Oltre la biografia, il romanzo

David Bosc, La chiara fontana, L’orma 2017 (pp. 125, euro 13)

Prima di tutto l’ammirazione, l’amore addirittura, per un personaggio: l’aver sentito che la sua esperienza ha a che fare con la propria.

Non se ne può raccontare, altrimenti, se l’ambizione è quella di trasmettere il proprio sentimento a chi legge.
La conoscenza ravvicinata, documentata della sua vicenda, in secondo luogo. Ma non basta. Ne potrebbe uscire una biografia, capace magari di evitare le tentazioni dell’agiografia e le secche della commemorazione, capace di restituire il percorso del personaggio in questione, ma non necessariamente di dire davvero chi è stato, le ragioni della sua irripetibilità.
E allora non è raccontare la sua vita, tutta la sua vita, che occorre, ma avvicinarsi a un periodo cruciale da lui vissuto, quello in cui il suo carattere, le sue paure, le sue speranze han dovuto venire a galla, mostrarsi senza ricorrere alle maschere che le avevano fino allora camuffate.
Sono gli ultimi quattro anno di vita di Gustave Courbet quelli che Bosc sceglie per raccontare il maestro del realismo pittorico e insieme il comunardo in esilio in Svizzera e l’uomo che cerca negli eccessi – siano le donne o l’alcol (che lo ucciderà) – una sorta di coerenza con la sua immagine del Grande Tutto: “Courbet non accettava né la rettitudine né la sottomissione. E in ogni caso rifiutava di farsene portavoce. Aveva visto alcuni aspetti della dismisura, diversi volti dell’incommensurabile. Per lui non aveva alcun senso dire che un animale è pieno di nobiltà, che un albero è maestoso, che la foresta sembra una cattedrale. Paesaggista? Courbet immergeva la faccia nella Natura, gli occhi, le labbra, il naso, le mani, col rischio di perdersi; e soprattutto col rischio di essere abbagliato, rapito, sollevato, liberato da se stesso, strappato al suo isolamento di creatura e proiettato, disperso, incorporato nel Grande Tutto.” E non si trattava del sentimento oceanico, dell’estasi della fusione di sé nel Mondo, perché “dipingendo cadaveri e mezze carogne, Courbet esprimeva l’assurdità della condizione naturale, la brutalità gratuita, la morte e la divorazione.” Né la sua pittura è distacco dalla storia: il suo realismo è “un contrattacco alla fiaba sociale, all’illustre modello di civiltà, alla civilizzazione”, e “lacera le scenografie dietro le quali si svolge il lavoro sporco”, “le allegorie nelle scuole e nelle stazioni, dove si vedono le dee dell’industria e dell’agricolture, gli splendori delle colonie e i prodigi della scienza.”

Coerentemente con questo intento di avvicinarsi dall’interno al personaggio, citando documenti che testimoniano delle sue scelte e degli eventi che lo coinvolgono senza mai farne il perno per la costruzione di una biografia rigorosa, dall’esterno, Bosc adotta un linguaggio che procede per immagini. Una scrittura nella quale riferire di quel che accade a Courbet e proporre le riflessioni che quegli eventi suscitano non sono piani separati. Perché non è una ricostruzione storica quella che leggiamo, ma un romanzo. Un romanzo capace di rendere più di una biografia l’essenza del personaggio di cui si occupa. Proprio perché, a tratti, il narratore, raccontando chi è stato l’altro, implicitamente racconta di chi è lui; dicendo dei tratti che hanno distinto il personaggio, l’artista amato, e che sono poi le ragioni per cui lo ama, finisca col dire di sé, di chi è, o vorrebbe essere.

Una pedagogia dell’orrore

Jean-Baptiste Del Amo, Regno animale, Neri Pozza 2017 (pp. 411, euro 18)

Lo si potrebbe descrivere come la saga di una famiglia contadina francese, divisa equamente in due parti. 200 pagine la prima, che tratta degli anni di inizio Novecento, e 200 la seconda, che salta agli anni Ottanta.

Fra una e l’altra la Grande guerra, che arriva a strappare i figli a genitori per i quali “la guerra è un’astrazione, una parola vuota”, “ i tedeschi una razza esotica e barbarica”, “il fronte un territorio misterioso”. Perché la loro vita è tutta lì, nel lavoro della campagna e nell’allevamento dei loro animali.
L’idealizzazione del mondo contadino pare ormai estranea ai non molti romanzi che ancora ne trattano (vedi ad esempio Cuore di bestia di Noëlle Revaz, edito da Keller nel 2013). Ma qui si va oltre, e le immagini che Del Amo ci propone, il suo lessico, aggrediscono il lettore: non a caso la critica l’ha avvicinato a Céline e Houellebecq.
La crudeltà che regola nella più completa indifferenza il rapporto con gli animali è il tema centrale, e non perché sia una novità: anche la porcilaia contadina conosceva la più completa indifferenza nei confronti della sofferenza animale, ma al tempo stesso una vicinanza per cui “nello stesso tempo, nello stesso luogo, uomini e animali nascono, vivacchiano e scompaiono”. Non è così nell’allevamento industriale, dove “i maiali pisciano e cacano tutto il giorno nell’esiguo spazio dei recinti che a malapena permette loro di muoversi, li costringe a evacuare sotto di sé, a calpestare i loro escrementi, sdraiarvisi sopra, rotolarvisi” e “gli uomini combattono contro la merda una lotta che si rinnova quotidianamente”.

Non c’è traccia di pietà in descrizioni simili, anche se non riescono a passare inosservati l’occhio del coniglio che, appena ammazzato, sembra guardare ancora, e il cane che sentendo vicina la fine va a nascondersi e, quando la giovane padrona gli passa accanto senza vederlo, “sente il suo odore e muove la coda, e muore nella sua solitudine e nel suo silenzio di animale mentre i passai della ragazza si allontanano”. Del resto, lo scrittore, intervistato, non esita a dichiarare che gli “atti quotidiani innumerevoli che vengono compiuti nell’ambito dell’allevamento suino sono di una violenza inaudita. La castrazione con l’animale vivo, il taglio dei denti e della coda”. Il fatto è che, per Del Amo, “tra il maiale e l’uomo, in molti casi, c’è davvero poca differenza”: vittime entrambi della barbarie del nostro tempo? Sicuramente, ma anche – sembra emergere – di una cieca volontà di vita: “ovunque, tutto intorno, gli animali fottono e copulano” e “lo sperma stilla, gocciola, cola”, così come, quando arriva la primavera, la linfa comincia “a zampillare dentro gli alberi, a salire pesantemente nei tronchi”. La vita, prima che la storia, sembra alimentare il destino insensato di tutto ciò che nasce, corre verso la propria rovina e muore.  E la scrittura registra questa assurda ininterrotta ripetizione, mettendo a dura prova la capacità del lettore non di tollerare il peso della compassione, ma di resistere a un disgusto crescente: è una pedagogia dell’orrore quella che Del Amo si propone? Le sue dichiarazioni – forse più delle sue pagine- autorizzerebbero a crederlo: “questo non è un libro militante che vuole che la gente smetta di mangiare carne. Però, se qualche lettore, una volta finito di leggerlo, smetterà di mangiare il prosciutto, beh, io sarò felice di tutto questo”.

Al tempo degli idrovolanti: un giallo gardesano

Massimo Tedeschi, L’ultimo record, De Ferrari 2017 (pp. 105, euro 9,90)

Il Garda, ma non quello di oggi, siamo all’inizio degli anno Trenta.

Le strade sono sterrate, percorse dai carri dei contadini – che non hanno ancora imparato a fare un vino che non dia vertigini alla testa e bruciore allo stomaco – e dalle biciclette di chi va o torna dal lavoro – nelle cartiere, negli alberghi, nelle limonaie che ancora rimangono. Poche le macchine. Giusto qualche  Balilla, come quella del commissario Sartori.  Italo Sartori. Trasferito sul Garda dal suo Abruzzo come Rocco Schiavone ad Aosta dalla nativa Roma. Ma non incazzato sempre come quello. Né serioso e umorale come Montalbano, anche se – come il commissario di Vigata all’agente Galluzzo – ogni volta che sale in macchina raccomanda a Bubbico, il suo autista, di non correre. Perché lui, Sartori, odia la velocità, e tollera a fatica la mania dilagante in Riviera: una mania della velocità, che si manifesta nelle gare di motociclette attorno al golfo di Salò, nel passaggio della Mille Miglia nel basso lago, nelle corse di motoscafi per la Coppa dell’Oltranza, lanciata da un testimonial d’eccezione come il poeta guerriero del Vittoriale, un’altra presenza che torna anche in questo secondo giallo di Massimo Tedeschi, dopo che , in quello precedente, Carta rossa, era apparso tutt’altro che estraneo all’intrigo che il nostro commissario aveva risolto.
Ma stavolta la sua non è un’indagine delle solite, perché il morto non c’è. Non c’è ancora per lo meno, e se qualcuno ci ha lasciato la pelle si è trattato di una fatalità, o così pare. Può capitare, del resto, quando si vola sugli idrovolanti della Reparto di Alta velocità di Desenzano e si cerca di battere il record stabilito volando ad oltre 700 chilometri all’ora, perché così vuole il Duce: per fargliela vedere, agli inglesi. E dunque Sartori è lì, fra piloti e meccanici, progettisti e istruttori di volo, che deve aggirarsi: nel covo dell’alta velocità, proprio lui che detesta la fretta, che non ama la frenesia persino quando a manifestarla è il corpo focoso della signora che puntualmente, con entusiasmo e generosità, lo accoglie nella sua villa a Portese.

Sabotaggio! urla il colonnello Bernasconi, che su questa pista cerca di indirizzare l’indagine del commissario, da lui chiamato a risolvere l’enigma di incidenti che si ripetono e possono costare la vita ai giovani piloti, ma soprattutto frenano la corsa al nuovo record e dunque rischiano di mandare a picco l’impresa (Mussolini, in visita a Desenzano, è stato chiaro: “ne ha pieni i coglioni di spendere soldi per il mio Reparto”, lamenta il Bernasconi). Senonché, i sommari interrogatori, condotti sempre con ironia circospetta dal sornione poliziotto, abile nell’arte dello gnorri, arrivano a una conclusione inattesa. Fra una mezza parola strappata a qualcuno che lavora attorno agli idrovolanti e qualche ammissione ottenuta da una giornalista francese, un console tedesco e un’aviatrice inglese – tutti turisti amanti del Garda ma stranamente curiosi degli aerei che lo sorvolano in velocità – la verità viene fuori, e come sempre è più complicata, e drammatica, di quanto potesse apparire. La figura del valente meccanico originario di Fratta Polesine, il paese di Matteotti, non è di quelle che si dimenticanoappena chiuso il libro.
Un libro che, pagina dopo pagina, si fa leggere in velocità, per restare in tema: perché si vuol vedere come va a finire. Un racconto riuscito perciò, ma non solo per la felicità dell’intreccio. Il piacere della lettura viene anche dai riferimenti puntuali al mix di “mito e meccanica, leggenda e tecnologia” racchiuso negli aerei e nelle imprese di Francesco Agello e degli altri cavalieri dell’aria; dai cenni alla cultura imperante (D’Annunzio in primo piano, il futurista Marinetti sullo sfondo), ma soprattutto dalla  capacità di restituire il sapore dei luoghi, dei colori di un lago che nonostante tutto sembra – in certe stagioni almeno, in certe ore del giorno  – aver saputo conservare la sua fisionomia inimitabile.

