“Uno pensa di essere vuoto, e cerca affannosamente insegnanti e corsi che possano insegnargli a scrivere…”

“Uno pensa di essere vuoto, e cerca affannosamente insegnanti e corsi che possano insegnargli a scrivere. A scrivere si impara scrivendo. Sembra semplice, e lo è. Non s’impara uscendo da noi stessi per rivolgersi ad autorità esterne che secondo noi sanno come si fa”. (Natalie Goldberg)

Il modo più sano di essere malati

Susan Sontag, Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore, Nottetempo 2020 (pp. 238, euro 18)

“Il mio intento è descrivere non ciò che realmente significa emigrare e vivere nel regno dei malati” – nei reparti di terapia intensiva, ci viene subito da pensare –, “ma le fantasie punitive o sentimentali elaborate attorno a questa situazione”: dove ho sbagliato, come ho fatto a prendere il virus anch’io? e adesso? cosa mi aspetta, qui, da solo?

È impossibile leggere il classico saggio di Sontag, più di quarant’anni dopo la sua pubblicazione e da poco riproposto, senza rapportarlo alla nostra esperienza e all’immaginario che il Covid 19 ha determinato. “La mia tesi – dichiara fin dalla prima pagina l’autrice – è che la malattia non è una metafora, e che il modo più veritiero di concepirla – nonché il modo più sano di essere malati – è quello che meglio riesce a purificarsi dal pensiero metaforico, e a opporvi resistenza”. E, vista la tendenza oggi dominante, a opporre resistenza alla psicologizzazione della malattia, tentativo contemporaneo di “fornire un controllo su esperienze ed eventi” del tutto o quasi refrattari alla nostra volontà.

La tubercolosi nel secolo scorso e il cancro oggi. Queste le due malattie sui cui in particolare il discorso verte, in quanto “sovraccaricate dalle bardature della metafora”, ma sono le note riservate alla seconda – di cui la stessa Sontag è stata vittima – a risuonare maggiormente in noi: “una malattia vissuta come un’invasione spietata e furtiva”, che sottopone i malati “a pratiche di decontaminazione” e fa percepire il contatto con loro una sorta di “trasgressione”, nella cerchia amicale ma anche all’interno del nucleo familiare, pur non trattandosi, nel caso del cancro, di una malattia contagiosa quanto piuttosto di un male (“un brutto male”, si diceva fino a qualche decennio fa) circondato da un alone metaforico difficile da smantellare. “Non c’è niente di vergognoso in un attacco di cuore”, mentre la “malattia oncologica” (questa l’espressione oggi usata in ambito medico-scientifico, ma che nessun malato né i suoi familiari usano…) “la si considera oscena – nell’accezione originaria del termine: nefasta, abominevole, ripugnate per i sensi”.

Manuali di medicina di ieri e di oggi, dizionari, opere letterarie: il libro è da leggere anche per i rimandi che l’autrice ha ritenuto necessari per argomentare la sua tesi e ricostruire i diversi percorsi dell’immaginario relativo alla tubercolosi e al cancro nelle loro relazioni con il corpo, il sesso, la morte.

Si direbbe che Sontag esplori i caratteri e l’evoluzione della percezione della tbc al fine di mettere in luce, per contrasto, quelli attinenti al modo di rapportarsi al cancro: nello stesso senso possiamo muoverci noi leggendo Malattia come metafora, non tanto cercandovi corrispondenze puntuali o conferme di una generica attualità, ma rintracciandovi stimoli a riflettere su quel che stiamo vivendo da un anno a questa parte. E lo stesso vale per l’altro saggio, contenuto in questa edizione, sull’Aids: anche la diffusione di questa infezione appare legata all’aumento degli scambi e dei contatti, ed ha evocato significati di punizione, o meglio, di responsabilità: individuale, legata ai comportamenti sessuali, nel caso dell’Aids; collettiva, derivante dall’indiscriminato sfruttamento del pianeta, per quanto riguarda il Covid 19.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La centralità perduta delle montagne abitate

Sara Luchetta, Dalla baita al ciliegio. La montagna nella narrativa di Mario Rigoni Stern, Mimesis 2020 (pp. 146, euro 14)

Degli autori amati – quelli dei libri che teniamo separati dagli altri, riservandogli uno spazio a sé, privilegiato – è piacevole leggere profili e commenti scritti da chi condivide la nostra predilezione. Non saggi accademici, ma testimonianze di letture partecipi quanto la nostra ma più della nostra documentate, sistematiche, penetranti. È il caso di questo libro, dedicato a un autore che ci ha lungamente accompagnato, Mario Rigoni Stern. Ed è la sua montagna innanzitutto, una montagna vista con l’occhio dell’insider e insieme dell’outsider – quale Rigoni è stato – a venirci incontro dalle pagine di Luchetta: non la montagna “delle ascensioni, delle vette, dell’alpinismo, dell’immaginario simbolico legato al turismo”, ma la “montagna minore, abitata, intermedia, spesso lontana dalle riviste patinate”. Un territorio contraddistinto dalla “coralità” della “saga stratificata delle sue genti”, per cui sono più riferimenti e simboli collettivi che personaggi singoli a risultare fulcro della narrazione, più “la baita e il ciliegio” che personaggi pure indimenticabili come Tönle o Giacomo, perché quella di Rigoni è una “letteratura senza eroi”, la sua narrazione “non vuol essere romanzo”, i suoi racconti “volutamente nascondo la mano di chi scrive o vedono lo scrittore osservarsi come uno tra i tanti nella saga altopianese”.

Chiariti questi presupposti, la lettura dell’opera dello scrittore si articola nell’analisi di temi specifici, essenziali nella sua visione del mondo come nella sua poetica: una natura “senza maiuscola”, in primo luogo, lontana dalla retorica della wilderness e coincidente con “la naturalità come prodotto domestico” e come domesticazione del “selvatico”; il senso del tempo, in secondo luogo, che emerge dalla fedeltà ai nomi dei luoghi – non per acribia toponomastica, ma per rispetto delle “temporalità diverse”, storiche e geologiche, sedimentate in quei nomi – ma anche dal racconto della “mobilità di uomini e animali”, del “movimento di diastole e sistole che è di ogni montagna, in dialogo con le sue stagioni e la varietà delle sue risorse” e scalza il “cliché spesso anche autogenerato di un forzato e innaturale immobilismo da nonno di Heidi”, così come lo “schema” etnografico che ha a lungo insistito sui “caratteri comunitari” degli insediamenti montani, in cui è invece possibile distinguere i segni concreti “di una cooperazione necessaria alla manutenzione di un territorio difficile e alla gestione oculata delle sue risorse”.

