sotto lo sguardo di questo cane cercando di non fuggire il dolore che mi suscitava, un dolore che sentivo di non poter addomesticare, di non poter in nessun modo aggirare, perché non c’è rimedio all’ingiusti­zia scandalosa della morte di esseri come Monte. Innocenti, mi è venuto da pensare, per via della lo­ro onestà, della loro coerenza, della loro adesione al presente, alla realtà. Le altre fotografie che avevamo visto, tutte immagini di persone morte, per quanto care non avevano generato in me un senso altret­tanto tagliente del non più. Perché?


Ho pensato che di una persona, la fotografia dà un’immagine che subito leggiamo come parziale, casuale, per sua natura contraddetta, o comunque messa in questione, dal prima e dal dopo del mo­mento in cui la foto è stata scattata; di un animale offre invece un’immagine totale, del tutto aderente al chi era. Definitiva.
Mi sono tornate alla mente le parole di un auto­re che della fotografia ha detto cose indimenticabili: che cosa c’era prima della fotografia? si chiedeva, e la risposta era sorprendente: la memoria. Ecco, mi sono trovato a pensare davanti alla fotografia di Monte: forse la memoria è il modo umano di fare i conti con il non più. La fotografia ne offre uno diverso – da tempo, ma ancora perturbante – e sotto questo profilo è, nella sua essenza, violenta. Capace di ridare, in un’immagine come quella che avevo davanti, il senso bruciante di perdita che in ciascuno torna di quando in quando, come non ne aspettasse che l’occasione, a risvegliarsi. Non più, mai più: una cosa è pensare in astratto a questo vuoto lancinante e irreversibile, da filosofi, un’altra esserne attraversati alla luce dello sguardo vivente di un essere singolare, che la fotografia ci restituisce all’improvviso.
Di un essere del quale mi erano di colpo torna­te presenti le movenze, la voce, il modo di stare al mondo, e sentivo dunque, nella carne, l’irripetibi­lità.


Ora saprei dirlo, solo ora saprei dare forma alla domanda che io stesso mi ero fatto su quelle mie fotografie del lago che avevo scattato su commissio­ne, per lavoro: non c’era solo l’intento di destare la meraviglia di un altrove che sfuggisse ai cliché della carta patinata, che desse l’emozione dell’ecceziona­lità, dell’unicità del paesaggio dell’alto lago. Questo era quello che mi dicevo allora, ma c’era altro, l’ave­vo capito col tempo. Volevano essere, quelle, anche foto ricordo, foto che conservavano in sé il calore della memoria, di una memoria che non era solo la mia, quella sopravvissuta al mio abbandono del lago, ma era la memoria che non può non apparte­nere ad ogni fotografia di paesaggio. Ad ogni foto­grafia, anzi: l’immagine di un luogo non è diversa in questo da quella di un volto, o di una cosa. Ci deve essere del tempo in una fotografia. Lo si deve sentire, lo deve comunicare il sentimento del tempo.
Non si tratta di cercare espedienti per farlo ri­sultare evidente, come in quella foto famosa di una vecchia che guarda nell’obiettivo e tiene fra le mani, mostrandola bene, un’altra fotografia di lei quand’era ragazza. No, è negli occhi velati, nella pelle avvizzita di quella stessa donna, nelle sue mani deformate dall’artrite, nel modo di stare, insaccata sulla sedia, davanti alla macchina fotografica che sta il tempo.
Il tempo c’è, in quel che si sta fotografando: si tratta di farlo venire alla luce, di renderlo percepi­bile, protagonista.
La memoria del lago: forse il titolo di quel libro non significava solo che le immagini raccolte custo­divano il passato dei luoghi. Forse voleva dire che i luoghi hanno una propria memoria, e quelle foto­grafie avevano cercato di rappresentarla.
Ha ancora una memoria il lago? sopravvive la sua memoria ai milioni di fotografie che non la vedono, non la cercano, la ignorano senza averne il minimo sentore? La memoria dei luoghi è una relazione, fra i luoghi stessi e chi li guarda. E non diversamente il ritratto. E allora, anche qui: resiste la verità di una persona, la verità che sta in quel che è, in quel che è diventata, in fotografie come quelle che i turisti si scattano reciprocamente sullo sfondo del lago, o è proprio il sorriso che ci si mette in faccia quando si è fotografati a cancellare ogni sto­ria, non solo il passato che si è vissuto ma anche il futuro che ci si attende, e quell’altro che ci aspetta, che aspetta tutti?
Non si sorrideva una volta, nelle fotografie, e se lo si faceva era perché l’occasione lo chiedeva: una festa, una gita, un anniversario… Se no non lo si faceva.


