“In fondo, uno scrittore è tale solo quando scrive.
Nel senso che deve scoprire ogni volta che si mette a scrivere che cos’è quell’oggetto magico e sfuggente chiamato letteratura.”
(Massimo Rizzante)
“In fondo, uno scrittore è tale solo quando scrive.
Nel senso che deve scoprire ogni volta che si mette a scrivere che cos’è quell’oggetto magico e sfuggente chiamato letteratura.”
(Massimo Rizzante)
Luca Romano, Il segretario di Montaigne, Neri pozza 2018 (pp. 235, euro 17)
“Agli occhi di un servo nessun padrone rimane per sempre un eroe”. Quando poi il padrone è chi ha scritto pagine su pagine per dire sinceramente della propria umana ordinarietà, delle contraddizioni e delle debolezze dalle quali si sente contraddistinto, la constatazione non può trovare che ulteriore conferma.
Parla con le parole e ripropone i pensieri dei Saggi il Montaigne di questo romanzo, e il ritratto dell’uomo e del suo stile esce convincente dalle descrizioni del suo improvvisato segretario: “Le frasi che dettava non erano mai definitive, spesso cambiava o aggiungeva qualcosa (…). I suoi discorsi ondeggiavano da un tema all’altro.” E ci dobbiamo credere, visto che a dirlo è colui al quale Montaigne per ben tre anni detta i suoi scritti, per poi scegliere la via del self publishing, sia pure non disdegnando il “privilegio del re”. Ma ecco, conclusa l’opera, l’autore cade in una “profonda malinconia”, e lui lo sa: “Quando si finisce un libro è un sollievo. Il lavoro è terminato. Se poi l’opera trova successo presso il pubblico, ecco alimentato e tenuto in vita più a lungo quel piacere di solito effimero. Ma dopo qualche tempo anche l’orgoglio e la soddisfazione e la vanità perdono consistenza. L’anima gonfia di sé ritorna alle sue estensioni naturali; brevemente incandescente di presunzione, si raffredda altrettanto presto che la brace che si spegne.” In notazioni come questa, oltre che in un intreccio appassionante, sta la qualità del romanzo. Attuale e stimolante, come possono essere i romanzi storici migliori.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Daniel Pennac, Mio fratello, Feltrinelli 2018 (pp. 121, euro 14)
“Le lacrime non c’erano più. Mio fratello arrivava all’improvviso e adesso il mio magone non lo cacciava più via”: a sedici mesi dalla morte di Bernard – un fratello paterno, anche se maggiore di lui solo di qualche anno – Daniel racconta dell’elaborazione di un lutto che all’inizio l’aveva ridotto all’inconsapevole ricerca di seguire il congiunto nella morte. Incidenti, all’apparenza. Distrazioni che potevano rivelarsi fatali. Ma proprio lo star dentro il dolore della perdita, il far sì che si faccia “ospitale”, l’accettarlo “così com’è”, indica la via per “riprendere in mano la situazione”: “mi sono detto che avrei scritto qualcosa su di lui. Su di noi.” E Bartelby, col suo enigmatico preferirei di no, diventa il tramite di una narrazione in cui le pagine di Pennac dialogano con quelle di Melville: era stato il fratello a passare quel racconto a Daniel, ma altro lega la storia dello scrivano alla memoria viva dello scomparso. Un’affinità profonda congiunge l’umorismo che era di Bernard a quello, involontario (?) di Bartleby, ma comune ai due si rivela soprattutto una discrezione confinante con la volontà precisa di sottrarsi agli altri, di fuggire la “confusione del mondo”, un atteggiamento silenziosamente riluttante che si traduce in uno sguardo che non giudica, in una riservatezza estrema dei propri sentimenti: in una progressiva presa di distanza dalla vita, nella sostanza (prima di morire sotto i ferri di un chirurgo, Bernard aveva già rischiato di morire a seguito di un precedente intervento mal eseguito; eppure, ripresentatosi il male, era tornato nella stessa clinica).
E’ nella riduzione del racconto di Melville a monologo teatrale, nell’impararlo a memoria recita dopo recita, che Daniel si lascia alle spalle la disperazione senza per questo rinunciare alla profonda vicinanza con il fratello che non c’è più: “Bartleby per me era una compagnia che suppliva – inspiegabilmente, in misura assai lieve, come un’allusione – all’assenza di mio fratello”. La memoria non diventa ricordo, si mantiene attiva, conserva il sapore di una relazione essenziale e pure indefinita: “Non so niente di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene. Non c’è nessuno al mondo che mi manchi come mi manca lui e tuttavia non so chi ho perso”. Sono le relazioni che sanno mantenere il senso dell’alterità – sembra dirci Pennac –, che si alimentano del non detto, e sono in grado di accettare che l’unicità dell’altro resti inafferrabile, sono queste le relazioni che neanche la morte può sciogliere.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“In realtà il poeta è soltanto un accumulatore di Tempo, conscio che settant’anni di vita distratta dietro agli affari e i traffici e le cosiddette cose concrete può contenere soltanto un minuto primo di Tempo vero, mentre diciotto o vent’anni o trenta di vita vissuta davvero in profondo, possono viceversa contenerne secoli a volte miellenni, nel passato come nel presente e nel futuro, amen.”
(Giorgio Caproni)
Carl Safina, Al di là delle parole, Adelphi 2018 (pp. 687, euro 34)
“Parliamo di esseri umani e animali, come se tutti i viventi ricadessero in due sole categorie: noi e tutti gli altri.”
“Come può l’uomo conoscere, con la forza
della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale
confronto fra essi e noi deduce questa bestialità che attribuisce
loro?”
A dispetto dell’“intimità” che
connota il nostro rapporto con diversi animali – cani e gatti
innanzitutto – “conserviamo una tentennante insistenza sul fatto che gli
animali non sono come noi – benché noi stessi siamo animali. Potrebbe
mai una relazione basarsi su un intendimento più profondo?”
“Abbiamo
difficoltà a capire gli animali, ma, invece di prendere atto di questo
limite, abbiamo l’impudenza di crederci superiori a loro”.
“Può
darsi che noi siamo (…) incapaci di comprendere la ricchezza che altre
specie percepiscono nella propria comunicazione: così come loro sono
incapaci di capire quella della nostra specie”.
“Noi
non comprendiamo le bestie più di quanto loro comprendano noi. Esse
potrebbero avere di noi la stessa considerazione che noi abbiamo di
loro. Dobbiamo quindi prendere in considerazione l’ipotesi di una
sostanziale parità e provare a verificarla. (…) Del resto, vediamo in
modo evidente, che c’è fra loro una piena e totale comunicazione, e che
esse si capiscono fra loro, non solo quelle della stessa specie, ma
anche quelle di specie diverse”.
