Gian Mario Villalta, L’apprendista, SEM 2020 (pp. 228, euro 17)
Ipermercati che, dopo i negozi al minuto, si mangiano anche i supermercati; villettame che assedia un centro storico spopolato; capannoni abbandonati attorno all’abitato, svuotati dalla crisi che ha bloccato anche l’edilizia, tanto che le uniche cose che ancora si costruiscono sono le rotonde: siamo dalle parti di Pordenone, il paesaggio è quello ordinario di molto Nordest, e non bastano due ville venete, visitate da torme di turisti rassegnati e distratti, a sollevare le sorti del paese. Nulla che non si conosca già, dunque, non fosse per il punto d’osservazione, inconsueto: la chiesa. Tutto si vede e si racconta a partire da lì, perché i due protagonisti sono due vecchi sacrestani, l’ultraottantenne Fredi e il poco più che settantenne Tilio, sacrestano in capo il primo, investito del compito di servir messa; ancora “apprendista”, nonostante la rispettabile età, il secondo, che oltre a collaborare con il collega a tener pulita e in ordine la chiesa, raccoglie le elemosine.
Due personaggi che ricordano i flaubertiani Bouvard e Pécuchet, ha scritto qualche recensore, o – come hanno fatto notare altri, con maggior pertinenza – l’Estragon e il Vladimir di Aspettando Godot: uomini ai margini, persi in discorsi futili, almeno all’apparenza, che battibeccano a volte ma tornano sempre a rappacificarsi, legati da una dipendenza reciproca, immersi in un tempo sospeso, segnato solo dal cadere delle foglie nel capolavoro beckettiano, dalle ricorrenze liturgiche in questo romanzo.
E dunque, loro, il decadimento del paese lo leggono soprattutto nel rarefarsi della partecipazione alle messe, non escluse quelle celebrate in suffragio dei defunti; nel gelo che regna nella chiesa e gli scarsi mezzi a disposizione non permettono che di contrastare debolmente; nella malavoglia di chierichetti sempre più rari e attaccati al telefonino, fosse per loro, anche nell’esercizio delle loro funzioni; in innovazioni come le ostie per celiaci e la vendita esclusivamente on line dei generi prima venduti dai negozi d’arte sacra. Eppure, non si può dire vuota la vita dei due sacrestani, tutt’altro: se i loro dialoghi sono scarni, all’inizio soprattutto, i loro pensieri riempiono le pagine grazie al ricorso generalizzato a quell’espediente che permette alla voce del narratore di confondersi con quella dei suoi personaggi, il discorso indiretto libero. Via via li conosciamo bene quindi, Tilio e Fredi. Attento agli altri, il primo, animato da un desiderio di sapere che mescola la cronaca spicciola alle grandi questioni del mondo attuale, se pur solo orecchiate (“Vedrai che se viene il clima globale che tutti dicono le messe le fanno via Internet, così ognuno sta a casa sua, sui ventun gradi fissi”), ma che non arretra neanche davanti agli enigmi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Perché a suo modo è filosofo, Tilio: “Non si può vivere senza servire a niente”, “quando hai tutti i giorni liberi i desideri che avevi si squagliano (…). Oppure corri dietro ai desideri impossibili, ti incazzi con il mondo perché sono fuori portata”. Ed è qui, in questa saggezza frammentaria ma distillata dall’esperienza concreta della propria vita, che i due si incontrano, anche se è di tutt’altra pasta Fredi, uno di quelli che sta fermo in se stesso e non deroga alle regole. Tuttavia, pur se non segnato, come Tilio, dalla morte prematura della moglie e angustiato da un rapporto asfittico con il figlio, anche lui gravato di un passato che l’ha irrigidito in uno sforzo ininterrotto di “confermare a se stesso quello che è”. Il che non gli impedisce tuttavia, dietro lo stimolo talvolta invadente, al fondo amichevole del suo “apprendista”, di riflettere sul proprio stare al mondo, sulla caduta di ogni suo interesse. Una condizione che gli fa tornare alla mente il bambino che è stato, per il quale rimandare a domani equivaleva a negare un desiderio che esigeva di essere soddisfatto oggi, subito. Senonché, ormai, un domani non c’è più per un vecchio come lui, tanto più perché sente di non averli seguiti mai i propri desideri.
Per entrambi, tuttavia – per quanto sedentario da sempre Tilio; conoscitore di ambienti e di terre lontane, in passato, Fredi –, la chiesa ha rappresentato e continua a costituire un luogo sicuro, proprio perché non è una casa da cui si può esser tentati di evadere, alla ricerca di un altrove, ma è un “posto di passaggio”, dove “puoi pensare di essere sempre e solo partito, di partire ogni giorno”.
È in considerazioni, in sentimenti condivisi come questo che i due personaggi si incontrano: “Non è soltanto il fatto che sono soli. È che non sono disperati. Ci sono molte persone che sono sole e disperate perché sono sole. Lui [Tilio] e Fredi, questo avevano capito subito, erano soli ma non erano disperati, sapevano dare un ordine alla giornata, avere pensieri per ogni cosa, ma avevano perduto la letizia del cuore. Non potevano fare nulla l’uno per l’altro, se è per questo, non c’erano dubbi, ma si erano incontrati”. E resteranno vicini, sempre più vicini nonostante le scontrosità e le ritrosie di Fredi, che alla fine – com’è nell’ordine delle cose, essendo il più vecchio – se ne andrà, per cui al suo compagno non resterà che pensare – nel suo schietto materialismo che pure non gli ha vietato di essere a modo suo uomo di chiesa – che no, non è andato da nessuna parte, Fredi, perché “tutta la sua vita, tutte le cose che ha fatto e che ha visto, tutte le parole che ha detto sono nel buio di questo corpo disteso”.
Toccherà dunque a Tilio servire il sacerdote celebrante, ma l’amico non lo potrà vedere, perché si tratterà del suo funerale. Forse sarebbe eccessivo riconoscere l’universalità di figure come quelle di Estragon e Vladimiro in Tilio e Fredi. È certo però che quando chiudiamo il libro abbiamo l’impressione di non aver letto solo di due sacrestani veneti.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.