Guardo accendersi i paesi dell’altra sponda, e ma­no a mano confondersi uno con l’altro: lo facevamo, Aurélie ed io. Lo faccio ancora, quasi ogni sera: pen­sare che questo avveniva anche prima che noi due stessimo a guardarlo, e continuerà ad avvenire dopo, quando neanch’io sarò più qui, attenua lo strappo che sento ancora nell’esserci da solo, mi fa apparire piccolo l’intervallo che separa il tempo in cui i nostri occhi guardavano insieme da questo in cui i miei non hanno compagni.
Il Baldo si spegne per ultimo, ma intanto si è via via allontanato, come se si lasciasse sprofondare nel ri­cordo di quel che era solo un paio d’ore fa, e non atte­nua il senso di commiato, che avverto in questo lento cambiamento del volto del grande monte, un pensiero che non sa in questi momenti farsi certezza: che do­mani tornerà a risplendere maestoso, imperturbabile. Sempre sono stato portato a vedere più le fini degli ini­zi, ma è soprattutto in momenti simili che si ripresenta questa mia inclinazione.
Al di sopra della linea di luci che segnano la strada a lago, oltre i grappoli di quelle dei paesi che risalgo­no di poco le pendici del monte, se ne vedono poche, isolate: è un monte disabitato, il Baldo. Non ha gli altipiani e i paesi in quota della nostra sponda. Ci sono case abbandonate, là, addirittura un intero borgo disabitato – mio fratello me ne ha detto il nome, che non ricordo più.
Resta visibile nel crepuscolo, più in alto, un casale bianco, là dove termina il bosco e iniziano i pascoli: il malgaro che ci abita nella bella stagione scenderà solo a ottobre. E più in alto ancora, lungo il crinale, solo col buio si vede la luce di quello dei tre rifugi del Baldo – il primo appena sotto la cima più alta, gli altri due vicini, più sotto – che, ho sentito, resta aperto tutto l’anno.
Non so staccare gli occhi dalla massa scura del monte: mi appare più antico del lago, anche se solo la notte in grado di far valere questa sua superiorità severa, paziente, risolta in sé stessa.
Un’altra luce si è accesa a poca distanza dal casale bianco. Un’altra malga probabilmente. Immagino i due uomini che vivono lassù, coi loro animali, soli, non incontrarsi mai quando sono là e poi, l’inverno, bere allo stesso tavolo d’osteria.
La prima stella brilla sopra Torri. Non è una stella, probabilmente: è Venere, credo.
Proprio dritto sopra la luce della malga è ora ap­parso un chiarore, simile a quello che si vede all’alba, appena di là dal monte: sta sorgendo la luna. Dal mo­mento in cui ne spunta un sottile arco luminoso, la si può seguire e vederne il cammino. Pochi attimi ed è fuori, staccata dal monte, libera. E allora sembra fer­marsi, adeguandosi all’immobilità solenne di quello che le sta attorno, come il ritardatario che entra in chiesa a messa già iniziata.
Il lago, che s’era fatto buio – abbandonato da ogni colore, più che nero – è attraversato da una striscia ri­splendente che fa rivivere le acque illividite: la strada di luce le fa palpitare, fremere in una brezza che non c’è.


