Paolo Pagani, I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo, Neri Pozza (pp. 368, euro 13,50)
“Non è possibile separare l’esposizione del pensiero di
Wittgenstein dal racconto della sua esistenza”, e questo vale anche per gli
altri autori presi in considerazione da questo “itinerario geografico e mentale
insieme”. Una ricognizione storica, topografica e passionale” che non si limita
tuttavia a schierarsi conto chi – con buona pace di Proust – sottovaluta o nega
addirittura il nesso fra opera e biografia: un nesso altrettanto decisivo è
quello che lega il pensiero e il luogo, “l’ambiente in cui le idee prendono
forma”. Per cui non è un semplice frutto della curiosità “Sapere che cosa si
vede da certe finestre” delle case abitate dall’autore del Tractatus, “capire tutte le case spoglie di Ludwig, i suoi alloggi
di fortuna, le scelte di eremitaggio”; oppure “girovagare tra gli ambienti che
hanno fatto da quinta allo scrivere e al leggere” di Thomas Mann, “per cercare
tracce, in quei luoghi, del suo pensare laico; della storia del suo tempo;
delle sue idee sul futuro; della sua etica e della sua estetica”. “Perché c’è
un’aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che si impara ad ascoltare”,
“una forza gravitazionale silenziosa e prepotente” cui non si deve resistere.
Così avviene se si raggiunge la Hütte, la baita nella quale
Heidegger amò abitare per lunghi periodi, e ci si ferma a guardare silenziosi “La
radura placida e gli alberi immobili, lo stesso panorama che Heidegger
osservava scrivendo, che trattengono l’identica energia evocativa, conservata
intatta in una ieratica semplicità per quasi un secolo”: quel rifugio, quelle
“mura domestiche”, “sono parte integrante dell’opera di chi ci ha vissuto”. È
un “legame ontologico” quello che lega il luogo all’opera: “geografia che
mostra a se stessa un pensiero e pensiero allacciato a una zolla geografica;
sfondo materiale di un filosofare che sa custodire e dire un misterioso
sapere”.
Non diversamente, la laboriosa elaborazione della teoria
evoluzionistica sembra rappresentarsi nel “sentiero sabbioso che il re dei
naturalisti usava da mezzogiorno in punto come thinking pad, o percorso personale di meditazione”. “Pensava
camminando”, Charles Darwin, lungo quel “sentiero che correva intorno a un
boschetto che aveva piantato con le sue mani; e sembrava fosse sempre un
percorso lunghissimo, partendo da casa”.
Persino quando il luogo è mutato vale la pena visitarlo: la
casa natale di Spinoza, ad Amsterdam, non c’è più, ma quell’assenza sembra dire
delle peregrinazioni cui la sua famiglia fu costretta come della proscrizione
che colpì lui stesso, che ci appare nel monumento che sorge non distante, “lo
Spinoza di bronzo (che) luccica come un simbolo indiscusso”.
Non solo di luoghi parla tuttavia questo libro: oltre che trattare di “Dove hanno speso le loro esistenze e come”, l’autore si diffonde su che “cosa ci hanno detto, dove giacciono, perché ricordarli”: Spinoza e Cartesio, Leibniz e Newton, Darwin e Marx, Wittgenstein, Heidegger e Arendt, Keynes e Mann. E di molti ci resta memoria, oltre che di un luogo privilegiato, di una cosa che sembra far corpo con il personaggio, dal celebre melo di Newton alla scrivania su cui Mann scrisse, sempre, in tutte e dieci le case che abitò.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Mentre scrivevo il libro, mi pareva di vedere ancora mio padre, e l’atto della scrittura sembrava alleviare il trauma e il dolore per la sua morte. Eppure, quando ho finito il libro, è stato come se non lo avessi mai scritto. Tutto era come prima. Comporre quel ritratto non era servito a niente. Scrivere non è una terapia. (…) Ho scritto quel libro quando avevo metà degli anni che ho adesso, eppure penso ancora di continuo a mio padre”. (Paul Auster)
Paola Baratto, Lascio che l’ombra, Manni 2019 (pp. 125, euro 14)
Dopo aver letto,
a poche pagine dall’inizio, il corsivo che sembra far da controcanto alla
narrazione, corri avanti a verificare se nel testo ne compaiono altri, e vedi
che parecchi dei capitoli sono conclusi da altri, analoghi brani. Scacci la
tentazione di leggerli di seguito, anche se è lì che senti che il libro ti
tocca più da vicino. Non salti dunque da corsivo a corsivo scavalcando le
pagine in tondo, e la tua rinuncia è presto compensata dalla presa che
l’intreccio via via fa su di te. Anche la vicenda di Aris ti riguarda, in
qualche modo: il suo scrivere appartato, il suo non adeguarsi alle logiche del
pensiero unico che governano la comunicazione, senza per questo trincerarsi
nell’identità dello studioso accademicamente affermato ma mantenendo invece la
disponibilità a misurarsi con l’indifferenza e l’incomprensione, la
superficialità sbrigativa della fiera del libro che si anima solo per l’ospite
di sicuro richiamo, la pantomima straniante del talk show spacciato per
dibattito.
La cultura di
Aristide Dal Pozzo, di antropologo del contemporaneo, di sociologo che non
s’accontenta di statistiche, non può bastare a preservarlo dalla frustrazione,
non gli offre strumenti in grado di smontare l’imperativo alla semplificazione
volgare cui ogni discorso sembra ormai doversi ridurre per avere una sia pur
effimera cittadinanza. Ma lui non è uno di quegli scrittori che se la
raccontano – come del resto la narratrice, che si è messa sulle sue tracce dopo
che, tre anni prima, è scomparso all’improvviso senza lasciare traccia. Anche
lei, Giulia Malavasi, testardamente, appassionatamente dedita a quel «mestiere,
già di per sé così vago» che è lo scrivere, e intollerante dei consigli di conoscenti
ben intenzionati: «scrivi, ma per te stessa», oppure «fatti un blog». Il fatto
è che si scrive sempre per gli altri, per «trovare la
propria umanità e il proprio legame con gli altri esseri umani», stando a Paul Auster (e non diversamente si
esprimeva Umberto Eco: «Io non sono uno di quei
cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa
che si scrive per se stessi, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato
le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la
scrivi per dire qualcosa a qualcuno»). Aris non era certo di diverso parere, e così Giulia.