Giocare insieme

Vanni Santoni, La stanza profonda, Laterza 2017 (pp. 151, euro 14)

Nel libro precedente (Muro di casse, Laterza 2015), i rave party, le grandi feste notturne clandestine e gli sballi di musica e fumo: dovunque il posto si prestasse, capannoni dismessi, cascinali abbandonati, boschi.

In questo – prima opera di narrativa proposta da Laterza allo Strega – un garage, un ex garage anzi, da anni trasformato dalla famiglia in ripostiglio. Ma questo drastico ridursi degli spazi non ha nulla di rinunciatario, o almeno non si direbbe: qui, nel garage, gli spazi sono quelli della fantasia. O meglio: del fantasy, ambiente privilegiato dai giochi di ruolo.
Rave, giochi di ruolo: i protagonisti sono sempre quelli. Bambini negli anni ’80, quando i giochi di ruolo conoscono la loro epoca d’oro, per declinare nel decennio seguente, quando i rave sono invece pratica diffusa in tutta Europa. Per poi ridursi a nicchie, gli uni e gli altri, dopo aver risposto al bisogno di quei riti collettivi, di iniziazione in particolare, che i giovani avvertivano, e non han cessato di avvertire.

Solo che nel frattempo molte cose sono cambiate. Non solo l’aggregarsi subitaneo di masse di coetanei è un ricordo, che ha lasciato il campo alla fatica di mettere insieme anche solo un gruppetto di appassionati dei giochi di ruolo: è la cittadina toscana in cui si sono trascorse infanzia e adolescenza e alla quale si torna appunto per ritrovare gli amici con cui giocare, che non è più quella, “però non sai mica quando è cambiata così, quanto è stato graduale questo cambiamento, quando è sparito l’acciottolare dei piatti sulla sigla del telegiornale, sul jingle dell’Almanacco del giorno dopo, quando le edicole aperte e l’odore di ragù e i nugoli di ragazzi sulle bmx… Sai come l’hai trovata oggi: un paio di capannelli davanti alla stazione, chiuso il bar in cui andavate a far forca ai tempi del liceo, chiuso il negozio dei giochi dove passavate le giornate e dove nacque il gruppo”.
Il sentimento della nostalgia, a quanto pare, non è prerogativa dei vecchi: anche chi non è ancora quarantenne lo può provare. Perché si può sentire nostalgia anche per ciò di cui non si è fatta diretta esperienza: per il tempo in cui la gente stava insieme di più, ad esempio. E tutta la fatica che il protagonista fa per rimettere insieme un gruppo di giocatori non è questo in fondo? Anche se, al centro, più dei giocatori (qua e là echeggianti alla lontana profili e movenze che richiamano i ragazzi di Trainspottig) ci sono loro, i giochi, con la loro nomenclatura – inglese, non occorre dirlo – sempre in evoluzione: chi ha l’età giusta troverà in questo libro una sorta di album di famiglia, e una lingua che oggi è usuale, con il suo mix di anglicismi e slang quotidiano.
Chi invece è più in là con gli anni potrà adeguare ai propri ricordi l’esperienza del successo e del rapido crepuscolo (anche se molto meno rapido che negli anni successivi) dei giochi che hanno segnatola sua infanzia: le costruzioni, di legno, soppiantate dal meccano, di metallo, e dal lego, di plastica; il trenino elettrico trascurato per la scatola del monopoli.
Una storia minore che non è finita: i giochi di ruolo (con il loro dadi, matite, schede e manuali di istruzioni) non hanno forse  aperto la strada agli immateriali videogiochi, che certamente non sono un punto d’arrivo, anche se non sappiamo a cosa preludano?
Discorsi stravaganti, da collezionisti o storici dell’infanzia? Walter Benjamin non lo credeva: fra le molte cose che riconosceva come spiragli, indici significativi, per comprendere il mondo contemporaneo e la vita che vi conduciamo i giocattoli occuparono sempre per lui un posto di prim’ordine.

Un’apocalisse antropologica che si consuma nel Presente

Francesco Germinario, Un mondo senza storia? La falsa utopia della società della poststoria, Asterios 2017 (pp. 126, euro 16)

“Le commemorazioni legate alla «Giornata della memoria» realizzano il primato della destoricizzazione”: “agli studenti sono proposte riflessioni o ricostruzioni che esulano quasi sempre dallo svolgimento effettivo dei programmi di storia, rendendo difficoltosa la medesima collocazione della Shoah sul piano temporale”.

E i viaggi ad Auschwitz? Nella sostanza, “iniziative vissute dai partecipanti come una gita scolastica”, al massimo “come una declinazione del «turismo della memoria»”. Operazioni che contro la loro volontà finiscono per banalizzare la storia, dunque? No, peggio: “procedure esorcistiche, finalizzate a sterilizzare i contenuti politici degli atteggiamenti xenofobi correnti”.
Parte dalla scuola, e dall’insegnamento – dal non insegnamento – della storia del Novecento che in essa si pratica, questo libro, ma non è un testo esclusivamente per insegnanti, nonostante la sua tempestività e  l’innegabile sintonia con i discorsi suscitati dalla proposta di accorciare di un anno le scuole medie superiori: “invece di diminuire i corsi di un anno, si tratta di far entrare un secolo in più nei programmi”, scriveva poche settimane fa Asor Rosa su “La Repubblica”.
Perché questo è il punto: il fatto che il programma di storia che si svolge non contempli, di fatto, il Novecento e, se va bene, tocchi per sommi capi la sua prima metà fermandosi alla seconda guerra mondiale, è la spia –  anzi: la causa e l’effetto insieme – di un diffuso e pervasivo atteggiamento culturale, esistenziale, che induce non a un generico pessimismo sui tempi che corrono, ma al riconoscimento che quella ormai in atto è un’“apocalisse antropologica”. Una mutazione che si rivela nella separazione fra Storia e vita: il Tempo è privatizzato, è solo il tempo biografico, quello che si vive (o si immagina di vivere) in prima persona; la vita è depurata della sua storicità, a partire dalla rimozione del limite che la connota: non è fatta di esperienza, ma di consumo, e il consumo si svolge nel Presente, lo pervade, lo impone come unica dimensione della realtà e del pensiero (“unico”, per l’appunto). Il presentismo imperante “ha fagocitato le scansioni temporali Passato-Presente-Futuro; forse a essere entrato in crisi è il concetto medesimo di Tempo” (salvo poi ricevere i contraccolpi di questa riduzione al puro presente – verrebbe da aggiungere – sottoforma di insoddisfazione cronica, di infelicità, di depressione…).

E non è che la memoria – terreno diverso da quello della storia, ma pur sempre rivolto a mantenere un senso del Passato – contrasti davvero la dittatura del Presente, perché “la memoria, per essere attiva, necessita di momenti di socialità forte”, come il partito politico, che è però entrato in una crisi irreversibile negli ultimi decenni (complice lo smantellamento operato con disinvoltura, e fierezza in molti casi… – ndr.). E allora, a chi il compito di impedire che la memoria si privatizzi e la storia diventi “egostoria”? Alla scuola! “L’istituto formativo è rimasto pressoché l’unica agenzia deputata a gestire questa operazione”.
Ecco perché si è partiti dalla scuola: è lì che la scomparsa del pensiero critico – perché non ce n’è se manca la consapevolezza della storicità, e dunque della superabilità, del Presente –  ha fatto le sue prove e celebra i suoi fasti.
E gli storici, quelli che per  mestiere frequentano il passato, e ci si aspetta ne tengano vivo il senso anche fra coloro che storici non sono? “Tramontati i partiti, quale contenitore di sapere e di memoria storica, ed evaporata la politica, quale potente stimolo alla conoscenza, la ricerca storica è stata costretta a ripiegarsi su stessa, per ritrovare le ragioni e le motivazioni del proprio operare”. Presto dette, per altro: “rispetto alla cultura dominante della poststoria”, lo storico (se non appartiene alla maggioranza degli storici che scrivono per altri storici) è tenuto dal suo stesso “specialismo” a “volgere lo sguardo all’indietro. E, per un curioso paradosso, il principio di speranza non sorge, come nei profeti biblici, dalla  constatazione della condizione presente di miseria, ma dalla riflessione sul Passato: è proprio volgendosi all’indietro che lo storico decreta la storicità del Presente”. E’ proprio indagando sul Passato, che può fare il suo dovere: “porre le domande scomode spinose sul Presente.”

Contro la morte: ribellarsi è giusto

Elias Canetti, Il libro contro la morte, Adelphi 2017 (pp. 393, euro 18)

“Riuscirò a scrivere il libro sulla morte solo avendo l’assoluta certezza che non sarò io a darlo alle stampe nel tempo di vivere che ancora mi resta”.

Elias Canetti, ottantaduenne, si è persuaso che il libro della sua vita, quello cui ha lavorato per più di quarant’anni, resterà incompiuto.
Anzi: allo stato di appunti, pensieri, aforismi, il genere in cui  – come ammette lui stesso – ha “perseverato con coerenza per cinquant’anni, e questo proprio per via della loro incoerenza”. Il che non toglie che quelli che ha raccolto e ancora sta raccogliendo attorno al tema della morte formino un libro, “così da poter essere in seguito pubblicato”. In seguito, perché “solo in questo modo posso essere davvero sicuro che mi pronuncerò sempre con sincerità, senza riguardo per i vivi”. “Voglio dire quello che penso”, questo il proposito che percorre queste pagine, immutabile negli anni, e che trova il suo fulcro nell’atteggiamento richiamato sin dal titolo. Quello di Canetti non è un libro sulla ma contro la morte: “Sarebbe giusto chiudere gli occhi davanti alla morte? No, tre volte no! tenerli spalancati gli occhi, e maledirla, e ancora maledirla. E non cercare di rabbonirla mettendo limiti al rifiuto nei suoi confronti”. Vengono in mente, per contrasto, alcuni autori, i cui libri sono apparsi in questi ultimi mesi, che appunto tentano invece di venire a patti con la questione: da Yalom (Fissando il sole, Neri pozza) a Boncinelli (Io e lei, Guanda) a Maggi (L’ultima beatitudine, Garzanti), ricorrendo alla saggezza epicurea il primo, alle certezze disincantate della scienza il secondo, a quelle della fede il terzo. E Canetti ne ha per tutti, verrebbe da dire, perché i suoi pensieri sono anche una rassegna delle posizioni ritenute da lui illusorie, o inaccettabili addirittura: non basta pensare che intanto che viviamo la morte non c’è e quando arriverà noi non ci saremo, perché la morte è “un’ultima angustia orribilmente penosa, liberarsi dalla quale non è cosa che dipenda da noi”, tant’è vero che “teniamo conto della morte anche quando non la stiamo aspettando”. 