Lo sviluppo di questi temi si realizza pagina dopo pagina in una trattazione che al suo centro trova la lettura puntuale dei romanzi di quello che Paolo Cognetti ha definito “il nostro più grande scrittore di montagna”. Un autore di riferimento per ogni discorso sui temi ambientali che, come lui stesso diceva a proposito del suo Uomini, boschi e api, non ha mai tenuto a dire di “primavere silenziose” e di “alberi rinsecchiti” quanto ad augurarsi che “tutti potessero ascoltare il canto delle coturnici al sorgere del sole, vedere i caprioli sui pascoli in primavera”, manifestando un atteggiamento imprescindibile per un impegno ecologista che voglia efficacemente basare le proprie necessarie e fondate critiche e denunce sul prerequisito essenziale che consiste nel contatto diretto – incantato, nel senso più pieno della parola – con la natura.

La sintesi offerta in apertura da Mauro Varotto – docente della stessa università, a Padova, in cui la giovane autrice si è laureata sul ruolo dei nomi di luogo in Rigoni Stern – mette opportunamente in luce l’intento di libri come questo, ravvisabile nell’appello a ridare alle “montagne abitate” una centralità che hanno perduto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La storia, le storie / La memoria di un giorno

La memoria di un giorno. Il giorno in cui in un villaggio della campagna ungherese arrivano due ebrei, trasportano due casse, affittano un carro per portarle dalla stazione al paese. È di quel giorno che racconta 1945, un film del 2017, di Ferenc Török. Trasmesso da Rai storia la sera del 25 gennaio, tuttora presente fra le proposte di Rai Play.

È lo stesso giorno – lo sentiamo dalla radio all’inizio del film: il 6 agosto 1945 – in cui una  bomba atomica  viene sganciata su Hiroshima. Ma si tratta di un evento che avviene lontano, e cade nella disattenzione generale: per i paesani è un giorno di festa, si sposa il figlio del notaio comunale, il boss della comunità, che il capostazione si precipita ad informare: sono tornati. Gli ebrei. Sono solo due ma potrebbero esser venuti a rivendicare anche per le famiglie degli altri, deportati e uccisi nei lager, le proprietà loro confiscate e poi “riassegnate” ai locali.

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L’estinzione dell’Homo ruralis

Dörte Hansen, Tornare a casa, Fazi 2020 (pp. 310, euro 18,50)

L’atmosfera, il paesaggio, i personaggi fanno tornare alla mente Heimat, il fluviale film del 1984 di Edgar Reitz. Oggi la si chiamerebbe una serie, forse. Era la storia di un villaggio di campagna nella Germania profonda, nella regione della Renania-Palatinato: la vicenda del paese di Schabbach e della famiglia Simon, dagli anni Venti agli Ottanta del Novecento.

Il villaggio, nel romanzo di Hansen, si chiama Brinkebüll, uno dei tanti sparsi in una terra, la Frisia, in cui “di bellezza (non c’è) neanche l’ombra. Solo terra nuda, una terra che sembrava devastata e sfinita”. Una terra che non sembra avere altra storia che quella che Ingwer, ricercatore universitario, cerca sottoterra, nei reperti che trova. Una terra inospitale che trova un corrispettivo nella brutalità della sua gente, violenta, invidiosa, vendicativa.

La famiglia è quella dell’oste Sönke Feddersen e della moglie Ella, con la figlia Marret e il nipote Ingwer. Sönke “aveva fatto tutto il possibile affinché quel bambino senza padre, figlio di Marret Fine-del-mondo, venisse su più o meno normale”, ma quello se n’era andato, in città, a studiare, rifiutandosi di continuare a servire boccali di birra nella locanda come gli avevano fatto fare fin da bambino. Se n’era andato, via dai nonni e via dalla madre che si era guadagnata quel soprannome perché per lei “i pesci morti (…), l’estate senza cicogne e i campi senza lepri erano tutti presagi della grande catastrofe”, della fine del mondo appunto. Il paese si era abituato a queste profezie strampalate: Marret era svitata. Ce n’era uno in ogni paese di personaggi del genere.

Senonché, Igwer non può restare lontano: il tempo è passato, il nonno ultranovantenne si ostina a restare dietro il bancone della locanda ma non ce la fa più, anche perché la moglie è andata fuori di testa e se non le badi scappa di casa. Del resto, la vita universitaria è stata avara di soddisfazioni e quella privata ancora di più: “La sua vita sentimentale era entusiasmante come una serata di giochi da tavolo in casa di riposo. Forse anche meno. Status relazionale indefinito, né carne né pesce. Due uomini, una donna, un triangolo strampalato, una convivenza fuori dagli schemi” condotta in nome della rivoluzionaria convinzione che “Chi ama una persona sola, in realtà non ama nessuno, tutti e tre avevano letto Erich Fromm. Nessuno di loro aveva mai voluto sentir parlare di casa di proprietà e di matrimonio e di tutti quei discorsi sul nido”. Però lui, Ingwer, è arrivato al capolinea. Non si è mai davvero ambientato in quella convivenza, perché “Hai voglia a laurearti con i massimi voti, prendere summa cum laude alla tesi di dottorato, Ingwer si sentiva ancora come l’impostore con il curriculum gonfiato che non stava al posto suo. Ingwer Feddersen di Brinkebüll, che aveva rifiutato la sua vita ereditata. Che aveva detto no a una locanda sul Geest, ai quindici ettari di terreno, alla casa e alla fattoria. No a tutto quello che Sönke Feddersen, il vecchio, voleva dargli. No alla moglie e ai figli. Semplicemente no, grazie mille. Ma a cosa aveva detto sì? Se Brinkebüll non faceva per lui e neanche la casa condivisa a Kiel, qual era la sua strada?”

E allora torna. Perché nonostante tutto “Lui era affezionato a quella terra ruvida, logora, come si è affezionati a un peluche sdrucito dalle coccole, a cui manca un occhio e che non ha più pelo sulla pancia”, ma anche perché “Lui voleva chiudere le cose per bene, avrebbero giocato a padre-madre-figlio scambiandosi i ruoli. Questione di mesi, forse un anno, ormai a loro non doveva restare molto. Ingwer Feddersen, studentello, topo di biblioteca, per una volta avrebbe fatto qualcosa di utile, di normale. Pulire, cucinare e stare al bancone … Mantenere la posizione finché Sönke Feddersen non avesse abbandonato la nave, in sostanza si trattava di questo. Ma anche di saldare un debito”.

Una storia dura, insistita nei suoi toni aspri, ancorata a un registro malinconico, ma capace di non chiudersi nella vicenda dei suoi protagonisti: l’accorpamento delle proprietà imposto dalla riforma fondiaria e il progresso tecnologico che surclassa i metodi di coltivazione e allevamento in uso da sempre scompone il precario equilibrio del paese. Mentre quelli che possono tentano di ammodernare le loro fattorie ma, senza saper bene che cosa hanno perduto, si riducono spesso in una disperazione cupa, senza futuro, fino a giungere al suicidio in molti casi, arriva la “gente di città”: “Tutta quella gente di Berlino e di Amburgo che improvvisamente si trasferiva nei paesini, non si capiva cosa stesse cercando. Compravano fattorie dismesse, vecchie fucine e scuole di paese abbandonate, stazioni ferroviarie in disuso e mulini che non andavano più. Sembrava che volessero prendersi tutto ciò che era particolarmente vecchio e sgangherato e fatiscente. (…) C’era stato un grosso equivoco. La gente che veniva dalla grande città cercava la natura e le radici, ma nei paesi se ne stavano disfacendo”: “Era come se si stessero vendicando di quello che avevano subito in passato, estirpando tutto ciò che volesse crescere, verdeggiare, fiorire e consumare inutilmente. Via tutto ciò che era storto, logoro e misero, da contadino, da bifolco. Si liberavano dalla natura come schiavi dai loro padroni (…). La gente che veniva dalle grandi città (…) non capiva che i propri vicini avevano un conto aperto con quel territorio. Loro abitavano lì da poco, su quella terra, non sapevano cosa volesse dire vivere di quella terra”.