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 16 marzo 2021.
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Da Bresciaoggi dell’8 aprile 2021.
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Dal Corriere della Sera Brescia del 16 aprile 2021.
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Dall’Eco di Bergamo del 28 giugno 2021.
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Da Brescia si legge, 12 marzo 2022.
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“Il tempo del lago”: il Garda come approdo dell’anima e palestra dello sguardo, nel romanzo di Carlo Simoni

di Francesca Scotti

Talvolta è necessario andarsene per poter un giorno ritornare e, ritornando, trovare veramente se stessi. Proprio come accade all’anziano fotografo Remo, quando si decide a ritornare nel luogo che gli ha dato i natali e in cui ha vissuto sino alla prima giovinezza: il lago di Garda. Questo ritorno sarà infatti il pretesto per ricucire il rapporto a lungo interrotto con un luogo che si rende conto di non aver mai guardato con occhi attenti, in un dialogo con il paesaggio che diventa dialogo con il proprio io e che permette di esplorare nuovi orizzonti di pensiero.

Le riflessioni di Remo e il suo rapporto con il Garda sono i veri protagonisti del libro “Il tempo del lago” (LiberEdizioni 2021 – acquista qui), nuovo romanzo dello scrittore bresciano Carlo Simoni. Un libro raffinato, poetico e disincantato, le cui pagine non promettono una lettura divagante, bensì un’immersione totale nelle rapide di pensieri, ricordi e prese di coscienza del protagonista. Un romanzo profondo, che apre la mente e che disvela ai lettori nuovi significati dei verbi “guardare” e “fotografare”.

Sullo sfondo e tutt’attorno, un Garda non descritto nelle sue principali attrattive, nei suoi scorci più celebri e nei suoi angoli più frequentati e turistici, bensì nella sua anima di elemento naturale e di luogo geografico che ha la pazienza e il silenzio eloquente di una persona rimasta ad aspettarci. Non il Garda delle brochure e dei siti web di vacanze, quindi, ma il Garda tridimensionale di chi lo vive, di chi ci è stato e di chi vorrà esserci. Perché, nel suo eterno mutare a ogni refolo di vento e raggio d’alba, il lago è anche un custode del tempo: di un tempo che è memoria del paesaggio, ma anche dell’esistenza di tutti coloro che vi si sono specchiati.

Tutto inizia con un ritorno

Di un guardare determinato si trattava in questo caso: del guardare il lago. Questo lago. […] Questo era il passaggio essenziale che in qualche modo, non sapevo ancora quale, sentivo coinvolgere anche me. Seguire questo filo mi ha portato a riflettere sul fatto che se mio padre non aveva opposto divieti o minacce alla mia decisione di mollare la scuola e andarmene a Milano, non era stato solo perché ben altro lo preoccupava in quel momento, ma anche perché aveva riconosciuto in me l’aspirazione a rompere con la propria condizione, l’energia necessaria per vedere le cose da un diverso punto di vista, la determinazione a cercare altrove di realizzare quello che non importa se confusamente si desidera. Un altrove che lui non aveva avuto bisogno di cercare lontano; che per me era essenziale fosse distante. Dal lago.

Carlo Simoni, “Il tempo del lago”, p. 55

Il sessantenne Remo ritorna dopo anni sul lago di Garda, il luogo natale che ha abbandonato per Milano nella prima giovinezza. A incontrarlo ci sono il fratello Piero e la sorella Amelia, figli del secondo matrimonio del padre ormai defunto e gestori dell’albergo Miralago. Lo accompagna Aurélie, una gallerista d’arte di trent’anni più giovane che ha conosciuto grazie al suo lavoro di fotografo.

Ciò che si propone inizialmente come una tranquilla vacanza all’insegna di tuffi, scatti fotografici e rispolverate di ricordi familiari, si rivela tuttavia molto di più. Ben presto, infatti, Remo si ritrova a fare un bilancio della propria vita, della propria professione di fotografo e dei propri affetti. In un’età dell’esistenza in cui anche gli ultimi amori si dileguano, il lago di Garda diviene per lui non solo l’antico luogo di casa o un qualunque posto a cui non si riserva che un effimero ritorno, ma un autentico approdo dell’anima.

E sarà proprio il Garda, insieme ai paesi della riviera e dell’alto lago in cui hanno vissuto i genitori e i nonni, a insegnargli tutto quanto credeva di sapere già, senza averlo mai realmente afferrato, riguardo al guardare e al fotografare. Ciò lo porterà ad acquisire una nuova concezione di se stesso, che solo i posti che l’hanno visto crescere e che l’hanno lasciato libero di andarsene si dimostreranno capaci di dischiudergli.

