Abbiamo una struttura storica che va riallestita e un progetto sul lavoro da aggiornare. Trasformare la logica collezionistica in narrativa e trovare soluzioni accattivanti. Dal Corriere della Sera (Brescia) del 21 ott 2016
Un quesito decisivo quello che fra altri, non meno importanti, si è ascoltato nell’incontro sulla cultura a Brescia tenutosi all’Aab nei giorni scorsi: il «Museo della città» è ancora attuale o è stato di fatto accantonato o quantomeno ridimensionato, se non travisato?
I romanzi di due giovani autori italiani: Emisferi, di Silvia Bonucci, e Un solo paradiso, di Giorgio Fontana.
Silvia Bonucci, Emisferi, Fandango Libri, pp. 270, euro 16,50
La crepa, nel soffitto della loro camera, la vede lei, e se ne preoccupa. Lui no, non dà importanza alla cosa. A questa come ad altre che interessano la moglie.
Sposati da trent’anni, la loro casa si è come tutte riempita di cose inutili che non si sa buttar via, e si è svuotata dei figli, ormai fuori casa. Nel condominio l’avvicendamento delle famiglie ha fatto sì che siano pochi quelli che ancora loro due conoscono. Fra loro va tutto bene. Come sempre. Ma è proprio in questa stabilità che s’è insinuata una distanza, ed è anche in questo caso lei a rendersene conto, sia pure non distintamente. Mentre Franco sembra “non avere più prospettive al di fuori della quotidianità”, Elena avverte un distacco sempre più marcato dai fatti di ogni giorno, come se andasse producendosi una separazione fra la sfera emotiva e la razionale, come se i due emisferi del cervello non comunicassero più come una volta. Una volta, quando la loro coppia se l’era immaginata sempre “unita dal divertimento di stare insieme, capace di superare la noia, la routine… E invece, piano piano, era calato il grigio…”. Ma quando è cominciata? quando s’è aperta le crepa fra di loro, e come è andata dilatandosi? Neanche lei sa trovare una risposta, perché “è difficile non perdere il filo quando si trascorrono insieme più di trent’anni”.
Non è un caso che François Jullien ricorra proprio all’esempio del progressivo disamore che si insinua fra un uomo e una donna per chiarire che cosa sono le trasformazioni silenziose (questo il titolo del suo libro, uscito nel 2010 da Cortina): le trasformazioni che si risolvono in cambiamenti radicali e pure non si percepiscono, sembrano operare indipendentemente da noi. È appunto quello che è accaduto ai protagonisti di questo romanzo, e conferma così la convinzione di Jullien: raccontando, sapendo raccontare le trasformazioni silenziose “la letteratura si prende la rivincita sulla filosofia, perché fa apparire quel che la filosofia (europea) non ha pensato”, vale a dire il lato indeterminabile, indefinibile del cambiamento, il suo non lasciarsi rinchiudere in una sequenza di eventi identificabili e databili. Sarà paradossalmente un’altra crepa, un ictus che colpisce in lei proprio l’emisfero sinistro – quello cui dobbiamo la percezione del passare del tempo, oltre che l’elaborazione del linguaggio – a riaprire un dialogo fra i due coniugi. Un evento, quindi, riavvia la loro storia, che un lungo sotterraneo processo sembrava aver irrimediabilmente incrinato.
Giorgio Fontana, Un solo paradiso, Sellerio, pp. 198, euro 14
Eventi sono quelli che segnano anche la vicenda narrata da Fontana: Alessio – giovane con la passione del jazz, impiegato, fra tanti amici e coetanei che un lavoro non l’hanno – si innamora. Appassionatamente riamato, pare, da Martina, la quale però non ha potuto dimenticare l’altro, quello che l’ha tradita e fatta soffrire, ed è infatti da quello che lei finirà per tornare. Di qui ha inizio la storia di una sofferenza che dapprima cerca di rifugiarsi in viaggi senza meta, poi nel vagabondaggio in una Milano desolata, sempre più specchio dello stato d’animo del protagonista, e in seguito nell’alcolismo, nell’uso di psicofarmaci, fino all’annichilimento di sé, e nella sparizione, infine. Ma la storia è più complessa. Amore e abbandono, sì, ma l’incontro con Martina ha portato Alessio a sentire, per la prima volta, di “voler assolutamente vivere”, e a scoprire che il contrario dell’amore non è l’odio, ma il buon senso, “lo stesso buon senso che l’aveva guidato negli anni” e l’aveva fatto approdare alla scelta di un “dolceamaro contentarsi”, come lui stesso aveva definito la propria strategia di vita. L’amore l’ha portato a “disertare dalla sua storia”, nel momento in cui ha compreso che “la fonte autentica della sua storia stava proprio nel fatto di essersi reso inerme”. Perché amare significa questo: rendersi inermi, abbandonare le difese che si erano costruite fra sé e il mondo.
L’innamoramento ha dunque interrotto, addirittura invertito, un processo che aveva lentamente plasmato l’anima del protagonista, inconsapevole della propria rinuncia al mondo e pure in quella asserragliato con il disincanto prudente che non si supporrebbe in un uomo di neanche trent’anni. È la storia non raccontata, nella sostanza, ma che il racconto presuppone, ed evoca con discrezione, a reggere la trama – apparentemente elementare – di questo racconto.
Erri De Luca, La Natura Esposta, Feltrinelli 2016, pp. 123, euro 13
“Nell’autunno del 2015, al termine di laboriose udienze in un’aula del Tribunale di Torino, sono ritornato alla scrittura”: è l’autore stesso a collocare questo libro nel proprio percorso.
Non poteva scriverlo prima, perché la sua scrittura “ha bisogno, come quando scalo una parete, di dare schiena a tutto e concentrarsi sulla superficie stesa davanti al naso, con la migliore precisione possibile. Sono andato a capo e ho ricominciato.” Due periodi, due ambienti diversi. Il protagonista, scultore di pietre e legni della montagna, è in un primo tempo anche accompagnatore di “stranieri spaesati”, “viaggiatori di sfortuna”: profughi insomma. Li guida nell’attraversamento del confine che corre tra Italia e Austria in Alto Adige. Perché sono “buffi gli Stati che mettono frontiere sopra i monti”, e “li prendono per barriere”. “Sbagliano, le montagne sono un fitto sistema di comunicazione secondo le stagioni e le condizioni fisiche dei viaggiatori”. Proprio a causa di questa sua attività, o meglio: del modo in cui lui la pratica, sarà costretto a lasciare il paese e andare a cercar lavoro lontano, in una città di mare. E là, sulla statua di un Cristo in croce, potrà mettere alla prova la sua perizia – la sua sensibilità e intelligenza, soprattutto – di scultore.
Fra i due momenti c’è però un nesso profondo, sul quale il protagonista stesso si interroga: “cos’è la misericordia che provo davanti a questa figura?” Nella sofferenza dell’uomo crocefisso risuonano altre sofferenze: il restauro del crocefisso è un’opera di misericordia non del tutto dissimile da quella che lui faceva lassù in montagna. E ne viene “una confusione di tenerezza, uno spasmo di compassione” che, risolvendosi in spirito di fraternità, da sentimento si fa azione. Lo capisce anche il vescovo che dà il suo benestare all’assegnazione del delicato lavoro di restauro: “ho esaminato numerosi artisti (…), ma cercavo un uomo con una vicenda, con delle caratteristiche al di fuori della qualità artistica. La notizia dei suoi accompagnamenti oltre confine è arrivata anche qui.” Ma al di là della trama, a suo modo avvincente, il racconto si regge sulla lucidità sobria della scrittura, fresca e netta nelle forme e nei colori come un mattino in alta montagna, dove può accadere di rendersi conto che l’essenziale è lì, e di tutto il resto si potrebbe fare a meno. Una scrittura che coltiva l’arte della sottrazione. La stessa che pratica lo scultore.
