Commento a Carlo Simoni, Quei monti azzurri
(Milano, 28 gennaio 2020)
Tra i documenti conservati a Recanati sono presenti dei quaderni di Paolina Leopardi che, per volontà degli eredi, non sono accessibili al pubblico. È forse da lì, dal desiderio di forzare quel segreto, che a Carlo Simoni è venuta l’idea di inventare un diario tenuto dalla sorella del grande poeta. Il risultato è un romanzo storico in forma diaristica: consistente in quanto in quel quaderno si immagina si sia venuto depositando nel periodo che va dal luglio 1817 al novembre 1819. Scandito mensilmente, il romanzo presenta quattro interruzioni corrispondenti all’ottobre 1817, al febbraio e al maggio 1818 e all’ottobre 1819, in cui si ipotizza che Paolina non metta mano al diario. Il libro si compone così di 24 capitoli, corrispondenti ad altrettanti mesi.
L’arco temporale
non è scelto a caso: va dall’avvio dello Zibaldone per concludersi poco
dopo la composizione de L’infinito. Si tratta di un passaggio cruciale anche
per la vita di Paolina: corrisponde grosso modo al periodo che, per lei, va dai
17 ai 19 anni, quando, sul «limitare/ di gioventù», si manifesta «il primissimo
fiore della vita».
Simoni attiva fin
da subito un doppio sguardo: quello di Paolina e quello su Paolina. Nel fissare
sulla pagina ogni evento, piccolo o rilevante, che interessa la vita
dell’amatissimo fratello, l’autrice immaginaria del diario si trasforma nella
figura alata di un osservatore/messaggero. Per suo tramite il lettore è immerso
nello spazio domestico di casa Leopardi e nei suoi ancoraggi esterni (il borgo,
la campagna, i luoghi delle passeggiate consentite ai soli figli maschi); ma
soprattutto è “gettato” (per usare la nota espressione di Maurice Merleau-Ponty)
nelle relazioni interne al nucleo familiare, regolate dall’ambizione, mista a frustrazione,
del padre Monaldo e dalle chiusure bigotte e maniacali della madre Adelaide
Antici. La ferma certezza di Adelaide che l’isolamento nell’universo domestico
sia, tanto più per la figlia, la via salvifica dalle tentazioni mondane si
salda alla convinzione di Monaldo che tutto ciò che può nutrire lo spirito
possa essere ritrovato nella grande biblioteca da lui messa insieme con tenacia
e passione. Orientamenti ossificati che si traducono in una chiusura possessiva
nei confronti della prole (sette figli, di cui due morti in tenera età).
Il diario registra
un succedersi serrato di eventi spesso minimi e apparentemente insignificanti,
ma anche passaggi cruciali nella vita di Giacomo: lo stabilirsi di rapporti
epistolari con Pietro Giordani, la morte di Teresa Fattorini (stroncata a
vent’anni, nel settembre del 1918, dalla tubercolosi: a lei dieci anni dopo il
poeta dedicherà il Canto A Silvia), l’esplodere della passione amorosa
per Geltrude Cassi e, soprattutto, il suo incontro con la poesia, non solo da
studioso ma da poeta.
Da subito si delineano
alcuni fili conduttori che, intrecciandosi, imprimono alle memorie apocrife la vis
narrativa di un romanzo. Il motivo preminente è la condizione d’isolamento in
cui sono costretti Giacomo, Carlo e Paolina (i tre fratelli maggiori di casa
Leopardi, nati a poco più di un anno di distanza l’uno dall’altro): una
condizione che, ben presto, è da loro vissuta come una clausura. Il
diario/romanzo dà conto, in un crescendo, della sofferenza che prende corpo e
che culmina nel tentativo di fuga di Giacomo, miseramente fallito.