Guardare in profondità e fotografare la memoria

Guardare il lago non è solo vederlo, per quel che è oggi, per quel che oggi è diventato. È immaginare anche quello che forse sarà.

[…] Torno allora a guardare. Senza cercare niente. Aspettando se mai. Aspettando il momento che mi lasci intravedere lo scorrere del grande fiume nel lago che ogni giorno mi sembra di ritrovare uguale davanti a me. Aspetto, come avessi il ricordo di aver potuto vedere, anche se per poco, quello scorrere e quello stare come fossero una condizione dell’altro. Al punto, anzi, di non poter distinguere l’uno dall’altro.

Carlo Simoni, “Il tempo del lago”, p. 120

In un’era nella quale scattare fotografie con il proprio cellulare è ormai un rito compulsivo e quasi una convenzione sociale, tendiamo a immortalare ciò che già vediamo in brochure e dépliant, ciò che ammicca dalle locandine delle agenzie di viaggio e che troviamo, a portata di click, sui siti web turistici o anche solo scorrendo gli archivi di Google. Fotografiamo per poter dimostrare che ci siamo stati, che abbiamo visto una tale attrazione dal vivo, che eravamo in un dato posto in un dato momento e con determinate persone.

Che ne è allora del guardare? È ridotto a una pura ammirazione subito mozzata da uno scatto necessario, senza il quale ci sembrerebbe di non aver vissuto nulla, perché nessuno sa che siamo stati in un dato luogo e pertanto, se nessuno sa, nell’era dei social media è come se non fosse mai accaduto?

È proprio sul senso del guardare e del fotografare che si interroga Remo, mentre rivisita posti che, racchiusi nella cornice del lago di Garda, lo spronano a un tenace confronto con se stesso, oltre che con la memoria della sua famiglia e dei luoghi che essa ha abitato e abita. Guardare non è vedere, né posare gli occhi con superficialità, ma nemmeno è fermarsi all’aspetto presente delle cose: guardare è voler abbracciare ciò che si guarda nella sua totalità, nel suo passato e presente, immaginando al contempo ciò che sarà in futuro.

Perciò, anche quando si scatta una fotografia, come se volessimo fermare il tempo e intrappolare il soggetto nel suo stato presente, dovremmo scattarla in modo tale da instillare in chi guarda il desiderio di considerare tale soggetto da tutti i punti di vista. Così, anche un lago cessa di essere unicamente un lago, ma diviene, come tutte le cose, un’entità che dispone di una propria memoria, arricchita dai ricordi di tutti quelli che vi hanno vissuto e che ancora ci vivono.

Ed ecco allora l’invito del breve ma fortemente intenso romanzo di Simoni: quello di oltrepassare i confini del mero vedere e di imparare a guardare veramente ciò in cui siamo immersi. È l’inizio di un lungo cammino per imparare a guardare, senza remore e con assoluta sincerità, dentro noi stessi, riallacciando i rapporti con il passato, perdonando il presente e capendo che il futuro dipende da ogni prezioso attimo dell’oggi.

“Scrivere è una solitudine finalmente abitata”

Carlo Simoni è nato a Brescia nel 1949. Storico della cultura materiale, è autore sia di narrativa che di saggistica. Ha pubblicato, fra i tanti altri, romanzi che ricostruiscono figure e paesaggi del lavoro fra Settecento e Ottocento – “L’orizzonte del lago”, “I tempi del mondo”, “Il segreto dell’arte” (Cierre Edizioni, 2010 e 2012) – e che spesso incrociano le vicende di scrittori e artisti – da Goethe e Klimt (“L’ombra dei grandi”, LiberEdizioni, 2006) a Thomas Mann (“L’incompleto conoscersi”, LiberEdizioni, 2016) – restituendone aspetti inediti e offrendo pregnanti e attuali spunti di riflessione.

Con Castelvecchi Editore, ha dato alle stampe due romanzi di particolare interesse: “Il miserabile” (2018), in cui compare Walter Benjamin, e “Quei monti azzurri” (2019), incentrato sulla figura di Giacomo Leopardi.