Olivier Bourdeaut, Aspettando Bojangles, Neri Pozza 2016, pp. 142, euro 15
Aspettando, En attendant. Ma non Godot: Mister Bojangles invece, il ballerino di tip tap che teneva allegri i suoi compagni di cella nella canzone del 1968 interpretata, fra gli altri, da Nina Simone: è la sua voce ad accompagnare dall’inizio alla fine padre, madre e figlio protagonisti del racconto.
Tre personaggi in attesa, sì, ma solo di nuove avventure, e feste soprattutto, che realizzino il senso della loro vita. Perché l’han capito, loro: la vita si vive qui e adesso e dunque tanto vale cavarne il meglio, subito. Il ruolo della guida, in questa pratica frenetica e spensierata, è assolto dalla madre, creativamente seguita dal marito: divertire, stupire il figlioletto è il loro criterio educativo. Interpretare la vita come un romanzo e se stessi come personaggi è la loro bussola esistenziale, per cui il padre “si inventa vite da spacciare” a chi lo ascolta, la madre cambia ogni giorno nome secondo il gusto del consorte e tratta il figlio “né da adulto né da bambino, ma piuttosto come un personaggio da romanzo”, appunto: “un romanzo che lei amava molto, nel quale si immergeva ad ogni istante. Non voleva sentir parlare né di grattacapi né di tristezza”. Qui sta il punto: la condotta sostanzialmente demenziale di questa famiglia è una sorta di gioiosa protesta nei confronti della seriosità, del dovere, del lavoro. La stessa felicità che inseguono con determinazione non s’aspettano che si stabilizzi: occorre rinnovarla escogitando trovate e organizzando banchetti, bevendo ininterrottamente cocktail e ascoltando lui, Bojangles.
C’è la visionarietà di Queneau, in questo romanzo, ma anche l’inventiva di Dickens: come spesso accade nei suoi romanzi la voce narrante è quella del bambino, e l’altra che interviene è la voce di un adulto, il genitore, che sembra a tratti condividere lo svagato buon senso, la stravagante probità del Wilkins Micawber di David Copperfield. Romanzo sorridente, ma solo in apparenza. Nell’euforia incontenibile della protagonista si fa strada la tristezza, e infine la follia, e il marito si dovrà infine rassegnare a non essere più “l’imbecille felice che aveva sempre pensato di essere” e seguirà l’adorata compagna nella morte. Non prima però di aver lasciato al figlio i quaderni in cui aveva annotato “tutta la loro vita come in un romanzo”, scrivendo “i momenti belli e quelli brutti”, senza tralasciare nulla, tanto da offrire all’erede la “sensazione di rivivere tutto una seconda volta”.
Franck Bouisse, Ingrossare le schiere celesti, Neri Pozza 2016, pp. 174, euro 15
L’editore l’ha messo nella collana I neri, e questo può starci. Ma citare in copertina, a mo’ di presentazione, una recensione francese che l’ha definito “il miglior thriller francese dell’anno” no.
Perché il destino di Gus è quello di un Rosso Malpelo delle Cevenne e la sua storia richiama un mondo a parte, il mondo dei contadini e delle campagne, un’isola di non contemporaneità nel contemporaneo, coi suoi tempi e i suoi riti, e nulla di idilliaco. Pieno di rancori anzi, e di violenza repressa. L’atmosfera che si respira in queste pagine può far pensare al Pavese di Paesi tuoi, se mai. Non certo ai garbugli costellati di colpi di scena granguignoleschi come quelli cui l’industria del giallo tenta di assuefarci. Nell’epoca un cui è stravagante, e sospetto, non possedere automobile e cellulare, Gus possiede solo una tv che trasmette a mala pena un canale, abbastanza comunque per venire a conoscenza della morte dell’Abbé Pierre. Una figura che sembra aprire uno spiraglio nella sua scorza di insensibilità e diffidenza, offrirgli l’immagine, per quanto stilizzata, di un uomo che ha vissuto in semplicità e coerenza i suoi giorni. Tutto il contrario dei politici del Comune, i preti della parrocchia, i “succhiabibbia” propagandisti della Chiesa evangelica, i funzionari di banca che vorrebbero convincerlo a indebitarsi per ammodernare il suo allevamento di vitelli.
Poi gli eventi precipitano. Il buio della propria infanzia irrompe nella vita di quest’uomo: “Non temeva più l’oscurità, il freddo, la solitudine, perché era diventato lui stesso la notte, il silenzio, la somma di tutti i giorni passati, e il futuro non sarebbe esistito mai più”. E invece la morte è già lì a prenderselo. Ma sarà proprio in quel momento estremo che Gus vedrà farglisi vicino proprio lui, l’Abbé Pierre, e insieme l’unica creatura che abbia saputo alleviare la sua solitudine, il cane Mars, che qualcuno gli aveva avvelenato. E, come in un film di Charlot, li vediamo andarsene via fianco a fianco: “Il terzetto – è la scena che ci resta in mente – si mise in marcia per andare a ingrossare le schiere celesti”.
Cristovão Tezza, La caduta delle consonanti intervocaliche, Fazi 2016, pp. 237, euro 17,50
Duecento pagine di monologo, un riandare alla propria vicenda da parte di un professore settantenne di filologia romanza, studioso delle evoluzioni attraversate in Brasile dal portoghese (esemplificate da fenomeni come la caduta delle consonanti intervocaliche, appunto): mentre si sbarba e si veste per la cerimonia in cui gli verrà consegnata una medaglia per meriti accademici pensa a come impostare il discorso che dovrà fare.
È questa l’occasione per riandare ai fatti salienti della propria vita (il matrimonio, i figli, l’appassionata relazione con una studentessa, la carriera professionale) e, più che un racconto, è un rimuginare sempre gli stessi avvenimenti cercando di spremerne il senso della propria esistenza, fino all’esperienza ormai preponderante: l’invecchiare, il degrado fisico (“il nemico è il corpo?” è la domanda ricorrente), la nostalgia del sesso…
Ma perché leggere un libro del genere? scontato prima che triste, verrebbe da pensare. E invece no: dire che il monologo del professore è (auto)ironico non rende l’idea. Anche i ricordi più brucianti e le riflessioni più impegnative si risolvono in una risatina fra sé (quel eheh che costella il testo), e a poco a poco è come se, per simpatia, si cominciasse a sentirla quella voce, e viene da darle un volto scegliendolo fra quelli che si conoscono, amici, attori. A me è capitato di vederlo a un certo punto, il professore: ha cominciato a parlare come Gianrico Tedeschi, ne ha assunto la fisionomia. Quel suo fare sornione e bonario, quel suo non aderire mai del tutto al personaggio interpretato. Perché lui, il protagonista, è un po’ così: anche la politica, e la vicenda tormentata del Brasile, non lo toccano più di tanto (sarà per la lingua che parla e studia, il portoghese: viene in mente un Pereira prima del suo risveglio di coscienza civile). Non è la vita pubblica infatti ma quella privata che “l’ha sempre sommerso” – sostiene il professore – e quale delle due dimensioni dia sostanza all’esistenza è una delle tante domande che si pone e restano inevase. Anche perché, alla fine, occorre ammettere che “la vita si cela nella lotteria delle piccole scelte”, confuse nella quotidianità e nei suoi automatismi. E quindi i ringraziamenti, poi qualche osservazione cordiale e i saluti conclusivi: questa la scaletta del discorso che farà.