Alcune frasi sono dell’autore di questo
libro; altre di Montaigne. La consonanza è tale che sarebbe difficile
distinguere le une dalle altre e attribuirle correttamente se il
corsivo non evidenziasse quelle di Safina. Non si tratta solo di
riconoscere la straordinaria modernità di Montaigne, ma di ammettere che
sono secoli ormai che abbiamo capito come stanno le cose, fra noi e gli animali.
Sennonché un conto è sapere, un altro è saper di sapere e quindi
regolarsi di conseguenza. I massacri di elefanti in Africa (10 milioni
all’inizio del secolo scorso; 400mila oggi) ci dicono che continuiamo a
fare come non sapessimo. Che cosa? Tutto quello che Safina ci dice
prendendo spunto dall’osservazione di elefanti, appunto, e lupi e orche,
ma allargando il discorso a molte altre specie: lo spirito cooperativo
degli animali, la loro capacità di provare non solo dolore, ma anche
empatia e compassione, sentimento del lutto e felicità del gioco; le
loro abilità comunicative e linguistiche; la complessità delle loro
forme di socialità.
Caratteri che altri
autori illustrano con altrettanta precisione, ma forse non così
efficacemente. Perché Safina, al dato di osservazione e
all’argomentazione scientifica unisce la capacità narrativa.
Al
comparire di una mandria di elefanti, “la terra cotta dal sole aveva
preso la forma di qualcosa d’immenso e vivo, ed era in movimento. (…) La
pelle, mentre si muovevano, corrugata dal tempo e dall’uso, con le
screpolature impresse dal passare degli anni, quasi che vivessero
avvolti dalle mappe sgualcite della vita già percorsa. Viaggiatori nei paesaggi dello spazio e del tempo.”
“Quando orche e delfini ci vedono spesso vengono a giocare; noi li salutiamo, e guardandoli negli occhi possiamo riconoscere che là dentro c’è qualcuno di molto speciale. Là dentro c’è qualcuno. Non è umano, ma è qualcuno…”. Ed proprio guardando i delfini che seguono la sua imbarcazione, dopo la meraviglia si chiede il perché dell’insoddisfazione che prova: “Volevo sapere che cosa stessero provando, e capire perché li percepiamo tanto interessanti e così… vicini. Questa volta mi permisi di porre loro la domanda che è il frutto proibito: chi siete?”
Ecco, in questa domanda sta il fulcro del metodo di Safina, etologo e filosofo trasgressivo: perché sa muoversi nello spazio stretto che è rimasto fra il comportamentismo (inaugurato, di fatto, da Cartesio e dalla visione dell’animale-macchina che ne è derivata) e l’antropomorfismo; senza perdersi nella polemica contro il primo, senza cedere alla paura di scivolare nel secondo, ma avendo fiducia nella propria empatia nei confronti degli animali riconoscendone allo stesso tempo la diversità, fra di loro innanzitutto e, dunque, anche fra ciascuna specie e la nostra.
La strada maestra è quella indicata da Henry Beston, citato in esergo (e in questi giorni in libreria con La casa estrema. Un anno di vita sulla grande spiaggia di Cape Cod, Ponte alle Grazie 2018): “l’animale non ha la sua misura nell’uomo. (…) Non sono nostri fratelli, non sono nostri sottoposti; sono altre nazioni, catturati insieme a noi nella rete della vita e del tempo, prigionieri con noi dello splendore e del travaglio della Terra.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Benjamin Gross, Un momento di eternità. Il sabato nella tradizione ebraica, EDB 2018 (pp. 206, euro 19,50)
Lo shabbat: “il contributo più importante che l’ebraismo ha portato all’umanità”, avverte inapertura Benjamin Gross. Per tutta l’umanità, per ebrei e non ebrei, per credenti e non credenti. E lo stesso si può dire per questo libro del grande pensatore ebraico scomparso tre anni fa. Chi, infatti, ha una conoscenza soprattutto letteraria dell’ebraismo e delle sue pratiche trova in queste pagine le nozioni necessarie per tradurre le suggestioni che gli sono venute dalla lettura di romanzi e racconti in riferimenti filosofici precisi, in rimandi essenziali al grande racconto biblico e al significato profondo che si manifesta nel rito delle festività del calendario ebraico. Ma, quel che più conta, trova anche lo spunto per riflessioni che lo riguardano, perché rappresentano una critica stringente della concezione del tempo che domina il nostro mondo. Una concezione disposta a riconoscere la necessità di un giorno di riposo settimanale, non fosse che già l’espressione, giorno di riposo, richiama l’immagine della saracinesca abbassata di un pubblico esercizio, e dunque la sensazione che sia un significato puramente utilitaristico quello che si attribuisce all’interruzione del lavoro (sempre che, di questi tempi, non finisca col prevalere l’imperativo alla continuità dei consumi in untempo del tutto indifferenziato, come il dibattito sull’apertura domenicale di negozi e centri commerciali fa presagire).
E’ su questo sfondo, a confronto con questa mentalità diffusa, che risalta la concezione dello shabbat,occasione per ricordare che “C’è un tempo fuori dal tempo abituale, totalmente altro, che è un riferimento per la coscienza di fronte allo scorrere incessante del tempo.” Non ci troviamo di fronte, semplicemente, a un invito giudizioso a rallentare il ritmo delle nostre giornate, né solo all’offerta di un espediente per lenire il dolore – del quale si può essere più o meno consapevoli – cheappunto lo scorrere del tempo genera. L’osservanza dello shabbat, l’astensione dal lavoro non in quanto faticoso ma in quanto espressione della volontà di lasciare un segno nel mondo, coincide con il riconoscimento di un limite, e rappresenta perciò la via per mettere a fuoco un impegno decisivo, essenziale, senza il quale la nostra umanità è sviata, la nostra vita mancata: l’impegno a coltivare la capacità di vedere una dimensione della realtà, degli altri, di noi stessi, che non si esaurisce in ciò che lo sguardo ordinariamente ci offre, che non si risolve nell’esteriorità e in un presente che rende superfluo il passato e non sa immaginare il futuro. Un impegno non effimero ad ammettere il bisogno di un senso, di un’ulteriorità, di una trascendenza immanente, operante, ravvisabile qui e ora; un impegno a non cedere all’insensatezza che pervade il nostro essere sociale, a non proiettarla sulla nostra intera esistenza: non si è gettati nel mondo; si è parte, per quanto infinitesimale, di una storia nella quale dimensione cosmologica e dimensione umana si integrano. Non si nasce da se stessi, ma da “persone che non sono come le altre”, i genitori: persone “che l’individuo non ha scelto, ma alle quali è indissolubilmente legato” perché è da loro che proviene la coscienza di essere, tutti, anelli di una catena, parte di una storia, creature chenon possono prescindere da un rapporto che, come quello di filiazione, permette di cogliere la propria umana natura.