Con tocco leggero e
sapiente, Simoni non manca di inserire qua e là elementi che preannunciano il
dramma. Così, a evocare la prigionia, nelle prime pagine del diario sono
richiamati i piccoli volatili – un canarino, un
fringuello, un passero solitario –, regalati, uno dopo l’altro, ai figli del
padrone dal cocchiere di casa Leopardi, Giuseppe Fattorini, padre di Teresa, alias
Silvia. Anche il confronto che Paolina istituisce fra la sua condizione e
quella di Teresa evoca la comparazione tra l’essere in gabbia e il poter volare
in libertà.
Alla tenaglia
possessiva dei genitori si oppone, come può, la resistenza che, ciascuno a suo
modo, oppongono i tre fratelli. Il trio è rinsaldato da un grande affetto e da
un’intesa che si spinge fino alla complicità; ma, a complicare i rapporti,
interviene ben presto la disuguale caratura intellettuale: l’emergere della
personalità di Giacomo introduce disparità che, anche senza volerlo, portano a
ridurre il fratello e la sorella a ruoli “di spalla”: di confidenti, di
allievi, di copisti e, sempre, di ammiratori. Da cui l’insorgere inevitabile di
inclusioni ed esclusioni.
La più colpita
dalle esclusioni è, manco a dirlo, la sorella, verso la quale i fratelli, a
cominciare dal maggiore, tendono a replicare l’atteggiamento protettivo dei
genitori. Ma Simoni sa complicare il quadro facendo intravedere un rapporto
carsico fra Paolina e Giacomo: un legame basato sul mutuo cercarsi e
riconoscersi simili: nel profondo dell’animo e nella sofferenza che vi si va
accumulando. L’autore porta in superficie il legame in un paio di episodi: il
soccorso amorevole di Paolina al fratello intirizzito da un acquazzone e l’abbraccio
tra i due con cui si conclude il romanzo. Ma Simoni fa in modo che tutto il
diario apocrifo sia percorso incessantemente da sguardi, cenni, mezze parole,
accensioni, silenzi, scoperte, incomprensioni, precipitazioni, incantamenti, piccole
e grandi disperazioni: tumulti e tremori, fatti di tutto e di niente, dove apparenze
e sommovimenti profondi si saldano in una tensione restituita con grande
finezza.
Carlo Simoni ha
fatto rivivere nei suoi romanzi personalità come Gustav Klimt, Thomas Mann e
Walter Benjamin, misurandosi con sfide da far tremare i polsi. Ma qui, nel dare
vita a Paolina Leopardi, è alla sua prova più ardua. E il risultato è ancor più
convincente. La sua Pilla è del tutto credibile: il ritratto a tutto tondo di
un’adolescente alle soglie della giovinezza a cui è riservato un doppio destino
crudele: quello di reclusa (costantemente in bilico tra il finire in un
convento e l’andare in sposa a un marito che spetta ad altri scegliere) e quello
di una persona a cui la sorte ha negato la bellezza fisica. Un dramma, quest’ultimo,
esaltato, per contrasto, dall’essere la bellezza un riferimento cardinale per i
tre fratelli, forse la più intima trama che li lega; quando invece, scrive la
Paolina di Simoni, «i più» «solo vedono […] e considerano, e son capaci
d’amare» «l’esteriore sembiante», «ché l’anima per bella che possa essere, non
si dà a vedere…» (p. 55).
Nel 1821 (ovvero
due anni dopo la chiusura del diario immaginario), nella canzone Nelle nozze
della sorella Paolina – il matrimonio con Pier Andrea Peroli di Sant’Angelo
in Vado, com’è noto, non andato in porto –, il poeta oserà parlare di «beltade
onnipossente». Se nella formula c’è un nucleo di verità – da Giacomo
direttamente sperimentato nell’invaghimento per Geltrude –, è altrettanto vero
che non meno «onnipossente» può essere l’assenza di bellezza fisica, per gli
effetti devastanti che può avere soprattutto per chi è «nel fior degli anni». Nella
confessione/riflessione che Paolina fa sulla propria condizione – dalla
‘scoperta’ del proprio corpo fino all’autoritratto impietoso, ulteriormente
ribadito dalla consapevolezza che quel corpo non ha «conosciuto le mutazioni
leggiadre che fan d’una fanciulla una donna» (p. 81) – il diario apocrifo raggiunge
alcuni dei suoi momenti vertiginosi.