È qui che il romanzo diventa potente, capace di render conto – senza mai rischiare di abbandonare il terreno della narrativa gravandolo di digressioni saggistiche – dei guasti irreversibili che una modernizzazione guidata solo da criteri economici e accelerata dalle innovazioni tecniche inevitabilmente porta con sé disgregando comunità già minate e destituendo di senso le vite dei singoli.

“Il tempo dei contadini giungeva al termine. Avevano spento il fuoco, tolto le tende e abbandonato gli ultimi residenti. Homo ruralis. Quasi estinto. Le ere cominciano e finiscono, niente di trascendentale. Per uno del mestiere – come il professor Ingwer Feddersen – era sorprendente averci messo così tanto a capirlo”.

Sua madre Marret-fine-del-mondo, a suo modo, aveva visto quel che stava accadendo. Ma “quel posto se ne infischiava totalmente dell’inezia umana”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“(…) pensa che per restare uno scrittore avrebbe dovuto ridiventarlo daccapo (…). È come se non riuscisse a ricordare ciò che…”

“(…) pensa che per restare uno scrittore avrebbe dovuto ridiventarlo daccapo (…). È come se non riuscisse a ricordare ciò che inizialmente, un sacco di anni prima, l’aveva trascinato verso le parole, benché le parole siano ciò con cui tuttora se la vede. Mi sa che è un po’ come il matrimonio, ha detto. Costruisci un intero edificio su un periodo di passione che non si ripeterà. È la base della tua fiducia e qualche volta ne dubiti, ma non ci rinunci perché gran parte della tua vita è fondata su quel terreno”. (Rachel Cusk)

Impedire che il mondo vada in pezzi

Albert Camus, Conferenze e discorsi, Bompiani 2020 (pp. 339, euro 22)

Alcuni libri più di altri possono essere letti in modi diversi. Questo può essere letto per esempio cercando, e trovando, conferma dell’attualità di Camus anche oltre La peste, il romanzo che è sembrato a molti la lettura più pertinente nella fase del (primo) lockdown. Il Camus che leggiamo qui non è il romanziere, infatti, né il saggista, ma il conferenziere, l’intellettuale che si pronuncia sulla condizione dell’uomo a partire dalla situazione seguita alla seconda guerra mondiale, che si interroga sulla crisi della nostra civiltà,senza abbandonare la speranza che l’uomo possa ritrovare “quell’inclinazione verso l’uomo senza la quale il mondo sarà sempre un’immensa solitudine”. Ma anche ponendo obiettivi concreti, come quello di riconoscere una “cultura mediterranea” e renderla operante, o individuando alla radice questioni irrisolte: “L’Europa – leggiamo ad esempio in una conferenza del 1949, pensando alla “fortezza Europa” che non poche decisioni politiche oggi annunciano o di fatto praticano – non guarirà se non rifiuterà di adorare l’evento, il dato di fatto, la ricchezza, la potenza, la storia quale si fa e il mondo così come va, se non accetterà di vedere la condizione umana così com’è”.

Ecco allora un altro modo di leggere queste pagine: verificare nel concreto del discorso che cosa significa(va?) essere un intellettuale. Avendo presente l’opzione che Camus dichiara senza mezzi termini: “Preferisco gli uomini impegnati alle letterature impegnate”. Opzione di cui danno ampia testimonianza gli interventi raccolti in questo libro, puntuali e calzanti rispetto agli eventi di cui lo scrittore è osservatore partecipe. Occorre però non dimenticare – e non possono non venire in mente le polemiche di oggi contro i colti e i competenti così come i vezzi battaglieri di non pochi facitori d’opinione – che “Se alla parola intellettuale si associano spesso tanto disprezzo e tanta riprovazione è perché essa implica l’idea del polemista amante delle astrazioni incapace di guardare alla vita e incline a preferire sempre la propria personalità a tutto il resto del mondo”. Camus è lontanissimo dall’illusione velleitaria di chi pensa che “spetta all’intelligenza di cambiare la storia”, ma è convinto che compito di essa sia “quello di agire sull’uomo, che invece la storia la fa”. E il primo passo è “non permettere mai alla critica di trasformarsi in insulto, ammettere che il nostro avversario possa avere ragione e che in ogni caso le sue ragioni, anche sbagliate, possano essere disinteressate”, senza per altro nulla concedere alle “filosofie dell’istinto”, a quel “romanticismo di bassa lega che preferisce il sentire al comprendere”: la parola populismo non faceva parte del lessico di Camus… Il quale comunque aveva esperienza diretta del fatto che “Colui che prova a comprendere senza preconcetti, colui che parla di obiettività viene subito accusato di sofisticheria e denunciato per le sue pretese” (neanche l’espressione radical chic era ancora entrata nell’uso…).

Ma tornando al tema cui si accennava, a quella crisi di civiltà che può esser letta come “crisi dell’uomo”, la constatazione della sua esistenza non richiede purtroppo argomentazioni complicate: “c’è una crisi dell’uomo poiché nel nostro mondo la morte o la tortura – metti, la tragedia della traversate mediterranee o quella dei lager libici – può essere guardata con un sentimento di indifferenza o di interesse amichevole, o di curiosità, o di semplice passività (…) senza l’orrore e lo scandalo che dovrebbe suscitare, poiché il dolore umano è accettato”, messo in conto, fatalisticamente o cinicamente (sempre che ci sia davvero una differenza sostanziale fra i due atteggiamenti). Le radici di questa “degenerazione dei valori” stanno comunque a monte, nel fatto che “un uomo o una forza storica non sono (…) più giudicati in funzione della loro dignità, ma in funzione del loro successo”, all’interno di un orizzonte di “incertezza assoluta dell’uomo occidentale rispetto al proprio futuro”: “la semplice parola futuro” è ormai “emblema di ogni sorta di angosce” – e, si badi: Camus non poteva annoverare fra queste quella suscitata dalla crisi ambientale – e non potrebbe sentire diversamente l’uomo “costretto – com’è – a vivere nel presente (lontano dalle verità naturali, dai passatempi tranquilli e dalla semplice felicità”. Costrizione, questa, che tuttavia non impedisce di sentire che “da tempo viviamo un profondo disagio e non siamo più sicuri del nostro futuro e che questa, insomma, non è una condizione normale per presunti uomini civili”.