D’altra parte, “la biologia sa definire la morte altrettanto poco quanto sa definire la vita e la peculiarità dell’essere umano”, e la fede serve solo ai credenti per facilitarsi la vita, “immaginando di rivedersi, mentre questo non sarà loro mai concesso!”
Non è solo contro la propria morte che Canetti combatte, ma contro la Morte, in generale – la sua lunga vita gli ha consentito di confrontarsi con le stragi del secondo conflitto mondiale come con quelle della guerra del Golfo – senza per questo diluire nella riflessione storica il pensiero della propria fine, della fine di uno scrittore che in un libro sulla morte ha individuato il suo compito più significativo: “Puoi fare in modo che ti diventi indifferente quanto accadrà alle tue opere? No, finché continuo a scrivere. Ma un giorno o l’altro potresti finalmente smettere di scrivere, magari quando avrai terminato questo libro? Non posso. Non potrò. Allora non farai mai pace con la morte? Mai.”
Ha 87 anni, Canetti, quando – morirà due anni dopo – ritorna sul proprio progetto e non se ne nasconde l’insensatezza, o peggio: “A poco a poco mi rendo conto che nulla è più volgare, banale, scontato e demagogico della mia battaglia contro la morte. Ho cominciato a vergognarmene, ma ciò nonostante persevero in essa, imperterrito”.

Torna alla mente un altro grande pensatore che della morte si è occupato nel libro che si può considerare riferimento obbligato di ogni riflessione sulla finitudine della vita, quattrocento pagine per sondare, spiegare, ribadire il fatto che la morte non è qualcosa ma è nulla, e non consiste dunque in altro che nel “No dell’indicibile”, che “non domanda di essere compreso o interpretato, e non è fatto nemmeno per suggerirci pensieri reconditi positivi”. Così Vladimir Jankélévitch (La morte, Einaudi 2009).

Sentieri in città

Alfredo, pensionato flâneur, percorre ogni giorno la città con un’attenzione e una curiosità che gli permettono di trovarvi occasioni di incontro, momenti di scambio, ma anche di confrontarsi con atteggiamenti e mentalità che lo inducono a rifl essioni disincantate, non di rado perplesse o apertamente critiche e tuttavia mai inclini alla recriminazione o al risentimento.
Nelle sue passeggiate è a volte accompagnato dal nipotino, e la diff erenza d’età non sembra compromettere la sintonia del loro sguardo. Uno sguardo che potrebbe a volte richiamare quello di Marcovaldo, il cui creatore è non a caso esplicitamente richiamato in uno dei racconti. Anche Alfredo appare infatti sempre aperto al nuovo, al diverso, nella città di oggi emblematicamente rappresentato dallo straniero immigrato. Senonché, il protagonista di questi racconti non si guarda attorno cercando occasioni di evasione o insperate risorse che possano portare conforto alla
misera vita familiare. A richiamare l’attenzione di Alfredo sono piuttosto episodi e situazioni da cui ricavare cauti ma fondati giudizi su come va oggi il mondo.
Mai rinunciando, comunque, alla disposizione a credere che anche “una città infelice può contenere, magari solo per un istante, una città felice”, per quanto invisibile ai più.

Quelli che seguono sono brani tratti da alcuni dei racconti:

da Cerchio blu:

Se ci entri, alle 8, quando hanno appena aperto, cammini in strade che non sono strade. Perché non ci sono le vetrine. Son tutte chiuse, le serrande tirate giù. Come di notte, in città, che allora incontri solo qualche sbandato ogni tanto, ma soprattutto marocchini e neri. Sembra che ci siano solo loro.
Invece qui no. Loro non ci sono. Ci sono solo ragazzi se mai, che mangiano gelati e bevono cocacole  e birre anche se sono appena passate le otto, di mattina. Fumano, e camminano camminano in queste strade che sono corridoi. Han bruciato. Non sono andati a scuola. Staranno qui tutta la mattina.
Una volta andavano in castello, i ragazzi che bruciavano. A girare per i viali e a giocare a flipper al bar che c’era là. Poi allo zoo, sui terrazzi delle torri a guardar giù… Ma adesso vengono qui. A anche se la mattina presto non ci sono ancora le vetrine illuminate, i tabelloni che dicono le offerte, le televisioni che fanno la pubblicità, e sembra tutto come il giorno dopo l’epifania. Perché qui è così: o è festa o niente. Non ci sono i giorni feriali. Solo domeniche, oppure è un mortorio.
Che se c’era un posto dove non c’era mai la domenica era proprio questo, perché i tubi li facevano sempre, giorno e notte, natale e pasqua. Facevano i turni, ma tu non vedevi niente perché non si poteva entrare e c’erano muri tutto intorno.
Adesso invece ci si passa dentro, anche senza comprare niente.
Cerchio blu, l’han chiamato. Dappertutto cerchi blu, per terra, sulle vetrine, sulle camicette delle commesse. E fuori, sul tetto, cerchi blu di neon, che li vedi a un chilometro.

(…)

Bè insomma, adesso saran tre mesi che passo sempre dentro. Non è che mi è passata del tutto di sentirmi un po’ un pollo d’allevamento a andar dentro, ma è che fuori è più triste. Lì dentro guardi e nessuno ti guarda, ma non ti spiace. Anzi. Anche tu non li guardi, gl’altri. Nessuno guarda nessuno.
Fuori, non hai niente da guardare, ma sei sempre lì che aspetti come di riconoscere qualcuno, o che qualcuno sia lui a salutarti.
Dentro, no. Ho visto uno che conoscevo, ma ho fatto finta di niente e ho guardato dritto avanti. Non è mica un posto da star lì a dirsi come va, quello lì. Massimo, un saluto con la mano, ma da lontano, senza fermarsi.
Il bianco con le bollicine costa quattro euro invece che due. Perché io la sera… mi piace bere un bianco prima di tornare a casa. Te lo fanno pagare il doppio. Però lì non ti resta sullo stomaco perché l’hai bevuto tutto in una volta per uscire subito perché il bar è vuoto e non c’è nessuno che conosci.
Lì dentro no. Te la prendi calma. Perché è  normale non conoscere nessuno.
Quando hai bevuto molli il cine a colori e torni in quello in bianco e nero. È  questo l’effetto che fa.
’Sera… ma lo dici a voce bassa, tanto lo sai che neanche ti sentono. C’è la musica sempre, lì dentro. Se per caso ti hanno sentito allora dicono buona giornata. Né buongiorno né buonasera: buona giornata. E non sai se l’han detto a te o a un altro.
Buona giornata. Anche se è già sera.

da Per leggere il giornale:

Io il giornale, a casa, non sono mica capace di leggerlo. Non so… mi sembra di non aver niente a che fare con quelle cose che leggo. O perché sono lontane – l’Iraq, la Corea… – o perché… magari non sono lontane ma è lo stesso: di quelle robe che si fa fatica a pensare che succedono qui da noi, in Italia. Bè insomma: se le leggo in casa mi sembra di essere scemo a prendermela per quelle cose lì. Se invece sono fuori, dove c’è dell’altra gente, allora mi sembra di fare il mio dovere a leggere il giornale, e ci provo anche gusto se c’è qualcuno da dire due parole. Leggere il giornale fa parlare, delle volte. Perché è raro che qualcuno racconti qualcosa, se no. Una volta succedeva, ma adesso… E è un bel po’ che a me sembra che non succede più. Raccontavano una volta. Mica tutti ma ce n’erano: cose che c’hai a che fare anche tu e se le ascolti magari dici anche tu la tua. Ma siccome oggi non succede bisogna trovare qualcosa per parlare, qualcosa che non è né mio né tuo né suo, ma un po’ è di tutti, e delle volte le notizie sono così. Non importa se sono da ridere o se fanno arrabbiare, che poi la maggior parte fanno arrabbiare. Che conta è che tu magari leggi una notizia a alta voce… non occorre un discorso, basta mezza parola, anche solo la faccia che fai, e un altro butta lì una parola, e tu allora un’altra e via, si parla. Non mi importa che quello la pensi come me. Certo se è uno come te, che vedo che legge anche lui la repubblica, va meglio. Però, delle volte, ascolto quelli che stanno dall’altra parte e mi fanno pensare, perché più andiamo avanti e più mi pare che ci sono cose che pensiamo anche noi come loro, se vuoi che te lo dica. E questa è già una cosa che fa pensare. E non ce ne accorgiamo se continuiamo a parlarci solo fra noi, e anzi: crediamo di essere sempre i più forti, quelli che la vedono giusta. Speciali addirittura, noi. Invece, a ascoltare come la vedono gli altri, anche quando dà fastidio, primo: capisci che sono tantissimi. Di più di noi. E poi senti delle cose che, ecco, ti fanno pensare che non si può continuare a dire le cose come le dicevamo trent’anni fa, mica perché sono sbagliate eh: io non sono mica uno di quelli che dicono che ci vuole il nuovo e i giovani e insomma bisogna buttar via tutto, figuriamoci. Però… va a finire che a parlare solo fra noi convinci solo quelli che sono già convinti.

da Sentieri in città:

(…) la caccia ai sentieri. Era una gara: chi li vedeva per primo, e lui teneva il conto. Bastava andare in qualche giardino pubblico e c’era da divertirsi. Dove c’era un vialetto che faceva una curva potevi giurarci che trovavi il sentierino che tagliava dritto. Al campo militare, che adesso non è più per i soldati, ci vanno a correre tutti, lo sapevo che c’era un sentiero che lo tagliava esattamente a metà. Il più lungo che avessi mai visto: l’ho lasciato scoprire al Luigino…
Dopo è venuto che, non che il gioco ci avesse stufato, ma lui ha cominciato con le domande: quanto saranno vecchi? c’erano già prima che mettessero l’asfalto sulle strade?
A me è sembrato di rispondergli che sì, mi sembravano vecchissimi, di più delle strade asfaltate. Non so perché ho detto così: mi faceva piacere pensare che nella città di oggi ci fossero i segni di dove camminavamo in quell’altra che non c’è più.  La città dove si andava solo a piedi, niente macchine, solo cavalli se mai. La città dove i passi lasciavano il segno, non come sull’asfalto. O sul cemento. Anche se il Luigino, una volta che parlavamo di questa cosa, mi ha portato a vedere un marciapiede vicino a casa sua dove si vedono le orme di un cane: passato quando il cemento era ancora fresco, mi ha spiegato.