Con l’invenzione del diario, Simoni mette in campo un efficacissimo espediente narrativo: il lettore può avvicinare gli accadimenti che interessano Giacomo per quanto è consentito a Paolina. E questo, mentre rende ancor più credibile la fictio, consente all’autore di condividere con il lettore una consapevolezza implicita: il centro attorno a cui gravita la narrazione – lo svolgersi, in quei 28 mesi, della vita di Giacomo Leopardi e di ciò che matura nel suo intimo – è intuito, fatto oggetto di assidue congetture e, qua e là, persino intravisto, come si trattasse di apparizioni: di materia incandescente che però resta per lo più inaccessibile. Viene così in chiaro, tra le valenze del romanzo, anche quella filosofica. Un modo ulteriore di porsi in simbiosi con il protagonista.
Se avesse fatto
ricorso alla descrizione diretta dei personaggi e degli eventi, difficilmente l’autore
avrebbe conseguito un risultato altrettanto efficace. Grazie invece alla
modalità adottata – una forma mediata di scrittura, che si spinge fino a un raffinato
esercizio di stile che allude all’italiano cólto d’inizio Ottocento – ha potuto
implicare il mistero e gestire con sapienza narrativa i disvelamenti.
A sospingere il
farsi del romanzo sono, in tutta evidenza, la curiosità, il desiderio e la
dedizione, nutriti da un’ammirazione sconfinati. Che sono di Paolina Leopardi –
e, in filigrana, di Carlo Simoni – ma che finiscono per confondersi con quelli
dei lettori che amano l’opera di Leopardi. Mentre l’acribia dello storico – è da lì che Simoni proviene – assicura solidi
ancoraggi alla narrazione, ogni inezia che si deposita sulla pagina alimenta lo
sviluppo di una sinfonia fatta insieme di minime vibrazioni e di un movimento
largo e avvolgente, dove il tema principale lascia, qui e là, spazio a temi
secondari non meno avvincenti. Finendo per identificarsi, almeno in parte, con
Paolina, il lettore viene così immerso nella materia incandescente della vita.
Allo stesso tempo,
poiché Giacomo, almeno secondo Simoni, non consente alla sorella (implicata per
lo più come copista) di leggere tutto ciò che la sua penna fissa sulla carta, e
ancor meno di condividere fino in fondo tormenti e passioni, si viene a creare
una situazione che rasenta il paradosso per cui il lettore può “vedere”
connessioni tra gli accadimenti e gli scritti (in varia forma) di Giacomo Leopardi
che a Paolina non sono accessibili ma che pure sono innescate/suggerite dalle “sue”
stesse parole. Grazie a questo, e ad altri accorgimenti, in chi legge all’immedesimazione
si affianca la distanza. In tal modo l’io narrante assume ancor più lo spessore
di personaggio: l’“autrice del diario” è la deuteragonista, non inferiore,
quanto a valenza umana e a sottigliezza di sguardo, del protagonista, il
grande, immenso Giacomo Leopardi.
Si forma così un
trio – Paolina, Carlo Simoni e il singolo lettore – che dà al testo una forte
connotazione teatrale.
Il passaggio sulle scene del diario/monologo comporterebbe un ovvio intervento di adattamento, ma è, mi sembra, già chiaramente delineato. Il culmine del romanzo è la scoperta furtiva di Pilla del manoscritto de L’infinito. A ben vedere il diario apocrifo non è che una lunga premessa a questo evento. Se il commento “in diretta” di Paolina Leopardi tocca punti altissimi, l’intero libro sembra pensato per favorire l’avvicinamento del significato di questa lirica, dove l’ansia di libertà, e la sofferenza che l’accompagna, si sublimano nell’incanto e nel desiderio di un abbraccio cosmico.