Non deve scoraggiare il fatto che le occasioni alla base delle diverse conferenze appartengano a tempi e contesti relativamente lontani. In queste pagine, oltre a immagini che resistono al tempo – una per tutte, “I francesi della resistenza che ho conosciuto e che leggevano Montaigne sui treni dove trasportavano i loro volantini” – ricorrono prese di posizione, spesso espresse in forma aforistica, ancora in grado di parlarci. Qualche esempio: “Un uomo non pensa male perché è un assassino. È un assassino perché pensa male. Perciò si può essere un assassino senza apparentemente aver mai ucciso”; occorre “ridimensionare la politica attribuendolo il ruolo secondario che le spetta”: “far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori. Ignoro, per quel che mi riguarda, se esista un assoluto. Ma so che non è di ordine politico” e “non concerne tutti; concerne ognuno di noi singolarmente. E occorre impostare i rapporti – eccolo, il contributo necessario della politica – in modo che ciascuno abbia l’agio interiore di interrogarsi sull’assoluto”. E ancora: “Vogliamo ritrovare la via verso una civiltà in cui l’uomo, senza distogliersi dalla Storia, non le sarà più asservito, in cui il dovere che ogni uomo ha nei confronti degli altri uomini sarà controbilanciato dalla riflessione, dal tempo a propria disposizione e dalla parte di felicità che ciascuno deve a sé stesso”. Fino a giungere al discorso pronunciato nel 1957 a Stoccolma, ricevendo il Nobel per la letteratura, nel quale Camus intende chiarire l’idea della sua arte e del suo ruolo di scrittore: “Non posso vivere, personalmente, senza la mia arte. Ma non ho mai posto questa arte al di sopra di tutto. Se mi è necessaria, invece, è perché non si separa da nessuno e mi permette di vivere, quale sono, alla pari con tutti”. E tuttavia, lo scrittore, “Per definizione non può mettersi, oggi, al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di coloro che la subiscono”. Il che coincide con la consapevolezza che il compito più importante non è credere velleitariamente di poter cambiare il mondo: è un compito “persino più grande” e “Consiste nell’impedire che il mondo vada in pezzi”.

Non solo un invito alla lucidità esprime questo libro: sono anche coraggio – e speranza, nonostante tutto – che la lettura trasmette.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Se vi sedete al tornio della scrittura, e cominciate a dar forma a un racconto…”

“Se vi sedete al tornio della scrittura, e cominciate a dar forma a un racconto, vi accorgerete che di quanto tempo ci voglia. Un movimento dopo l’altro, con fatica, lentamente, la ruota delle parole scava dei suoni, nell’animo, negli eventi. Un personaggio nasce frase dopo frase, un rammarico dopo l’altro, una sconfitta segue la successiva. Il martello del subito non è tra gli strumenti di un grande scrittore”. (Giulio Busi)

Ricordi e finzione

Jón Kalman Stefànsson, Crepitio di stelle, Iperborea 2020 (pp. 235, euro 17)

Per molti, ogni romanzo di Stefànsson è un ritorno atteso. Pochi scrittori come lui sanno, pur parlando di un ambiente lontano dal nostro, farci sentire che siamo tutti nella stessa barca, perché “le cose della vita, quelle che davvero contano, non sono poi molte e soprattutto non cambiano. Non che la storia non conti, ma alla fin fine le questioni sono quelle: la vita e la morte, così vicine fra loro; la domanda insopprimibile di un senso dell’esistenza, che il pantano della quotidianità offusca ma non può cancellare; la solitudine, il silenzio che erige muri fra padre e figlio, fra marito e moglie. E una Natura — non solo l’ambiente, ma anche il corpo, che di colpo invecchia — estranea e impassibile, spesso ostile”. Erano, queste, osservazioni (in queste note, il 18 febbraio 2018) suscitate dalla lettura dei suoi romanzi (Luce d’estate ed è subito notteParadiso e infernoLa tristezza degli angeliIl cuore dell’uomoI pesci non hanno gambeGrande come l’universo, tutti editi da Iperborea fra il 2011 e il 2016) nell’imminenza dell’incontro con lo scrittore alla nuova libreria Rinascita.

Le ragioni dell’interesse, dell’affezione anzi, che proviamo per Stefànsson escono riconfermate dalla lettura di questo romanzo. Anche qui amore e disamore, abbracci e separazioni sostanziano la narrazione, così come ritroviamo alcuni dei tratti tipici dello scrittore: il tono di racconto orale della sua scrittura, le aperture ora poetiche ora aforistiche che la percorrono. Ma non sono segni di continuità, bensì di prefigurazione di uno stile, di una linea narrativa: Crepitio di stelle è infatti il primo romanzo pubblicato dal – fino allora – poeta Jon Kalman Stefànsson, ed è un romanzo in gran parte autobiografico. Anche se nelle sue storie – come precisa nell’intervista recentemente segnalata dalla news letter della nuova libreria Rinascita e riascoltabile sul sito dell’editore (https://iperborea.com/news/734/) – riesce difficile, persino a lui, distinguere fra ricordi e invenzione: “è il bello della nostra memoria, e anche del narrare. Si parte da ricordi della vita reale e poi la fantasia ha il sopravvento”. Ne nasce una “sinfonia” in cui tutto si compone: “l’importante è che funzioni e vada a toccare il lettore”. Il bisnonno per esempio, personaggio che nell’andirivieni fra passato e presente del racconto svolge una parte di primo piano, lui non l’ha mai conosciuto. Ne ha sentito parlare in casa, questo sì, e non sarebbe potuto essere diversamente trattandosi di una figura che ricorda, nella sua generosità, nei suoi sogni e nelle sue intemperanze, certi personaggi di Harabal, dimostrazione di quanto invecchiare non significhi diventar saggi.