Andrea Inglese, Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie 2016, pp. 320, euro 16
È quello di Jean Seberg il volto che compare in copertina, personaggio di Fino all’ultimo respiro di Godard, film decisivo nella costruzione del sogno di Parigi che alimenta la giovinezza del protagonista di questo romanzo.
Parigi, meta e sintesi di tutti i desideri, sogno che si confonde – in questo “post-punk” – con le parigine, che in effetti saranno tramite essenziale della sua esperienza della città. Una città della quale a un certo punto vorrebbe scrivere “una guida turistica letteraria o, ancora meglio, un romanzo turistico“, “un romanzo topograficamente ragionato, per quartieri, epoca, gastronomia, attività culturali, il romanzo con l’itinerario urbano incorporato, e tutte le tappe per il turista evoluto”, “con i posti e i personaggi come dio comanda, e gli aneddoti”. Ma non è questo che scrive: troppo preso dai suoi amori, ma anche dall’osservazione dei mutamenti che l’ipermodernità impone: dagli smartphone – veicoli di solipsismo (“connessione permanente con il brodo psichico”) ma anche mezzi per “mostrare a tutti gli stronzi che ti circondano che tu ce l’hai una vita privata” – alle vetrine in cui qualche store manager ha deciso di esporre, “posta su un piedistallo marmoreo, illuminata da uno spot invisibile, una sola scarpa, ultimo esemplare spaiato di un antico popolo di calzature per bipedi umani”. Niente a che fare con la vetrina del negozio di fotografia di un vecchio cinese, che lascia scorgere “una parete intera di macchine fotografiche usate, ma in buono stato e funzionanti, macchine analogiche, reflex, sia ben chiaro”: un messaggio del tutto diverso da quello dei negozi che “rifuggono il gremito, l’ammasso” e “mostrano il massimo disprezzo per il lato materiale, volumetrico, della merce”. È il primo, il cinese, ad aggiudicarsi la “medaglia Bianciardi”, onorificenza immaginata dal protagonista per quanti “stanno fermi e non collaborano” con le mode correnti e il cambiamento continuo, incontestabili imperativi sociali nella società dei consumi. È più che mai attuale invece la necessità che un pagina della Vita agra segnalava, che “la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.” Questa e altre verità percorrono questo romanzo volutamente sconclusionato, discontinuo, amaro e divertente, deluso e appassionato come una canzone di Paolo Conte.
Julian Barnes, Il rumore del tempo, Einaudi 2016, pp. 194, euro 18,50
“Fra le numerose delusioni che riservava la vita c’era anche quella di non essere mai un romanzo, né di Maupassant né di chiunque altro. Beh, magari un racconto grottesco à la Gogol’.”
È fin dall’inizio consapevole del suo destino, il protagonista, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, perché sa bene di che pasta è fatto: “Sono un uomo assai poco risoluto e non so se riuscirò mai a raggiungere la felicità”. A che cosa va incontro un uomo di questo genere – uno dei grandi musicisti russi del Novencento, insieme a Prokof’ev e Stravinskij – in un paese nel quale la sua arte si trova costretta a resistere al “rumore del tempo”, un tempo nel quale si era stabilito che “tutti i compositori erano alle dipendenze dello stato”, “i lavoratori dovevano essere addestrati a diventare compositori, e tutta la musica doveva essere al tempo stesso comprensibile e gradita alle masse”? Non gli resterà che aggrapparsi all’idea che “la buona musica sarebbe stata sempre buona, che la grande musica non era violabile”. Ma, intanto, accettare. Accettare le periodiche convocazioni a palazzo, e telefonate autorevoli come quella di Stalin in persona, e ogni volta piegarsi al volere protervo quanto volubile del Potere: “la purezza proletaria era per i sovietici non meno essenziale di quella ariana per i nazisti. Per giunta, lui manifestava la sventatezza, la stupidità di ricordare come ciò che il Partito aveva decretato ieri fosse spesso in netto contrasto con quanto sosteneva oggi. Il suo desiderio era che lo lasciassero in pace con la musica, la famiglia, gli amici: la cosa più semplice da volere, e la più difficile da ottenere. (…) Volevano che accettasse di essere riforgiato, come un manovale ai lavori forzati sul canale del Mar Bianco. Pretendevano uno Šostakovič ottimista.” Pagina dopo pagina seguiamo la storia della degradazione di quest’uomo, che passa attraverso l’epoca di Stalin e quella di Chruščëv, dalle stroncature minacciose alle adulazioni ipocrite, costretto a comporre anche cattiva musica e a rinnegare colleghi ammirati come Stravinskij, e finisce per concepire un irreparabile “disprezzo di sé”, arrivando “al punto di aborrire la sua persona, quasi quotidianamente” e di pensare che “sarebbe dovuto morire anni e anni prima”. E continua a vivere, invece, e a comporre, anche dopo che ha ceduto su quello che aveva fino allora difeso, la scelta di non iscriversi al Partito: “contemplò l’ipotesi del suicidio, naturalmente, quando ebbe di fronte le carte da firmare; ma poiché già stava commettendo un suicidio morale, che utilità avrebbe avuto da quello fisico? Non era neppure che gli mancasse il coraggio di comprare e nascondere e ingerire delle pillole. Piuttosto che, a quel punto, gli era venuta meno anche l’autostima necessaria per togliersi la vita.”
Romanzi nei quali l’autore ha voluto che il meccanismo di identificazione con il protagonista si inceppasse e il gusto della lettura cercare nuove vie, ne abbiamo letti. Ma qui si tratta d’altro: quando lo leggiamo, sentiamo di esserci già convinti che “essere un vigliacco non è facile” e che “molto più facile è essere un eroe”: “a un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante; quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi se stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura tutta la vita. Mai un po’ di riposo. (…) Essere un vigliacco richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa forma di coraggio.” Questo si dice il vecchio Dmitrij Dmitrievič, e sorride fra sé: “il piacere dell’ironia non l’aveva ancora del tutto abbandonato”. Ma anche di questo dovrà ricredersi, e rendersi conto che anche “l’ironia (ha) i suoi limiti”: si può guastare e divenire “sarcasmo. E a che serve, a quel punto? Il sarcasmo è l’ironia dopo che ha perduto l’anima.”
Teresa Cremisi, La Triomphante, Adelphi 2016, pp. 186, euro 16
“I genitori la definiscono una che sa cavarsela da sola”: tale è da adolescente e tale resterà per il resto dei suoi giorni. È la vita di una donna che segue il proprio demone come solo certe donne – se ne hanno la possibilità – sanno fare, quella raccontata in questo romanzo autobiografico.