(…)

Lui, questa cosa delle impronte gli interessava molto, ci ragionava su. Un giorno che eravamo alla fontana dei giardini e c’era un piccolino col padre che gli faceva andare la barca telecomandata –  e intanto il figlio guardava Luigino che tirava sassolini nella vasca e si era dimenticato della barca e non ascoltava più il padre che gli diceva come si faceva a guidarla – il Luigino ha detto che la barca lascia come una specie di orma, ma lunga.
Una scia, gli ho detto io.
Sì, proprio, come quella che lasciano gli sci.
Ero lì che pensavo alla scia e agli sci, e lui ha fatto: anche in piscina, quando vado a nuotare, ci faccio la scia. Però non dura.
E qui lui è saltato fuori con una di quelle che bisognerebbe scrivere: i sentieri sono le scie dei passi, ha detto, serio come è lui quando proprio in quel momento sta capendo qualcosa. Ma non era finita: sono le scie che fanno i passi per far sapere agli altri che siamo passati di lì e dunque anche loro possono passarci.


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 16 novembre 2017.
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Dal Corriere della Sera Brescia del 23 novembre 2017.
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Da Bresciaoggi del 28 dicembre 2017.
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Una scrittura capace di trasmettere sentimenti universali

Donatella Di Pietrantonio, Mia madre è un fiume, elliot 2011

La assiste, la porta alle visite di controllo – anche se lo sa: servono soprattutto a lei, perché la rassicurano – e nel complesso può ritenersi “una figlia sufficientemente buona”.

La celebre definizione di Winnicott riguardava la madre che possiede la capacità di accudire il suo bambino e – al di là delle sue intenzioni – non fargli dentro il vuoto che altrimenti quello si porterà dietro tutta la vita. Ma i ruoli si invertono: ora è alla figlia che spetta il compito di curare la madre: ci riesce? A suo modo, in qualche modo. Come tutti quelli che hanno vissuto l’esperienza di accompagnare i genitori nell’ultimo tratto della loro vita, e ne sono usciti stremati, ma soprattutto insoddisfatti, frustrati se non addirittura gravati di rimorsi: per non aver fatto tutto quello che andava fatto; per non aver fatto abbastanza avendo già mentre lo facevano questa sensazione di insufficienza, o di inadeguatezza; per non aver donato tutto il tempo possibile  a chi forse non chiedeva molto di più, in fondo (“odio il tempo che mi costa”, confessa la figlia, voce narrante di questo romanzo). Tutta la storia di una relazione – una relazione primaria, che non appartiene e non apparterrà mai al passato – precipita in quei mesi, in quelle settimane finali, portandosi dietro tutto. Tutto quello che l’ha definita sin dai primi momenti dopo la nascita, e poi nell’infanzia, nell’adolescenza, nella prima giovinezza. Ed è allora un bilancio inevitabile quello che alla fine si impone, e può essere un bilancio drammaticamente negativo: “Il nostro amore è andato storto, subito.” Perché? Perché la madre non ha potuto essere una madre sufficientemente buona, si potrebbe sintetizzare: “Era troppo educata al sacrificio per permettersi il piacere di stare con la sua creatura. (…) Lei mi amava, ma aveva altro da fare. Lavorava, per sua figlia. Non venivo prima nei suoi pensieri e non l’ho sopportato. Da grande mi sono appellata alla sua storia, ma non ci ho creduto abbastanza. Doveva disubbidire, per me, amarmi contro tutti.”
Con questa “madre inaccessibile, separata, non per disamore, per fretta, quest’altra forma del disamore” la figlia vuole, deve fare i conti che da sempre si proponeva, e sempre ha rimandato, fino al momento in cui lei, la madre, “è sfuggita nella malattia”, in una condizione nella quale “i conti non si chiudono mai”.  

È questa consapevolezza a guidare la narrazione, una narrazione che sa dare respiro storico, sfondo collettivo, alla vicenda materna che ha segnato la figlia: tornano alla mente le pagine che un’altra scrittrice, Annie Ernaux, soprattutto quella di Una vita di donna (Guanda, 1987), anche lei alle prese con la demenza della madre (“Non volevo che ritornasse bambina. Non ne aveva il «diritto»”). Non fosse che la confidenza, con il corpo bsognoso di cure della madre, che là si riscontra, resta nelle pagine di questo romanzo una dimensione penosamente irraggiungibile: “mi tocca la gamba all’improvviso e parla di questa mia gonna così morbida. (…) Soffro il contatto, avverto il disturbo. Controllo la reazione. Cerco di sembrarle disponibile ma non mi credo, sono rigida. Dove posa il palmo, la pelle scotta sotto il tessuto.”

Provando a spiegare le ragioni del successo del suo ultimo romanzo, L’arminuta (recente vincitore del Campiello, di cui questi appunti si sono occupati lo scorso 14 maggio), Di Pietrantonio – che sarà con noi in libreria il prossimo 10 novembre – ne rintraccia il motivo nei “temi universali che tratta”. La vicenda è quella di un abbandono drammatico, infatti, ma anche chi non ne ha subito uno tanto grave “può immedesimarsi nell’Arminuta”. E’ forse questo il filo che lega questo romanzo al primo, quello d’esordio: la capacità, guadagnata attraverso  la scrittura scarna che li caratterizza, di rendere condivisibili stati d’animo nati da vicende apparentemente lontane dall’esperienza di chi legge. Nell’Arminuta, il senso dell’abbandono; in Mia madre è un fiume, il senso di una problematicità irrisolvibile e bruciante che il rapporto con la propria madre lascia nella figlia.
Una problematicità alla quale anche chi è figlio, leggendo queste pagine, si sente tutt’altro che estraneo.

Il corpo, la vita, la scrittura

Mariagrazia Fontana, Il tempo raggiunto, secondorizzonte e Liberedizioni (pp. 280, euro 16)

Misurarsi con il proprio corpo, i segni che ne giungono, le paure e i desideri che indistintamente esprime, nell’esperienza della malattia come nella pratica della corsa.

Soccorrere quello ferito e sofferente – tanto più da interpretare nel suo muto linguaggio  se chi ricorre alle cure è straniero – nell’esercizio del proprio lavoro, un lavoro – l’autrice è chirurga, presso l’Ospedale Civile – che non si lascia mai ridurre al protocollo né alla semplice procedura tecnica dell’intervento; confrontarsi con il corpo  che attraversa le età della vita, nella relazione, densa di ricordi e significati sedimentati, con la madre che invecchia, così come in quella sempre in via di nuova definizione e anche per questo rigenerante con le figlie che, da bambine che erano, sono già donne.
Sono queste le coordinate principali entro cui si delinea il corso di un’esistenza che per dirsi non ricorre al romanzo autobiografico ma a una sequenza di racconti che rimandano  uno all’altro in una medesima trama, entro l’orizzonte aperto di un tempo che solo la scrittura sa raggiungere. Una scrittura che sa aspettare in solitudine le parole che, sfuggendo all’inflazione e al brusio assordante delle molte che si pronunciano, sanno conservare traccia dei giorni, e far uscire dallo spazio del silenzio la voce che può tenere in vita la vita, nella sua unità profonda.
Come la pratica della corsa è seguita alla malattia, nascendo dalla “pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci”, così la scrittura trova radice nel corpo: “Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve. (…) Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. (…) Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate.”

1917-2017: un anniversario per riflettere sull’oggi

Rita di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012 (pp. 178, euro 10)

Se si è dell’idea che gli anniversari servono a riflettere sull’oggi, a cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre non si può ignorare il libro che Rita di Leo ha pubblicato cinque anni fa.

Da decenni studiosa dell’Urss, autrice di libri fondamentali di analisi storico-politica nati dalla conoscenza continuamente aggiornata  della letteratura internazionale sull’argomento, da viaggi in Unione Sovietica e dal racconto di testimoni diretti dell’evoluzione del paese, di Leo offre nell’Esperimento profano (dopo quelli “sacri” tentati da gesuiti e quaccheri nell’America del 6-700) gli strumenti essenziali per comprendere le tappe essenziali di una storia che continua a riguardarci. Una lettura che va al cuore della “guerra di classe sovietica” concentrandosi sul ruolo attribuito agli operai e agli intellettuali (non tanto i grandi dissidenti che conosciamo, quanto i professionisti, i tecnici, gli insegnanti). Un ruolo centrale con Lenin (nel ’24 “imbalsamato con le sue convinzioni”), ma da Stalin in poi di fatto subordinato, fino agli anni di Gorbachev, quando infine lo strato degli intellettuali (mai riconosciuti come classe, come gli operai e i contadini) prese “la propria vendetta sul «lavoro produttivo», che tornò al fondo della scala sociale”. Non solo l'”operaismo” di Stalin” e il “populismo” di Khrushchev, ma anche la svolta impressa dall’ultimo segretario del Pcus trova in queste pagine una messa a punto rigorosa, che toglie di mezzo giudizi contraddittori e ideologici nel rilevare quel che intanto s’era davvero affermato: la convinzione che il ruolo decisivo era ormai giocato dall’economia e non dalla politica, e dunque “l’obiettivo prioritario non stava tanto nel creare una società diversa quanto nel crescere più del capitalismo”. La crisi decisiva che si era consumata era quella della “politica-progetto”: screditata e battuta nella sua versione “estrema” in Urss ma parallelamente in quella “ridotta” della socialdemocrazie europee. E’ qui che la ricostruzione e l’analisi storica si fa discorso del presente: nel sottolineare come la “vittoria” dell’Occidente capitalistico sull'”esperimento” – sprofondato nelle proprie contraddizioni e imploso nello sdoppiamento fra un partito sempre più debole nel suo ruolo di pianificatore e una società ormai dominata dal mercato, sia pure sommerso – ha coinciso con “una grande vendetta nei confronti degli operai” perpetrata, ben oltre i confini dell’Urss, grazie alla globalizzazione del mercato del lavoro. E insieme agli operai sono gli intellettuali critici ad essere sostanzialmente scomparsi: la fine dell'”esperimento” sovietico ha screditato la cultura europea – dall’illuminismo alla socialdemocrazia otto-novecentesca – da cui aveva preso le mosse, e asservito gli intellettuali che ne erano stati rappresentanti e innovatori. “L’intellettuale europeo che nel passato studiava il potere per cambiare «lo stato presente delle cose», si è convinto del proprio ruolo di servizio e sembra non voglia avere idee altre da quelle per cui è ingaggiato e retribuito”.

Ne deriva che “L’antagonismo sopravvissuto è individuale, l’intellettuale [critico] si rifugia nei monasteri, come fossimo tornati all’anno 1000”.
“Politica e progetto – questa la conclusione, che il caso cinese di certo non corregge – sono diventati termini in disuso. Per chi vuole risalire la china c’è solo il principio speranza.”