Le acquisizioni della fisica, dell’astrofisica contemporanea soprattutto, così come gli orizzonti del pensiero ecologista balenano qui e là in un discorso capace di attenersi al tema che si è dato ma anche di misurarsi con la realtà dell’oggi, con il nichilismo più o meno esplicito che circola nella società e pervade le vite, con l’“indifferenza” e l’“irresponsabilità nei confronti della dimensione sociale”, con la perdita della “nozione fondamentale del limite”. E’ in questo confronto serrato che emerge un’innegabile “tensione tra lo spirito occidentale e l’esistenza ebraica” in quanto testimonianza – nei suoi principi fondamentali, in quello dell’osservanza dello shabbat in primo luogo – della possibilità, per “un mondo disorientato”, “di ritrovare il soffio di una vera vita, che non sia né abbandono alla materialità, né evasione in un idealismo astratto”, sull’onda di un sentimento di nostalgia e insieme di speranza. Nostalgia e speranza: i due volti di un identico bisogno che definisce il nostro essere uomini, incapaci di rassegnarci a una vita senza significato, attraversati da un senso di perdita e allo stesso tempo da una tensione inestinguibile verso un mondo nel quale la serenità dello shabbat si estenda agli altri giorni, a tutti quelli che ci è dato vivere.
“Mi piace scrivere a mano, senza cancellare, evitando ripensamenti. Ci tengo a conservare su carta il diario di lavorazione di una storia (…).”
(Paolo Cognetti)
“E’ impossibile descrivere i fatti, anche quando lo si fa senza alcuna ambizione letteraria; si è sempre obbligati a inventare, più o meno.”
(Michel Houellebecq)
Rachel Cusk, Resoconto, Einaudi 2018 (pp. 185, euro 17)
“Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”: più che una scelta, una condizione. La protagonista – scrittrice, ad Atene per insegnare in un corso di scrittura – si chiede se sia “più reale” “vivere nel momento o fuori di esso”: nel frattempo, osserva gli altri, li ascolta soprattutto.
Si forma l’opinione che la maggior parte della vita, e delle scelte che si compiono, non avviene in uno stato di consapevolezza, ed è una cosa che si paga, questa: “Talora penso che (…) uno forgi il suo destino in base a ciò di cui non si accorge o per cui non prova compassione, e che infine sarà costretto a sperimentare proprio ciò che non conosce né si sforza di comprendere.” Ma del resto, forse ha ragione quel tale (uno dei tanti che lei ascolta) convinto che “migliorare le cose è impossibile, e che ne sono altrettanto responsabili le brave e le cattive persone, e che forse l’idea stessa di miglioramento è una fantasia personale, solitaria (…)”. Un modo di vedere che sembra trovare un corrispettivo nella parole di quell’altro, secondo il quale “una storia può essere una semplice successione di eventi nei quali ci sentiamo coinvolti, ma sui quali non esercitiamo alcuna influenza”, per cui “è pericolosa la tendenza a romanzare le nostre esperienze, inducendoci a credere che nella vita umana ci sia un qualche disegno e che siamo più importanti di quanto siamo in realtà.”
Da riflessioni simili, e da una disposizione solo apparentemente passiva rispetto a quel che succede e a chi si incontra, nasce quello che non a caso l’autrice identifica come un recosonto, più che un romanzo. Un resoconto fitto, però, di considerazioni sull’artificiosità dello sforzarsi perché qualcosa accada, sulla convenienza di vivere come una rondine sorvola il territorio, seguendone le forme senza poggiar visi, sull’inevitabilità di avvertire l’esistenza “come un dolore segreto, un tormento interiore impossibile da condividere con gli altri”. Tanto che nel racconto di un altro, che pure lei segue, non può non sentire “il resoconto di ciò che lei non era”, una sorta di “antidescrizione” che, tuttavia, le dava un’idea della persona che era adesso.”
Molte chiacchiere si sono lette all’uscita di questo libro, assunto come prova della ormai decretata (e pare mai avvenuta) morte del romanzo: “Ho cercato di ripensare le convenzioni del romanzo moderno, ammette Cusk in un’intervista (“La Repubblica”, 13 settembre), per controbattere, però, che le sue scelte nascono solo dall’esigenza di “sentirsi libera”, non volendo “camuffare il fatto che la narrazione è compromessa da diversi punti di vista, come invece fa la letteratura tradizionale”, e dovendo quindi “stravolgere le convenzioni, in maniera intuitiva”. Ha detto bene un altro commentatore (Paolo di Paolo, sullo stesso giornale un paio di giorni dopo): “E’ come se Cusk trovasse la forma di ciò che scrive mentre la sta cercando. Funziona così: qualcuno narra di qualcuno che sta narrando, e si limita ad assecondare quel movimento”. Viene in mente il bel libro di un sociologo, Paolo Jedlowski: Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondadori 2002). La vita come intreccio di storie, nostre e degli altri, così il sociologo, ma non diversamente la romanziera: “M’interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite: si creano, senza volerlo, piccole strutture narrative affascinanti.” Affascinanti e tanto ricche da giustificare una trilogia, di cui Resoconto è il primo volume.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Vito Cagli, La medicina ne La montagna magica di Thomas Mann, Armando Editore 2018 (pp. 80, euro 18)
Fine biblista al tempo in cui scriverà Giuseppe e i suoi fratelli, musicologo aggiornato sui caratteri della dodecafonia quando si dedicherà al Doctor Faustus, Thomas Mann si rivela conoscitore dei più recenti sviluppi della concezione e dei metodi della medicina nei primi anni Venti mentre lavora alla Montagna magica. “Un estimatore e un ammiratore della scienza medica” si dichiarava del resto lo scrittore stesso. E tale appunto si dimostra nel romanzo ambientato a Davos, dove, è bene ricordare, sua moglie era stata paziente di un sanatorio pochi anni prima della Grande Guerra, in un’epoca nel quale la cura della tubercolosi polmonare non poteva ancora contare sulla cura antibiotica e al regime di vita imposto in quel mondo fuori dal mondo, in quelle “isole della maga Circe” fuori dal tempo che erano i sanatori si attribuiva una funzione decisiva. Così come un ruolo centrale occupava la capacità diagnostica, ancor prima della proposta terapeutica. Entrambe descritte da Mann “in modo perfettamente aderente” a quelle che erano le concezioni e le conoscenze dell’epoca, come dimostra il puntuale raffronto che Cagli opera fra le posizioni via via assunte dal dottor Behrens, il dirigente del sanatorio, e quanto si legge nel Trattato di un luminare del tempo, il professore Adolph Strümpell.