La vocazione all’indipendenza e il desiderio di occuparsi solo di ciò che interessa sono già evidenti nella bambina che si appassiona di navi e battaglie navali e dell’Iliade legge e rilegge il secondo capitolo, quello in cui si passano in rassegna navi, appunto, e condottieri (altra precoce passione della protagonista, che dal culto di Napoleone passerà a quello di Lawrence d’Arabia). Le navi che predilige sono quelle dell’epoca gloriosa dei velieri, come La Triomphante del titolo, una corvetta ottocentesca della quale – ormai giunta all’ultima stagione della vita dopo un’esistenza segnata da una brillante carriera nel mondo dell’editoria – acquisterà da un piccolo antiquario alcuni disegni, opera d’un artista dimenticato. Quali sono state le condizioni che hanno favorito una vita che si può dire riuscita? Dei genitori dolci e incoraggianti, certamente: l’estrosità artistica e la spensieratezza della madre così come la delicatezza rispettosa del padre accompagnano l’infanzia e l’adolescenza di Teresa, ma altrettanto deteminante è una formazione che travalica ogni confine culturale e linguistico. Nata ad Alessandria d’Egitto, scrive in francese e in arabo ma parla anche in italiano, inglese e greco. Fin dalle prime pagine viene da pensare al Canetti della Lingua salvata, che difatti compare, ad un certo punto. Consigliata da un amico, lo leggerà con entusiasmo, confrontando alla sua la propria esperienza: “tutte quelle lingue nella sua infanzia (ancora peggio di me), per poi arrivare alla scelta esclusiva di una sola fra queste, la più ostica e l’ultima in ordine di acquisizione”. Scelta che anche la protagonista compie, privilegiando tuttavia non il tedesco ma il francese: la Francia è, fra i diversi paesi in cui ha vissuto, quello in cui si è sentita a casa. Anche se, per imperscrutabili quanto banali motivi burocratici, si vedrà respingere la domanda di cittadinanza.
Oltre che la famiglia e l’incontro con Giacomo, il pittore col quale si sposa – senza per altro che questo implichi una convivenza continuativa – sono alcuni libri a guidare la protagonista “nei momenti in cui la vita premeva sull’acceleratore e imboccava una svolta”: “a volte mi è addirittura sembrato di sentire voci amiche levarsi dalle pagine di Stendhal, Conrad o Proust, e ho fatto le mie scelte tenendo conto di quello che mi dicevano. A loro devo molto, mi hanno aiutato a decidere, spesso a partire”. “La cultura letteraria non c’entra (…). Non è un sapere trasmissibile. È altro: un legame quasi familiare.” Una pagina dopo l’altra, questo libro trasmette il quieto disincanto dell’autrice. “Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia”, avvertiva all’inizio, e la conclusione è coerente: “ho vissuto come meglio ho potuto; non mi sono limitata a sopravvivere: ho avuto fortuna”, “ho sempre saputo che niente di ciò che facevo era destinato a restare”. Giacomo vive a Milano; lei, per sei mesi l’anno, ad Atrani, accanto ad Amalfi. I giorni si succedono uguali, sereni: “resto seduta ad aspettare il sonno. Respiro, non leggo, guardo, guardo. Neppure una virgola della Storia sarà stata scritta da me; la mia vita non avrà cambiato né aggiunto niente al destino del mondo. Le tracce che ho lasciato sono irrisorie. (…) Ma questo mondo l’ho guardato molto.” “Mezzanotte e mezza. Com’è passata l’ora. / Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni”: sono di Costantinos Kavafis, il poeta di Alessandria d’Egitto, le parole che chiudono il racconto.
David Trueba, Blitz, Feltrinelli 2016, pp. 136, euro 14
Chi non conosce, di questi tempi, architetti che lamentano la bancarotta? “La crisi ci aveva abituati tutti a una precarietà un po’ ridicola – racconta il protagonista di questo romanzo – nella quale accettavamo incarichi avvilenti e stipendi disumani per sentirci ancora partecipi del sistema, per non puntare dritti alla mendicità.”
Ma non si piange addosso l’architetto paesaggista di questa storia, una storia di più o meno accettate, perfino allegre solitudini: si sorride spesso leggendola, e talvolta si rallenta, quando la pagina si addensa in riflessioni che raggiungono anche chi architetto – paesaggista o designer che sia – non è.
“Ma non ti dà fastidio che sia tutto così perfetto?, mi domandò Helga. Non hai la sensazione che oggi tutto sia raddolcito? In ogni prodotto c’è una bugia. I coltelli devono avere l’aria di non tagliare, le padelle sembrano oggetti decorativi, gli spigoli non esistono più e poi la gente si scontra con la realtà e si sente indifesa. Ero d’accordo, ma le spiegai che negli ultimi tempi anche le persone si facevano modellare così. Certo, aggiunse lei, basta vedere tutte le donne rifatte, dovrebbero essere i manichini delle vetrine ad assomigliare alle donne, non il contrario. Io sorrisi. Sì, la gente è stupida. No, mi corresse lei. Non è stupida, ha paura. Il fatto è che la vecchiaia è orrenda, disse, non dimenticare che il degrado ci fa paura. Cerchiamo di posticipare il declino il più possibile, ma con poco successo. Io con gli specchi ci litigo da tanto. Ma forse il problema, replicai, è proprio che non siamo preparati per guardarci allo specchio, ci rifiutiamo di farlo da troppo tempo e se ammettessimo semplicemente che obbediamo alle stagioni della vita non sarebbe così problematico. Facile parlare così, disse Helga, ma prova a viverlo. Per quanto tu sia assuefatto all’idea di sfiorire, ti assicuro che quando arriva il momento è una tragedia. (…) Magari fantastichi ancora di far innamorare una persona più giovane per illuderti di prolungare gli anni d’oro, ma la fine ti acciuffa sempre.”
Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Vita e pensiero 2016, pp. 120, euro 13
Nello scrittore che ci ha spiegato “perché leggere i classici” si può riconoscere, secondo Ossola, “il nostro classico del Novecento”, innanzitutto per la sua capacità “di collocare l’invenzione letteraria come scena ove il meditare filosofico e l’impegno etico trovano le loro più ‘giuste’ parabole.”
Il grande scrittore e il grande moraliste non si possono distinguere in tutto il tragitto di Italo Calvino, in “quella lunga dialettica fra ‘militanza’ e fantastico’” di fronte alla quale suonano quantomeno semplificatorie le interpretazioni che in passato han voluto fare dello scrittore un impolitico: “Credo molto nell’individuo – scrive in una lettera del ’57 – proprio perché mi preoccupo della storia collettiva.” Quelli che sa indicare sono piuttosto “itinerari spirituali compiuti al di fuori di tutte le religioni” – anche di quelle dell’impegno – e dentro la scrittura. Una scrittura che non dimentica mai “la continua scontentezza che ci si porta dietro nello scrivere” e non cessa di aver di mira “la trasparenza delle frasi”, interpretabile non come semplice qualità stilistica ma come rappresentazione della “nobiltà naturale” insita “nell’accettare il male e il bene della vita”, nell’aspettare, pazienti e vigili – come lo scrutatore alla fine della sua giornata al Cottolengo – “l’attimo in cui in ogni città c’è la Città”; nell’ammettere che l’inferno, “se ce n’è uno, è quello che è già qui”, non rinunciando tuttavia per questo a “cercare e saper riconoscere – come il Polo delle Città invisibili – chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.” Nessuna tentazione di rifugiarsi in uno sguardo distante e astratto, quindi, perché “l’umano è la traccia che l’uomo lascia nelle cose, è l’opera, sia essa capolavoro illustre o prodotto anonimo d’un’epoca”, e “anche l’‘irrilevante’ delle nostre vite quotidiane prende senso e ragione” se lo si osserva con rigore. Il “rigore del limite, in primo luogo, “la prima esattezza che dobbiamo darci”: sono pensieri, questi, che non hanno avuto il tempo di organizzarsi compiutamente nel testo di quella che sarebbe stata la sesta delle Lezioni americane.