La dignità per invecchiare in questi tempi

Marco Aime, Luca Borzani, Invecchiano solo gli altri, Einaudi 2017 (pp. 123, euro 13)

Lidia Ravera, Il terzo tempo, Bompiani 2017 (pp. 495, euro 19)

“Dilagante senescenza” delle nostre società come dato di fondo, destinato ad assumere un ruolo centrale nel XXI secolo, quanto il riscaldamento climatico e le migrazioni.

Questione che non solo la politica ma anche la cultura diffusa, vecchi compresi, tendono a rimandare, nel caso migliore. A rimuovere, di fatto. La de Beauvoir della Terza età, l’Améry di Rivolta e rassegnazione, il Bobbio di De senectute, fino allo Zagrebelski di Senza Adulti  e al Celli di Generazione tradita, sono solo alcuni degli autori delle cui riflessioni Aime e Borzani fanno tesoro, per introdurre tuttavia un dato di novità rispetto alla letteratura sull’invecchiare e la condizione degli anziani, il giovanilismo che il mercato incoraggia e la solitudine disperata dei vecchi che non possono proporsi come consumatori.
Non solo occorre aver presente che non si può parlare dei vecchi senza dire dei giovani, ma soprattutto – qui l’elemento principale di interesse del saggio – è necessario calare il discorso nella realtà attuale, mettendo al centro dell’attenzione chi è vecchio oggi e quali rapporti intrattiene con chi è giovane, oggi. Ed ecco allora una sottolineatura decisiva: “La generazione che si è riconosciuta come giovane, che ha riempito le piazze e occupato scuole e università in nome della rottura con la società dei padri, fa ora i conti con la propria vecchiaia. E lo fa nascondendola, non guardandola, cercando di restare comunque attaccata alla scena.” I vecchi di oggi – citando Celli: “Eroici  nel Sessantotto, fiaccati negli anni Settanta dal susseguirsi di aborti rivoluzionari, tanto sanguinosi quanto velleitari, arresi negli anni Ottanta a un benessere compensativo” –  non hanno fatto davvero i conti con il loro passato e hanno invece “creato un’epica autocommemorativa e lasciato poco spazio a chi è venuto dopo”. “La mia generazione e quelle successive – afferma Alessandro Bertante, nato nel ’69, in Contro il ’68 (Agenzia X, Milano 2007) – formatesi culturalmente negli anni Ottanta e Novanta, gravate di questo fardello e soffocate dall’abbraccio di padri che si rifiutano di invecchiare e temono di perdere il loro presunto primato intellettuale, non sono state capaci di un rigenerante conflitto anagrafico”.
Ma non si tratta solo di attaccamento a idee, miti, comportamenti vissuti quando erano giovani a impedire ai vecchi che si formarono a cavallo fra i Sessanta e i Settanta di costruirsi un’immagine corrispondente alla loro età effettiva. Chi invecchia oggi non può più contare su modelli del passato, perché le età dell’uomo sono diventate oggi più numerose e articolate: si è tardo-adulti e poi  giovani-vecchi prima di essere considerati e potersi considerare vecchi davvero. Le immagini propagandate dal mercato finiscono per essere introiettate, almeno nelle fasce sufficientemente abbienti della popolazione anziana.
Se, in conclusione, sono da un lato necessarie politiche che affrontino il grande tema dell’invecchiamento delle nostre società non in termini esclusivamente assistenziali e diretti solo a mitigare i disagi delle fasi ultime della vecchiaia, dall’altro sono gli anziani stessi a doversi “ricollocare nel proprio tempo e a misurarsi con gli scenari del mutamento accelerato e dell’incertezza”, a dover acquisire la consapevolezza che “è nel riconoscimento e non nel nascondimento, nel convivere con il limite e non nel riciclaggio, che possiamo trovare, anche individualmente, la dignità per invecchiare in questi tempi.”

“Una Woodstock geriatrica?” domanda ironico il figlio alla madre sessantaquatrenne che si ripropone di riunire in una comune i compagni con cui aveva convissuto quando di anni non ne aveva ancora venti: “La gente cambia, mamma. Tu sei rimasta identica perché sei piuttosto concentrata su te stessa. E’ stato il tuo tasso di narcisimo a conservarti”.
Ecco: Costanza, la protagonista del romanzo di Lidia Ravera è per molti aspetti la rappresentante di chi, giovane negli anni settanta, non lo è più oggi. Anche se Costanza non è affatto portata a rimuovere la vecchiaia incipiente: giudizi impietosi, battute fulminanti attraversano le pagine a manifestare un’autoironia sempre all’erta, quasi assillante (nessuno può ironizzare su di me e sulla mia età: l’ho già fatto io…). E l’autrice sembra consapevole di questo suo atteggiamento se fa ammettere al suo personaggio che il suo umorismo “sa di fiele”. Si ritiene comunque un'”antropologa della vecchiaia”, che cura con gusto e intelligenza la rubrica online Vecchiaia, istruzioni per l’uso. Senonché, non le basta: vuole rimettere insieme la comune, appunto. Nonostante lo scetticismo di certe amiche: “Mi fa tenerezza la tua pervicacia – le dice una di queste – la testardaggine con cui hai coltivato in tutto questo tempo il mito degli anni settanta. I tuoi, naturalmente. Non gli anni settanta come sono stati. La tua versione dolcificata. (…) Una rivoluzione senza spargimento di sangue”.
Eh sì, gli anni settanta, a quanto pare, non tramontano per chi li ha vissuti e magari non ha più smesso di “confondere la sinistra con l’età delle illusioni (…) quando ci facevamo carico dei mali del mondo come se ne conoscessimola cura, con l’altruismo distratto di chi può sperperare il suo tempo”.
C’è molto di più, in questo romanzo, ma tener presente la chiave che Aime e Borzani ci hanno suggerito è senz’altro uno dei modi per leggerlo.

Un apologo grottesco e tenero

Yu Hua, Il settimo giorno, Feltrinelli 2017 (pp. 189, euro 16)

Le diseguaglianze non scompaiono neanche dopo che si è morti.

Il protagonista, in attesa della propria cremazione, non può sedere sulle poltrone riservate ai vip defunti, ma il sindaco, appena deceduto, ha la precedenza sui ricconi anch’essi in attesa. Perché, nella Cina di oggi, pur dominata dal mercato e conquistata dalla ricchezza, il potere dei burocrati di partito e dei funzionari  pubblici ha ancora la meglio.
Morire si muore, ma occorrono i soldi per la cremazione e poi per la tomba, altrimenti si è costretti a vagare sul confine tra la vita e la morte, dopo esistenze vissute in una società competitiva, in cui una moglie può lasciare il marito per un altro che le garantisce la carriera, o una fidanzata suicidarsi perché perché quello che il compagno dopo molte insistenze le ha regalato è un iPhone tarocco.  Una società in cui l’accesso alle cure è costoso e difficile, i prezzi degli immobili conoscono impennate che tagliano fuori la gran parte della popolazione, l’informazione è distorta, i neonati eliminati – secondo i dettami della politica del figlio unico – sono gettati nel fiume come “rifiuti ospedalieri” e l’unico cibo non è adulterato è quello che viene servito ai banchetti di Stato.

Una denuncia del sistema cinese, dunque? Anche, e delle più caustiche, ma non solo. Radicale e disincantata, la critica che percorre questo libro, incarnandosi in storie e personaggi che vivono situazioni paradossali, ricorda certe pagine di Swift ma lascia emergere, in contrappunto, uno sguardo pur sempre ironico ma pieno di pietas nei confronti di vite inconsapevoli e smarrite e tuttavia capaci ancora di amore. Dell’amore disinteressato di un padre per caso, un ferroviere che adotta il bambino trovato fra i binari e lo cresce, dando vita a una vicenda dal sapore cechoviano. Ma è soprattutto dopo, in un aldilà dove non esiste più la solitudine, e tutti sono buoni con tutti, che appare chiaro come si stia meglio da morti che da vivi. Anche perché, divisi da invidie e disamori nell’aldiquà, passata la soglia tutti si ritrovano: amici sinceri, parenti solleciti, amanti appassionati.
Il tutto narrato non ricorrendo alla corrosività della satira, ma con la grazia e la leggerezza di un apologo grottesco.

Un’infelicità vissuta con parsimonia

Alberto Schiavone, Ogni spazio felice, Guanda 2017 (pp. 239, euro 16)

“L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà; se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme”.

“Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Sembrano impersonare i due modi descritti da Italo Calvino per far fronte al dolore e alla disperazione, i protagonisti di questo romanzo.
Ada non solo è caduta nell’alcolismo, nella sciatteria, fino all’abbrutimento che non lascia più intravedere la dignitosa insegnante che è stata, ma si è anche lasciata alle spalle le buone maniere e il politicamente corretto: dà della testa di cazzo a molti e manda affanculo tutti, estranea al mondo, irreparabilmente distante dagli altri. Amedeo no, anche da pensionato è rimasto l’“omino leggero” che è sempre stato, uno di quegli uomini che temono il giudizio degli altri: ha “paura di tutto” e non è “sicuro di niente”. Eppure, vive la propria infelicità “con parsimonia”, e non si chiude al mondo: si guarda attorno e da quel che vede e ascolta ricava raccontini, che non scrive, ma narra a se stesso, mentalmente. E così passa dieci, dodici minuti. Non devono durare di più, non farebbero per lui. Non si sottrae alla miseria e al degrado domestici, ma sa distinguere “ogni spazio felice”, per esempio quello in cui si svolge l’esistenza degli animali, che  “vivono nel presente” e “non conoscono il rancore, il ricatto, l’impotenza”, che sono invece esperienza d’ogni giorno per lui. Complice, di fatto, dell’abiezione della moglie, che a malincuore provvede a rifornire quotidianamente di bottiglie e sigarette e s’accontenta di disapprovare sommessamente, di riprendere con cautela. Una complicità, la loro, nata da un comune dolore, la disgrazia che s’è portata via uno dei due figli adottati, il maschio, e ha annientato lei mentre lui è riuscito ad affrontarla, avendo a fianco la figlia, Sonia: “Spettatori storditi. Poi famigliari attenti. Delusi. Arrabbiati. (…) Amedeo e Sonia soli davanti a un fallimento. Di loro tutti. E allora l’impegno di esserci, stare lì, resistere alla tentazione di scappare e lasciare tutto. L’alcol di Ada è il loro stesso  fiume. Ci sono immersi…”.
Sullo sfondo, la Storia: la marcia dei quarantamila della Fiat a Torino, dove “con grande anticipo finiva il Novecento”, senza che ci si potesse render conto della portata dell’evento, “perché l’impegno di vivere non permette di capire”.  E neanche i privilegiati, del resto, sono consapevoli del fatto che quello in cui vivono “è un mondo sempre più uguale, in cui la parte ricca, colta, prova ad arroccarsi laddove ancora si riconosce e non si mischia con i barbari o gli esclusi”, ma “non capisce che verrà rasa al suolo”.