Il carattere autobiografico si evidenzia tuttavia soprattutto nella vicenda del protagonista, bambino di sette anni che perde la madre e deve fare i conti con una “matrigna” per nulla empatica (“in questo romanzo ho affrontato per la prima volta un grande trauma del mio passato”, spiega lo scrittore). Tutto è raccontato dal punto di vista del bambino: dall’apprendimento, per imitazione, di regole forse utili alla vita (“Mi viene da pensare che tacere sia una buona idea, mi viene da pensare che il silenzio – come quello che regna in casa – renda potenti”) alle fantasticheria che l’assistere alla sepoltura della madre suscita in lui: “Il prete dà l’ordine di calare la bara di mia madre nella terra. La cassa scende molto lentamente, ma lei dovrebbe sbrigarsi a gridare perché tra poco sarà troppo tardi”. L’impensabilità della morte resterà nella mente del bambino, che in proposito può confidarsi con gli unici amici che ha: “Spero che non faccia troppo freddo sottoterra, dico ai soldatini, la mamma non ha preso il giaccone, è ancora appeso nell’armadio”. I soldatini, compagni della sua solitudine: “A certo soldatini interessano le stelle. (…) A volte mi siedo lì con loro a guardare fuori. C’è un gran buio in mezzo alle stelle. Non si sa che cosa ci sia in quel buio, forse fantasmi, faccio io, e allora loro mi chiedono di tirare le tende”. Di “realismo magico” parla Vanni Santoni dialogando con Stefànsson, e in effetti possono tornare alla mente certi passaggi del bergmaniano Fanny e Alexander, ma si tratta solo di uno dei filoni del romanzo. Uno spazio altrettanto significativo prendono le considerazioni di carattere esistenziale: “(…) tutto finisce nel silenzio, sparisce per sempre tra l’erba alta dell’oblio. È tipico di noi uomini dar troppo valore alla nostra esistenza, ci comportiamo come se fossimo importanti e dimentichiamo la prospettiva più ampia: la storia del genere umano, l’universo”. Oppure: “L’esistenza di ciascun individuo sembra talmente dominata dal caso che un solo movimento della mano può stravolgere tutto. Ma una cosa è averne il sospetto, un’altra è trascinarlo alla superficie delle parole, perché allora è come se il terreno cedesse e si aprisse un crepaccio sotto i piedi”. Un’inclinazione filosofica, quella dello scrittore islandese, che si traduce tuttavia sempre in immagini, in situazioni, secondo la vena poetica che innerva la sua narrativa e lui stesso non sa disgiungere dal suo lavoro attuale di romanziere: “non capisco le differenze fra poesia e prosa mentre scrivo”, ammette. “Io ricordo le cose come fossero poesia ma quando scrivo mi vengono in prosa”. Ecco allora aprirsi scorci come questo: “Le stelle brillano, i cani abbaiano, io racconto questa storia; non c’è nessuna differenza. Cerchi il principio e intanto racconti una storia, forse per non pensare che non esiste nessun cielo. Nessun inizio, nessuna fine, solo un moto incessante, una distanza infinita e nient’altro”.

Del resto – come recita il sottotitolo di un altro romanzo di Stefánsson, Storia di Ásta, in queste note il 2 dicembre 2018 – Dove fuggire, se non c’è modo di uscire dal mondo?

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Essere fedeli ai propri personaggi

Donatella Di Pietrantonio, Borgo Sud, Einaudi 2020 (pp. 168, euro 18)

“È solo una battuta giornalistica o c’è del vero nel proposito che le è stato attribuito di scrivere un seguito dell’Arminuta?” chiedevo a Donatella Di Pietrantonio concludendo l’incontro a Brescia, alla nuova libreria Rinascita, nel novembre di tre anni fa. La risposta era stata evasiva: “non è escluso, chissà…”.

In realtà, quello di seguire le due sorelle protagoniste della storia fino alla loro mezza età era il proposito iniziale, ha rivelato in un’intervista recente la scrittrice*: “Solo che il loro incontro dopo due infanzie separate e i primi due anni di vita insieme erano stati così intensi che il ciclo narrativo mi si è come chiuso fra le mani. Ma queste sorelle non mi lasciavano in pace, soprattutto Adriana (…). Ho dovuto mantenere una promessa di fedeltà ai personaggi”. Ed ecco allora il seguito dell’Arminuta: Borgo Sud, nel quale sono evidenti gli elementi di continuità, a partire dalla scrittura asciutta, “che impone l’essenzialità del parlato – si diceva a proposito del primo romanzo, in queste note il 14 maggio 2017) – e sa accoglierne le icastiche espressioni dialettali, frutto di un’arcaicità che non ha abbandonato il costume e la mentalità, di un’esperienza della vita fatta di sopportazione, del sapere maturato in esistenze dominate dalla miseria”. Una scrittura che, secondo l’autrice, è “il modo più efficace per trasmettere emozioni”, perché questo è lo scopo: la trama è stringente, ma quella che si vuole restituire, anche in questo secondo romanzo, è “una storia di sentimenti, dei sentimenti fondamentali che abitano la vita, ogni vita, e non svaniscono, a lettura finita”. Sentimenti e valori, snodi decisivi della vita e laceranti confronti interiori. Lo rilevava con efficacia, dal suo punto di osservazione, Massimo Recalcati**, sottolineando “il carattere limpidamente tragico della scrittura e della struttura narrativa di Donatella Di Pietrantonio” e individuando il nucleo profondo del suo narrare nel fatto che “sapere che la vita porta con sé una atrocità irredimibile non significa cedere a questa atrocità”.

È questa in sostanza l’esperienza che vive l’Arminuta: con questo appellativo non possiamo che continuare a riferirci anche in Borgo Sud alla sorella che ha studiato ed è diventata insegnante di italiano all’università di Grenoble, richiamata improvvisamente a Pescara dall’annuncio che la sorella Adriana sta morendo dopo essere precipitata dalla terrazza su cui stendeva i panni. Incontriamo, nelle prime pagine, la protagonista in viaggio e la ritroviamo al capezzale della sorella nelle ultime: la storia sta nel mezzo, e si riconnette alla precedente dando conto della vita delle due donne attraverso una sequenza di flash back e di riprese che, senza offuscare la limpidezza della trama, si accavallano seguendo i percorsi della memoria, che “sceglie le sue carte dal mazzo, le scambia, a volte bara”.

“Da ragazzine eravamo inseparabili, poi avevamo imparato a perderci. Lei era capace di lasciarmi senza notizie di sé per mesi (…). Sembrava ubbidire a un istinto nomade”, “sempre così viva e pericolosa. Provavi forte il disagio di essere sua sorella”: pochi tratti bastano a farci riconoscere le due sorelle, ed è impossibile non cogliere le assonanze (persino sotto il profilo biografico) con la Lenù e la Lila della Ferrante, una delle scrittrici che del resto, oltre alla Morante, Di Pietrantonio riconosce di apprezzare. È Adriana soprattutto a ricordare l’indipendenza aggressiva di Lila, il suo aspettarsi aiuto come fosse sempre dovuto e il saper conservare, nonostante tutto, una propria verità, una sorta di integrità che resiste a incoerenze, meschinità, eccessi: “Adriana è così, s’immerge nella melma e ne esce candida”, “è un’opportunista istintiva, non per calcolo. Si serve di chi può esserle utile conservando una specie di innocenza, un candore da bambina. Sottintende che puoi disporre di lei allo stesso modo”. Suscita un fascino che non ci si sa spiegare questo personaggio, il fascino che ispirano le persone che sembrano vivere la vita senza mediazioni e ripensamenti a chi la vive invece attraverso il filtro della cultura e dell’introspezione, ed è colto da una sorta di ammirazione per chi vive senza guardarsi vivere, o così sembra. Ed è tanto più misteriosa questa differenza di modi di stare al mondo quando connota i figli di una stessa famiglia. Diversi eppure accomunati da una medesima esperienza di orfanità determinata dal carattere chiuso e ruvido dei genitori e dalle vicende vissute nella prima infanzia. È in forza di questa comunanza nella differenza che la sorellanza fa valere le sue ragioni e appare inscalfibile: “Con Adriana (…) eravamo pari, abbandonate a noi stesse, sole nel mondo, sorelle. (…) Per ognuna di noi restava la certezza dell’altra al fondo del dolore che non ci siamo mai confessate”. Una vicinanza solidale che emergerà soprattutto quando giungeranno al loro esito infausto le relazioni che le due hanno stabilito e hanno tenuto in vita, incapaci di smettere di amare chi si è iniziato ad amare. Come accade all’Arminuta quando il marito Piero la lascia, in pagine che fanno tornare alla mente la De Beauvoir di Una donna spezzata.