Il lago di Garda, la sua riviera e i suoi comuni sono per Simoni luoghi dell’anima a cui torna ripetutamente in cerca di un ritiro benefico che non è mai fuga, ma ricettacolo di riflessioni profonde che fa confluire con eleganza ed esattezza nelle sue opere.

È di sua penna una splendida e illuminante definizione dello scrivere: “Occorre lasciare la città per scrivere, non allontanarsene tanto da non veder vivere gli altri. Scrivere è una solitudine finalmente abitata. La casa dove non inviti nessuno ma a nessuno vieti d’entrare. L’isola che un istmo lega alla costa.”

Il desiderio di scomparire

Valentina Durante, Enne, Voland 2020 (pp. 169, euro 16)

Una “vita fatta di viaggi all’estero, alberghi lussuosi, fiere prestigiose e spettacoli, cene e concerti” quella del “Responsabile Marketing in una multinazionale del fashion” che Giorgio Nazareni è stato. Fino a quando “la donna che (avrebbe) dovuto sposare” se n’è andata. Per sempre. E allora ha cambiato vita. Un’altra professione? No, o forse sì: fa tre giorni alla settimana la coda in un ufficio postale per conto di anziani e malati e si è sistemato nella dépendance di una villa disabitata facendo in cambio il custode e qualche lavoretto di giardinaggio.

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“Probabilmente hai una buona padronanza della lingua e sei in grado di comunicare idee usando le parole…”

“Probabilmente hai una buona padronanza della lingua e sei in grado di comunicare idee usando le parole. Ma questo non significa che tu possa scrivere un libro. Mettiamola così: corro da quando avevo circa un anno. Da quasi 40 anni! Ma non potrei mai correre una maratona. Non ne sono fisicamente capace, anche se posso correre per qualche miglio di seguito. Scrivere un libro è una maratona. Devi allenarti per farlo, fare pratica, capire i tuoi punti di forza e i tuoi punti deboli e lavorare duramente per superarli. Hai bisogno di un aiuto, di un riscontro, di un sostegno e ci devi provare molte volte prima di correre la tua gara migliore. Scrivere un libro che qualcun altro vuole leggere è correre la tua maratona più veloce. Nessuno ci riesce al primo tentativo e pochi scrittori possono aspettarsi di avere la resistenza necessaria senza un allenamento rigoroso”. (Kate McKean)

Prima siamo bambini

Ridhal&Kazinski, Morte di una sirena, Neri Pozza 2020 (pp. 208, euro 15)

Non è la Londra delle incisioni di Hogarth dedicate alla Carriera di una prostituta o del Doré dei suburbi infernali della città, né è la Londra sordida e sinistra di Dickens e del suo Oliver Twist, o laParigi dei Misteri di Sue. Ma somiglia a queste città la Copenhagen di questo romanzo, che rimanda anche agli ambienti urbani e in generale al clima del Profumo di Patrick Süskind (chi non ha letto il libro conosce forse l’adattamento cinematografico, del 2006).

Una Copenhagen che è “più che altro una fabbrica che produce malattie e indigenza”, nella quale si muove – forsennatamente, secondo il ritmo in crescendo che pervade il romanzo – un Hans Christian Andersen che per liberarsi dall’accusa di aver barbaramente ucciso una prostituta deve farsi detective. Non è il primo scrittore, il primo personaggio storico a imboccare questa via. Molti l’hanno fatto, dal grande Aristotele, niente meno (nei romanzi di Margareth Doody, tradotti da Sellerio), al più modesto Pellegrino Artusi, in tempi recenti (Il borghese pellegrino di Malvaldi, pubblicato dallo stesso editore, è di quest’anno).