Alessandro Zaccuri, Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura, Editrice La Scuola 2016, pp. 169, euro 14,50
“Lo scarto costituisce una dimensione necessaria del nostro stare al mondo”: non esiste mondo che non debba fare i conti con l’immondo, l’immondizia.
Tanto più il nostro, nel quale dissipazione e povertà, conquiste tecnologiche e obsolescenza programmata sono i volti, inestricabili e confusi, di una dominante cultura del consumo, potente moltiplicatore di scarti di cui – senza cadere negli eccessi di chi soffre di disposofobia (“disturbo da accumulo”, nel linguaggio psichiatrico) – non è facile liberarsi. Prova ne sia il successo di manualetti come quello che recentemente prometteva la soluzione a quanti si affidino al Magico potere del riordino. Ma non è il caso di cercare consigli di comportamento né di aspettarsi sistemazioni concettualmente rigorose da questo libro: un’enorme congerie di citazioni e rimandi, spunti e intuizioni, titoli di libri e di film, rapide descrizioni di quadri e installazioni, frutto della convinzione che “non è più possibile rappresentare e raccontare il mondo senza pensare, rappresentare e raccontare i rifiuti.” Un libro-deposito dunque, da attraversare senza correre. Se capita che torni alla mente una cosa che si è letto o un’immagine che si è vista, si tratta solo di aver pazienza, e andare avanti: salterà fuori, in una pagina o l’altra. C’è (quasi) tutto in questo libro, e allora si tratta di fermarsi se mai a raccogliere quello che sembra rispondente alla propria esperienza, o sorprendente per l’intuizione che rivela, o solo divertente. Facendo sosta magari quando ci si imbatte in qualcuno che sulla faccenda ha fatto il punto, a modo suo: più dei paesaggi desolati di Pasolini segnati da una “permanenza universale dei rifiuti”, è una delle Città invisibili di Calvino a proporsi come riferimento obbligato. A Leonia convivono due passioni: “il godere delle cose nuove e diverse” e “l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità”. Sennoché, questa coazione al nuovo e al pulito lascia intravvedere la spazzatura, sempre sospinta “fuori dalla città”, come “rovina moderna” che finisce con l’accerchiarla. E naturalmente non si può dimenticare il Calvino che ogni sera arriva fino al cassonetto a svuotare la sua poubelle agréée – la sua pattumiera approvata dai regolamenti municipali – e dà nuova dignità a questa quotidiana operazione: “Soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è stato ancora buttato e forse non è né sarà da buttare”. Ma di “scrittori della spazzatura” ne esiste una schiera: da Dickens a Don Delillo, da Hrabal a Houellebecq e McCarthy. Senza naturalmente dimenticare la centralità della spazzatura nell’arte contemporanea, a partire da quell’installazione dell’anno scorso, al Museion di Bolzano, fatta di bottiglie vuote, stelle filanti e bicchieri vuoti, che un mattino gli addetti alle pulizie del museo pensarono bene di eliminare, pezzo dopo pezzo, secondo le regole della raccolta differenziata: una storia esemplare dell’Epoca dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria (che è un altro libro, fra i molti libri citati: di Pierluigi Panza (2015), per chi fosse interessato a proseguire il cammino…).
E’ la stessa voce che abbiamo ascoltato in Giardini d’inverno: anche in questo nuovo libro di Paola Baratto ricordi ed emozioni decantano nella misura del racconto breve, se mai più rarefatto qui, ancora più sobrio nei riferimenti, meno circostanziato, tanto da sconfinare spesso nei colori luminosi e intensi delle Gouache, divagazioni assorte che intervallano i brani proponendo momenti sospesi in una sorta di domestica eternità.
Ritroviamo personaggi – donne e uomini identificati solo dal nome – che acquistano la loro consistenza nel silenzio, e in quei suoni che lo perfezionano (il fruscio di uno “scorrere d’acque”, i “gargarismi mattutini d’una moka”, i “rintocchi dei campanacci su un altopiano”). Un silenzio come quello che si può godere nel piccolo cortile chiuso fra alti muri dove il bambino sfugge – le domeniche dedicate ai pranzi familiari – all’”insensato trattenersi degli adulti a tavola” e fa esperienza di quella solitudine che nell’infanzia non è mai assoluta, perché “si avverte che qualcuno ci sta osservando”, sempre, e persino il pino che sorge nel cortiletto, “nella sua maestosa indifferenza”, dà “l’impressione d’interessarsi a lui”. Sono le “epifanie” che la noia – sentimento di cui si fa esperienza vivida nelle prime età della vita – sa regalare. Sono vissuti che echeggeranno poi nella vita adulta – ma mai immemore dell’infanzia trascorsa – in paesaggi dove si rivela “la nudità innocente e primigenia” che la montagna sa rivelare quando non ci si attarda nel bosco ma se ne esce, senza però farsi prendere dalla smania di raggiungere la vetta, e si indugia invece fra ghiaioni, fenditure di calcari e ondulazioni di graniti, gole di nevai… Ed è un’immagine, questa della neve, che ritorna: il rumore dei passi sul sentiero innevato “si fa teso come un filo di silenzio” (sembra di sentire le prime battute di Des pas sur la neige di Debussy) e sono “le nevi ingenue di Utrillo” – nei suoi ritratti del Cabaret Le lapin agile – a dare il titolo alla raccolta, ma era un “immobile paese innevato” anche l’aspetto che ogni giornata sembrava assumere quando da bambini si stava a giocare in casa, “come dentro un acquario”, “acquattati sotto mobili di formica celeste” (come il Benjamin di Infanzia berlinese: “Io li conoscevo uno per uno i nascondigli nell’appartamento…”).