Una storia triste in un mondo triste, dunque. Che se troverà un motivo di riscatto lo troverà nella pietas di Amedeo, nel suo desiderio di risollevare la moglie dalla rovina che persegue con determinazione, di aiutare la figlia nelle sue improbabili e sofferte esperienze sentimentali. E’ la lingua asciutta, il periodare limpido dell’autore, la costruzione nitida in cui si dispongono gli avvenimenti in sequenze di fotogrammi, a impedire che arriviamo in fondo senza mai avvertire il sapore sgradevole del patetismo. Ma lo dobbiamo anche a lui, ad Amedeo, con il suo antieroico arrabattarsi, la sua sostanziale pulizia morale, la capacità di conservare  un nativo spirito di umana curiosità, e di comprensione intelligente: più lo si segue e più si ha l’impressione che la sua richiami un’altra figura, e – pur nella diversità d’ambienti in cui le vicende sono calate  e nella differenza di cultura che connota i due personaggi –  è quella di Stoner, il protagonista dell’omonimo fortunato romanzo di John Williams, cui alla fine ci sentiamo di accostarla. 

La negazione del pessimismo non implica l’ottimismo

Ulrich Beck, La metamorfosi del mondo, Laterza 2017 (pp. 227, euro 16)

Cercar di capire perché non capiamo più il mondo: nel suo ultimo libro Ulrich Beck – morto prima di finirlo, all’inizio del 2015 – invita a smettere di pensare gli avvenimenti attuali attraverso la categoria del cambiamento, nel quale, per radicale che sia, qualcosa resta comunque uguale, e nella discontinuità è possibile rinvenire elementi di continuità.

L’ottica nella quale dobbiamo porci è invece quella della metamorfosi: “una trasformazione molto più radicale, in cui le vecchie certezze della società moderna vengono meno e nasce qualcosa di totalmente nuovo”. Allo stesso modo, dobbiamo riconoscere che al programma “idealista” del cosmopolitismo è subentrata una realtà, quella della cosmopolitizzazione, in cui anche chi vive nel più completo isolamento è coinvolto in dinamiche globali.
Al di là dei discorsi di metodo, Beck non esita  – a tratti con un piglio consapevolmente spiazzante, se non provocatorio – a sostenere che nel cambiamento climatico, l’esempio più lampante della metamorfosi in corso, non possiamo attardarci a vedere solo la possibilità di un esito catastrofico: dobbiamo saper vedere anche possibili, positivi “nuovi inizi”, riassumibili nella dilagante – secondo l’autore – presa di coscienza che dalla Dichiarazione di indipendenza è ormai tempo di passare a una Dichiarazione di interdipendenza. Lo stesso capitalismo, di per sé “suicida”, conosce inediti momenti di “riflessività”, che si esprimono nell’apertura a orizzonti di più lungo periodo sia in uomini d’affari che in economisti ortodossi, finora attestati sulla linea di una indefettibile – non importa quanto ideologica – fede nel progresso.
Ma attenzione: questa crescente presa di coscienza è essa stessa un aspetto della metamorfosi e ne condivide dunque la natura: non realizzazione di un programma etico e politico ma accadimento, dato di fatto in evoluzione rapidissima, frutto non di una solidarietà globale ma di una sorta di “cosmopolitismo egoista”.
E’ inevitabile, per il lettore, avvertire in certe pagine un implicito richiamo a interpretazioni che di nuovo hanno ben poco: l’hegeliana “astuzia della ragione”, o un’indefinita “mano invisibile” (della metamorfosi?), sembrano minare l’appello al rinnovamento della nostra mentalità e dei nostri strumenti di analisi della realtà. Senonché l’autore sembra consapevole di questa possibile deriva, ma è con Ernst Bloch e il suo “principio speranza” che ammette se mai un'”affinità”, soprattutto quando sottolinea i pericoli che anche il pensiero critico corre, non riuscendo a riconoscere la portata della metamorfosi in corso e  restando perciò, suo malgrado, prigioniero dello stesso presentismo contro cui argomenta, cedendo di fatto alla colonizzazione del futuro
da parte del presente che caratterizza la società attuale.

E’ qui che Beck risulta stimolante, se non convincente: nel mettere in luce l’angustia del pessimismo precisando però che “la negazione del pessimismo non implica l’ottimismo”, e ribadendo che riconoscere la possibilità di effetti collaterali positivi di fenomeni in sé negativi – cambiamento climatico in primis – non significa escludere la possibilità della catastrofe, ma neanche quella che la crisi ambientale metta alle corde il neoliberismo, la guerra, l’irresponsabilità della politica internazionale.
Questo è in definitiva il senso profondo della riflessione di Beck, e il suo lascito, è il caso di dire: occorre lasciarsi alle spalle l’idea che ciò che non sappiamo sia una lacuna che, per quanto vasta, primo o poi si colmerà, per pensare invece che c’è molto che neanche sappiamo di non sapere. A partire dagli esiti del
la metamorfosi che sta accadendo, appunto.

Un’incapacità lentamente acquisita

Amitav Ghosh, La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2017 (pp. 207, euro 16,50)

Che il romanzo, a differenza della saggistica, sostanzialmente ignori il cambiamento climatico può essere considerato un fatto marginale solo a patto che, da un lato, non ci si sia ancora convinti della portata epocale del fenomeno e, dall’altro, non si abbia presente che la narrativa è spia e insieme produttrice di immaginario collettivo, di cultura diffusa.

Ghosh spazia sulla letteratura occidentale e fa entrare il lettore in quella dell’Oriente – indiana in particolare, della quale si sa molto poco – per dimostrare che il silenzio della letteratura sul fatto di gran lunga più decisivo del nostro tempo, il suo esser priva di strumenti per affrontarlo, non sono che il segno di un più vasto fallimento immaginativo e culturale che agli occhi dei posteri – sempre che la crisi ambientale ne permetta la futura esistenza – apparirà come una “grande cecità”. Una tragica incapacità di lasciarsi alle spalle la “tracotanza predatoria dell’illuminismo europeo” e il suo misconoscimento della dimensione non umana della vita e del mondo, aspetti intimamente connessi dell’ideologia del capitalismo colonialista e, insieme, matrici di un pensiero che ha esteso l’illusione della regolarità della vita borghese, del suo culto della soggettività individuale, alla realtà intera. E’ così che si è reso impensabile ciò che non appare probabile, e questo nell’epoca stessa in cui i fenomeni climatici – con la loro violenza, estensione e imprevedibilità – dicono esattamente il contrario.

Ghosh non è uno scienziato, e neanche un filosofo: le sue non sono teorizzazioni, ma constatazioni ricavate da circostanziati esempi tratti non solo dalla storia letteraria ma anche da quella storia dell’ambiente tanto poco coltivata dagli storici di professione.
Si finisce di leggere questo libro con una consapevolezza nuova: non è solo uno stato di negazione (sapere e pure fare come non si sapesse: cosa diversa ma non meno inquietante del negazionismo) che non ci fa prendere sul serio il cambiamento climatico. E’ anche un atteggiamento culturale lentamente maturato e ormai profondamente radicato nella nostra cultura e nel modo di pensare la nostra vita. Un atteggiamento solidale – di fatto, al di là delle nostre idee politiche – con il sistema dominante. Un atteggiamento che ci rende ciechi di fronte alla più grande mutazione che gli uomini abbiano mai conosciuto, sordi alle voci che cercano di farci aprire gli occhi e convincerci che non c’è pensiero critico se il primo posto fra le minacce e le urgenze che incombono sul mondo attuale non viene assegnato al cambiamento climatico.

La civiltà non è una conquista irreversibile

La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017 (pp. 235, euro 19)

Terrorismo. Migrazioni, soprattutto da regioni in cui lo stato è scomparso. Disuguaglianze crescenti, fra Nord e Sud ma anche all’interno dei paesi occidentali.

Xenofobia, islamofobia, razzismo. Nazionalismi, sovranismi, populismi e imbarbarimento del discorso pubblico.
Il dizionario politico del nostro tempo non si limita a fornire una smentita ulteriore e definitiva dell’ideologia del progresso: parla di un processo di “regressione” che non è solo economica e politica, ma si estende a tutti gli aspetti del vivere collettivo (e di quello individuale: fra panico demografico diffuso in Europa e malinconia esistenziale esiste un nesso accertabile).
“Decivilizzazione” è il termine più pertinente per descrivere questa involuzione: un arretramento decisivo, e pervasivo, su quel terreno, la civiltà, che ci si rappresentava come un campo di tensioni, e minacce, ma anche come un cammino sostanzialmente irreversibile. Reso precario, invece, e oggi messo radicalmente in discussione, dai rischi globali generati da una finanza che permea l’economia reale nel quadro del neoliberismo imperante, dalle conseguenze di trasferimenti epocali di popolazione e cronici stati di guerra, da un cambiamento climatico che solo con intenti dichiaratamente provocatori si può ancora mettere in dubbio.
Come si è finiti in questa situazione e come, ammesso che sia possibile, uscirne: queste le domande cui cercano di rispondere gli autori in un libro pubblicato contemporaneamente in più paesi.
Non sono discorsi nuovi quelli che troviamo in queste pagine, ma in essi spiccano sottolineature che tentano di stabilire corrette gerarchie di rilevanza fra i problemi, diagnosi mai semplificatorie e sloganistiche ma nette e decise nell’individuare le criticità di fondo: la tendenza a un dilagante rifiuto della democrazia (Appadurai), una democrazia del resto sempre meno inclusiva e, oltre tutto, in grado di ampliare le libertà personali nel momento stesso in cui toglie potere ai cittadini (Krastev); la renitenza a riconoscere nel neoliberismo il ritorno a un capitalismo dell’esproprio (Della Porta) e contemporaneamente un’ideologia che ha egemonizzato la Sinistra, incapace di rifiutare l’alternativa fra neoliberismo progressista e populismo reazionario (Fraser) e ormai guadagnata al credo del TINA: There Is No Alternative (Streek).
Rendersi consapevoli di quello che accade è il primo indispensabile passo: far fronte a una gigantesca crisi di civiltà esige innanzitutto una rivoluzione culturale che metta in grado di riflettere e pianificare sul lungo periodo (Bauman). Presupposto essenziale è l’attribuzione di un ruolo centrale al fenomeno migratorio e al cambiamento climatico (due fenomeni più o meno mediatamente legati fa loro) e, conseguentemente, l’assunzione del fatto che lo scontro oggi è fra internazionalisti e nativisti (Krastev), da un lato, e dall’altro fra negazionisti di fatto (quelli che sanno ma non fanno) della questione ambientale e coloro che invece non fuggono davanti ad essa e individuano nel cambiamento radicale e ad ogni livello degli stili di vita l’unico comportamento all’altezza dei tempi (Latour).