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“Che colpisca un individuo o un popolo, che sia episodica e deflagrante oppure continuativa, non c’è esperienza traumatica…”

“Che colpisca un individuo o un popolo, che sia episodica e deflagrante oppure continuativa, non c’è esperienza traumatica che, per salvarsi, non richieda un racconto. Epopea letteraria o rivelazione fatta dal bambino abusato a un caregiver alternativo, ogni trauma ha bisogno di una storia per essere, quando possibile, elaborato. A maggior ragione quando è così precoce da non poter far altro che rifugiarsi, sotto mentite spoglie, nel corpo. (…) Possedere la nostra storia, il suo racconto, ci restituisce a noi stessi. Troppo spesso la sofferenza è storia non raccontata: dare parole al passato è curarlo”. (Vittorio Lingiardi)

Un Simenon giapponese

Matsumoto Seichō, Un posto tranquillo, Adelphi 2020 (pp. 195, euro 18)

Una relazione extraconiugale che emerge dopo la morte improvvisa della moglie, la ricerca del marito e la sua vendetta (o quella che potrebbe apparire tale): tutto qui. Ma ci sono i personaggi, il protagonista soprattutto: Tsuneo Asai è un funzionario ministeriale come tanti, la cui vita coincide con il suo lavoro, le sue aspirazioni con la carriera, i suoi rapporti sociali con le conoscenze dell’ufficio. Apprensivo, ossessivamente dedito a perseguire il proprio obiettivo di avanzamento nella gerarchia delle sezioni e dei dipartimenti del ministero, potrebbe essere uscito dalla penna di Čechov, se in lui non si registrasse un’evoluzione che è poi il filo del racconto: lo vediamo dapprima come uno che “Aveva fatto la gavetta, costruendo la sua carriera passo dopo passo. E quando si era reso conto che contestare l’assurdità e l’ingiustizia del sistema non serviva a niente, aveva deciso di competere con i raccomandati”; lo seguiamo mentre si guadagna, grazie alla la sua preparazione, la fama di “Manuale vivente” o addirittura di “eminenza grigia” che conviene farsi amico; lo ritroviamo omicida non pentito ma incapace di spiegarsi il gesto che ha fatto: un po’ come il Meursault dello Straniero di Camus, “era stata una disattenzione, un errore”, “nel suo gesto non vi era stata premeditazione Si era trattato di pura casualità”…

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“(…) ricreando, rivivendo immagini, persone, vicende, situazioni psicologiche e morali…”

“(…) ricreando, rivivendo immagini, persone, vicende, situazioni psicologiche e morali già celebrate nella propria poesia, si vive ulteriormente, e non d’obbligo nel rifugio del passato. Semmai nella riflessione che è riflesso scalfito sulla coscienza interrogata, riscossa. Nel tempo ritrovato si ritrova lo spazio per l’eco, la proiezione in avanti delle prove passate, sullo schermo dove tornano ad agire le ombre concrete della irreversibile fusione, o diciamo pure confusione, di scelte di vita e di poesia”. (Nazim Hikmet)

Storie, non numeri

Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea 2020 (pp. 333, euro 19,50)

Dati, notizie, valutazioni: l’accelerazione del cambiamento climatico è un fatto. Come è un fatto che viviamo come se non ci credessimo. Niente di nuovo, dunque, in questo libro, niente di nuovo rispetto a quello di Franzen segnalato lo scorso mese e agli altri che in quell’occasione si richiamavano? No, Magnason sa innovare la questione: non si tratta solo del fatto che “quando si tratta di qualcosa di infinitamente grande, di sacro e che oltretutto è il fondamento della nostra esistenza, non abbiamo una reazione proporzionata” ed “è come se il cervello non riuscisse a comprenderne le dimensioni”. È che per comprendere davvero certe parole, e farne derivare comportamenti nuovi, occorre molto, molto tempo: nelle prime fasi prima non creano consapevolezza, ma solo un “ronzio che ci inganna”, e che quindi facciamo finta di non sentire.

Ed ecco allora il quesito di fondo, quello che sa porsi all’altezza di una situazione simile: come scrivere della questione? Scriverne ed essere ascoltati? Magnason non fa teorie, ci prova: quando “la portata del discorso è tanto grande da risucchiare ogni significato” e neutralizzare gli argomenti che porto, è venuto il momento di capire che “posso solo girarci intorno, dietro, di fianco, di sotto, spostarmi avanti e indietro nel tempo, andare su personale e insieme essere scientifico, e usare la lingua del mito. Devo scrivere di queste cose senza scriverne, devo retrocedere per avanzare”.

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