E’ in questa dimensione appartata e silenziosa che i personaggi rivelano in pochi tratti la loro vicenda essenziale, lasciano trapelare il tratto che – con accentuazioni diverse, versioni variate di un’unica comune attitudine – rende uniche le loro vite, e ne fa vite a loro modo riuscite: L’arte del passo – cui è dedicato uno dei racconti – fa tutt’uno con un’arte di vivere (e di scrivere…) che coltiva tenacemente, non curandosi dell’incomprensione degli altri, la propensione alla ricerca del tempo perduto. Una ricerca che non sembra tuttavia aver la prospettiva d’un tempo ritrovato: le “tracce” di “echi” che non si cessa di seguire non portano a rivivere il passato dando la sensazione di una vittoria sul tempo. Ai protagonisti di questi racconti non è dato guadagnare – come a quello della Recherche – frammenti d’esistenza sottratti al tempo col risultato di sentirsi un essere – a sua volta – extratemporale. Questi personaggi si accontentano del “gratuito piacere d’accomodarsi dentro una risonanza conosciuta ma chiusa come un’ostrica”. E tuttavia è un accontentarsi che non si risolve nell’acquietamento: “per quanto non (ignorino) la lezione del disincanto, ogni volta ci (ricascano)”. L’assenza, per loro, resta tale, ma proprio in quanto assenza mantiene vivo il Desiderio: sa farsi segno d’un momento passato senza restituirlo con l’evidenza travolgente, la presentificazione sorprendente del sapore della madeleine. Non ne viene perciò l’impressione di essere – sia pur transitoriamente – indifferenti alla morte ma, al contrario, la percezione lucida dell’impermanenza: della “bellezza metamorfica “della montagna, ad esempio, dove la forma definitiva non alligna” e quella della solidità delle rocce è solo un’illusione, in realtà frutto di “fragorosi crolli”. Ed è tuttavia “una sovrastante impressione di permanenza” che quello stesso ambiente può darci, così rendendo “tangibile la natura relativa del nostro passaggio”. Ci era parso di camminare sulle orme di Calvino, nei Giardini d’inverno. Sembra piuttosto Proust il richiamo costate in questa nuova prova, fin dal primo racconto: a Illiers – la Combray della Recherche – “il tintinnio della campanella sul portone sembra ancora quello “di quando il visitatore era Swann”, ma una volta entrata nel giardino e nella casa, la protagonista “si (sente) estranea, come se vi ritornasse dopo aver perso la memoria”. Più dei miracoli della memoria involontaria, si direbbe tuttavia la perdita dell’aura a trasparire in questi racconti, nel “lavorio del rimpianto” che li permea ma non esclude il ricorso fiducioso alla capacità evocativa che possono offrire le nuove tecnologie (consci comunque che “la tecnologia non può tutto”). E’ dunque a Benjamin che accade di pensare, anche per il valore che si riconosce all’“oggetto buttato per errore o perduto per disattenzione”, o a quelli che si conservano, nella seconda casa magari, perché sono “testimonianze d’esistenze che non si riesce a tradire”. Un’aura che avvolge le cose ma anche certi luoghi – come un vecchio bistrot, che anche la copertina richiama, o una “vecchia dimora a mezza collina appartenuta a un amico – in equilibrio fra passato e presente, fra dimensione privata e pubblica, fra solitaria discrezione e aspirazione a uscire dalla propria riservatezza.
Gabriel Chevallier, L’annata memorabile del Beaujolais, edizioni e/o 2016, pp. 366, euro 18
Un paese di contadini, diviso fra la chiesa e il municipio. Fra il prete, benvoluto, e il sindaco, rispettato. Ma non siamo negli anni ’50 a Brescello, il parroco non ha il volto di Fernandel e il primo cittadino, seppur baffuto, non ha quello di Cervi.
La vicenda si svolge trent’anni prima, e il paesaggio – a Clochemerle, nel Beaujolais – non è dominato di campi di grano e granoturco ma da colline percorse dai filari di vite. E soprattutto: lo sguardo del narratore non è quello di Guareschi, filtrato dalla lente di fiere ideologie politiche. È piuttosto lo sguardo di un etnologo divertito dai personaggi che osserva e dai loro pettegolezzi, dalle loro invidie (sociali o personali che siano), dalle contese che ne derivano e vengono a galla soprattutto quando “il bel tempo alimenta senza tregua le chiacchiere” degenerando in un’“inesplicabile e scambievole follia”. E qui, come del resto in altre pagine, l’ironia bonaria sembra cedere a un pessimismo antropologico che va oltre i confini del villaggio francese: “in una regione benedetta da Dio, dove l’orizzonte non aveva che dolcezza e sorrisi, sotto un cielo raggiante indulgenza e amore, tremila teste di clochemerlini ronzanti di sciocco furore sciupavano quella pace troppo bella; e tutta Clochemerle rumoreggiava di pettegolezzi, di minacce, di dispute, di complotti, di scandali.” Ma il sorriso torna subito a illuminare il racconto d’una luce che richiama certi film francesi, come quelli di René Clair. Non è un caso che questo romanzo e quelli che gli fecero seguito ad aggiornare le gesta degli abitanti di Clochemerle abbiano ispirato fortunate versioni cinematografiche (una delle quali con Fernandel, chiamato tuttavia a calarsi in una parte diversa da quella di un don Camillo francese).
Marco Belpoliti, La strategia della farfalla, Guanda 2016, pp. 142, euro 12
L’abbiamo incontrato pochi mesi fa a Brescia, Marco Belpoliti, con il suo Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda 2015), e ce lo ritroviamo qui in veste di entomologo, che pure non abbandona gli strumenti dell’umanista nel proporci una “visita guidata nel mondo degli insetti”.
Ed ecco allora ricomparire l’autore di Se questo è un uomo, anche lui convertitosi però a decifrare questa presenza pervasiva ma quasi invisibile, e a farlo con la competenza che gli permette di puntualizzare che Gregor Samsa non è in uno scarafaggio che si tramuta, ma in un coleottero, e precisamente in uno scarabeo. E Levi non è l’unico letterato attento al mondo degli insetti: Nabokov ha addirittura dato il proprio nome ad alcune farfalle da lui studiate, e mentre alla pietas di Gozzano non sfuggiva la sofferenza delle “disperate cetonie capovolte”, Sciascia, come Pasolini, sembrava riservare un’attezione particolare alle lucciole. Ma non solo letterati rappresentano le fonti dell’autore: sono scienziati che li hanno studiati per una vita a ricordarci che gli insetti costituiscono tre quarti delle specie viventi e sono i veri protagonisti dell’evoluzione: “noi siamo comparsi due milioni e mezzo di anni fa come genere Homo, duecentomila come Homo sapiens. Gli insetti abitano questo Pianeta da trecento milioni di anni” e, si badi, sembrano, a detta degli zoologi, più adatti di noi a scampare ai mutamenti climatici e alle evoluzioni del Pianeta, forse anche alla sesta estinzione di massa che, secondo alcuni studiosi, ha già preso avvio…
Valerio Calzolaio, Telmo Pievani, Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così, Einaudi 2016, pp. 133, euro 12
Non sono un evento eccezionale le migrazioni di oggi, né un fatto momentaneo o un’emergenza: “il tempo profondo dell’evoluzione insegna il contrario. Il fenomeno migratorio umano è strutturale e costitutivo della nostra identità di specie”.