Ma questo libro va oltre questa documentata constatazione. Le sue pagine suggeriscono un altro modo di attraversare la storia di Hans Castorp – che del resto lo stesso autore riteneva dovesse esser letta due volte (almeno, aggiungiamo noi) – e più in generale di riconsiderare uno dei temi centrali nella narrativa manniana, presente anche in altri romanzi e racconti come puntualmente ci segnala Cagli nelle prime pagine del suo saggio: la malattia, i suoi significati, le sue implicazioni. Oltre all’”amore per la verità” – ci ricorda Cagli – “il senso per la malattia” era, a detta dello stesso Mann, la seconda “tendenza del suo carattere”. Ma che cos’è, come si può intendere la malattia? “Rottura delle regole, disordine, via delle conoscenza, spinta alla genialità oppure, soltanto, semplice processo biologico alterato che segue esclusivamente le leggi del mondo fisico”? Una domande aperta, che si declina secondo i punti di vista dei diversi personaggi della Montagna magica, e lascia comunque fin da questo romanzo trapelare quell’“ombra nel pensiero di Mann” che si manifesterà con chiarezza molti anni dopo, in un romanzo breve, L’inganno, dove apparirà chiaro come “ogni costruzione sui possibili significati della malattia si scontri con l’ineluttabilità delle leggi biologiche”.
Thomas Mann era comunque “interessato alle interpretazioni della malattia secondo le teorie che, sulla scia di Freud, tentavano di indagare il ‘misterioso salto’ fra psiche e corpo”, aprendo a una “visione in cui il taedium vitae passa da patologia organica (l’‘esaurimento nervoso’) a categoria psicologica” e “una malattia somatica diviene il mezzo per acquietare un diverso e più profondo disagio”. Le sue pagine tuttavia sembrano a volte anticipare osservazioni come quelle che Virgina Woolf esprimerà pochi anni dopo, nel 1930, individuando nella malattia l’occasione di uno sguardo diverso, che “adorna le facce degli assenti (abbastanza normali quando in salute) di nuovi significati, mentre la mente imbastisce su di loro migliaia di leggende e romanzi, per cui non ha né tempo né libertà in salute”. La malattia come occasione favorevole alla produzione letteraria, dunque. Non è un caso che lo stesso Cagli sia autore di un altro libro Malattie come racconti (Armando 2005), che significativamente echeggia fin dal titolo il Malattia come metafora di Susan Sontag, e, soprattutto, rimanda anche alla considerazione che “la letteratura e ogni altra forma d’arte dovrebbero far parte del corredo formativo del medico e lo aiuterebbero ad accostare i pazienti come esseri umani e a saperci confrontare con la malattia e la morte”. E’ infatti questo uno dei tratti di fondo del pensiero di Vito Cagli: la riflessione sulla malattia fa tutt’uno con la considerazione critica della medicina, attraversata sempre dalla sensazione di fare troppo o di far troppo poco.
Più in generale, il saggio sulla Montagna magica merita l’attenzione dovuta a un contributo originale alla riflessione sul ruolo e gli scopi della tecnica nel nostro mondo ed entro questo quadro, appunto, su quell’insieme di procedure che caratterizza la medicina. Un contributo, quello di Cagli, tanto più significativo alla luce del fatto che, se sono numerosi gli psichiatri e gli psicanalisti che riflettono sulle loro discipline e le loro pratiche – da Borgna a Lingiardi a molti altri – non altrettanti sembrano i medici interessati e capaci a muoversi in questa direzione.
“Il più sublime lavoro della poesia è dare senso e passione alle cose insensate.”
(Giambattista Vico)
Jón Kalman Stefánsson, Storia di Ásta. Dove fuggire, se non c’è modo di uscire dal mondo?, Iperborea 2018 (pp. 480, euro 19,50)
“Cominciamo dall’inizio: siamo a Vestubær, il quartiere ovest di Reykjavík, all’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, e spiego com’è nato il nome Ásta”: un titolo-sommario apre il romanzo. Il luogo, il tempo, la protagonista. Ma non è tutto: “Poi perdo il filo”, conclude l’autore, confermando e anzi accentuando in questo libro il tono di racconto orale della sua scrittura, che qui giunge a una sorta di confidenza con il lettore. Non si tratto di un semplice tratto stilistico, e men che meno del desiderio di risultare accattivante: siamo tutti nella stessa barca, sembra dire Stefánsson con le sue aperture al lettore, tu che leggi e io che scrivo, accomunati dalla condizione umana, dalle vite che stiamo vivendo e, pur dissimili, ci obbligano tutti indistintamente al confronto con le cose essenziali dell’esistenza. Le paure e le speranze, le gioie e le delusioni, le nascite e le morti, gli innamoramenti e gli abbandoni, che la trama del romanzo cucirà insieme come pezze colorate che rimandano una all’altra senza un nesso preciso di sequenzialità, e si accavallano in un andirivieni temporale incessante, ma alla fine lasciano trasparire una storia che prende spunto dalla vita dei personaggi per incrociare quella di tutti. E sono, anche in questo romanzo, le aperture ora liriche, ora aforistiche a gettare il ponte fra le vicende narrate e la più generale dimensione dell’esistenza: fin dal sottotitolo, per poi intrecciarsi al racconto facendo emergere i temi su cui l’autore ci ha abituato a riflettere nei suoi romanzi precedenti (in questi Appunti, lo scorso 18 febbraio).
L’amore e il sesso: motori delle scelte e dei destini, perché solo l’incantesimo che immaginari extraterrestri potrebbero esercitare sugli uomini riuscirebbe a liberarli dall’insoffferenza per la routine che li tortura finché sono vivi; la fragile brevità della vita e l’inevitabilità della morte, il suo essere inscritta nella vita senza per questo risultare serenamente accettabile; la narrazione e la poesia, la scrittura come tentativo di trovare un senso della vita, almeno fin tanto che si scrive: tutto cambia quando mi metto a scrivere. “La scrittura libera qualcosa dentro di me (…) mentre scrivo divento più grande della persona che sono. Sì, mi trasformo in una corda sensibile che vibra tra ciò che è evidente e ciò che è nascosto.” Questa l’esperienza del poeta. Ma il romanziere (perché anche lui, lo scrittore, si fa personaggio del romanzo)? Be’, chi scrive romanzi è ancor più costretto a fare i conti con il mondo in cui viviamo oggi: c’è chi lo incita a scrivere per le nuove generazioni, “per salvare il mondo”, “ma più leggo articoli d’attualità, più mi sembra che il mio compito diventi più vasto, la mia responsabilità più grave. (…) Chi di noi sopravvivrà alle tenebre che in questo momento avvolgono il pianeta?”