Storie di disamori e di abbandoni dunque sono quelle che intessono anche la trama di questo romanzo, capace di aprirsi a momenti che non si saprebbe definire se non come solenni, e intervengono soprattutto quando è la madre ad entrare in scena. Così il distacco fra lei e la figlia minore: “Era l’ultima volta che Adriana la vedeva. Il suo intuito prodigioso non l’ha aiutata, non ha saputo riconoscere nessun segno premonitore nella figura curva che si incamminava (…). Così non hanno messo da parte l’astio e non si sono salutate, non si sono strette in un abbraccio di pace. Adriana era troppo distante dalla morte per presagirla e, come tutti i giovani, confidava nell’eternità dei genitori”.

*“Donna moderna”, 13 novembre 2020
** “La Repubblica”, 4 novembre 2020

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Ogni giorno mi siedo alla scrivania e mi dico che sono proprio fortunato…”

“Ogni giorno mi siedo alla scrivania e mi dico che sono proprio fortunato a fare questo lavoro. Un po’ alla volta, sono migliorato in quello che faccio. In un certo senso ogni libro è stato migliore del precedente. O piuttosto ho continuato a cercare di comprendere meglio quello che faccio o che cerco di dire. Di sbagliare meglio, diciamo”. (Paul Auster)

“(…) chi scrive preferisce in genere essere solo…”

“(…) chi scrive preferisce in genere essere solo. Naturalmente, ci spiegherà che lo fa proprio perché ama il prossimo: si isola solo per concentrarsi meglio e raggiungerlo più compiutamente con le sue frasi. Eppure, anche se lo scritto si rivolge a un tu, leggendo si sente spesso il sapore della solitudine”. (Luigi Zoja)

La tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi

Ilaria Rossetti, Le cose da salvare, Guanda 2020 (pp. 201, euro 17)

Due storie: quella di un ex professore di scuola media, da anni solo, abitante di un condominio risparmiato per un soffio dal crollo del ponte di Genova, e quella di un altro pensionato, non toccato direttamente dalla tragedia del ponte ma da un’altra, privata: la morte della moglie. A tenerle insieme una trentenne, da poco assunta da un giornale locale. Primo incarico: intervistare il professore che ostinatamente ha rifiutato di lasciare il suo appartamento. Perché? Vengono alla mente quel vecchio che non voleva lasciare la sua casa a Curon, alla vigilia della costruzione del bacino idroelettrico (quello del campanile che spunta dall’acqua: ce ne ha raccontato Marco Balzano un paio d’anni fa (Resto qui, Einaudi 2018, in queste note il 15 aprile 2018), ma qualcosa di molto simile pare sia avvenuto anche dalle nostre parti, quando venne realizzato l’invaso della Valvestino all’inizio degli anni Sessanta. Delle ragioni di Gabriele Maestrale però sappiamo di più, grazie a Petra, la giornalista, che poco a poco ne ottiene la fiducia e comincia a prender nota di ciò che l’uomo ha vissuto, sin dal momento del crollo del ponte, perché è allora che ha deciso, quando ha sentito il suo appartamento “scricchiolare” fra i “blocchi di cemento armato precipitati tutt’intorno”: “Gabriele capisce che forse crollerà” anche la sua casa, che “se ne deve andare il prima possibile”. “Ma – ecco il punto – quali sono le cose da salvare?”, da portarsi via nella fuga? Ebbene, lui “Non riesce a decidere quali sono le cose da salvare”, e dunque resta, bloccato dalla constatazione di “quanta vita c’è nelle nostre stanze”. Ossia del fatto che le cose non sono solo cose: le abbiamo incorporate nella nostra vita senza accorgerci, se non alla fine, o in casi estremi come questo, che loro hanno incorporato noi e chi ci stava vicino (è lo stesso tema che abbiamo incontrato nel libro di Massimo Mantellini recentemente letto (Dieci splendidi oggetti morti, Einaudi 2020, in queste note lo scorso 18 ottobre). 

E intanto, Petra si divide fra la storia dell’“Eremita del ponte” – come il giornale, con la solita stereotipata ricerca di sensazionalismo, lo definirà – e quella intima, lontana dalla cronaca, di suo padre, raggiunto dalla donna che era stata il suo primo amore a una settimana soltanto dalla morte della moglie. Le due storie crescono, si arricchiscono di significati che via via superano le circostanze in cui sono nate, e si complicano: nel palazzo pericolante non vive solo il professore, ma anche due clandestine eritree, madre e figlia, e l’arrivo di Vanda, l’antica fiamma del vedovo, non è stato dettato solo dal rimpianto, ma da una precisa volontà… Una trama avvincente, dunque, percorsa da quell’intercalare – le cose da salvare – che conosce sempre nuove modulazioni, fino a farsi metafora della scelta inevitabile che la finitudine della vita impone. Sono il passare del tempo e il riconoscimento, struggente e insieme sereno, a suo modo, della limitatezza dell’esistenza, a rappresentare il fulcro della narrazione. Lo avevamo potuto presentire, del resto, fin dagli esergo posti in apertura, dal primo soprattutto, di Cristina Campo: “Ho tante cose da dire! Quasi direi da salvare: tutta la tragica bellezza di ciò che è passato in noi e vicino a noi – cose che io sola sento di aver visto e sentito fino alla sofferenza e che assolutamente non devono morire”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La pazienza, virtù non eroica

Su “Doppiozero”, rivista on line, del 14 dicembre si può leggere una considerazione di Antonio Prete – autore di studi tra i quali secondorizzonte ha segnalato il 19 maggio 2019 Nostalgia. Storia di un sentimento, Cortina 2018 e il 10 novembre dello stesso anno La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019. 

Bastano poche, brevi citazioni per dare l’idea dell’originalità e della tempestività di questo scritto, leggibile nella sua interezza qui.

«Un sentimento che la condizione tragica della pandemia evoca, e incessantemente invoca, è certamente la compassione, cioè la prossimità al dolore dell’altro, il dialogo assiduo con quel dolore. Un altro sentimento su cui il tempo della pandemia invita a riflettere è la pazienza, sentimento-virtù che nell’etimo, e per un lungo tratto della sua storia, ha a che fare anch’esso con il patire, con il prendere su di sé le forme del patire. 

(…)

Con il diffondersi planetario del virus, e con il modificarsi dei modi di vita, di incontro, di relazione, un nuovo tempo si è dischiuso (…). Prendere su di sé questo tempo della sospensione, con il patimento che è implicito, è compito del sentimento, o virtù, che chiamiamo appunto pazienza. Solo in questa accezione, la pazienza può mostrarsi alleata di un’altra grande virtù, la speranza, un vento che può ravvivare l’aria ferma di questo tempo sospeso. 