Ci siamo “adattati migrando pur non diventando – come altre – una specie migratoria” e la nostra superiorità, ben prima che dalla crescita dell’encefalo, è venuta dai piedi: dall’andatura bipede, che ci favorì nei lunghi spostamenti, la fuoriuscita dall’Africa innanzitutto. Ma non immaginiamoci carovane infinite, esodi di massa, file interminabili che avanzano verso una meta ben identificata per quanto lontana: le grandi ondate migratorie che portarono al popolamento del pianeta furono piuttosto “una lenta avanzata, di generazione in generazione, di gruppi parentali o più ampi, fra 25 e 150 individui”, “con scarso grado di scelta sul come, quando, verso dove e perché”. Quel che è certo è che il Mediterraneo rappresenta il “crocevia migratorio intercontinentale umano più antico” e che data dal neolitico, dall’affermarsi dell’agricoltura stanziale che induce a tracciare confini artificiali, il sommarsi ai fattori ambientali delle migrazioni – la ricerca di habitat più favorevoli – di un altro fattore decisivo: le guerre. Uccidere, scacciare, ridurre in schiavitù anziché andarsene. È da allora che prende avvio “una dialettica durevole fra costrizioni a migrare e libertà di migrare”. In questa dialettica si inscrive la “libertà giuridica di migrazione per tutti” esistente nel mondo attuale, “libertà di partire” ma anche “diritto di restare”, libertà pesantemente condizionate da una congerie di fattori, economici, politici, ambientali, fra i quali emerge sempre più quello climatico: non è una novità storica, ma è un fatto che oggi, mentre assistiamo al “più grande e doloroso esodo internazionale di profughi dalla seconda guerra mondiale”, dobbiamo prender atto che i mutamenti climatici ne sono un fattore decisivo e, quel che più conta, sempre più lo saranno: “nel 2030 la certezza di essere rifugiati climatici o la probabilità di diventare tali riguarderà almeno 250 milioni di donne e uomini”. Molti di quanti sono morti nel Mediterraneo fuggivano da cambiamenti del clima che ha reso invivibili le loro terre. E non hanno riconoscimento in quanto rifugiati climatici. È di essi che il negoziato sul clima si deve occupare, con “lungimiranza”: per “evitare disatri e prevenire la fuga, organizzare lo spostamento e valutare se e quanto sia irreversibile, maturare la ri-localizzazione insieme ai soggetti a rischio e alle loro aspettative sociali, lavorative, familiari. Culturali”.
Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie 2016, pp. 216, euro 15
“Verrà un giorno in cui il giardiniere non terrà fede al suo appuntamento consueto. Il giardino questo non lo sa.” E Pia Pera ha aspettato a dirgli che il suo male avanzava e quel giorno sarebbe arrivato, anche prima della fine.
Era un male che non troncava la vita, il suo, ma che le avrebbe tolto poco alla volta la capacità di curare le sue piante, i suoi fiori. Come il giardino era diventato metafora dell’esistenza, così il doverlo abbandonare anzitempo si fa possibilità di un “ribaltamento della prospettiva della morte”: “anziché preoccuparsi della propria sorte, chiedersi come sarà, non per noi ma per gli altri”. Per le creature vegetali del giardino, ma non solo: che ne sarà della cagna Macchia? “I cani si trovano talmente indifesi, quando muore chi se ne prende cura. Non possono decidere nulla della loro vita. Non dico che agli umani non importi nulla della mia scomparsa, solo che non dipendono da me”. Difficile non immaginare Macchia che cerca la sua padrona fra le aiole, come il “gatto in un appartamento vuoto” di Wisława Szymborska, disorientato – e indignato poi – dovendo constatare che “qui c’era qualcuno, c’era, / e poi d’un tratto è scomparso / e si ostina a non esserci.” Ma chissà se è andata così: anche Macchia si sarà resa conto che tutto, lentamente, stava cambiando? Le sarà accaduto come al giardino che, pur tenuto all’oscuro di quel che stava capitando, “si è già abituato a vedere altri che se ne prendono cura”? È difficile parlare di questo libro senza metterne in fila i passi che alla lettura ci sono sembrati rivelazioni: “cos’è curare un giardino se non un corpo a corpo, non tanto con la terra, ma contro il tempo che lo vorrebbe inghiottire?”, e la compassione che ci ispira non è dunque “compassione per la propria stessa fragilità”? È un libro da centellinare, a cui tornare, questo, che parlando dell’esperienza della malattia ci parla della vita. Della vita di tutti, e della sua finitudine. Con una forza che non nasconde la fragilità, la paura, il dolore di doversene andare e per dirlo, alla fine, prende a prestito – come per il titolo, che è un verso di Emily Dickinson – le parole di un altro poeta, Robert Louis Stevenson: “Ma non vi pare brutto / Col cielo così chiaro e azzurro, / Quando si vorrebbe tanto giocare, / Dovere andare a letto di giorno?”
Federico Pace, La libertà viaggia in treno, Laterza 2016, pp. 196, euro 15
È quello che si fa in treno, il viaggio vero, e non è sempre lo stesso: varia secondo la reazione esistente fra la città di partenza e quella d’arrivo, i paesaggi che si attraversano, il clima in cui ti trovi immerso.
Il treno è un mezzo ma è anche un luogo, un luogo da cui puoi osservarne – anche se fuggevolmente, proprio perché fuggevolmente? – altri in cui avresti potuto vivere, scambiar parole con persone che ordinariamente non avresti accostato, far cose che solitamente non ti permetti (star a guardare, semplicemente; accettare di parlare d’argomenti che non hai scelto tu; lasciar correre il pensiero): “il tempo vissuto sul treno non è solo il tempo del viaggio, ma è il tempo in cui ciascuno prova ad accedere a un se stesso che altrove non gli viene riconosciuto”. Quel che puoi provare, nella sostanza, è un senso di libertà dal sapore inconfondibile (niente a che fare con quello assicurato dall’automobile, nonostante la possibilità che ti offre di fermarti dove decidi e modificare a tuo piacere il percorso): “il viaggio in treno non è mai solo il viaggio che si sta compiendo. Non è mai solo quel che sembra, ma sempre qualcosa di più”. È quel qualcosa che sentiamo di non poter perdere, che ci ostiniamo a non voler credere per sempre compromesso dal disordine sciatto, dal sovraffollamento, dall’inaffidabilità degli orari dei treni locali (là dove continuano a esserci), così come, sui treni “a prenotazione obbligatoria”, dall’invadenza delle voci con cui i compagni di viaggio parlano – spesso a un volume che il cellulare non richiederebbe – con persone assenti, o di quelle registrate per diffondere slogan pubblicitari più che informazioni, traformandoci da viaggiatori in clienti. Continuiamo a sperare che quel qualcosa che il viaggio in treno può darci non sia del tutto perduto, anche se a volte dubitiamo che l’esperienza che ne serbiamo sia solo un ricordo, o addirittura solo un’eco letteraria (ma è poi tanto diverso?). E allora conviene cercare conferme in libri come questo, usarlo magari come fosse una guida, e andare in giro per l’Europa a sincerarci che il viaggio in treno ci può dare ancora il meglio che sa dare: sulla Atene-Salonicco, la Porto-Lisbona, la Monaco-Berlino, ma anche sulla Ragusa-Siracusa o la Cagliari-Olbia.
Marco Aime, Sensi di viaggio, Ponte alle Grazie 2016, pp. 212, euro 13
Argomento classico, quasi inevitabile, dei dopocena fra amici: il prossimo viaggio, o l’ultimo che si è fatto. Viaggi raccontati, non di rado a base di immagini (sempre troppe, solitamente poveramente didascalizzate da un pleonastico “qui invece eravamo…”): nell’epoca in cui i viaggi in luoghi lontani (e parliamo dei viaggi fatti per scelta, e per il proprio piacere, beninteso) sono alla portata di molti – non di tutti – sembra darsi per scontato che viaggiare abbia senso, che lasciare i luoghi dove ordinariamente si vive porti beneficio. Ma c’è anche qualcuno che ascolta i racconti degli amici, ma di viaggi non ne fa. Potrebbe magari, ma preferisce di no: è a questo ideale interlocutore che sembra rivolgersi l’autore, tornando insistentemente a sostenere le ragioni del viaggo reale rispetto a quello mentale (supportato da discorsi, letture, film, documentari). Lui, un antropologo che di viaggi ne ha collezionati a bizzeffe, nei luoghi più remoti e meno turistici del mondo, sente di dover spiegare il perché. In molti modi, che sorprendono a volte: viaggiare per sentirsi “spaccato in due dalla solitudine e dalla voglia di solitudine”, ad esempio. Ma soprattutto: viaggiare per sentire, per dar materia su cui esercitarsi ai cinque sensi, e dunque per nutrire la mente: “Il viola malinconico delle Dolomiti quando il giorno le abbandona. I mille volti della sabbia del deserto, pronti a tradire la tua memoria a ogni battere di ciglia del sole. Era rosa quella duna, un attimo fa. Ora è gialla, ma basta distrarsi un attimo e diverrà grigia. Il dilatarsi tenero del cielo sulla savana, il rosso che rincorre il blu per poi cedere entrambi al silenzio della notte, nera come il cuore del papavero. Quali occhi ha la mente? Come può vedere tutto questo? Può inventarlo? Sì, può, ma solo dopo averlo visto accadere.”