C’è però anche chi ti chiede solo di fare il tuo mestiere, dando per scontato che chi scrive abbia il suo ruolo, sia a suo modo necessario. Come il padrone della casa dove lo scrittore si è ritirato per lavorare a questo suo romanzo, che gli offre un migliore sistemazione presso il faro dell’isola chiedendo in cambio la possibilità di pubblicizzare sul suo sito di promozione turistica “la casa dello scrittore, che alimenta il faro”: come il faro rompe l’oscurità delle notti marine così lo scrittore fende le tenebre del mondo. Un “mandato sociale” all’altezza dei tempi… Tempi nei quali nelle librerie campeggia “un grande tavolo posizionato nel posto migliore con i volumi di maggior richiamo (…): i gialli appena usciti, i manuali di cucina, i libri che ci aiutano a dormire meglio, ad avere una vita sessuale migliore, cinquanta modi per non ingrassare mangiando comunque tutto ciò di cui abbiamo voglia (…)”. Ma la banalizzazione è solo un aspetto della nostra epoca dominata dai social, nella quale “alcuni raccolgono ammirazione e fama per il coraggio con cui affrontano le tempeste del mondo, quando in realtà le rifuggono. Anzi, si lanciano nelle tempeste per non dover affrontare se stessi.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Virtus Zallot, Con i piedi nel Medioevo, Il Mulino 2018 (pp. 220, euro 25,00)
In anni non tanto lontani – anni Cinquanta, su per giù – le persone ammodo non dicevano piedi. Dicevano estremità.
Un pudore di cui non avrebbero probabilmente saputo spiegare le ragioni, ma di cui si può trovare un corrispettivo nell’atteggiamento degli storici dell’arte, grandi indagatori delle movenze e delle posture di braccia e mani, ma assai poco propensi ad abbassare allo sguardo. Alle estremità, appunto. Lo nota Chiara Frugoni – la grande medievista della quale l’autrice si dichiara allieva – che nella sua prefazione ricorda una zia che ogni volta che doveva nominare le estremità premetteva un compito “con licenza parlando”. Un fare ben diverso da quello del Nanni Moretti di Bianca, il cui sguardo è appunto ai piedi che ossessivamente corre ( “Ogni scarpa una camminata. Ogni camminata una diversa concezione del mondo”).
Tutti atteggiamenti nei quali si possono rintracciare i segni di una storia che affonda le sue radici in secoli lontani, una storia ricostruibile innanzitutto sulla base del patrimonio iconografico che il passato ci ha consegnato: “Nella società medievale piedi e calzature erano figure parlanti”, avverte l’autrice aprendo il suo saggio, e nelle immagini del Medioevo “contribuiscono a definire la condizione fisica ed esistenziale delle figure”, “raccontando storie e frammenti di Storia” a chi, come Virtus Zallot, a una lettura estetico-stilistica antepone un’indagine iconografica che prescinde dal valore artistico, coerentemente occupandosi più di opere minori – bresciane, in alcuni casi – che di capolavori.
E’ quindi la grande lezione della storiografia delle mentalità, della vita quotidiana e della cultura materiale a innervare le competenze storico-artistiche e a permettere di far emergere un “linguaggio dei piedi”, una gamma di “gesti e usi che ancora ci appartengono” e sono documentati da una straordinaria, capillare analisi. Dai piedi mostruosi o diabolici a quelli “che soffrono” – i piedi dello storpio, “bisognoso per antonomasia” nell’arte del Medioevo –, ma, si badi, se è una spina conficcatasi nel piede quella che fa soffrire, si tratta in realtà d’altro: “la spina è peccato da estrarre ed espiare”, così come avere i piedi calzati o scalzi era un dato carico di valenze simboliche, “che elevava o declassava, proteggeva o esponeva”- Del resto, scalzare non significa ancora oggi declassare, compromettere l’autorità o il ruolo di qualcuno? Mentre scalzarsi poteva suggerire la volontà di abbandonare il peccato, sempre che non alludesse a una precisa e a suo modo polemica dichiarazione: si pensi ai primi francescani (o, per altro verso, ai “medici scalzi” della Cina di Mao). Analogamente, in un gioco di rimandi e simbolismi che ha in molti casi perduto per noi l’immediatezza del suo significato, lavare i piedi – e far levare le scarpe a chi arriva – è espressione di cortesia, umiltà o addirittura deferenza al limite della devozione; calcare i propri calzari su draghi e diavoli (o eretici), calpestarli insomma, è il segno della vittoria sul male, o sulla morte; accostare il proprio capo a piedi altrui, prosternandosi, dice della reverenza assoluta di chi può giungere – o è richiesto, se al cospetto del papa – a baciarli (senza per questo aver nulla a spartire con l’inclinazione adulatoria e servile del leccapiedi). La preziosità dell’appoggio offerto ai piedi può indicare lo status del personaggio, i cui piedi godono in questo modo del privilegio di non toccar terra, che li sporcherebbe, ma conta soprattutto, in questo senso, la foggia dei calzari, prodotto dell’arte dei ciabattini e dei calzolai non di rado presenti nell’iconografia medievale, figure di artigiani con i quali si conclude questa rassegna, sorta di andirivieni colto e accattivante – grazie anche a un vasto apparato di immagini – fra sacro e profano, fra storia dei privilegiati e vicende di gente comune, fra arte e immaginario.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Scrivo per lo stesso motivo per cui respiro – perché, se non lo facessi, morirei.”
(Isaac Asimov)
Dal Corriere della Sera-Brescia del 2 novembre 2018.
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Mettere temporaneamente il Bigio in un museo e intanto proseguire il dibattito per trovare una soluzione condivisa perché – sostiene il Sindaco – «Non è mai accaduto nella storia dei paesi democratici che le statue rimosse dopo le dittature, di cui erano un simbolo, siano state ricollocate. Quella dell’Era Fascista sarebbe il primo caso, non è una banalità»: ecco il punto.
Continua a leggere La forma e il volto della città / Il «Bigio»: e il museo della città?
“Sono stato tutta la mattina per aggiungere una virgola, e nel pomeriggio la ho tolta.”
(Oscar Wilde)
Andrea Pomella, L’uomo che trema, Einaudi 2018 (pp. 208, euro 18,50)
Guardarsi da fuori, ma saperlo fare senza perdere un’attenzione penetrante e fedele a quel che accade dentro: una capacità che si fonda sull’assenza di concessioni al bisogno di urlare il dolore incomunicabile che la depressione comporta, e pur arrivando a darne una rappresentazione precisa, aderente alle ricorrenze e alle manifestazioni cangianti d’un male che si è fatto condizione diffusa e per lo più inconfessata.
Ammettere di considerare unica la propria depressione, imparagonabile a quella di cui altri possono soffrire, e nello stesso tempo riferirne con una voce sommessa, impegnata a renderne l’idea a chi non l’ha sperimentata mai, almeno nelle forme virulente qui raccontate. Qui è il punto: l’autore, portatore con ogni evidenza di questa esperienza, non classifica, non spiega – lucidamente critico com’è del discorso che accompagna la medicalizzazione del disagio depressivo – ma, appunto, racconta, a partire dal fenomeno che segnala il male: il cattivo umore al risveglio, immotivato, e pure ineludibile nella sua ambiguità inquietante. Segno di una malattia da curare, o solo di uno stato che non resta che accettare? Espressione del “carattere difficile” che fin da ragazzo in famiglia gli è stato attribuito, inducendolo a ritenerlo una propria colpa, o percezione oggettiva di quel che sono il mondo, e la vita? Devianza o lucidità al suo grado massimo? Effetto di uno sguardo distorto o d’ una capacità insolita di cogliere la verità della condizione umana? Percezione del leopardiano “solido nulla” o fraintendimento di quel che i giorni, il vivere propongono?
