Una foglia. Un’altra. L’acero di fronte alla finestra si stava spogliando. Lui riusciva ad osservarlo grazie alla luce di un lampione che metteva in risalto anche il buio della notte alle spalle, la foschia che risaliva dal fiume e il colorito spento delle foglie rimaste. La settimana prima, l’albero aveva ancora quella tinta rossa e arancio che sembrava incendiarlo, ma ormai il fuoco era spento e i rami erano coperti da un fogliame grigio cenere. Altre due foglie intanto si erano staccate e precipitavano al suolo. Peccato, pensò il giovane che aveva abbandonato volentieri l’estate, pativa il caldo per via del sudore, conseguenza della ciccia sui fianchi, sulle gambe, sul culo e sul collo, ma non aveva voglia di inverno: la pioggia, la nebbia e il grigio lo mettevano di cattivo umore. L’autunno era la sua stagione preferita: bei colori, giornate magnifiche, temperature miti…
“A cosa pensi?”
“Come?”
“Dove sei con la testa? Ti sento distante…”
“Ma se sono qui dentro di te!”
“Ma pensi ad altro…”
“Solo perché mi sono preso un minuto di riposo…”
La ragazza, i minuti di riposo durante il sesso, non li sopportava, ma i loro rapporti si limitavano quasi solo a quelli. Lui non aveva fuoco, non aveva nervo, e poi andava sempre convinto e non solo spettava a lei l’iniziativa, ma pure gran parte del movimento e ugualmente lui si stancava subito. Non l’avrebbe mai detto, ma quel marcantonio a letto era un inetto.
Il giovane percepiva l’astio di lei, ma non poteva farci niente: anche quella sera aveva mangiato troppo, era oppresso da un peso sullo stomaco, e non si trattava solo della ragazza che aveva deciso di mettersi sopra, si era proprio abbuffato come un cinghiale: la mattina dopo, già lo sapeva, avrebbe dovuto mettere le pastiglie di maalox nello yogurt, al posto dei cereali, per far passare il reflusso. E chissà cosa si sarebbe inventata lei per occupare il giorno di riposo. Sicuramente qualcosa di stancante: un tour in qualche città, una visita guidata al museo, come minimo una gita in barca. Lui avrebbe preferito passare la domenica in riva al fiume, cercando di addestrare Canadà, il labrador, a riportagli le birre gelate, lasciate in una rete legata a un tronco, magari a fronte del lancio di un sasso, meglio ancora se fosse riuscito a insegnargli a portare in fresca una birra calda e a riportarne una pronta da stappare, ma forse questo era chiedere troppo.
“Prendimi i fianchi… Stringi di più… Sei un metro e novanta, pesi cento chili… potresti farmi volare…”
“Ma è così bello restare appiccicati, sentire il tuo corpo addosso al mio… immobili, senza fatica, senza sudare…”
“Scopi come un cinquantenne!”
“Vuoi dire che ho un approccio zen al sesso…”
“Mio caro monaco buddista, vorresti farmi raggiungere il nirvana, una volta tanto?”
Il paradiso può attendere, stava quasi per rispondere il giovane, ma si trattenne: lei non meritava il suo sarcasmo, le sue pretese erano legittime, era lui in torto. Non sapeva spiegarsi il perché: aveva fatto di tutto per mettersi con la più attraente, la più desiderata ragazza della facoltà e quando c’era riuscito, mix di avvenenza fisica, fortuna, senso dell’umorismo e una quantità smodata di regali, si era reso conto che non desiderava il suo corpo. Gli piaceva essere visto in giro con lei – erano una bella coppia, lui così alto e moro, lei minuta e biondissima – ma niente più. Non solo non desiderava il suo corpo, ne aveva per certi versi ribrezzo. Quelle parti molli e umide, animate da una vitalità famelica e bestiale, gli ricordavano i molluschi, l’unico cibo che non sopportava, i molluschi e i muscoli, esseri misteriosi, incomprensibili, alieni, perfino…
Per fortuna che è grosso, pensava la ragazza e lui in effetti era talmente muscoloso e… grosso che poteva vivere di rendita. La riempiva completamente, non c’era altro modo per dirlo, la riempiva completamente e un minimo movimento era sufficiente a darle i brividi. E prima o poi lui avrebbe raggiunto l’orgasmo e lei avrebbe goduto gli spasmi violenti dei suoi lombi. La spinta ricevuta da quell’enorme massa di carne l’avrebbe fatta sobbalzare come sul tagadà, la giostra che da bambina le piaceva così tanto o come sul toro meccanico che aveva provato una volta negli Stati Uniti, trovandolo molto eccitante… su e giù, su e giù… per questo amava stare sopra, le piaceva saltare e sentirsi libera… su e giù, su e giù… stava sopra da alcuni minuti e ne valeva la pena, cazzo se ne valeva la pena, valeva lo sforzo fatto al cento per cento, finalmente il suo bel manzo si era deciso a farla volare su, su, su… e lei se la stava godendo, doveva godersela finché durava l’ascesa per poi lasciarsi andare…
Quando la ragazza scivolò al suo fianco con un sospiro, il giovane pensò è fatta e dopo pochi minuti si rese conto che lei si stava addormentando dai rapidi movimenti delle gambe e delle braccia che sempre la prendevano nelle primissime fasi del sonno. Lui ci avrebbe messo ancora parecchio a perdere conoscenza. Attese, voleva essere sicuro che lei stesse dormendo profondamente, poi di nascosto, allungando solo un braccio, rovistò nel cassetto del comodino alla ricerca di una caramella, ne trovò una, la scartò senza fare rumore e se la mise in bocca per poi ficcare la carta nella federa del cuscino. Ora gli sarebbe bastato muovere un poco la testa per sentirne il fruscio. Se lei se ne fosse accorta, l’avrebbe definitivamente preso per matto, ma lui non poteva resistere alla tentazione: gli piaceva troppo il rumore della carta, così simile a quello delle foglie secche per strada, crick-crack, che bello quando da bambino poteva passare il pomeriggio a calpestarle, crick-crack, e a saltarci sopra e a buttarle in aria… l’indomani, con la scusa di raccogliere quelle cadute dall’acero, avrebbe potuto giocarci un po’, magari insieme a Canadà, per non destare sospetti, in effetti…