Ma dove sono finiti, gli altri? Non solo
quelli che amano esclusivamente intrattenere
ed essere intrattenuti, ma anche
coloro che sembrano voler tenere alta la bandiera dell’impegno e dunque nobilmente, sdegnosamente si pongono il
fatidico quesito: «Verrebbe da chiedersi dove sono finiti gli intellettuali». Il
ritaglio di giornale che riportava queste parole, proferite da un ex ministro
della Cultura, è stato, chissà quando, sottolineato da Aris e costellato di
punti esclamativi tracciati con tanta rabbia da aver rotto la carta. Rabbia
contro la protervia di un establishment politico e culturale che gli
intellettuali non li sente e non li vuol sentire, che li dimentica ancor prima
che scompaiano, che ipocritamente rovescia su di loro la propria cattiva – e
ormai esilissima – coscienza, salvo denunciare la voglia di visibilità degli
intellettuali che prendono la parola, o il loro esser costituzionalmente bastian
contrari, anime più o meno belle e comunque fuori dal mondo nel momento in cui non
rinunciano ad assumere pubblicamente le movenze di quello che si chiamava, e
non si può chiamare altrimenti, che pensiero
critico, come quello praticato da Aris. Un pensiero sempre teso,
indipendentemente dal suo oggetto, «a delineare con spiazzante lucidità gli
scenari presenti».
Un intellettuale
del genere, se scompare, lascia un vuoto al quale non ci si può rassegnare,
tanto più se la propria aspirazione è quella di continuare a scrivere, come fa
Giulia, o a studiare per comprendere un passato che, per il fatto di essere
locale, non necessariamente è già in partenza terreno di inevitabili quanto facili
mitologie localiste, il passato che ha appunto coltivato per tutta la vita
l’ormai attempato professor Console.
Sono loro due a
cercarlo ancora, Aris, a spiarne tracce labili, al limite dell’inconsistenza,
nelle pagine da lui frequentate nel periodo precedente la propria sparizione. Tracce
dalle quali sembra emergere un filo di speranza, per quanto paradossale, sostanzialmente
inconciliabile con il solido razionalismo del professore così come con il laico
disincanto della scrittrice, e pure capace non semplicemente di incuriosire, ma
di affascinare. Senonché, ancor prima
dello sguardo pensoso della figura che campeggia nell’incisione di Dürer riportata
sulla copertina di un noto saggio sulla melanconia – l’ultimo libro, forse, nel
quale Aris ha cercato risposte – sono quei corsivi a dire l’irrimediabilità
della situazione nella quale lui si è sentito sprofondare, e insieme la progressiva,
lucida, autodistruttiva adesione alla domanda non detta, ma di fatto rivolta con
perentorietà sprezzante agli intellettuali, di farsi da parte, di tacere.
Meglio: di sparire.
«Giorno dopo
giorno, mi sto perdendo…», lo si è sentito dire dopo la deludente presentazione
di un suo libro. Perché lui, lo scopriamo alla fine – senza sorprendercene,
perché lo sentivamo, in qualche modo – è l’autore di quelle pagine brevi e dense
dalle quali fin dall’inizio ci siamo sentiti raggiunti. Pagine che non
riguardano solo l’intellettuale, si badi, ma chiunque non si rassegni alla
cancellazione tendenziale dell’individualità, della specificità che fa di
ognuno un essere unico, uguale e diverso dagli altri, e come tale capace di
opporre resistenza all’omologazione, di negarsi al «minuetto di banalità» nel
quale siamo immersi, alla chiacchiera assordante dei media come a quella ubiquitaria e pervasiva dei social; di
conservare quel quid che non accetta di
sciogliersi nella dilagante, acefala schiera di figuranti della spettacolare
messinscena planetaria del consumo. Per cui «si preferisce scappare, non
esserci. (…) E ci si nasconde, iniziando così a scomparire», da un presente che
appare sempre più «un luogo inospitale», inevitabilmente fonte di «disarmonie
con chi ci circonda». Del resto, «Non parlare di sé rende invisibili». È così
che «Arriva il momento in cui si fatica a riconoscersi (…) E a poco a poco si
scompare anche ai propri occhi».
Un pamphlet, dunque, sia pure in forma narrativa, quello di Paola Baratto, un generoso, rinnovato Plaidoyer pour les intellectuels di sartriana memoria? No, un romanzo. Un romanzo, che fonda certamente la sua capacità di coinvolgere il lettore sull’originalità della vicenda e la radicalità del giudizio, ma deriva la sua forza persuasiva dalla qualità di una scrittura ricca dell’esperienza dei romanzi pubblicati (otto, prima di questo) e passata negli ultimi anni attraverso il filtro dei brevi, essenziali racconti di Giardini d’inverno e Tra nevi ingenue.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Eric-Emmanuel Schmitt, La vendetta del perdono, edizioni e/o 2018 (pp. 253, euro 18)
Il piacere di leggere, quello che abbiamo conosciuto
da bambini, appena abbiamo cominciato a saperlo fare; ma soprattutto dopo, da
adolescenti, quando poveri di riferimenti e liberi dall’obbligo di giudicare,
ci affidavamo solo a quello. Al piacere di passare da una pagina all’altra
trascinati da quella forza indefinibile che parole e avvenimenti sanno intrecciare
in una trama che coinvolge e diverte, commuove e, perché no, rappresenta in una
storia i lati migliori degli umani.
Tutto qui: Schmitt sa coltivare questo piacere. Nello scriverli questi racconti, innanzitutto, lo si intuisce. Sembra lì a leggere con noi la vicenda delle due gemelle, Caino e Abele al femminile (con finale a sorpresa), o la storia eterna del conflitto fra amore assoluto e razionalità cinica in Madamina Butterfly; così come lo vediamo rendere l’originale omaggio a Saint-Exupéry del quarto racconto, ma soprattutto mantenere la coerenza, ferrea senza perdere in un’umanità, della protagonista del terzo, che dà il titolo alla raccolta.
Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi 2018 (pp. 195, euro 17,50 )
“Concepire racconti dove il piano della realtà si confonde
con quello della finzione è un gioco molto rischioso”, osserva l’autore, ammettendo
che si tratta di “un pericolo che conosc(e) fin troppo bene”. Ma, del resto,
attenersi ai fatti non è una soluzione, perché “quando indaghiamo un fatto lo
troviamo già aggiustato” e “a noi non resta che fare i conti con qualcosa già
diventato memoria, verità plasmata, aggiustata”. Il che non impedisce, anzi:
comporta necessariamente, che l’autore si comprometta con ciò che vorrebbe
narrare: “Il problema – tuttavia – non è la compromissione in sé, che è
inevitabile e per molti versi irrinunciabile e fruttuosa. Il problema sono la
natura e il livello di questa compromissione, ovvero se siamo in grado di
gestirla, di evitare che ci travolga e che prevalga in noi lo spirito di
vendetta”, dal momento che “qualunque racconto implica anche un intento
vendicativo di qualche tipo o almeno risarcitorio.” Di qui, la “maledizione di
dover raccontare”, una maledizione che non colpisce solo l’autore o, più in
generale, gli scrittori, ma ha assunto il carattere di una malattia epidemica,
la “malattia del nostro tempo: tutto viene convertito in racconto o
comunque pensato in termini narrativi, anche fuori dalla letteratura (…). Nel
parlare corrente narrazione è
diventato ormai sinonimo di dire.”
La riflessione sulla scrittura, su quella romanzesca in
particolare, percorre il racconto che, nonostante la dichiarata consapevolezza
della rischiosità del gioco della finzione sembra davvero travolgere l’autore. E non importa quanto lui ne sembri
soddisfatto. La messa in scena dell’autore da parte dell’autore stesso, il fare
del gioco della scrittura l’oggetto della scrittura stessa non sono di per sé
stucchevoli, ma forse occorre aver la leggerezza,
il sorvegliatissimo senso della misura del calviniano viaggiatore di una notte
d’inverno… La leggerezza e la misura
necessarie per farsi seguire dal lettore, per contagiarlo del piacere che
l’esperimento offre allo scrittore, e non ci sono scorciatoie in questo: non basta,
all’inizio di un nuovo capitolo, a metà del romanzo, avvertire chi legge che “Semmai
non fosse ancora evidente, la voce di questo libro non è più la stessa”, e di
affiancare al personaggio alter ego dell’autore l’autore stesso intrecciandone
vicenda e discorsi con la storia di Michelangelo Merisi. Nulla da obiettare alla
forma del romanzo-saggio, ma qui il romanzo e il saggio sembra, soprattutto
nell’ultima parte, che se ne vadano ognuno per la sua strada, proponendo una
giustapposizione più che un intreccio, un continuo cambio di registro più che
una commistione suggestiva dei piani del discorso. È il postmoderno, bellezza,
qualcuno potrebbe obiettare – Tommaso Pincio è pseudonimo ricalcato, non a
caso, sul nome di uno degli alfieri del postmoderno, Thomas Pinchon –, ma la
constatazione sarebbe lontana dal richiamare motivi di un piacere della lettura
che fosse prima sfuggito.
Eppure.
Eppure, arrivato alla fine del romanzo, alcuni tratti dei personaggi restano in mente: dalla malinconia, il cui marchio si riassume nello scoprirsi sempre, fatalmente, spettatori di se stessi, alla connessa mancanza del “dono di saper vivere”, del non sapersi muovere nella vita come pesci nell’acqua, tendendo invece a osservarsi, senza mai coincidere con la vita. La vita. La vita e la sua “architettura” che “si fonda sulle attese”: “Il sipario si alza sui beati anni in cui ti balocchi con quel che farai da grande. Poi, a questa prima e dolcemente tragica fase – perché non c’è infanzia, credo, che non riveli in sé un che di tragico – subentra la seconda, in cui, non più bambino ma comunque giovane, non smetti di crogiolarti, convinto che il meglio debba ancora venire. Infine (…) la fase nella quale, scoperto che il momento in cui diventare grandi è trascorso da un pezzo e non si ha più niente da attendere, si depongono le armi e l’eventualità della morte appare non dico gradita ma almeno una crudeltà non così priva di giustificazioni”. Passaggio come questo non riscattano forse l’intero romanzo, ma impediscono di abbandonarne la lettura, e la perseveranza è premiata con altre pagine che viene voglia di trascrivere, come quella sul “tempo in cui viviamo”, cui si attribuisce “la semplice forma di una linea retta lungo la quale lo scorrere degli attimi si muove senza inversioni o tentennamenti in un’unica direzione, dal passato verso il futuro”, con la conseguenza che “la forma del presente sarà sempre un punto, una circonferenza di colore nero e dimensioni astratte, un pallino ideale e assoluto simile a quelli che poniamo al termine di ogni frase. È mai possibile?, dico io. Una dimensione misteriosissima qual è il tempo ridotta a una sequela di insulsi pallini che procedono in fila come stupidi indiani?” No, non è, non può essere così: “il tempo, questo sconosciuto” è una y. “Ogni attimo, ogni singolo istante della vostra esistenza ha questa forma, che è poi la forma di un bivio, di una via che si divide in due (…). Uno dei due bracci, non importa quale, tende al buio, a ciò che in un dato momento non è. L’altro conduce (…) dove lo stesso momento di cui sopra si distende per rischiararsi di luce propria, illuminandosi per quel che è, per come accade. (…) Una cosa o accade o non accade. Unite l’accadimento e il suo contrario all’incertezza che li precede e avrete i tre segmenti di cui è composto ogni singolo attimo. Il tempo non è che l’eterno perpetuarsi di un bivio; unite gli attimi di cui è composta la vita di una persona e avrete la forma del suo destino, una specie di filo che varierà da individuo a individuo, secondo le infinite possibilità dell’esistere, ma che manterrà l’aspetto di un filo spinato, là dove per spine devono intendersi le deviazioni non prese, le possibilità abortite, ciò che poteva essere e non è stato”.
“La storia è un divenire progressivo fatto di piccoli slittamenti, di presagi minimi prima di diventare destini collettivi, e più sono piccoli più occorre saperli intercettare e raccontare. Per questo si scrivono i romanzi: perché tutti, nessuno escluso, possano leggere delle piccole o grandi storie di cui è fatta la storia e si sentano meno soli nel secolo che è loro toccato in sorte”. (Dario Olivero)
Silvio Perrella, Io ho paura, Neri Pozza 2018 (pp. 124, euro 15)
“Una collezione di pensieri raccontati”. O anche: “uno Zibaldone di paure”, il “diario di un mese trascorso in un luogo di paure naturali”. L’autore stesso tenta ripetutamente di definire il libro che sta scrivendo, che ha scritto: ha promesso all’editore un libro sulla paura, sulle paure anzi, e per farlo è andato in un luogo di mare dove sopravvivono, appunto, “paure naturali”, quelle che un oggetto ce l’hanno, un oggetto che si può nominare, e che quindi i pescatori del posto non dimenticano ma sanno “celebrare com’è giusto che sia”. Non negare, non rimuovere. Anzi: le paure fan parte della vita, se la vita non è stata privata dell’invisibile. Dove tutto pretende di essere visibile, invece, e si dice che non si più paura, di niente, le paure dilagano, distruggono le relazioni, ci rendono soli, e sudditi. Sono le paure che non hanno nome, solo un acronimo se mai (AIDS, ISIS) e quando un nome parrebbero averlo è come non l’avessero: Migranti non evoca persone, ma solo un pericolo. Una paura appunto, una di quelle “fabbricate”. Perché la paura si può fabbricare su scala industriale: “Non c’è oggi fabbrica più fiorente”. Non occorre pensare a un maligno Grande Fratello: basta considerare che le paure, nate da fonti diverse e scoordinate, alla fine “tendono a fare sistema”, e a insinuare un’inquietudine incomunicabile. Qualcosa di indefinibile che “Sta a cuore a io e sta a cuore a tu. Ma non riusciamo a farlo stare a cuore a noi.”
Il luogo, fra nuotate e racconti dei locali, fa emergere “il tempo dell’oggi” nella sua insensatezza fatta di paure. Paure contro le quali occorrerebbe “una presa d’atto delle nostre ignoranze”, terreno fertile dei fabbricanti di paure: occorrerebbe “una messa in comune di quel che non sappiamo, e un tentativo di costruire conoscenze condivise. I tempi del mondo sono così tanti, anche in epoca di cosiddetta globalizzazione, e sarebbe importante fare studi di polifonia. Oggi bisognerebbe diffondere Bach; fare ascoltare le sue fughe, quel modo di intrecciare le voci mettendole in rapporto. Senza che l’una debba prevalere sull’altra.” Un romanzo? Un saggio? Un libro senza una forma precisa: come le paure di cui vuole parlare.
Luigi Guarnieri, Forsennatamente. Mr Foscolo, La nave di Teseo 2018 (pp. 205, euro 17)
Gabriele Dadati, L’ultima notte di Canova, Baldini+Castoldi 2018 (pp. 343, euro 18)
Simona Baldelli, L’ultimo spartito di Rossini, Piemme 2018 (pp. 381, euro 18,50)
Che fosse antipatico di suo, pare accertato, e il
giudizio era assodato anche prima che Gadda facesse del “vispo Nicoletto” il
bersaglio del suo sarcasmo in Il Guerriero, l’Amazzone, lo
Spirito della poesia nel verso immortale del Foscolo (Adelphi 2015), attribuendo al poeta “una prosopopea insopportabile e una cialtroneria da
intrigante mandrillo”.
Non pare discostarsi da questo atteggiamento Luigi Guarnieri,
che del trentottenne Niccolò Foscolo, detto Ugo, racconta gli anni dell’esilio
a Londra: “attore istrionico e grande oratore”, “incanta e stupisce con la sua
forsennata vivacità”; “agghindato alla moda del periodo come un dandy”, “ai
ricevimenti e ai balli è un figura che s’impone: circondato dall’aureola della
celebrità letteraria, scandaloso come lo saranno solo le rockstar negli anni
Settanta del Ventesimo secolo, autore di un patetico romanzo di successo su un
amore infelice [Le ultime lettere di
Jacopo Ortis], è carismatico nel suo soprabito di panno azzurro coi bottoni
dorati, il cappello di pelo di castoro…”.
Ma è, e sempre più si rivelerà, solo apparenza: l’uomo è
malandato fisicamente, spendaccione e assediato dai debiti (fino a conoscere la
prigione per insolvenza), impacciato dal suo poco e cattivo inglese, e dunque
non può stupire che il suo ingegno sia “arrugginito dalle infermità e dai
guai”. Nonostante la sua sgradevolezza è comunque per la sua sorte che il
grand’uomo sollecita una solidale compassione nel lettore, dunque? No, al
contrario: più la storia delle sue disgrazie e dei suoi mali procede, più si ha
la sensazione che il racconto sottintenda un implicito ben gli sta. E non attenuano certo il giudizio i frequenti flash
back che completano la biografia risalendo agli anni precedenti: Foscolo è da
sempre sopra le righe, pieno di se stesso, autore di innumerevoli quanto
“esaltate” lettere d’amore, profittatore e ambiguo nei rapporti sentimentali
come in quelli con la figlia naturale e con i familiari lontani e sempre
vanamente in attesa di un suo aiuto.
Com’è possibile che un uomo simile scriva quelli che Guarnieri
stesso definisce “assoluti capolavori”, come Alla sera e A Zacinto? La
domanda non si pone, la questione del rapporto fra l’uomo e la sua opera non
pare proprio tra quelle che interessino Luigi Guarnieri: quello che si potrebbe
ritenere un nodo ineludibile per chi scrive della vita di un artista pare
ignorato. La biografia conferma lo stereotipo, e questo pare bastare.
All’autore, quantomeno.
Diverso il risultato cui giunge un altro romanzo pure dedicato
alla fine di un grande creatore. L’Antonio Canova che emerge dalle pagine di
Dadati non è quello che avevamo già in mente. È un uomo che, giunto alle sue
ultime ore, risponde al desiderio estremo di evocare il proprio passato e
giudicare il proprio operato, senza paura del dolore che gliene verrà. I flash
back, qui, sono conseguenza di questa volontà, e dunque risultano
narrativamente necessari: ne escono scene vive dell’età napoleonica, personaggi
non schiacciati sull’immagine codificata. A cominciare da Napoleone,
protagonista della storia – insieme alla sua seconda consorte, Maria Luisa – al
pari di Canova. L’uno e l’altro, l’imperatore e l’artista, accomunati dal
destino di figli orfani del padre e di uomini che non avranno figli: “alberi
senza radici, alberi senza fronde. In questo, dunque, da considerare fratelli”.
Uno sguardo disincantato e risolto sulla vita e sugli uomini
attraversa l’intera narrazione, giungendo alla conclusione che “occorre
imparare questo: ad aprire le mani, e lasciar andare i propri morti. Non
bisogna trattenerli, dopo che hanno smesso di far parte di questo mondo, perché
se no si vive in perenne tristezza.”
Romanzi biografici come questo sembrano smentire la convinzione di Borges secondo la quale “che un individuo voglia risvegliare in un altro individuo ricordi che non appartennero che ad un terzo, è un paradosso evidente.” Per cui, “realizzare in tutta tranquillità questo paradosso, (sarebbe) l’innocente volontà di ogni biografia.”
Lo stesso si potrebbe dire di un terzo romanzo nel
quale è un musicista a vivere l’ultima stagione della propria vita, Gioacchino
Rossini, evocato sulla base di una documentazione rigorosa e felicemente
tradotta in racconto, secondo un metodo che l’autrice stessa richiama nella
nota finale: “scrivere un romanzo, benché storico, non è solo inanellare
aneddoti. Occorre trovare una crepa in cui infilarsi e, pur nel rispetto del
personaggio, introdurre la propria voce”. La voce del narratore che cerca di
stabilire un nesso credibile fra la vicenda umana e la produzione artistica
dell’uomo: detto in altre parole, da dove viene la vocazione a divertire di
Rossini, e da dove la sua perenne fragilità, la sua paura di veder crollare da
un momento all’altro la sua straordinaria popolarità, le sue cadute frequenti
nella depressione, in certi periodi non attenuata neanche dal gusto smodato
della tavola? È già alla sua prima esibizione al fianco della mamma, cantante
per necessità, che il settenne Gioacchino capisce che il pubblico vuole vedere
gente allegra sul palcoscenico: lui “li avrebbe accontentati. Mai avrebbero
saputo della carestia in casa, la tristezza della tavola vuota, del padre in
galera e le mani della madre bucate dall’ago. (…) Avrebbe sorriso, sempre. A
costo di fare la scimmia ammaestrata”. Ma lui è ben altro. Il Mozart e il
Beethoven che escono dai quadri appesi alle pareti della sua camera di malato
terminale dialogano con Rossini, il musicista che richiesto di dire chi fosse
il più grande musicista di tutti i tempi rispose senza esitare: Beethoven, e alla sorpresa di chi gli
aveva posto la domanda, al corrente come tutti della sua predilezione per
Mozart aveva risposto, serafico: Mozart
non è un musicista, Mozart è la musica.
“Il concepimento è ben poca cosa rispetto al parto. Intendo dire che, fino a quando non sono state assorbite in una strategia narrativa d’insieme, le mie ‘idee’ – sul sesso, il senso di colpa, l’infanzia (…) – non erano diverse da quelle di chiunque altro. Tutti hanno ‘idee’ per romanzi; la metropolitana è piena di persone che si reggono alle maniglie rigirandosi per la testa idee per romanzi che non riusciranno mai a scrivere. Spesso anch’io sono uno di loro.”
Franco La Cecla, Essere amici, Einaudi 2019 (pp. 124, euro 12)
Che cos’è l’amicizia, innanzitutto: la sua indefinibilità, la sua “inafferrabilità” e insieme gli aspetti che possiamo ricavare dall’esperienza che ne facciamo percorrono le pagine del libro. Sin dall’inizio: “un’attrazione, un legame più o meno forte, che è come una parentesi fra tutte le altre relazioni formali o formalizzate, la famiglia, il mondo del lavoro, il mondo della politica. È un fuori salutare, un potersi chiamare fuori ogni tanto, una valvola di sfogo dagli impegni, un appoggio non richiesto ma possibile (…) apparentemente un fatto “meno importante” (e qui sta la poca perspicacia delle nostre società), un fenomeno a margine delle cose che contano. In realtà dietro a questa svalutazione, che è l’opposto di quanto il mondo antico sapeva, c’è una strategia interessante”, implicita, inconsapevole ma decisiva: “resistere alla famelica intrusività della società contemporanea.” La colonizzazione degli spazi informali che pratica ad esempio Facebook: il desiderio di amicizia non è l’amicizia, lo diceva già Aristotele e quella che ci offre il social è una “solitudine affollata”, frutto di “puro latrocinio”. Facebook “ci espropria del lavoro vitale che è quello di intrattenere rapporti, la costruzione quotidiana della nostra società intima e allargata.” Il che risulta tanto più grave se consideriamo che l’amicizia è “il campo costituente” delle moderne democrazie, “proprio perché precede ed è la condizione sine qua non del legame libero tra i cittadini”. Libero, come l’amicizia appunto, che non è tale se non è revocabile, in ogni momento, per le più diverse ragioni. Non garanzia ma reciprocità: le due caratteristiche essenziali di un legame, soprattutto nelle società occidentali di oggi, più forte della parentela spesso: “La relazione tra amici è più intima di quella che c’è tra fratelli”, secondo un detto cinese: “perciò gli amici si chiamano tra loro fratelli e i più intimi tra i fratelli sono amici.”
Osservazioni calzanti, che fanno riflettere, ma anche racconto di un sentimento che le parole fanno fatica a circoscrivere. E allora occorrono le metafore: “L’amicizia è l’esperienza di uno stare al balcone del presente non sapendo, mentre la si vive, che quello è il presente. C’è in essa una costituzione del tempo come riflesso nel presente di un tempo comune”, “un ambito dentro il quale il mondo può essere commentato”, magari cazzeggiando, ricorrendo a “quel parlare che è un gioco in sé”, il segno di una complicità, l’esito felice di una scommessa “rispetto all’idea che in fin dei conti siamo soli al mondo”, la conferma della possibilità di una relazione capace persino di travalicare la morte: “Cosa importa che Čechov sia morto? Per l’effetto che egli ha su di me conta molto poco. E questo vale per l’amicizia in generale. Essa non viene cancellata dalla scomparsa dell’amico o dell’amica, ma rimane fluttuante come garanzia di un mondo condiviso.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Carlo Carabba, Come un giovane uomo, Marsilio 2018 (pp. 174, euro 17)
Sono tanti i romanzi che in esergo richiamano la Recherche, pochi quelli che ne ricreano con esiti il più delle volte suggestivi la relazione con il presente e il passato, e addirittura il periodare denso di similitudini: “Nel corso degli anni, ormai cresciuto, avrei tentato più volte, passeggiando o correndo, di risalire a quel tempo smarrito, sperando che il contratto con lo stesso suolo che avevo visto coperto di bianco – come nelle fiabe la ripetizione di un gesto familiare rivela alla principessa smemorata che è tornata a compierlo le sue nobili origini e che non è quella che sta vivendo l’esistenza a cui è destinata – sapesse ritrovare la vibrazione originaria che aveva prodotto l’eco di ricordi che da tanti anni risuonava nella mia mente, restituendomi il centro perduto della reminiscenza e dell’oblio di cui ignoravo tanto e da cui tanto di quello che ero e sono dipende: la mia infanzia”.
Ma non sono solo incisi come questo a restituire
un’atmosfera proustiana: è lo sguardo che l’autore-protagonista rivolge al
mondo a far procedere la narrazione sui piani paralleli di ciò che avviene e di
quello che via via chi scrive ha provato, pensato, immaginato.
La relazione con il tempo, e dunque con la morte,
attraversa il racconto: non una riproposizione – che sarebbe necessariamente
velleitaria – di Proust, ma l’evocazione sommessa, e sorvegliata, del proustismo che abita ciascuno di noi.
Enrique Vila-Matas, Un problema per Mac, Feltrinelli 2008 (pp. 282, euro 19)
Un paradosso, a detta dello stesso Vila-Matas: un esordiente – anche se attempato imprenditore immobiliare fallito – che si propone di scrivere un romanzo postumo. Ma non solo: postumo e incompiuto. Non interrotto – dalla morte, come sarebbe giustificato pensare –, incompiuto, che è cosa diversa. Un libro che nasce all’insegna della falsificazione dunque, come del resto tutta la letteratura: “un modo di trasformare l’impossibilità di accedere a qualcosa di perduto in una possibilità o, quantomeno, di ricostruirlo, pur sapendo che non c’è più e che a nostra disposizione abbiamo solo la falsificazione”. Parole gravi, non fosse che – come tutte quelle che riempiono le pagine di questo romanzo – sembrano pronunciate per scherzo, per semplice amore del paradosso, appunto. Le parole di un aspirante scrittore che in cerca di un soggetto decide di riscrivere, migliorandolo, il romanzo di uno scrittore riconosciuto, suo vicino di casa, ma intanto, per farsi le ossa, si accontenta di tenere un diario. Il diario di questo suo cammino verso il momento in cui potrà considerarsi un vero scrittore. Anche se “puoi trascorrere anni a considerarti uno scrittore, tanto sicuramente nessuno si prederà il disturbo di venirti a cercare per dirti: ti stai illudendo, non lo sei.” Di qui si avvia la vicenda di questo ex imprenditore che non ci mette molto a rivelare di essere stato in realtà un avvocato, in una spirale di divertita falsificazione che non risparmia dunque neanche la sua identità, e che si dedica alla scrittura sapendo che “scrivere è tentare di sapere cosa scriveremmo nel caso in cui scrivessimo”, ossia che “in letteratura non si comincia perché si ha qualcosa da scrivere e a quel punto si scrive, ma il processo di scrittura propriamente detto è ciò che permette all’autore di scoprire cosa vuole dire.” Si tratta dunque, afferma programmaticamente l’autore, “di lasciarmi condurre alla scoperta del luogo in cui le parole mi vogliono portare.”