“Nell’epistolario di Freud – cita l’autore – si legge: Nel momento in cui ci si interroga sul senso e sul valore della vita si è malati. Giacché i due problemi non esistono in senso oggettivo.” Questa “istantanea realistica e feroce della depressione – commenta Pomella – contiene in sé il gioco assurdo, il paradosso impazzito in cui si dibatte il depresso. Sono malato nell’istante in cui dico a me stesso che la vita non ha significato. Ma se è – oggettivamente – così, ossia se la vita è realisticamente priva di significato, allora gli altri, coloro che invece intravedono nella vita un significato, sono colpevoli di rimozione. Dunque – ecco la conclusione paradossale – si può dire che la malattia è insita negli esseri umani, ma solo coloro che riconoscono di essere malati vengono considerati tali, tutti gli altri si ritengono integri, e quindi l’integrità è la loro malattia.” Di qui la costatazione attorno alla quale ruota tutta la narrazione: “ Il depresso di dibatte tutta la vita in questo corto circuito alimentato dal proprio realismo e dalla propria lucidità.” Dalla “grandiosa presa di coscienza” che lo contraddistingue e lo affligge.
La comprensione e la stanchezza della moglie di fronte al caratteristico “egoismo del depresso” che il marito manifesta, il benefico mantenersi di una relazione luminosa e trasparente con il figlio ancora bambino, gli psicofarmaci e gli psichiatri, e il continuo arrovellarsi sugli elementi “detonatori della malattia” (il precoce abbandono da parte del padre, in questo caso – avvicinabile quindi a quello raccontato nel Male oscuro di Giuseppe Berto, sui cui infatti l’autore si sofferma –, e la rottura che nel bambino di allora si è consumata nei confronti del genitore): tutto per giungere a una condizione per cui, senza aver finalmente trovato un senso della vita, il non trovarne non fa più soffrire. Nella forma della depressione, almeno.
Bando alla – comprensibile – resistenza a leggere di depressi e depressione, in conclusione: la fluidità della narrazione e la pertinenza, la profondità delle riflessioni di cui si sostanzia, preservano questo libro dal rischio della confessione penosa e, soprattutto, chiusa inevitabilmente entro i confini di un’esperienza individuale.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“I paesaggi credo portino con sé una tensione. Non potrei scrivere se non avessi prima un posto che la narrazione può abitare.”
(Maylis de Kerangal)
Christian Raimo, Ho 16 anni e sono fascista. Indagine sui ragazzi e l’estrema destra, Piemme 2018 (pp. 112, euro 13)
Christian Raimo, La parte migliore, Einaudi 2018 (pp. 209, euro 18,50)
“Un gruppo con cui stare insieme, un’identità in cui sia facile riconoscersi”: è questo che cercano i ragazzi dai 13 ai 20 anni che si trovano in Piazza Cavour, dietro il Palazzaccio, a Roma.
E se gli chiedi non esitano: “Io sono fascista”, “pure io sono fascista”. Lo stesso a Milano, Firenze, Padova, Palermo. “Essere fascisti è di moda”, anche nel senso stretto della parola: quelli di Casa Pound vestono Pivert, che fa promozione nelle loro sedi.
Casa Pound e Forza Nuova, riferimenti essenziali nella nebulosa del neofascismo italiano, presenze ormai consuete sugli organi di informazione (si sdogana o li si costringe al gioco democratico intervistandoli?), agenti di un’“educazione fascistoide di massa, quotidiana, spacciata per racconto del reale”, che di fatto ha fomentato il ritorno del “razzismo di strada” con le sue aggressioni e l’ostilità diffusa nei confronti degli immigrati, ma anche con l’affermazione di liste di destra nelle scuole (non mancano esempi a Brescia).
La diffusione del neofascismo fra i giovani non è fenomeno piovuta dal cielo: l’autore ne ripercorre i passaggi significativi, ne individua i protagonisti, ma è un fatto che i millennials di destra non è dalla conoscenza del passato recente, e neanche di quello lontano, che traggono le loro motivazioni: “Per noi c’è la fascinazione per un simbolo, la bandiera, che agisce sul piano emozionale.” Qualche lettura; le idee, se mai, vengon dopo, ma a contare soprattutto sono le riunioni, i volantinaggi, le affissioni, i turni – per quelli di Blocco Studentesco – per tener aperte le sedi di casa Pound. E una formazione che ha più i caratteri di un’iniziazione; il cameratismo inteso come legame sacro, e regolato da gerarchia e disciplina militari (il nuovo militante giura su un “decalogo” ripreso da quello della decima Mas): l’apparato organizzativo e lo spirito di gruppo, assimilabile a quello di una setta religiosa, fanno la differenza con generiche forme di aggregazione riconducibili alla galassia populista. Non occorrono riferimenti culturali definiti e che abbiano riscontro nella realtà; bastano “sillogismi” come quello che lega “protezione a sicurezza e quest’ultima a identità” perché, di fatto, l’asse si sposti “dalla cittadinanza sociale a quella etnica” e si avviino così la costruzione di una nuova egemonia, la diffusione di un nuovo senso comune, cementato da un sincretismo culturale di cui antifemminismo e mito complottista della “grande sostituzione” sono elemento centrali e che nei social “sembra aver trovato il suo habitat naturale”.
Tutto questo, in un tempo nel quale “il fascismo non indigna, il ritorno di violenze squadriste non suscita allarme”, l’antirazzismo si coniuga con il sì ai respingimenti, e una più o meno dichiarata ideologia fascista – notava Marco D’Eramo – “è rimasta l’unica ideologia anti-sistema disponibile per un adolescente”.
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Oltre l’inchiesta, il romanzo: è ancora l’adolescenza al centro dell’ultimo romanzo di Raimo, La parte migliore.
Laura ha diciassette anni, è incinta, dopo un rapporto del tutto casuale con un compagno di scuola. Vive con la madre, da tempo separata dal marito. La narrazione procede attraverso il resoconto di quello che le due pensano, si dicono; più spesso non si dicono.
Leda, la madre, è psicologa, assistente domiciliare di malati terminali, a confronto con un dolore che “non è una lama”, ma piuttosto “agisce come carta vetrata: consuma, livella, polverizza. E devi osservare questo sfregamento ogni giorno per ore e in ogni deformazione”, per poi, la sera, cercare “di fare pace con la giornata”, cercare di “concedersi un momento anche piccolissimo per sé prima di addormentarsi (…) e almeno per cinque minuti tornare umana, impressionabile.”