Pazienza è virtù del sì. Accettazione. Un’accettazione che ha come presupposto il riconoscimento di un accadere che è al di là delle nostre singole scelte, della nostra volontà, o del nostro potere di immediata modificazione dell’esistente. Un’accettazione che non è passività, rinuncia alla critica, abbandono al flusso degli eventi, e tanto meno consenso a forme di potere che creano diseguaglianze o non agiscono per cambiare in meglio le condizioni di vita degli individui, sotto tutti i cieli.

(…)

[Nello Zibaldone,  Leopardi] scrive: “la pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna apparenza d’eroico”. 

L’esercizio di questo eroismo nascosto, dimesso, privo d’orgoglio e di esibizione è certamente difficile, ma appartiene al dialogo con il dolore che il vivente può intrattenere. In questo senso la pazienza ritrova la sua radice, e si avvicina alla compassione. 

Oggi essa si propone a noi sia come relazione con un tempo che è tempo del paziente, del patire, sia come esercizio di un’attesa, che è attesa di un tempo altro: attesa liberata dalla spina dell’ansietà e desiderosa di scorgere il principio di una svolta».

La lotta di uno psichiatra nella Spagna ultracattolica di Franco

Almudena Grandes, La figlia ideale, Guanda 2020 (pp. 560, euro 20)

Le tre voci narranti che si alternano sono quelle di Germàn Velasquez, giovane psichiatra, María, un’infermiera ausiliaria, e Aurora Rodriguez Carbaillera, signora benestante e colta, ma anche assassina della propria figlia, uccisa senz’ombra di rimorso perché non corrispondente al modello che la donna avrebbe ritenuto rispondente alla propria eccellenza, alla propria missione di rinnovare niente meno che l’Umanità. Di qui il titolo italiano (La figlia ideale), senza dimenticare quello originale (La madre di Frankenstein).

Le storie che i tre personaggi raccontano sono innanzitutto le proprie, sulle quali si innestano le storie di chi ha contato nella loro vita: ha una struttura ad albero questo romanzo, che divaga e riprende il filo alternando, oltre alle voci, anche i piani temporali delle diverse vicende. Il tronco è senz’altro rappresentato dagli avvenimenti che segnano la vita di Germàn, ma di qui si dipartono i due rami maggiori (le due donne) che mettono a loro volta a quelli più sottili, ma per nulla secondari, di una schiera di personaggi diversi, in un intrico che sarebbe impossibile rendere in una breve nota.

A tenere insieme il tutto, oltre alla perizia narrativa dell’autrice, è il vero protagonista del romanzo: il franchismo, come del resto ci segnala il lungo sottotitolo facendo riferimento all’“apogeo della Spagna nazionalcattolica” e collocando con precisione i fatti (“Madrid, 1954-1956”). Lo scenario della vicenda è infatti un manicomio femminile che si trovava nei pressi della capitale: è lì che torna, dopo anni di esilio in Svizzera durate i quali si è impratichito nella professione, il protagonista, e fra le internate ne riconosce una, già paziente di suo padre, che ricordava bene, così come non l’aveva potuta dimenticare María, che della signora era stata, ancora bambina, amica e in qualche modo allieva, ma che ora non ne viene riconosciuta. O così pare, perché Donna Aurora è imperscrutabile nella sua depressione quanto nelle sue ire, nelle manifestazioni della sua intelligenza vigile e nei sogni deliranti che continuano ad accompagnarla. Il tutto, come si diceva, sullo sfondo di un paese nel quale sono in auge le “dottrine eugenetiche patrocinate dallo Stato franchista”, supportate dalla “morale ultracattolica che, interferendo continuamente nella pratica psichiatrica”, si oppone anche all’introduzione di un farmaco sperimentato in Svizzera, capace di attenuare i vaneggiamenti e le sofferenze indotte dalla schizofrenia e dunque, secondo le autorità della Chiesa, a tentare di “correggere il progetto divino”. La lunga storia della lotta – per nulla eroica, fatta piuttosto di onestà, di rispetto di sé stessi e quindi degli altri, e di amore – condotta da Germàn e María, nonostante le diversioni e le riprese continue, non è di quelle che si possono abbandonare prima di essere giunti all’ultima pagina del libro.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una tesi tempestiva e dirompente

Jonathan Franzen, E se smettessimo di fingere? Ammettiamo che non possiamo più fermare la catastrofe climatica. Einaudi 2020 (pp. 64, euro 10)

Una tesi che giunge tempestiva, e dirompente, quella di Franzen, in tempi nei quali ricorrono – fino a diventar rituali, quando l’attenzione non è interamente assorbita dalla pandemia – i riferimenti al green new deal prossimo venturo: “Al contrario della destra – constata lo scrittore –, la sinistra si vanta di ascoltare i climatologi, i quali effettivamente riconoscono che la catastrofe è teoricamente evitabile. Ma non tutti sembrano ascoltare con attenzione”. Non si accorgono, o non vogliono tener conto di quel teoricamente. Perché praticamente, invece, la crisi climatica è irreversibile: sono solo “vecchie insulsaggini” quelle ripetute da chi – politico o militante ambientalista che sia – si dichiara convinto che “abbiamo ancora dieci anni” e dunque è il caso di “(metterci) al lavoro per salvare il pianeta”. Ecco la questione: dopo tante letture che si ponevano il problema dell’indifferenza diffusa al riscaldamento climatico, del fare come non si credesse alla sua realtà – da Gosh a Safran Foer a Vargas, per citare solo alcuni degli autori di saggi segnalati in queste note – Franzen, in poche, densissime pagine assume una posizione che molti (?) di noi non possono sentire del tutto estranea: occorre “venire a patti con la possibilità che l’apocalisse climatica si (verifichi) nel corso della (nostra) vita”, perché non c’è stata la volontà e non ci sono ormai più i tempi necessari di porvi rimedio, e dunque  insistere sulla questione poteva aver “senso negli anni Novanta, quando sembrava possibile che il mondo prendesse misure collettive per ridurre le emissioni di CO2”, non oggi che è “ormai chiaro che le misure collettive (sono) fallite”. Che cosa vuol dire allora, giunti a questo punto, quel “venire a patti” con la catastrofe incombente? E qui Franzen ci racconta del suo percorso recente: “il movimento ambientalista, che in precedenza difendeva animali e piante selvatici e si batteva per preservare i loro habitat, era stato quasi completamente fagocitato dalla questione del cambiamento climatico. Ormai i maggiori gruppi ambientalisti dedicavano gran parte delle loro energie e risorse a quell’unica questione, sostenendo che se non fermiamo il cambiamento climatico, nient’altro avrà più importanza.” Un discorso “futile”, se messo a confronto con il grado cui è giunta la crisi ambientale, mentre concreta dovrebbe essere l’“attenzione al mondo della natura, dove si (possono) ancora prendere misure di conservazione significative ed efficaci”. Gocce nel mare, si potrebbe obiettare, e Franzen ne è consapevole. Senonché, sostiene, far cose giuste dà senso alla vita. Anche quando è minacciata alle sue radici: “Una guerra senza quartiere contro il cambiamento climatico aveva senso solo finché era possibile vincerla. Nel momento in cui accettiamo di averla persa, altri tipi di azione assumono maggiore significato. Prepararsi per gli incendi, le inondazioni e l’afflusso di profughi è un esempio pertinente. Ma la catastrofe che incombe rende più urgente quasi ogni azione di miglioramento del mondo. (…) è altrettanto importante combattere battaglie più piccole e locali che avete qualche realistica speranza di vincere. Continuate a fare la cosa giusta per il pianeta, sì, ma continuate anche a cercare di salvare ciò che amate nello specifico – una comunità, un’istituzione, un luogo selvaggio, una specie in difficoltà – e a rallegrarvi per i vostri piccoli successi. Ogni cosa buona che fate è presumibilmente una protezione contro un futuro più caldo, ma la cosa davvero importante è che è buona oggi”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Costruire la vita: Nino Dolfo rivisita la storia di Giacomo, protagonista del racconto-testimonianza di Carlo Simoni