Un tracciato però c’è, ben chiaro, perché oltre alla falsificazione un’altra passione anima il protagonista: la ripetizione. È la ripetizione, del resto, a calarci nella vita, a “introdurci” nel tempo. Chi scrive non deve quindi temerla. Lo diceva anche Isak Dinesen. alias Karen Blixen: “La paura di ripetersi può sempre essere contrastata dalla gioia di sapere che si avanza in compagnia delle storie del passato.” Occorre coltivare il “piacere ripetitivo che non pregiudica nuove e inaspettate scoperte da parte di chi crea”, ed ecco allora la citazione, il rimando continuo ad altri autori che non può non richiamare Borges che in queste pagine vive anche grazie al tono di allusivo e a volte indecifrabile humour che le percorre. Fra i racconti scritti alla maniera di altri individuabili autori e che compongono il romanzo che il protagonista ha intenzione di riscrivere, ce n’è uno che dichiaratamente ripete Borges, e usa i suoi ricorrenti “stereotipi drammatici sottilmente parodiati”. Un romanzo sul romanzo, una scrittura che insegue la scrittura ma per sconfinare nella vita, perché ci sono “libri nei quali il lettore legge cosa gli sta capitando nella vita”. L’intreccio tra fatti reali e storie narrate ci accompagna in un gioco vertiginoso e sempre ironico fino alla fine, mettendoci a volte alla prova. Al punto da indurre l’autore stesso ad augurarsi “che il cielo dia pazienza al lettore” e gli permetta di seguire chi scrive fino all’epilogo della sua a lungo meditata sparizione nelle città e nelle oasi magrebine, dietro a una “lenta carovana di storie di voci anonime e di anonimi destini che sembrano confermare l’esistenza di racconti che si introducono nelle nostre vite e proseguono la loro strada confondendosi con esse.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Mori Ōgai, L’intendente Sanshō, Marietti 1820, 2019 (pp. 91, euro 10)
Quanti fratelli e sorelle popolano le fiabe che conosciamo, in qualche modo simili a Zuschiō e Aniu? E non mancano certo in questa storia le funzioni che Vladimir Propp enucleava nella sua Morfologia della fiaba, a partire dall’“allontanamento” che innesca il racconto della vicenda. Non di un racconto fantastico si tratta però in questo caso, ma di una leggenda che un medico militare giapponese vissuto fra Otto e Novecento, cultore della letteratura tedesca, riscrive in un’epoca in cui il suo paese conosceva profondi rivolgimenti politici e culturali, tali da mettere in discussione il passato e la tradizione. Il compito che Mori Ōgai si assegna è allora quello di rivisitare leggende con l’acribia dello storico, non per farne uno studio critico tuttavia, bensì per rendere il suo lavoro “del tutto contemplativo” e ottenere un “effetto di straniamento” – per il quale è stato accostato a Brecht – capace di ridare un senso attuale agli antichi racconti. Lealtà, onesta, sacrificio sono le coordinate di uno stile di vita che l’autore continuava a ritenere in grado di contrastare – come fa notare nella sua introduzione Maria Teresa Orsi – “un’etica sociale troppo rigida e irrispettosa dei diritti individuali”. L’etica con la quale si trovano a doversi misurare i protagonisti, una giovane madre che, con una figlia di quattordici, un figlio di dodici anni e una fedele servitrice, si mette in viaggio alla ricerca del marito, vittima dell’ingiustizia, ed è animata da uno spirito di fiduciosa ragionevolezza che esce confermato dall’incontro con persone semplici quanto giuste e compassionevoli, ma deve fare i conti con la doppiezza, l’arroganza, la violenza di potenti contro i quali, ad assicurare giustizia alla famiglia, interverrà la protezione di una divinità benevola, Jizō – protettrice sia dei bimbi dalla nascita travagliata o addirittura non realizzatasi e anche dei viaggiatori, ma che la nostra sensibilità potrebbe per certi versi accostare alla figura dell’angelo custode – e, infine, varrà il sacrificio della vita cui la figlia – richiamando un’altra figura, quella di Antigone – si sottopone.
Oggetto di reiterate rivisitazioni, la leggenda, proprio nella versione di Ōgai, caratterizzata dall’intento di ribadire l’irrinunciabilità dei diritti umani essenziali, ha conosciuto negli anni Cinquanta anche una trascrizione cinematografica che ha inaugurato in Italia l’interesse per il cinema giapponese.
Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai. La via giapponese alla felicità, Einaudi 2018 (pp. 169, euro 15)
La prima pagina elenca i “cinque pilastri dell’ikigai,
la seconda parla di Jirō Ono, “grande maestro” di sushi: uno dei soliti manuali
della felicità, sia pure in salsa giapponese, e che per fare esempi di chi è
riuscito ad applicarne le regole parte da uno chef. Il libro, appena sfogliato,
tornerebbe al suo posto sul bancone della libreria se non venisse alla mente il
Sukegawa delle Ricette della signora Tokue (Einaudi 2018) link al 22 aprile 2018 e la sua saggezza
lieve, ma perentoria, a suo modo: nella letteratura giapponese contemporanea
sono spesso personaggi che svolgono mestieri come quello della cucina a
veicolare significati e valori in cui non c’è traccia di banalità né di
esotismo. Tornando a scorrere le pagine del “piccolo libro” ci si rende conto
che parlando dell’ikigai offre esempi ragionati dello stile di vita giapponese,
e allora il richiamo è al Noteboom di Cerchi
infiniti. Viaggi in Giappone,
Iperborea 2017 link al 2 luglio 2018,
un libro che parlando di Giappone parla di noi.
Bene. Ma cos’è questo “ikigai”? Il “pentalogo” che
apre il libro si scioglie, pagina dopo pagina, in casi ben raccontati,
concreti, capaci di chiarirci che l’ikigai non è altro che la somma dei
“piaceri” e dei “contenuti di senso della vita”: due cose diverse, si potrebbe
obiettare. Ma proprio qui sta il punto:
se si “comincia in piccolo” (la giornata come un nuovo lavoro o una
nuova relazione), se ci si prova a “dimenticarsi di sé” e a vivere in
“armonia”, non solo con gli altri, ma anche con piante, animali, cose, in un
orizzonte di “sostenibilità”, se si impara così a gustare la “gioia delle
piccole cose” stando “nel qui e ora”,
piacere e senso della vita convergono, si lasciano vivere come un’unica
esperienza, il cui sottofondo è, nella sostanza, la capacità di “accettare se
stessi”. Ne viene non solo una “felicità” della quale ci si può render conto
nel momento stesso che la si vive, ma anche una serenità che fa tutt’uno con la
capacità di resistere a disgrazie e ingiustizie subite, di vivere bene anche se
la propria vita non è quella che si sognava, perché non c’è altra vita che
quella che ci si trova a vivere. E allora “prender sul serio i fenomeni
transitori” (come la famosa fioritura dei ciliegi) non è l’espediente di chi
accontentandosi gode, ma un atteggiamento conseguente e lucido che traduce
nella pratica una filosofia.