Laura la sente, di là dal muro che divide le loro camere, bisbigliare: con Adriano, il fratello morto bambino, tragicamente, banalmente, per quella che genitori si rimprovereranno come una disattenzione imperdonabile, e sarà causa della fine della loro unione. Un passato che non è passato, che continua a vivere in un rapporto madre-figlia in cui la seconda avverte l’amore della prima come “nascosto in una scatola che è nascosta in una scatola”. Un rapporto che si complica ora con questa gravidanza accidentale, intempestiva, per nulla desiderata, che obbliga la madre a prendere atto, come fosse una scoperta, del cambiamento della figlia: “una bambina con dentro una donna, non una creatura pronta a essere adulta”, “una figlia che si era fatta una scopata da ubriaca con una ragazzino coglione ed era rimasta incinta”, costringendola per l’ennesima volta a “pagare le conseguenze degli altri, e non poter abbandonare la scena nemmeno per un istante”. Ma sono solo pensieri questi, sensazioni che Leda non lascia trasparire, sicché Laura percepisce nella madre un unico “sentimento: la condiscendenza per ogni fottuto accadimento (…). Per quale cazzo di motivo – si chiede – non si era nemmeno incazzata un minuto quando le aveva detto che era incinta?”
Mentre la vicenda si snoda, lungo queste linee parallele, affiora con un risalto sempre più definito la fisionomia dell’adolescente, degli adolescenti, e del loro modo di stare al mondo. Un mondo separato ma nient’affatto capace di realizzare al proprio interno relazioni di comprensione e solidarietà : non è un caso che Laura desideri ma non sappia risolversi a confessare ai compagni il proprio stato, col rischio di essere considerata “la vittima, coccolata e compianta”. Perché la sua è una generazione di giovani che viaggiano solo nella rete, dove “metti mi piace perché vuoi appartenere a una parte, scrivi che apprezzi qualcosa perché sei tu a voler essere apprezzato.” Nessuno che sceglie di “allontanarsi con un viaggio in solitaria, andarsene di casa almeno per un anno con la scommessa di cavarsela”, eppure pronti a tranciare “giudizi sul mondo, su come fosse giusto vivere in Paesi lontani ventimila chilometri”. Di fatto, incapaci di mettere in discussione nulla “con la scusa di mettere in discussione tutto.”
Ma Laura una via d’uscita, un’idea di alternativa ce l’ha: la poesia. “L’unica speranza che coltiva, l’unica arma vera che abbiamo a disposizione, pensa Laura senza pensare, è la forma poetica.” Ed è una scoperta solo sua, una convinzione che la distingue, perché “a scuola si insegna a leggere le poesie e impararle a memoria da quando si hanno sei anni, e non si insegna a scriverla, la poesia”, come si pensasse che “a diciassette anni nessuno rifletta sul senso della vita”. Ma non è solo questione di modelli educativi: “la maggior parte delle persone che Laura conosceva, e che doveva frequentare se non voleva sorbirsi le accuse di essere una sociopatica, non era solo paranoicamente attenta al giudizio della gente, ma passava tutto il tempo alle prese con il bisogno di performarla, la propria vita (…) L’incubo di tutti non era il terrorismo o un tumore a diciott’anni, l’angoscia peggiore erano le figure di merda, e ogni giorno cercavano di sfoderare un’immagine di sé che evitasse la peste dell’imbarazzo (…).”
Ed è qui che lo sguardo del romanziere converge con quello dello psicanalista: “L’esposizione alla vergogna sociale”, la paura di non essere all’altezza, sono oggi i tratti caratterizzanti dei giovani – e, sempre più, non solo dei giovani – secondo Pietropolli Charmet (di cui questi Appunti si sono occupati lo scorso 21ottobre).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“L’autore non deve affatto il suo nome al prefisso ‘auto-‘, che allude al sé, come potrebbe lasciar credere il narcisimo della scrittura. ‘Autore’ viende da augere, che significa ‘far crescere’ (…)”
(Jonathan Franzen)
Walter Benjamin, Esperienza e povertà, a cura di Massimo Palma, Castelvecchi 2018 (pp. 93, euro 12,50)
Più citato che letto: lo si può dire di molti autori, ma certamente l’osservazione si attaglia in modo particolare a pensatori come Walter Benjamin, la cui opera, oltretutto, è spesso ridotta a un titolo, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come la sua fisionomia appare fissata nei ritratti fotografici di Gisèle Freund, nei quali il suo volto si fa icona del filosofo contemporaneo, tormentosamente concentrato, un po’ com’è avvenuto ad Einstein, nell’immagine che ne ritrae l’espressione bonaria e i capelli ribelli.
Un analogo processo di riduzione sembra del resto aver pesato in molte delle biografie di Benjamin, nelle quali la sua vita sembra fatalmente precipitare, e riassumersi, nella fine tragica incontrata nel 1940 a Port Bou, il paese ai piedi dei Pirenei dal quale Benjamin contava di passare in Spagna e raggiungere il porto dal quale imbarcarsi per gli Stati Uniti.
Ebreo per stirpe, comunista a suo modo, intellettuale emarginato – dall’accademia nella quale aveva cercato invano di accreditarsi, dai giornali con i quali non disdegnava di collaborare –, esule per necessità e quindi “migrante economico” (secondo la calzante definizione di Massimo Palma, il curatore di questo libro): nel personaggio si sommano le condizioni ideali per la sua “santificazione”, la santificazione del genio incompreso prima e della vittima poi.
Libri come questo servono, riproponendo scritti poco frequentati o che meritano comunque di essere riletti, a mettere in guardia contro quella che – al di là delle intenzioni – per il tramite di una facile e tutto sommato comprensibile empatia si rivela per una neutralizzazione, di fatto, della carica critica e per alcuni aspetti provocatoria del pensiero di Benjamin.
La selezione che ci viene proposta assume, alla lettura, il significato di una sequenza ragionata, dalla scopo ben preciso: Il carattere distruttivo e Scavare e ricordare, rispettivamente risalenti al 1931 e all’anno successivo, risultano premessa necessaria a Esperienza e povertà, del 1933, che a sua volta suona come una sintetica prova di quello che si può considerare un classico, un’opera che torna a distanza di tempo, ad ogni rilettura, a dire cose sorprendentemente attuali: è inevitabile pensare alla proliferazione di messaggi determinata dal web e alle sue conseguenze leggendo Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, scritto tre anni dopo.