Al fondo di una simile presa di coscienza, o ripresa di pensiero critico, non può che esserci il riconoscimento che la “grande regressione” non è un fenomeno naturale e neanche l’esito di una complessità ingovernabile e sfuggente, ma il risultato di un tradimento: quello perpetrato dalle minoranze privilegiate (Latour), contro il quale nulla sarà possibile senza la rivalutazione  della kantiana “unificazione civile dell’umanità” (Bauman) e la costruzione di una “nuova internazionale politica” (Žižek).

Una ventata d’aria fresca

Paolo Nori, Le parole senza le cose, Laterza 2016 (pp. 98, euro 14)

Paolo Nori, Undici treni, Marcos y Marcos 2017 (pp. 157, euro 16)

Roberto Livi, La terra si muove, Marcos y Marcos 2017 (pp. 190, euro 16)

“(…) era un blogger, perché aveva un blog, era uno youtuber, perché aveva un account su YouTube, era stato un twitter, perché aveva avuto un account su Twitter, era stato, molto tempo prima, un facebooker, perché aveva avuto, molto tempo prima, un profilo Facebook, non era mai stato un instagrammer, perché non aveva mai avuto un account su Instagram però era un traduttorer, perché faceva delle traduzioni, e un romanzer, perché scriveva dei romanzi (…).”

Ci si può presentare così? si può definire in questo modo, romanzer, lo scrittore al tempo dei social? Sì, se si è convinti – come il Nori di Undici treni – che per parlare di cose serie si debba ricorrere a un’ironia vagamente demenziale. E allora si può dire anche del senso di spaesamento indotto dal vorticoso cambiamento del paesaggio della quotidianità, dalla sempre minore corrispondenza fra le parole e le cose (ancora Nori, in Le parole senza le cose):, perché c’è stato “un periodo dove le cose eran le cose, non come adesso, che non si capisce più niente, che non dico sia peggio, magari è anche meglio, però è un’altra cosa”. Per fare un esempio, il mondo in cui sono nati i cinquantenni di oggi, fra cui l’autore, “era un mondo dove i telefoni facevano ancora quei rumori così forti, così frequenti e campanellosi che per noi voglion dire  «telefono», anche se abbiam dei telefoni che coi campanelli non c’entran più niente”. E’ “nostalgia” quella che nasce dalla “propensione a identificarci con gli oggetti che usiamo” e che nel frattempo hanno cambiato fisionomia: “oggetti che conservano il loro nome ma mancano come oggetti”.  E non si tratta solo delle cose: anche i luoghi si fanno irriconoscibili. Metti certe librerie, come la Feltrinelli di Parma, tramutatasi da “libreria piccola e stipata di libri” a “grande libreria su tre piani”, “piena di bottiglie di vino, di prosciutti, di abat-jours, di appliques, di tortellini, di cancelleria, di caffè, di bomboloni” (e l’elenco prosegue), mentre i libri sono “pochissimi e solo là in fondo, alla fine della sala”, dove “un cartello con una freccia puntata verso l’alto (dice) «I libri sono ai piani superiori»”.
In questo mondo che cambia faccia a ritmi insostenibili, anche sapere chi si è diventa una faccenda dalla soluzione aleatoria: “Ero così abituato al mio comportamento da brava persona, che arrivato a un certo punto della vita ho cominciato a pensare di essere davvero una brava persona”, recita l’incipit del romanzo di Roberto Livi.

Ma perché il modo migliore di parlare di questi autori sembra citarli, quasi che esprimere impressioni e giudizi su di loro senza aderire alle loro parole li travisasse? Perché il che cosa  dicono non è distinguibile dal come lo dicono, o meglio: la loro scelta stilistica, la loro lingua è protagonista della pagina, non semplice veicolo ma sostanza dei loro ragionamenti apparentemente sconclusionati. Questi autori: non solo Nori e Livi. Anche Ugo Cornia (“ c’è una cosa che fino a prima che nascessi tu non c’era, e invece dopo poco che sei nato c’è stata, quindi questa cosa per te sembrerà necessaria e normale, per sempre”, leggiamo nel suo ultimo libro: Buchi, Feltrinelli 2016), e Daniele Benati (“Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano”, per citare una delle tante sentenze raccolte in Opere complete di Learco Pignagnoli, Aliberti 2006).
Sono gli autori riconducibili al filone padano-emiliano che raggruppa appunto Cornia, Livi, Nori, Benati (ma al quale non si possono dire estranei, se non altro per il sapore del loro umorismo, scrittori come il cremonese Andrea Cisi col suo La piena, minimum fax 2017). Filone il cui atto fondativo è stata l’apparizione della rivista Il Semplice, negli anni Novanta,  mentori Gianni Celati e Ermanno Cavazzoni (sullo sfondo, il Tonino Guerra e il Federico Fellini di Amarcord).

Ad accomunarli, e a garantire a noi lettori un piacere che non sapremmo ben definire, è la loro scelta di star vicini al parlato quotidiano, coi suoi dialettismi e regionalismi, con le sue costruzioni sintattiche approssimative, le ripetizioni e le riprese come regola. Uno stile, una lingua, capaci di un’immediatezza che è impossibile scambiare per trascuratezza. Frutto evidente, piuttosto, di una ricerca e di una cura senza le quali l’impressione di semplicità che comunicano non si darebbe. Né si darebbe quel senso di orgogliosa  ribellione al già detto – alle frasi fatte e al conformismo delle opinioni, al politicamente corretto e al culturalmente conveniente – che ci coinvolge come una ventata di aria fresca, da  respirare a fondo, sorridendo.

Perché si racconta dei propri genitori

Richard Ford, Tra loro, Feltrinelli 2017 (pp. 144, euro 15)

Perché si racconta dei propri genitori? Perché, anche coloro che si provano a scrivere senza sognarsi di vedersi pubblicati ma per una delle molte altre ragioni per cui si scrive, raccontano innanzitutto di loro, e di se stessi al tempo in cui vivevano con loro?

Non perché si trattasse di persone fuori dal comune, né perché è se stessi che si ritiene eccezionali, e dunque meritevoli di un’autobiografia che parta da chi ci ha messo al mondo. Non è certo questo che muove Richard Ford, e tanto meno l’idea che nei tratti del padre e della madre, e nella loro vicenda, si nasconda un destino, il proprio. O che nelle loro personalità e nella qualità del loro rapporto si nascondano la cifra del proprio carattere o addirittura le ragioni profonde delle proprio modo di stare nel mondo. Non sono i rimandi di significato cui le storie familiari sensibili alla cultura della psicoanalisi ci hanno abituato a guidare questa narrazione: sono i fatti, gli avvenimenti che segnano l’esistenza di due persone come tante, che di particolare e irripetibile hanno avuto però la ventura di essere stati i tuoi genitori e che dunque senti il bisogno di “sentire vicino” e di “onorare” (così, lo stesso Ford, in una recente intervista). Il che non esclude ma anzi alimenta la voglia di capire. Di capire chi erano, che cosa volevano dalla vita, pur sapendo – ammette l’autore – che si tratta di un desiderio destinato a rimanere insoddisfatto: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i  genitori  creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero, per cui anche quando ci troviamo insieme a loro siamo soli”. E tuttavia, “più vediamo pienamente i nostri genitori, più li vediamo come li vede il mondo, maggiori sono le nostre possibilità di vedere il mondo com’è”. Non mancano passaggi di questo tipo in questo libro, ma non si tratta di conclusioni, di approdi che dalle vicende contino di aver estratto concetti. Perché quel che conta sono solo i fatti. E’ questo l’insegnamento principale che sia il padre che la madre gli hanno lasciato: nella constatazione che “questa è la vita” sembra riassumersi il loro lascito: “La psicologia non era una scienza che praticassero più della storia. Non erano indagatori per natura, non si chiedevano come si sentissero a proposito di questo o di quello”, e non si trattava né di stoica accettazione della vita né di indifferenza ai suoi casi. La loro convinzione, o meglio: la loro pratica, concreta e quotidiana, era quella di prenderla per quella che era, semplicemente. Stare ai fatti, appunto.

Ed è questo il principio che sembra essere trasmigrato nella scrittura di Ford: “ho cercato di essere il più possibile oggettivo – spiega nell’intervista già richiamata, riportata nell’inserto libri della Stampa lo scorso 27 maggio – non elaborare teorie, descrivere solo i fatti: l’amore non è una teoria, ma una serie di infiniti piccoli atti”.
La volontà ripetutamente dichiarata di attenersi ai fatti perché quelli, solo quelli rivelano le intenzioni, potrebbe essere intesa come una molto americana professione di behaviorismo, e invece si rivela con sempre maggiore chiarezza un’espressione di pudore, di rispetto e riconoscimento di un’alterità irriducibile, condizione imprescindibile perché il ricordo non sfumi nella commemorazione, garanzia vera della pietas che il figlio sa tributare al padre e alla madre riandando ai loro giorni, alle loro speranze, alla loro fine.

La gioia di scrivere

Murakami Haruki, Il mestiere dello scrittore, Einaudi 2017 (pp. 189, euro 18)

Una dichiarazione preliminare: i romanzieri, assicura Murakami, non sono persone generose, sono egoisti e competitivi, fra loro. Non però nei confronti di quanti si affacciano all’esperienza della scrittura.