Fabio Stassi, La lettrice scomparsa, Sellerio 2016, pp. 276, euro 14
Si era occupato dell’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno, di Berthoud e Elderkin (Sellerio 2013). Ora Fabio Stassi ci racconta, con un’ironia a tratti desolata, di un biblioterapeuta, uno che si è inventato un mestiere creando una nuova diramazione del grande albero della specie “psico”.
Mestiere che, peraltro, esercita senza troppa convinzione, da perdente qual è, o si sente (lui stesso, del resto, ha sempre sentito nel proprio nome, Vince, “la terza persona di un verbo che non lo riguardava”). Ne vien fuori un romanzo pieno di letteratura, libri e scrittori, ma non privo di un intreccio enigmatico che ingegnosamente Vince saprà sciogliere. Anche se nel frattempo, invece di curarsi con tutti i libri che legge e consiglia, si ammala, di una malattia la cui sintomatologia può suonare vagamente inquietante per qualche “lettore (molto) forte”…
“Non c’era dubbio (…) mi ero ammalato di letteratura. Sapevo che si trattava di una malattia mortale, e incurabile. Si comincia analizzando ogni circostanza come se fosse la trama di un romanzo: se ne indagano i significati taciuti, i rimandi interni, le eventuali incongruenze (…) mettendo in relazione cose lontane, nel tempo e nei luoghi, e trovando un legame, per quanto sottile e prodigioso, finché ci si introduce alla spaventosa reticenza della realtà e alle sue ancora più spaventose dicerie e, in bilico, sul confine tra le cose certe e quelle impossibili, finalmente ci si prende la responsabilità di cambiarne la punteggiatura, di alterarne il movimento e di lasciarsi mollemente andare in un cinerama di ipotesi e di visioni, esausti e vinti dalle analogie e dalle corrispondenze, consegnati per sempre alla follia definitiva della letteratura e irrimediabilmente dimentichi della tangibilità del mondo e dell’esperienza. Non sapevo più cosa avevo realmente vissuto e cosa soltanto letto. (…) L’avventurami nel mio nuovo mestiere di biblioterapeuta aveva agito da fattore scatenante (…) Se anche fossi stato involontariamente di aiuto a qualcuno, l’attività che mi ero scelta nuoceva gravemente alla mia, di salute”.
Daniele Del Giudice, I racconti, Einaudi 2016, pp. 248, euro 19
In quelle pagine il tempo si annullava, programmaticamente: “in continuità e in una sorta di simultaneità” si raccontavano spedizioni antartiche avvenute nel passato, una di pochi anni prima e un’altra solo immaginata. A “un guardiano del tempo” si paragonava Daniele Del Giudice nel 2009, quando pubblicò Orizzonte Mobile. Un libro che, una volta letto, rendeva difficile pensare che dopo ne avrebbe potuto scrivere un altro. Un romanzo definitivo, ultimo.
Non lo sapevo: in una recensione ai Racconti, pubblicati quest’anno, ho letto che Del Giudice non ha davvero più scritto nulla, dopo, e nulla può sapere di questa riproposta di suoi scritti. Perché ormai da parecchi anni una malattia l’ha reso “assente a se stesso”. Fuori dal tempo, mi è venuto da pensare. E allora è Mercanti del Tempo il primo racconto che ho letto: il protagonista – un ricercatore, che si occupa dei fenomeni di discontinuità – scopre che segretamente esiste un commercio del Tempo, perché da noi non ce n’è più, occorre importarlo da dove invece ne è rimasto in abbondanza, dal Marocco per esempio, ma occorre anche trattarlo, confezionarlo secondo le necessità e le richieste, e questo si fa in Norvegia, dove lui ne acquista un po’. Tentato dapprima di comprare quello che gli serve per finire il racconto, opta poi per la sua prima ora di vita: continua a essere lui ma è anche – in continuità – il neonato appena uscito dall'”animale lì vicino”, e non sa più “che cosa sia il tempo”.
Inevitabile leggere questo racconto alla luce di quel che si è appreso della sorte toccata allo scrittore. Questo e anche gli altri, i due inediti soprattutto. Quello dedicato al suo gatto, cui riserva uno sguardo che non può non ricordare i passaggi, divertiti e affettuosi, dedicati in Orizzonte mobile ai pinguini. E l’altro, Di legno e di tela, dove torna la passione di Del Giudice per il volo, e anche la solitudine di chi vi ha colto la bellezza d’un’“arte del fare” che è esercizio di esattezza, e si è ritrovato a vivere in un paese nel quale la “cultura aeronautica” è fin dall’inizio sprofondata nella retorica degli “audacissimi eroi, arditi violatori del cielo”.
Maria Rosaria Valentini, Magnifica, Sellerio 2016, pp. 274, euro 16
Una penna d’oro indispensabile per scrivere storie lasciata in dono da un figlio che se n’è andato, personaggi (femminili, quelli protagonisti) che sembrano sfumare l’uno nell’altro più che distinguersi in una sequenza. Ma non è questo che disorienta alle prime pagine: sono i luoghi.
La storia prende il passo che ti aspetti, ma ti fa entrare poco alla volta. I luoghi sembra non ti accolgano, all’inizio, e la lingua – con tutte quelle immagini, e metafore che più che ardite suonano a volte stralunate – sembra imporsi, occupare troppo lo spazio della narrazione. Poi, però, capisci che non bisogna dar troppo peso a questi svoli di parole, come agli abbellimenti in certa musica barocca, e allora il filo del racconto emerge, discretamente si fa seguire, e cominci a vederli, i luoghi. Ci entri poco alla volta: come accade quando ti addentri nell’Appennino. Non quando lo attraversi per andare altrove, correndo sull’autostrada, e lo puoi immaginare uguale alla montagna che conosci, all’Alpe. Quello che si fa avanti, se non vai via, se rallenti e percorri le sue strade, se ti fermi in qualcuno dei suoi paesi, è altro: è l’Appennino “appartato, remoto”, “distante da qualsiasi altra parte del mondo”, dove può capitare di trovarsi “a mezza montagna, in un orizzonte chiuso, circondati da cime più alte” dalle quali tuttavia si può “avvistare il mare, nei giorni più limpidi e fortunati”. I luoghi sembrano prevalere, in questo romanzo, sulle persone che vi si muovono, e le stagioni sulle vicende. Il Tempo sembra essersi ritirato, come il prato davanti al bosco che riprende spazio. La Storia aver ceduto al mito, e alle sue cadenze di nascite e morti, amori e partenze.
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