Lisa Luzzi, La polvere che danza in un raggio di luce. Una suggestiva interpretazione del De profundis di Oscar Wilde, Armando Editore 2019 (pp. 160, euro 14)
“La profondità dell’esperienza espressa nel De profundis è stata spesso sottovalutata dalla critica”, afferma senza mezzi termini l’autrice, per la quale il ritrovamento di quest’opera, letta al tempo del liceo, ha rappresentato un’“epifania”, una rivelazione non solo umana e letteraria, ma filosofica e religiosa.
Scritta nella forma di una lunga lettera al proprio amante, di fatto un intenso monologo con se stesso, durante l’incarcerazione per omosessualità – un reato, in Gran Bretagna, sino a tempi non lontani: si pensi al destino di Alan Turing –, la testimonianza di Wilde ha un valore che va oltre la sua vicenda, risultando emblematica di un dato comune: “Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi – ci vien fatto notare –, tanto delle nostre debolezze quanto delle nostre apparenti forze, anche se non ce ne avvediamo”. Occorre avere “il cuore di Cristo e la mente di Shakespeare”, lo stesso Wilde afferma, per giungere a riconoscere – e qui è Ellmann, biografo dello scrittore inglese, a parlare – che “noi siamo naturalmente nemici di noi stessi e andiamo in cerca degli eventi che inconsciamente ci si addicono”. Secondo quella coazione a ripetere, verrebbe ad aggiungere, che la psicoanalisi ha interpretato come espressione della pulsione di morte.
Wilde si vergogna, si pente amaramente di “aver usurpato il proprio genio, e infangato il proprio nome, per aver commesso l’errore di assecondare appetiti superficiali e frivoli” – anche se altrove li fa derivare da un “profondo affetto spirituale” al pari di quello provato dai grandi Michelangelo e Shakespeare. Senonché, più che un cedimento, la vicenda ha fatto “emergere l’ombra che abitava nel suo animo che, se da un lato, amava perdersi nella bellezza dall’altra sentiva anche l’urgenza di un traumatico svelamento della concretezza del reale e della verità della materia”. Una tensione drammaticamente opposta a quella della sublimazione e alla tendenziale identificazione fra estetica ed etica; una spinta a portare al livello dell’atto la convergenza avvertita fra bellezza, amore e morte, tratto comune alla vita e alle opere di Wilde, come l’autrice analizza stabilendo paralleli convincenti – con il Ritratto di Dorian Grey, in particolare: una sorta di anticipazione del destino che attendeva lo scrittore.
Non di meno, la sua decisione è ferma, e la saprà rispettare: “Devo conservare l’Amore nel mio cuore a tutti i costi. Se vado in prigione senza amore che ne sarà della mia Anima?” E dunque, assicura l’interlocutore, “Non scrivo questa lettera per far nascere amarezza nel tuo cuore, ma per eliminarla dal mio”.
“Ho scritto tutto quello che c’era da scrivere. Ho scritto quando non conoscevo la vita, e ora che ne conosco il significato non ho più niente da scrivere”, confessa Oscar Wilde pochi mesi prima della propria morte. Convinto che “lo scopo della vita è lo sviluppo di noi stessi, la perfetta attuazione della nostra natura”, e quindi, anche, il dovere di non vergognarsi neppure degli atti che non si vorrebbe aver commesso.
Non citerà più con leggerezza gli aforismi, sempre sapidi nei loro paradossi quanto calzanti con l’attualità, chi ha letto questo libro e magari, sulla sua scorta, ha sentito il bisogno di conoscere anche il De profundis.