Ma attenzione: se accolgono con simpatia– differentemente da attori e sportivi, per esempio – e addirittura incoraggiano gli esordienti, è perché un nuovo scrittore anche se ha successo non fa ombra all’altro. La narrativa, infatti, è come “un ring di lotta libera sul quale può salire chiunque lo desideri. (…) I lottatori già sul ring – gli scrittori – fin dall’inizio sono più o meno rassegnati alla facilità con cui si entra in campo. (…) Tuttavia, se salire sul ring non presenta particolari difficoltà, restarci a lungo è una faticaccia. (…) Un certo talento e una certa fermezza sono necessari”, anche se “di questa particolare capacità non si sa molto”: scrivere è un dono che non si sa da dove arriva ma che, se lo si è ricevuto, va protetto con cura. E così subentra un'”utile selezione”, fra  quelli che lasciano dopo uno due romanzi, magari anche buoni, e quelli che dello scrivere sanno fare un “mestiere” e hanno la capacità di riproporsi puntualmente ai lettori: “il numero di romanzieri non ha limiti, ma lo spazio nelle librerie sì”.
Non sono comunque i premi letterari né i giudizi dei critici a sancire la qualità di uno scrittore. E’ altro: la gioia che si prova a scrivere innanzitutto, una gioia piena, che risponde a un desiderio vero, perché – non si deve dimenticare – è bene scrivere solo quando se ne ha voglia; in secondo luogo, a confermare la genuinità del proprio talento, è, con molta evidenza, il fatto di continuare ad avere lettori.
Per quanto indefinibile sia, ciò che occorre per diventare uno scrittore richiede comunque alcune pratiche. Primo, leggere in continuazione, “far passare dentro di sé il maggior numero possibile di storie”. Secondo, osservare attentamente eventi, persone, e rifletterci senza esprimere giudizi: “collezionare dettagli”, “ingredienti originali” che nutriranno la narrazione. Terzo: crearsi una propria lingua, un proprio stile, un proprio ritmo, semplificando e purificando il racconto non aggiungendovi particolari ma  “per sottrazione”, e  non lasciandosi condizionare dal fatto di non  aver da parte un patrimonio di esperienze fuori dal comune cui attingere. Si scrive “combinando quel poco che si ha”. Ma anche organizzando metodicamente la propria giornata. E qui si entra davvero nell’officina – espressione spesso abusata, ma appropriata in questo caso – dello scrittore, e sono le pagine migliori del libro, quelle in cui Murakami racconta del suo scrivere – e cita Karen Blixen – “senza speranza e senza disperazione”, cinque ore al giorno, per sei mesi, un anno, o due, o tre, fino a terminare la prima stesura e da quel momento iniziare la sequela di revisioni che porteranno alla versione definitiva del libro. Avendo sempre presente la necessità di  considerare il tempo come un amico, l’alleato più prezioso per arrivare a scrivere davvero il romanzo che si voleva scrivere, e  senza dimenticare mai che un altro amico va tenuto in conto: il proprio corpo. Scrivere e fare una vita sana sono due aspetti di un unico modo di vivere, lontanissimo dall’immagine stereotipata del genio  che coltiva la sregolatezza come condizione della sua creatività.

Non è un saggio autobiografico quello che ha voluto scrivere, assicura in conclusione Murakami, ma chi lo ama troverà in questo libro notizie sulla sua vita e la sua personalità, un po’ come in L’arte di correre (Einaudi 2013); chi non lo ama vi troverà comunque una brillante e argomentata demitizzazione degli scrittori e della scrittura: i romanzieri non sono maîtres à penser,  e la scrittura non è l’apice delle attività umane. Si può vivere senza scrivere. E senza leggere, come il numero di “lettori forti” (lettori di un libro al mese), non entusiasmante neanche in Giappone, dimostra…

Una storia di vite mancate, senza rassegnazione

Sandro Campani, Il giro del miele, Einaudi 2017 (pp. 243, euro 19,50)

Una storia di famiglie, di amori e disamori, speranze e fallimenti, di destini che si credeva di aver scongiurato e invece negli anni l’hanno avuta vinta.

Una storia come quelle che si sentivano raccontare dai parenti anziani: perché quei due, col bene che si volevano, si sono separati; perché, con la passione che quel tale aveva messo nel suo mestiere ha finito col fare debiti e dover lasciare, e così doversi reinventare un lavoro, sensato – come l’andare in giro a vendere il proprio miele – o strampalato, e distruttivo – com’è il lavoro del buttafuori di discoteche;  perché quell’altra, che era tornata al paese e sembrava aver messo la testa a posto, e trovato finalmente un equilibrio, se non la felicità, poi se n’è riandata via…
Tutti perché ai quali per un’intera notte, seduti accanto al fuoco, con una bottiglia di grappa sul tavolo, due uomini, uno giovane e l’altro vecchio, cercano di  rispondere. Arrovellandosi il primo, lacerato da un dolore senza requie, divenuto straniero al suo stesso paese; rivolgendo  il secondo uno sguardo di comprensione a quel che è successo, uno sguardo venato di rassegnazione ma immune dal rimpianto. Di errori ne ha fatti anche lui, ma è comunque risolto, perché nel posto dove sta ci sta bene, e diversamente dal giovane l’amore per la sua donna l’ha saputo proteggere, e continua a nutrire di senso la sua vita. E’ la sua, quella del più vecchio, la voce narrante, anche se l’altra si prende lo spazio che una storia ingarbugliata, e ancora in cerca di una chiave che non si troverà, richiede.

Parlano, bevono, e la loro vicenda lascia trasparire la vicenda di tutta una comunità in bilico fra un passato perduto, fatto di certezze, di regole condivise, di riti che un senso l’avevano, e un presente di abbandono – siamo nell’Appennino emiliano – di disgregazione sociale, di disorientamento culturale, e morale.
Il racconto va e viene, come la memoria, in un rimando continuo di flashback che chiede impegno al lettore rendendolo però via via partecipe di un ripensamento del passato a tratti ossessivo, sempre più umanamente accorato, inevitabilmente consapevole della propria inutilità.
E fuori, nel buio della notte, la lince (la vediamo occhieggiare dalla copertina del libro): qualcuno l’ha vista, altri solo presentita, ma lei c’è, nessuno ne dubita, e aspetta. Misteriosa come i boschi che circondano il paese, una natura  dimenticata e vilipesa e pure forte e imperturbabile, sordamente incombente sul mondo degli uomini, imperscrutabile come l’enigma che sta al cuore di  queste vite di donne e uomini comuni. Vite che avrebbero potuto essere diverse, e non si sa cessare di interrogare per sapere perché sono andate come sono andate.

Spettatori attenti delle proprie vite

Katie Kitamura, Una separazione, Bollati Boringhieri 2017 (pp. 187, euro 14)

Dag Solstad, Romanzo 11, libro 18, Iperborea 2017 (pp. 189, euro 16,50)

Sia la protagonista del romanzo dell’americana Kitamura che quello del norvegese Solstad attraversano la vita non cessando mai di cercarvi un senso: analizzano se stessi e i loro giorni senza moralismi e senza rimpianti, ma le scelte che fanno risultano ambigue, o opache addirittura, ai loro stessi occhi.

“La gente è capace di vivere in uno stato di perenne delusione, molti non sposano la persona che speravano di sposare, e ancor meno vivono la vita che speravano di vivere, altri inventano nuovi sogni per rimpiazzare i vecchi, trovando altri motivi di insoddisfazione”, constata Kitamura.

Lui se n’è andato in Grecia, a far ricerche sulle prèfiche, le donne che piangono ai funerali dietro compenso, perché sta completando un libro sul lutto. Affascinato da chi ha subito un perdita: anche se il dolore si direbbe non l’abbia mai sfiorato sembra uno che ha perduto tutto, e non fa che scappare: da una donna all’altra, nascondendo il suo vuoto dietro la sua capacità seduttiva.
Avevano già deciso di separarsi, ma senza dire a nessuno del divorzio ormai prossimo, neanche ai genitori di lui. E’ di fronte a questi che lei, ex moglie nei fatti, sente di dover continuare a recitare il ruolo della moglie, e dunque raggiunge il marito. Il quale però è scomparso dall’albergo in cui era, senza lasciar traccia, almeno fino a che scomparirà una seconda volta e di lui, vittima di un’aggressione il cui autore resterà ignoto, non si ritroverà che il cadavere.
Arrivata in Grecia per chiedere al marito di non rimandare il divorzio, lei si ritrova così vedova. La morte sembra averla in qualche modo legata nuovamente al marito o, meglio, all’ex marito, e il dolore di una moglie non sembra alla fine tanto diverso da quello di una ex, perché a contare non sono le ferite che con evidenza gli avvenimenti infliggono, ma quelle che “non sai di avere, e il cui decorso non puoi prevedere”.
Nulla sfugge a un’ambiguità pervasiva, che sembra contagiare anche le dimensioni del tempo, del rapporto fra un passato “sottoposto a ogni tipo di revisione”, e che dunque si rivela   “un campo poco stabile”, “un terreno cedevole”, e un futuro che di conseguenza sarà “diverso da quello che abbiamo programmato”.
Nel confronto stridente fra questa indeterminatezza che segna scelte e sentimenti, e una scrittura tesa invece a registrare con precisione analitica ogni sfumatura delle percezioni, ogni particolare dei gesti, ogni ambivalenza dei pensieri si può riconoscere la cifra di questo romanzo, che non fa che riflettere un’epoca come la nostra, “dove la gente non fa che scattarsi foto in ogni momento” e “l’effetto non è quello di una rinnovata spontaneità o verosimiglianza delle foto che proliferano sui telefonini, sui computer, su internet, ma piuttosto il contrario: è l’artificio della foto a essersi introdotto nella nostra vita quotidiana.” 

Meno evidente e dichiarata è l’opacità delle scelte che si compiono e segnano la vita nella vicenda del protagonista del romanzo norvegese, funzionario ministeriale in carriera che tuttavia “nel più profondo di sé (sa) che la felicità passeggera (è) il bene più desiderabile a questo mondo”. E dunque lascia moglie e figlio di due anni, lavoro e città  per poter convivere, in un centro di provincia, con l’amante. Donna che l’ha affascinato con la sua grazia e la sua esuberanza, ma anche con il suo fascino seduttivo: qualità che nel giro di meno di vent’anni fatalmente si appannano al punto da non permettere, all’innamorato di un tempo, di ricordare le ragioni della sua passione.
Una separazione anche in questa storia, perciò, che conosce tuttavia uno sviluppo inatteso: il figlio di lui, ormai ventenne, si trasferisce nella città del padre, che lo accoglie animato dalla speranza di poter riannodare un rapporto che lui stesso aveva spezzato. Senza per altro essersene mai pentito: cercare significati nella vita non vuol dire, per quest’uomo, esprimere giudizi sul percorso che si è scelto di fare. Ciò che è accaduto doveva accadere: non è fatalismo a ispirare una simile posizione, quanto una sotterranea percezione della casualità e dell’interscambiabilità degli accadimenti, e delle stesse proprie scelte.
Il figlio si rivelerà un estraneo, molto diverso dal padre: convintamente calato nelle “modernità” il primo, entusiasta del mondo com’è, quanto inconsapevolmente portato a rintracciarvi vie traverse il secondo. Per altro alieno dal considerare il figlio un illuso: non ha certezze il protagonista di questa storia, o quanto meno è lontanissimo dal ricavarne norme di condotta.

Una cosa però la vuole decidere lui, sia pure con la complicità di un paio di medici: fingere un grave incidente e la conseguente paralisi che lo costringerà per il resto della vita a stare su un sedia a rotelle. Approdo assurdo di una vita che si sente di non aver potuto vivere all’insegna dell’autenticità, non tanto per le scelte fatte ma perché un’ineliminabile alienazione, oggi, cova nelle vite. Non esami di coscienza, pentimenti per gli errori commessi o rimpianti per le proprie rinunce possono allora esserne lo sbocco, ma solo una protesta radicale e silenziosa, segreta e incomunicabile. Una scomparsa dal mondo degli altri che non implica né la sparizione né la morte.