Giacomo Usardi. Il ritorno alle sue origini

La storia di Giacomo Usardi, gardesano doc, figlio di mezzadri e promessa della boxe. Dopo un terribile incidente si è rimesso a studiare ed è tornato alle sue radici

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Il tempo che passa non gli ha imprugnito il volto. Oggi, a 78 anni, Giacomo Usardi ha la pelle tostata dal sole, tutti i suoi denti, il corpo stagno e lo stesso peso di quando a 16 anni tirava di boxe, categoria medio-massimi, e fu adocchiato da Bruno Amaduzzi, manager della scuderia di Nino Benvenuti. Avrebbe potuto, chissà, diventare una gloria del pugilato nazionale, ma il destino per lui aveva in serbo un altro progetto.

Di Italie ne ha viste tante passargli sotto gli occhi. E poiché lui è un fabulatore consumato, come disceso dai lombi di un antico filò, potrebbe raccontarvele tutte. E allora la sua voce si fa epos, narrazione quasi mitologica, coniugando la sua umile vita con i grandi eventi, il microscopico con l’universale. Giacomo è un uomo che può voltarsi indietro con fierezza: non ha buttato via nemmeno un’ora dei suoi giorni. «La grandezza di un uomo — ha detto Ludwig Hohl, scrittore svizzero amato da Dürrenmatt e Handke — è proporzionale alla grandezza del passato che riesce a risvegliare». E il passato investito in memoria è il capitale umano di Giacomo.

È venuto al mondo a Gaino, frazione di Toscolano, entroterra gardesano a vocazione rurale ai margini del turismo costiero. I suoi erano mezzadri e i figli dei mezzadri avevano allora davanti il medesimo avvenire dei genitori, tanto valeva abitarcisi fin da subito, dando una mano in campagna, andando a lavorare per i padroni o per altri mezzadri, a «fa ‘l famei»: cavar l’erba dalle vigne, portare a pascolare le capre, ristorare con l’acqua fresca i falciatori. La miseria contadina non contemplava vacanze negli anni dell’immediato dopoguerra: bisognava stringere i denti a culo stretto, ma tenere anche in caldo la speranza, pronti al balzo, a cogliere l’assist della fortuna. Nel 1957 viene assunto come operaio in cartiera. Turni oberanti, anche dodici ore al giorno se non arrivava il cambio, si mangiava in piedi la pastasciutta in gavetta senza smettere di lavorare. Col suo primo salario in famiglia arriva la bombola del gas, prima anche il caffè si faceva sulla brace. E sempre pescando dal suo gruzzolo di piccolo risparmiatore si compra una bicicletta di seconda mano, un’Atala, cui applica un manubrio da corsa, suggestionato dalle imprese di Bartali e Coppi.

Lo sport assorbe l’argento vivo che Giacomo si sente addosso. Ogni giorno, dopo aver smontato dal turno, a cavallo di un motorino insieme ad un amico e poi da solo con l’autobus, raggiunge la palestra Tomasoni a Brescia, per calcare il quadrato e prendere a pugni il sacco da pugilato. Il suo battesimo agonistico sul ring — a soli 17 anni — avviene al vecchio stadio Rigamonti. Giacomo è veloce, tecnico, ma non abbastanza tempo allenato. È una bella promessa da coltivare. Ma quando Bruno Amaduzzi gli propone l’ingaggio per una tournée americana al seguito di Benvenuti, lui dice no grazie, perché teme di perdere il posto sicuro in cartiera.

Nel 1961 parte per il servizio di leva, artiglieria da montagna. Dopo il congedo, si rende conto che fare l’operaio in fabbrica è un futuro che gli sta corto. Consegue il diploma di terza media alla scuola serale di Salò, studia da fisioterapista e in quel mestiere part time si distingue con merito: lo chiamano occasionalmente da Villa Gemma e dall’ospedale di Gargnano. Poi, siamo nel 1978 — e da ormai dieci anni è sposato con l’Andreina — abbandona la cartiera e si butta nel commercio: venditore ambulante per mercati, ramo abbigliamento caccia e pesca. Un terribile incidente lo ferma in una galleria della Gardesana: esce vivo per miracolo, privo del furgone e del suo carico, ancora povero in canna. Giacomo non si scoraggia, gli rimane ancora una vita di scorta, l’ultima, quella che è più vera ed è sempre stata la sua. «La disgrazia — commenta — mi ha messo nelle condizioni di scegliere la vita che volevo, una vita migliore, economicamente sufficiente. Sono senza padrone, un uomo libero».

Torna alle terra, alle sue origini contadine, dopo aver completato corsi in Comunità montana, collezionando ulteriori diplomi. Diventa olivicoltore e in comodato d’uso recupera oltre quaranta ettari abbandonati in una zona in cui l’olio, quello del Garda, ha tradizione millenaria ed è una prelibatezza conosciuta in tutto il mondo. Riconosce casaliva e gargnano, due tipologie di olive del nostro patrimonio varietale del territorio a colpo d’occhio, tocca la corteccia come un terapeuta. Carlo Simoni, un Claude LéviStrauss più umanista, ha raccolto la testimonianza di Giacomo in un bellissimo libro (Costruire una vita. Una storia gardesana, Cierre edizioni) e lo ha paragonato a L’uomo che piantava gli alberi di Jean Giono. Vero. A me ricorda anche Il Joseph Wayne di Al Dio sconosciuto di John Steinbeck, che seppellisce la placenta della moglie sotto la quercia davanti a casa. Un atto di restituzione alla Natura, di cui l’uomo fa parte e non ne è antagonista. Nella sua aurea modestia Giacomo offre a noi, all’altro, con il suo lavoro per l’ambiente, ciò che l’uomo possiede di più limitato, e dunque prezioso, il suo tempo. E lotta perché il mondo rimanga com’era, come lo ha trovato. Lui sì blue & green.