Condotta individuale e comportamenti collettivi si intrecciano in aspetti molteplici della vita quotidiana in Giappone: la gentilezza di cui parlano i visitatori del paese del Sol levante non è che il portato dell’ikigai.
Si era partiti con uno chef. Si incontrano artigiani,
monaci zen, musicisti, e fin qui tutto bene. Leggere delle virtù sapienziali
dei lottatori di sumo può lasciar perplessi, ma bisogna ammettere che Mogi ci
sa fare, spiega, persuade. Almeno fino a quando arriva a sostenere che l’ikigai
annulla la differenza fra perdenti e vincitori, nel senso che anche chi sta
sotto se la può passare bene, perché “l’ikigai è pane per gli svantaggiati”,
“permea tutti i livelli gerarchici delle strutture competitive e concorrenziali”.
Forse le aiuta anche a perpetuarsi… vien da pensare, tanto più quando si legge
che “si può declinare l’ikigai in modo personale anche in una nazione dove la
libertà è limitata”. Ma non è finita: “ironia della sorte, potremmo trovare il
nostro ikigai anche sganciando la bomba atomica che decreterà la fine del
mondo” (sic). Detto da un giapponese, tra l’altro…: che distanza resta fra l’ikigai
e la pura esecuzione di un ordine da parte del pilota dell’Enola Gay?
Ma qui non possiamo prendercela con Ken Mogi: qui sono
le filosofie dell’atarassia, è il pensiero orientale a mostrare – nonostante
tutte le suggestioni e gli insegnamenti che ne possiamo derivare – a mostrare
il limite drammatico di una ricerca della salvezza che non sa o non vuole fare
i conti con le contraddizioni stridenti e insormontabili del mondo
contemporaneo. Persino a un conoscitore profondo e partecipe come Francois
Jullien è accaduto di doverlo ammettere.
Lisa Luzzi, La polvere che danza in un raggio di luce. Una suggestiva interpretazione del De profundis di Oscar Wilde, Armando Editore 2019 (pp. 160, euro 14)
“La profondità dell’esperienza espressa nel De profundis è stata spesso
sottovalutata dalla critica”, afferma senza mezzi termini l’autrice, per la
quale il ritrovamento di quest’opera, letta al tempo del liceo, ha
rappresentato un’“epifania”, una rivelazione non solo umana e letteraria, ma
filosofica e religiosa.
Scritta nella forma di una lunga lettera al proprio amante, di fatto un intenso monologo con se stesso, durante l’incarcerazione per omosessualità – un reato, in Gran Bretagna, sino a tempi non lontani: si pensi al destino di Alan Turing –, la testimonianza di Wilde ha un valore che va oltre la sua vicenda, risultando emblematica di un dato comune: “Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi – ci vien fatto notare –, tanto delle nostre debolezze quanto delle nostre apparenti forze, anche se non ce ne avvediamo”. Occorre avere “il cuore di Cristo e la mente di Shakespeare”, lo stesso Wilde afferma, per giungere a riconoscere – e qui è Ellmann, biografo dello scrittore inglese, a parlare – che “noi siamo naturalmente nemici di noi stessi e andiamo in cerca degli eventi che inconsciamente ci si addicono”. Secondo quella coazione a ripetere, verrebbe ad aggiungere, che la psicoanalisi ha interpretato come espressione della pulsione di morte.
Wilde si vergogna, si pente amaramente di “aver usurpato il proprio genio, e infangato il proprio nome, per aver commesso l’errore di assecondare appetiti superficiali e frivoli” – anche se altrove li fa derivare da un “profondo affetto spirituale” al pari di quello provato dai grandi Michelangelo e Shakespeare. Senonché, più che un cedimento, la vicenda ha fatto “emergere l’ombra che abitava nel suo animo che, se da un lato, amava perdersi nella bellezza dall’altra sentiva anche l’urgenza di un traumatico svelamento della concretezza del reale e della verità della materia”. Una tensione drammaticamente opposta a quella della sublimazione e alla tendenziale identificazione fra estetica ed etica; una spinta a portare al livello dell’atto la convergenza avvertita fra bellezza, amore e morte, tratto comune alla vita e alle opere di Wilde, come l’autrice analizza stabilendo paralleli convincenti – con il Ritratto di Dorian Grey, in particolare: una sorta di anticipazione del destino che attendeva lo scrittore.
Non di meno, la sua decisione è ferma, e la
saprà rispettare: “Devo conservare l’Amore nel mio cuore a tutti i costi. Se
vado in prigione senza amore che ne sarà della mia Anima?” E dunque, assicura
l’interlocutore, “Non scrivo questa lettera per far nascere amarezza nel tuo
cuore, ma per eliminarla dal mio”.
“Ho scritto tutto quello che c’era da
scrivere. Ho scritto quando non conoscevo la vita, e ora che ne conosco il
significato non ho più niente da scrivere”, confessa Oscar Wilde pochi mesi
prima della propria morte. Convinto che “lo scopo della vita è lo sviluppo di
noi stessi, la perfetta attuazione della nostra natura”, e quindi, anche, il
dovere di non vergognarsi neppure degli atti che non si vorrebbe aver commesso.
Non citerà più con leggerezza gli aforismi,
sempre sapidi nei loro paradossi quanto calzanti con l’attualità, chi ha letto
questo libro e magari, sulla sua scorta, ha sentito il bisogno di conoscere
anche il De profundis.
“Si vive in una pace meravigliosa senza pubblicare. Mi piace scrivere, è la cosa che amo di più, ma mi piace scrivere per me stesso, per il mio piacere.”
(J.D. Salinger)
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