La perentorietà, il tono che potrebbe suonare vagamente superomistico del primo scritto, così come l’icasticità e la concisione del secondo, si sciolgono in una prosa colloquiale in Esperienza e povertà, non a caso assunto come titolo dell’intera raccolta: la riflessione sul destino dell’esperienza, della possibilità di farne anche nel mondo attuale, trova alimento nel confronto con la povertà, un confronto obbligato per l’autore nella seconda estate passata a Ibiza, dove appunto il saggio venne composto (circostanza, questa, sulla quale si sofferma anche Il miserabile, romanzo pubblicato dallo stesso editore in questi giorni, sul quale questa nota non si sofferma non volendo correre il rischio dell’autorecensione). Ma la povertà di cui Benjamin parla non è tanto quella materiale,q uanto piuttosto la povertà di esperienza. E’ l’esperienza stessa, infatti, ad essere oggi “in ribasso”, e questa svalutazione che è insieme perdita di una risorsa essenziale per la vita, ha preso le mosse dalla Grande Guerra, dai cui campi di battaglia “la gente (tornava) ammutolita”, “non più ricca, più povera di esperienza comunicabile”. L’“impetuoso dispiegamento della tecnica” nel corso dei combattimenti aveva avviato un processo irreversibile: “un’indigenza di nuova specie”, da quei giorni, “si è abbattuta sugli uomini”, perché la povertà di esperienza è solo un aspetto di una più sostanziale e pervasiva povertà, “non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere.” Non ne mancano i sintomi rivelatori: il tramonto dell’arte di narrare, in primo luogo. E’ questo il nesso fra questo saggio e l’altro che segue, Il narratore, ma prima di passare a quello occorre considerare lo sviluppo che questa constatazione trova in Esperienza e povertà: la perdita della capacità di far davvero esperienza si rivela “una nuova forma di barbarie”. Sennonché – ecco il Benjamin che non si lascia costringere entro le formule della deprecazione dei tempi – è possibile “introdurre un nuovo, positivo concetto di barbarie” se si sa interpretare quella stessa perdita come opportunità di “cominciare daccapo”, di “cominciare dal nuovo”, come hanno fatto del resto i grandi creatori, animati da una carattere distruttivo senza il quale non avrebbero potuto divenire “costruttori”. Così Descartes, Klee. O Brecht e Loos, il cui “segno distintivo è la totale mancanza di illusioni sull’epoca e tuttavia una professione di fede priva di scrupoli a suo favore”.
C’è qualcosa di più, in affermazioni del genere, di quanto espresso nel pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà che Gramsci poco più di un decennio prima riprendeva da Romain Rolland. Quello che entra in gioco è il significato stesso della cultura, la sua funzione: gli uomini, poveri di esperienza come ormai sono, si sono stancati della “cultura”; “l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se così deve essere.” E non si tratta di una prospettiva apocalittica, perché “quel che è importante è che lo fa ridendo”.
E’ questo che stava avvenendo negli anni Trenta? E sta avvenendo ancora oggi, o è già avvenuto? Le parole che concludono il saggio suscitano domande di questo genere, inquietanti, e non facilmente eludibili. Si possono ravvedere corrispondenze in esperienze come quelle del Sessantotto, che innegabilmente è stato animato, anche, dalla pulsione a “far piazza pulita” – per usare ancora un’espressione di Benjamin – di una cultura oppressiva e obsoleta? Ha senso cercarne nel “nichilismo attivo” che secondo Umberto Galimberti serpeggia fra i giovani di oggi? o fra alcuni di loro almeno, quelli che “cercano di trasformare la crisi del mondo vitale, nel quale siamo tutti immersi, in una nuova opportunità di ridisegnare i rapporti umani, rimettendo in discussione le mappe – fisiche, mentali e sociali – trasmesse dalle precedenti generazioni”? (La parola ai giovani. Dialogo con la generazione del nichilismo attivo, Feltrinelli 2018)
E’ solo dopo aver attraversato queste riflessioni che leggiamo l’ultimo saggio, il più denso e insieme il più accessibile nella sua scrittura piana ed evocativa di sensazioni che ci appartengono: chi non ha sperimentato il fatto che “Diventa sempre più raro incontrare persone che possano raccontare davvero qualcosa”? Non chiacchierare, non intrattenere, non riempire ad ogni costo un silenzio altrimenti imbarazzante o avvertito addirittura come minaccioso, ma raccontare.
Non si tratta di una superficiale evoluzione dei costumi, è ben di più: “E’ come se una facoltà che ci sembrava inalienabile, la più sicura tra le cose sicure, ci venisse sottratta. La facoltà di scambiarsi esperienze”, venuta meno per una ragione sostanziale: “l’esperienza è deprezzata.” E sappiamo a partire da quale catastrofico evento. Fin qui, Il narratore riprende il saggio che abbiamo letto prima, ma per andare oltre: chi sapeva narrare – contadino, marinaio o artigiano che fosse – era “un uomo che dispensa(va) consigli all’ascoltatore”, e a suo modo diffondeva “saggezza”. Ora, “l’arte della narrazione tende al termine perché l’epica della verità, la saggezza, sta morendo”, e – si badi – “nulla sarebbe più fatuo di voler ravvisare [in questo processo] unicamente un ‘fenomeno di decadenza’”. Si tratta piuttosto di rintracciarne le cause: l’“emergere del romanzo all’inizio della modernità”, in primo luogo (Don Chisciotte è la personificazione del fatto che la saggezza ha disertato la grandezza d’animo); in secondo, il dominio dell’informazione, “inconciliabile con lo spirito della narrazione”: “Ogni mattina [l’apparto dell’informazione] ci aggiorna sulle novità del globo terrestre. Eppure siamo poveri di storie degne di nota.” Il che significa: poveri di narrazioni che, a differenza delle “notizie”, durino nel tempo, mantengano la loro efficacia senza consumarsi subito. Come accade ai comunicati dei giornali e dei mass media, appunto, che – volendo parafrasare un passaggio di Scavare e ricordare – ci trasmettano soprattutto o solamente “fatti”, incapaci di restituirci il senso della nostra volontà di sapere, inevitabilmente conculcata dall’ossessione di essere informati.
Ma c’è di più, molto di più in queste pagine. Conviene limitarsi, qui, a segnalare un passaggio nodale: la morte, il morire, un tempo evento che faceva parte della vita comune – non si spiegherebbero altrimenti le scritte che si leggono sotto le meridiane, come quell’“Ultima multis” visto a Ibiza – “nel corso della modernità (è stato) espulso dall’ambiente percettivo dei viventi”. Il fatto è che proprio nelle espressioni e negli sguardi del morente, rivelatori di una “vita vissuta”, il narratore traeva la propria autorità, condividendola con quella che anche “il più povero dei diavoli” possiede nel morire; perpetuandola poi nei suoi racconti e così coltivando un’“arte” utile alla vita (come le tante ciance sullo storytelling a loro modo, un modo distorto e ambiguo, spesso maldestro, nonostante tutto testimoniano).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora