Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)
La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico” – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.
Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)
C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.
Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila
già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che
continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di
questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”,
“tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia
anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema,
e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”.
Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il
corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita
in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà
che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il
suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso
satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una
cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui
bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla
frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del
vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed
abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”,
capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne
che ritroviamo nello Zibaldone –, nella
vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di
felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del
loro destino di finitudine e infelicità.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione,
fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo
accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla
voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo
– una critica poetante. Una critica,
cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di
lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè
momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con
“un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso
la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo
muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.
Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello
poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli
argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio
di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo –
alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la
concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito
appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.
Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che
così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”,
innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo
cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono
gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine
più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e
alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della
modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la
fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere
che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della
sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale
nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale,
“dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione
dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una
parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo
della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è
irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel
che è perduto”.
Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il
rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o
meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima
riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da
Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di
lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta,
commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in
una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine
che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico
prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della
filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una
lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e
comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena
l’essenza stessa della poesia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Claudio Morandini, Gli oscillanti, Bompiani 2019 (pp. 272, euro 17)
La montagna, e i montanari, anche qui, e l’enigma che pervade i luoghi, le vite di chi sta lassù. Ma anche con questo romanzo, come con Neve cane piede, del 2015, non ci troviamo nella cornice ormai collaudata del giallo alpino. Anche in queste pagine ricorre l’alterità, vera o presunta, dei paesani d’alta quota, quel “Voialtri che state in città credete…” che ricorreva in Le pietre, pubblicato due anni fa, ma di nuovo il romanzo non si lascia ridurre a una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città.
I romanzi di Morandini hanno questo carattere – e questa attrattiva – di fondo: la loro irriducibilità a interpretazioni che ne svelino significati sottesi. E, analogamente, la loro sostanziale inaccostabilità ad altri modelli letterari. Solo il nome di Dino Buzzati, forse, risulta in qualche modo pertinente, ma di quello non ritroviamo qui il fascino che, pur nella sua enigmaticità, la montagna conservava. Nelle pagine di Morandini, d’altra parte, è inutile cercare riferimenti tanto alla salubrità del clima montano quanto al permanere di un saper vivere irrimediabilmente perduto nella realtà urbana. Talmente inospitale, umido e freddo, è il paese di Crottarda quanto sferzato da un sole implacabile è il dirimpettaio Autelor. Tanto invidiosi e vendicativi sono gli abitanti del primo quanto esibizionisti e competitivi quelli del secondo.
È nel bel mezzo di questa faida annosa che si viene a trovare la protagonista: da bambina, villeggiante con i genitori; etnomusicologa ora. Ammaliata allora dai richiami inintelligibili e misteriosi dei pastori che udiva la notte; spinta adesso da una volontà di sapere, di capire, che ha saputo conservare la suggestione sperimentata nell’infanzia, aliena com’è dalla supponenza accademica della sua docente e dalle ambizioni che tengono il fidanzato prigioniero dei suoi impegni universitari. Ed eccola allora, munita di taccuino, fogli pentagrammati e registratore, a indagare quei richiami “Di solito espressi in un codice composto da trilli, fischi, brevi grida monosillabiche, al più bisillabiche” che “servono a richiamare il gregge, o a sollecitare l’intervento dei cani”, ma che a Crottarda – secondo l’ipotesi di lavoro che la ricercatrice si propone di verificare – risultano particolarmente “originali e degni di ulteriore studio” perché rivolti anche ad altri pastori, sostituendo di fatto “il codice verbale tra una malga e l’altra”. La curiosità degli abitanti, venata di un’incredulità che sconfina nel dileggio dell’“ingenuità” della colta cittadina, non disarma la giovane studiosa: non doveva essere diversa l’accoglienza di Béla Bartók nelle campagne ungheresi, come ci ricorda, in un esergo, l’autore (“Non scherzo affatto. Parlo sul serio. Sono venuto appositamente da lontano. Da Budapest, per cercare quelle vecchie canzoni che sono conosciute solo qui, da voi!”).
Senonché, a poco a poco emergono fra i
crottardesi aspetti inquietanti, discorsi difficilmente interpretabili,
comportamenti stravaganti e ambigui (in alcuni casi accostabili a quelli che
incontriamo in un libro per ragazzi dello stesso Morandini sempre ambientato in
montagna, Le maschere di Pocacosa,
pubblicato l’anno scorso: “Nel
piccolo abitato di Pocacosa settori per così dire deviati del corpo dei
figuranti di una sfilata in costumi storici di antica e nobile tradizione
imperversano ormai da molti anni e molti carnevali, perseguitando i loro
compaesani più civili e assennati con sciocchi, quando non sadici, dispetti e
sinistre mascherature”). Se Bernadetta – la ragazza
che, a suo modo, pretende di assumere il ruolo della guida per la forestiera –
mette in campo atteggiamenti contraddittori e ambivalenti, i pastori che
finalmente la protagonista incontra si rivelano “autori di imbrogli sonori, di
contraffazioni da guitti”. Col tempo, però, si fa chiaro che si tratta di un
modo di fare, di stare al mondo, che accomuna tutti “questi poveri abitanti di
Crottarda, in ogni gesto, in ogni giorno, e se li potessi osservare nel corso
della loro vita – questa la conclusione cui giunge l’etnomusicologa – li vedrei
oscillare da quando nascono a quando muoiono, tra la loro esistenza ufficiale e
il loro lato nascosto, tra il bisogno di luce, sempre troppo scarsa e precaria,
e l’attrazione per il buio che li insegue fin nelle case, fin nel sonno, tra lo
sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza che (…) riporta un senso tangibile di
malinconia”. “Gli oscillanti, mi viene di chiamarli. E a questo punto un po’
oscillante finisco per sentirmi anch’io”. Destabilizzata, incerta, divisa fra l’interesse
per quei richiami di pastori, che non sono forse che manifestazioni di una vena
di umorismo beffardo, e il mistero inquietante delle voci lamentose che
sembrano venire dalle doline, da un sottosuolo abitato da “omuncoli deformi”
capaci di comporre una polifonia assordante alle orecchie della musicologa.
Resta sulle sue il prete che, a corto di spiegazioni, richiama leggende come quelle che parlano di “pietre che rotolano in salita e ti volano fin dentro casa” – un richiamo esplicito al precedente romanzo – e non sa alla fine che attribuire a un perdurante paganesimo le sinistre manifestazioni del carattere locale. Ma a dover alla fine ammettere la propria incapacità di comprendere è anche la studiosa che, sospettata di collusione con quelli di Autelor, finirà per essere invitata dai crottardesi a tornare al piano, alla città, abbandonando questa “montagna magica” che non le ha rivelato i suoi segreti ma non ha spezzato il suo desiderio di penetrarne i misteri percepiti tanti anni prima e che la seguono dall’infanzia. Ci tornerà dunque, e “presto, senza pensarci troppo”, perché “C’è ancora parecchio da fare laggiù”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“(…) un libro composto da frammenti autobiografici (…). Di norma, una cosa del genere andrebbe scritta in prima persona. Se lo avessi fatto, la mia storia personale sarebbe stata al centro dell’attenzione, ma non era quello che volevo. Potevo optare per la terza persona, ma mi sembrava troppo distante (…). In alternativa c’era la seconda persona. Più ci pensavo e più mi rendevo conto che avrebbe avuto l’effetto di aprire in piccolo spazio tra me e me, in cui avrei potuto intraprendere un dialogo intimo con me stesso. Volevo guardarmi da una certa distanza, piccola però, e la distanza della terza persona sarebbe stata troppo grande. Allo stesso tempo volevo coinvolgere il lettore. Per molti versi il libro invita il lettore a esplorare le proprie memorie, a riflettere sulla propria vita. Spero che funzioni da cassa di risonanza e che le persone ricordino il genere di cose che io ricordo di me stesso nel libro”. (Paul Auster)
“È una fantasia triviale pensare che il libro sia in opposizione alla vita. (…) la scrittura di un libro degno di questo nome sorge sempre da un’esperienza. I libri non sono mai solo dei libri”. (Massimo Recalcati)
Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Il Mulino 2019 (pp. 154, euro 14)
“Mah! Chissà…”: le parole che chiudono il libro sembrano contrastare con la
perentorietà del titolo. In realtà, tutta l’argomentazione che vi si sviluppa è
condotta all’insegna della problematizzazione, a partire dall’”atto di
contrizione” che la apre riconoscendo l’esistenza di “un limite etico in chi sa
solo produrre parole” e la legittimità di una domanda antica e sempre attuale:
“Che cosa viene prima: l’azione o il pensiero?” Anche se, occorre pure tenerne
conto, “Oggi, siamo in un’epoca attivistica
e antintellettualistica”, in cui “Le cose si fanno perché sono possibili”. Un’epoca che solo apparentemente si potrebbe
ritenere trovi assonanza nella scritta comparsa nel maggio del ’68 sui muri
della Sorbona – “Jamais plus de maîtres” –, che, “per quanto ingenua e
semplicistica” aveva in realtà di mira “l’uso sopraffattorio della funzione
magistrale”. Senonché, “il magistero non è necessariamente oppressione, ma può
essere un aspetto della liberazione”. Basta intendersi su chi, che cosa sia un
maestro, e si convenga che “è solo quello che è più avanti provvisoriamente”. E del resto, quel più lo ritroviamo nella radice stessa di
magister, in quel magis che si contrappone al minus che non dobbiamo trascurare di
scorgere in minister anche se è ormai
una “lingua della politica disastrata” a contraddistinguere il nostro tempo,
nel quale “il ministro si considera colui che detta legge e crede di avere gli
altri al proprio servizio”, maestri compresi. I quali, per parte loro, hanno sempre
più lasciato il posto agli “influencers,
quelli che dettano e assecondano a milioni le inclinazioni di massa e le mode
attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari”.
No, i maestri di cui questo libro rivendica la permanente e attualissima
necessità – e, deve ammettere, la penuria – sono quelli che hanno in comune “un
medesimo modo di concepire l’attività intellettuale come alimento della vita
sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza
degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e
scuotere la routine che ci avvolge”.
Alimento, interrogazione, capacità di rivoltare il senso comune: sono
questi gli scopi che il maestro
Zagrebelsky persegue in queste pagine, in un discorso che si propone di
definire il significato della cultura; di prender atto di una generale crisi
della “funzione intellettuale” che non eclissa tuttavia la necessità di
ricordare la differenza che intercorre fra l’istruire e l’educare; fra il
conoscere e il comprendere; fra il comprendere, il giustificare e il giudicare.
Senza temere facili accuse di elitismo nel sostenere che “L’idea del maestro
porta in sé un germe aristocratico”, constatazione del tutto impopolare in anni
in cui “la maggioranza presume di avere sempre ragione”, sicché “la voce
ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio”.
Attenzione però: “Vano è il lamentarsi degli
intellettuali che non si sentono ascoltati e vana è la deplorazione che viene
da chi li invita a mescolarsi col mondo.” Perché “il guasto di fuori è anche in
ciascuno di noi”. E cionondimeno, “La conoscenza è discernimento tra il guasto
e il sano”: “Il maestro tende verso l’alto. Ma, se non si propone di guardare
anche da giù in su, e non solo da su in giù, è vacuo. Il maestro è in mezzo e
se pretende d’essere giudice senza essere giudicato, cioè di non essere lui
stesso parte del problema, non è sincero”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“I personaggi vivono di tanti piccoli furti di identità a carico di chi hai incontrato nella tua vita, perciò contengono, tutti, la forza vitale di un essere umano”. (Lidia Ravera)
Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o 2019 (pp. 480, euro 11,99)
Una vita vissuta pienamente, non perché è capitata ma perché
così la si è voluta vivere: affidandosi a quel che via via accadeva, agli amori
e ai disamori, agli acquisti e alle perdite. Essere aperti agli altri, alle
nuove esperienze che la vita propone – ci dice questo romanzo – non vuol dire
cambiare rotta ad ogni incontro, non vuol dire annullarsi in ogni situazione
nella quale ci si venga a trovare. Ma neanche significa vivere sempre sulla
difensiva, opporre la volontà che nulla cambi ad ogni avvisaglia di mutamento.
Questa la filosofia di vita – mai dichiarata, ma praticata nei
fatti – di Violette Touissant. Quanto ai fatti, è presto detto: “Facevo la
guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo
la vita a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele”. Violette
sa quel che vuole, ma sa anche che non sono i progetti che si fanno a
portartelo; inutile illudersi di poterla pianificare la propria esistenza
perché scorra lineare, secondo regole stabilite. Meglio accettarla, anche
quando se ne devono combattere le asperità, anche quando sembra di dovervi
soccombere: “Sono stata molto infelice, addirittura annientata. Inesistente,
svuotata. (…) Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza un dentro, senza a
mia anima (…). Ma siccome l’infelicità
non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata”. Quando arriva, comunque,
inutile chiudere gli occhi, che si tratti di ritrovarsi ad essere “vittime
collaterali del progresso – l’automatizzazione del passaggio a livello rende
lei e suo marito disoccupati – o a pagare per l’egoismo di un uomo grande e
grosso che hai amato, con “la sensazione di appartenergli corpo e anima” – ma
si è via via rivelato per il bambino mai cresciuto che sua madre ha voluto
rimanesse. Inutile chiuderli neanche quando arriva il dolore più grande di
tutti: l’incidente tragico e banale che ti toglie la bambina divenuta ragione
di stare al mondo, una figliolina compagna di giochi che non smetteva di
stupirti, e di tener viva la bambina che aveva continuato a vivere in te,
nonostante tutto.
Saranno gli altri a salvarti: la vicina che hai aiutato
quando era lei in difficoltà, il guardiano del cimitero in cui la piccola viene
sepolta e che ti insegnerà il suo lavoro per poi cedertelo, l’uomo che nello
stesso cimitero arriva per assolvere all’ultimo desiderio della madre e saprà
farti tornare a immaginare l’amore. Altri esseri, ai quali Violette non si
aggrappa, ma sa riconoscere per quanto “disadattata, spezzata” si senta, e
accogliere non come soccorritori attesi, ma come simili con i quali tornare a
realizzare lo scambio che è la vita, se è vita vera. Una vita che sa riprendere,
e indurti a “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Come spesso capita, sintetizzare quel che un libro ti ha
lasciato rischia di offrirne una fisionomia parziale, tanto da poter risultare
falsata: la storia di Violette Touissant –
narrata con una certa linearità nella prima parte, calata in un andirivieni di flashback,
pagine di diario e lettere nella seconda – corre sul filo di un umorismo
leggero quanto indefettibile che si annuncia sin dai titoli dei capitoli,
parodie di epitaffi che grondano retorica funeraria in molti casi, capaci di
fermare per un attimo l’attenzione del lettore in altri (Non sei più dov’eri, ma sei ovunque sono io, Le
foglie morte si raccolgono a palate, i ricordi e i rimpianti anche). Ma è
la vita che – circondata dai suoi gatti e dai compagni di lavoro, tre necrofori
che a volte le sembrano i fratelli Marx – quotidianamente la protagonista conduce
nel suo cimitero a riservare momenti nei quali il sorriso non può non
affiorare: “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla
tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che
sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo
davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata”. Oppure. “Prendersi cura del
cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel
caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono
sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione
fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta
nella vita?”
A conti fatti, pare ci sia sempre una ragione per
“ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Alejandro Zambra, Storie
di alberi e bonsai, Sellerio 2918 (pp. 144, euro 14)
“Il
problema è proprio questo, che in questa storia non ci sono nemici”, avverte
già alla seconda pagina l’autore, ma questo non significa che non vi accada
nulla, perché “questa [che si racconta] non è una sera normale, almeno non
ancora. Lui non è completamente sicuro che ci sarà un giorno dopo, perché
Verónica non è tornata dalla lezione di disegno. Quando sarà tornata il romanzo
sarà finito.”
Ecco:
il gusto di guardare il proprio romanzo farsi, o meglio: la messa in scena del
piacere – che, anche se a volte un po’ lezioso, si trasmette al lettore – di
star a guardare quel che succede, ad ascoltare quel che i personaggi dicono.
Il
tono non del narratore, insomma, ma di uno che racconta, sorridendo, il
racconto di un altro. Facendone la sintesi tuttavia, perché non si vuol
annoiare, non sia mai. Non divertire ad ogni costo, non evitare quindi qualche
nota di riflessione, amara se occorre, ma non dilungarsi: “Alla fine lei muore
e lui resta solo, anche se in realtà era rimasto solo diversi anni prima della
morte di lei, Emilia. Supponiamo che lei si chiami o si chiamasse Emilia e lui
si chiami, si chiamasse e continui a chiamarsi Julio. Julio ed Emilia. Alla
fine Emilia muore e Julio non muore. Il resto è letteratura.”
E dunque, si può anche scrivere una “storia leggera che diventa pesante”: basta dirlo. Il lettore è avvertito e può comunque star tranquillo. Nessuna descrizione compiaciuta, nessun dialogo inconcludente. Solo l’essenziale: “Si ama per smettere di amare e si smette di amare per cominciare ad amare qualcun altro, o per rimanere soli per un po’ oppure per sempre. Questo è il dogma. L’unico dogma.”
“Ciascuno di noi non smette di raccontare il bambino che è stato, che è: ma, in certe epoche, se ne ha meno coscienza che in altre, si descrive quel tempo passato, non superabile, senza saperlo”. (Jean Paul Sartre)
Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Einaudi 2019 (pp. XXX – 288, euro 30)
Uno scavo destinato agli studiosi
della storia culturale europea? ai cultori dell’Umanesimo e del Rinascimento?
Il libro di Lina Bolzoni è senz’altro anche questo, ma nello stesso tempo molto
di più, per due ragioni. Innanzitutto le pratiche della lettura, gli scopi e i
significati ad essa attribuiti “nei secoli in cui in Europa nasce il mondo
moderno” risultano
straordinariamente attuali; in secondo luogo, documentarsi, e interrogarsi, su
di essi risponde a una domanda che altrettanto ci riguarda da vicino: è “ormai inesorabilmente alle nostre spalle”
quel “mondo in cui la lettura è esperienza comune e insieme del tutto intima e
personale; una specie di viaggio in cui, incontrando l’altro, si riconosce e si
ridisegna il proprio io”?
È dunque la “velocità del cambiamento” che ha investito anche le nostre
consuetudini culturali a suscitare “l’idea (e il desiderio) di ripercorrere i
grandi miti che il Rinascimento ha costruito intorno alla lettura, di guardare
da vicino la rappresentazione di sé come lettori che troviamo” in quell’epoca.
A partire da Petrarca e Boccaccio, passando per Machiavelli, Erasmo, Montaigne
e arrivare a Tasso, il libro ci conduce a ripercorre “quel che ci dicono sulle
loro esperienze di lettori”, sul loro rapporto con i libri – che spesso
prefigura quello delineato da Benjamin, per il quale quello con i libri è “il
rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose” – e con
quell’“autoritratto segreto” che è la propria biblioteca, valenza che ad essa
continuano ad assegnare il capitano Nemo di Jules Verne come il Peter Kien di
Elias Canetti, che in Autodafèdiventa la sua biblioteca.
Attraversiamo così
le pagine in cui Petrarca dice della sua insaziabilità in fatto di libri, del
suo rapporto emotivo, fisico, con la lettura, un rapporto nel quale la lettura
si salda con la scrittura, ma soprattutto consente una necessaria e salutare
presa di distanza dalla città, dai suoi affanni, dallo spirito competitivo in
essa dominante, o addirittura dalla rozzezza del mondo contemporaneo. È il
tempo individuale, emancipato da quello sociale – potremmo dire – ad averla
vinta quando è la lettura a riempire i giorni; è un tornare a far centro su di
sé il beneficio ineguagliabile che ne può venire, con il vantaggio oltre tutto
di non ritrovarsi soli. Il tema non è nuovo, come tanti motivi umanistici ha
ascendenti nella tradizione del pensiero antico, ma è ripreso con convinzione, rivissuto in autori come Leon Battista
Alberti, per il quale “la compagnia dei libri è il vero rimedio alla
solitudine, ai mali che derivano dalla frequentazione degli uomini e dalla
decadenza morale e politica”. La biblioteca appare allora “il nuovo eremo”, un
rifugio popolato dei ritratti dei grandi autori con i quali si dialoga, un
“teatro della lettura” – come lo “studiolo” di Federico da Montefeltro – che
garantisce la trasmissione del sapere e dei valori fra le generazioni; come lo
“scrittoio” nel quale Machiavelli si ritira la sera, o la torre in cui
Montaigne compone i suoi Saggi.
Barriera contro la
moltitudine e le passioni sarà anche per il Tasso, capace tuttavia di
intravedere nella lettura anche pericoli come un’immedesimazione nei pensieri
dell’autore tale da esserne invasi e perdere ogni orientamento fra le opinioni
contrapposte con le quali i libri ci mettono in contatto. Ma è l’immagine del
riparo da un “mondo ingiusto” a prevalere fra i doni della lettura. Lo penserà
Ruskin, per il quale la lettura è “conversazione con libri-amici” e deve perciò
essere diffusa attraverso biblioteche pubbliche, ma non Marcel Proust – che
pure ne è l’ammirato traduttore – il quale “non accetta la concezione
utilitaristica” dell’inglese: “l’idea della conversazione è per lui in
conflitto con la condizione essenziale della lettura, che è la solitudine.” Una
meravigliosa solitudine, appunto.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
La vita quotidiana e le figure che animano palazzo Leopardi riempiono le pagine di un immaginario, ma non inverosimile, quaderno di Paolina, divisa tra passione per lo studio e senso di segregazione; vaghe speranze d’amore e consapevolezza del proprio infelice aspetto; soddisfazione per le prime prove della genialità del fratello e timore che il suo desiderio di gloria si traduca fatalmente nella decisione di lasciare Recanati, di valicare quei «monti azzurri» che chiudono l’orizzonte, e sembrano evocati nella composizione cromatica che William Turner creò nel 1819. L’anno stesso in cui Giacomo tenterà di fuggire dalla casa paterna e, a poche settimane dal fallimento del suo disperato progetto, comporrà L’infinito, dove non i monti lontani ma la vicina siepe impedisce allo sguardo di giungere all’ultimo orizzonte. Sarà in questi versi che Paolina potrà credere, sia pure per poco, di intravedere l’approdo all’idea che, a confronto dell’immensità dello spazio, e dell’incommensurabilità del tempo, l’altrove sfumi nel qui, nel posto in cui ci è stato dato di vivere.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:
Nell’Agosto del 1817
Anche oggi è accaduto. So intuire qual è il suo stato al solo vederlo lasciar di furia la biblioteca, per serrarsi nella sua camera; di lì a poco sortirne e quindi prender a vagare per la casa, e in fine tornare al suo tavolo e guardar alle carte, nere della sua scrittura, come a cosa d’altri, cui lui non avesse messo mano e anzi non potesse riconoscervi senso alcuno, ma solo ritrarne un’estraneità che confina col disgusto. Riprende allora quel suo peregrinare di stanza in stanza, evitando, se ne avverte il passo, nostro padre più di tutti. Stamattina l’ho veduto celarsi dietro a un divano, pur di non dover incontrare nostra madre che al solito, preceduta dal rumore degli stivali da uomo che indossa in casa, s’aggirava occhiuta e severa in queste sale che non abbandona mai se non per recarsi alla chiesa. Sollevato al vederla uscir dalla stanza, gli è però toccato d’incappare nel genitore ed esser obbligato a finger di ricercare non so qual volume e, interrogato con sollecitudine dello stato che pur tuttavia manifestava nel pallore del viso, e nella lassità del corpo, dover allora cercar appiglio in non so qual lieve malessere e dunque rintanarsi senz’altro nella camera e restarvi, senza più neanche aver il conforto di quel tornar ancora e ancora a macinare i pavimenti. Mi guardo bene dal rivolgergli parola quando lo vedo in tale stato, e anzi procuro io per prima che non abbia a incontrarmi, ricorrendo a volte allo stesso suo stratagemma col nascondermi nell’anfratto d’una porta doppia. Non diversamente da me si tiene Carlo, capace di seder per ore immobile, collo stesso libro innanzi, quando l’altro non è buono di star fermo al suo lavoro. Costa poi fatica a entrambi non lasciar che trapeli il sollievo che c’inonda quando vediamo nostro fratello cader di peso, in fine, su di un canapè, il volto dilavato e le membra affrante come chi abbia dovuto sobbarcarsi a un lavoro non proporzionato alle sue forze. Solo gli occhi e la piega dolce delle labbra dicono esser quella stanchezza il segno non già d’una resa, quanto d’una silenziosa vittoria. Può non giungere nel medesimo giorno questo riaffiorar alla vita, ma doversi attendere a lungo: è il rinnovato fervore col quale vediamo Giacomo scrivere, guardar dalla finestra, intinger la penna e riprender a farla correre sul foglio a dirci allora esser nuovamente avvenuto il miracolo. Non saprei come dir altrimenti questo trasmigrar subitaneo – che intuisco, però, lungamente, e dolorosamente, maturato – da quel mondo vuoto e oscuro in cui sembrava esser caduto a quest’altro, che l’espressione del viso dice non esser stato accolto festosamente come nulla fosse accaduto; nel quale tuttavia la tristezza che su di lui sempre aleggia pare esserglisi fatta alacre amica. Che cosa lo fa trascorrer dall’una all’altra di queste condizioni dell’anima? Qual è il pensiero che lo fa emergere da quella notte per riportarlo non già alla luce del sole – ch’egli non ama, tanto da tener sempre socchiusi gli scuri delle finestre vicine al tavolo cui siede – ma, vorrei dire, al cielo tenue e fuggitivo che separa il tramonto dall’oscurità? Me lo sono chiesta cento volte, e sono oggi tornata a domandarmelo. Non so trovar risposta, ma mi son fatta persuasa, ora, che neanche il mio fratello diletto saprebbe sciogliere il mistero che nella sua anima alberga, e tanto meno trovar riparo da quell’oscillare ch’egli pur credeva qualche distrazione avrebbe potuto donargli col vincer la noia, madre subdola della malinconia. Ma quale mai divertimento è possibile nel luogo in cui la sorte ci ha fatto nascere, e la famiglia tiene? Lo studio è per Giacomo l’unico possibile, e vi s’è gettato disperatamente sin da quando aveva compiuti i tredici anni, temerariamente persistendovi al punto da portare alla rovina la sua salute, e minare la sua complessione debole, e compromessa in quell’aggobbirsi che oramai irreparabilmente ha sfigurato la sua persona. Quand’è cominciato questo sfacelo? Che cos’ha arrestato il suo corpo nel naturale accrescimento della statura? Che cosa gli ha prima impercettibilmente e poi sempre più visibilmente impedito di mantenersi diritto come fino a tre anni or sono era stato? Non certo la trascuranza di sé, ché anzi era soverchiamente attento alla propria persona, tanto da avvertir a volte impedimenti, come quel di respirare o – mi si perdoni – d’orinare, che si rivelavano poi semplici effetti d’infermità puramente mentali, com’ebbe spesso a dire nostro padre con la lungimiranza che la scomparsa di quei segni ebbe puntualmente a confermare. Oltre modo desideroso inoltre, Muccio, d’aver sempre nuovi consigli circa il felice mantenimento della propria salute, salvo poi ottemperare a quelle prescrizioni in misura tale da renderle nocive. Così il giorno in cui, sentito come un poco di sole sul capo possa riescir giovevole, si diede a ristar nel giardino senza cappello alle ore più calde; né diversamente si tenne quando, udito che fortifica gli occhi il bagnarli d’acqua fresca, prese a farvi scorrer catini. Eccessi d’un’anima che soffriva forse del presentimento dei futuri mali che avrebbero aggredito il corpo che n’era dimora. Un’anima di certo sempre incline alla tristezza, e che pure non le cedeva, non se ne lasciava oscurare. Quando? Quando ha iniziato invece ad esserne invasa come da una tormenta che la fa simile a una landa in cui qualcuno ha pur vissuto ma si stende ora nell’abbandono, disabitata? È un rovello che non mi lascia. È l’enigma che la sua anima custodisce; che la mia non sa sciogliere, ma non ignora.
Non l’avevo mai fatto prima di iersera. Mai avevo veduto la mia persona intiera, nella specchiera che sta nella mia camera, l’unica che nostra madre non abbia potuto far togliere dalla nostra casa essendo congiunta a far tutt’uno colla parete che sta a lato del letto. Non me n’era mai venuto il pensiero quand’ero bambina; poi la modestia, primo dei comandamenti instillatimi da mia madre, me l’aveva impedito. Mi guardavo mentr’ero a letto, sì, ma solo nel volto, e a me stessa davo la buonanotte alle volte, dopo le preghiere. Mi guardavo e non sapevo riconoscermi, ora, incredula di esser io quell’esserino smilzo e gracile, il corpo spigoloso, solo il volto un poco tondo, i capelli corti, gli occhi d’un ceruleo acquoso, la bocca piccola, increspata sempre dal pensiero d’un sorriso, il labbro di sopra sporto quasi a nasconder l’altro. Mi sono girata di fianco, e m’è venuto meno il respiro: le spalle ricurve, come a nascondere i seni di bambina ancora, mi han dato l’idea che mi stia aggobbendo. Anch’io. L’immagine di Muccio che non mi s’è più tolta dalla testa è balenata come un fantasma accanto alla mia. Mi son messa la camicia, sono andata sotto le coltri, ho girato le spalle allo specchio. Lo vedono gli altri? Lo vedono che vado somigliando al maggiore dei miei fratelli, che sempre gli ho somigliato anzi? Carlo richiama la figura di nostro padre, e Luigi non le è distante; nostra madre è bella, ancor oggi, mentre noi due… Sono brutta. Brutta. «Non star con quel labbro a spiovere sul mento, e drizza le spalle» più d’una volta mia madre m’ha rimbrottato. Per cosa? Per come son fatta. È contrariata dal mio aspetto. La bruttezza reca fastidio persino a lei che crede poi di rincuorarmi col dire che la bellezza è fonte di peccato, e dunque… lo pensa davvero, forse. La religione glielo fa credere. Ma gli altri? Non sono da meno. Non ne parlano se mai, nessuno fa parola della bruttezza: la vedono ed è come non la vedessero, e a questo modo la fuggono. La bellezza, per chi è bello è pari a un destino, o a un merito; la bruttezza nessuno pensa sia una colpa, ma in qualche modo che sia anch’essa la rivelazione d’una fatalità. Si compiange il cieco, si motteggia ma alla fine si compatisce il sordo, e lo storpio; ma non il brutto, che si preferisce far mostra di non vedere, volgendo altrove lo sguardo, come si fa quando sulla via ci s’imbatte in un rospo scempiato dalla ruota d’un carro.
Nel settembre del 1819
Non so, non voglio dire nulla. Aggiunger parole all’idillio che Giacomo ha composto in questi ultimi giorni, e che ha lasciato nella cartella dove ben sa aver io facoltà di veder le sue carte, mi parrebbe profanarne la perfezione sospesa, come d’un evento che non ha cessato d’accadere, e conchiusa, al tempo stesso, come non altrimenti che così potesse trovar forma, in quel foglio scritto di suo pugno, quasi che gli occhi avessero voluto fargli grazia d’una tregua. Quel che so è soltanto che non son buona a cessar di ripeter fra me questi versi: una sola lettura m’è bastata per imprimerli nella mente, e il tornar a dirmeli – senza formular parole, oppure recitandoli sommessamente, ché mi pare non ammettano li si pronunci a voce spiegata – non esaurisce la commozione che me ne viene, ora come quando li ho scorsi la prima volta, fin da quella attenendomi al passo ch’essi stessi impongono. Come se il tempo fosse in loro inscritto. Ero in errore a pensar che quanto avevo letto nel suo quaderno, quell’ultimativo sguardo sul nulla, segnasse un confine che la poesia non avrebbe potuto mai più sormontare: quelle parole sconsolatamente gelide tornano a vivere qui nel calore d’un’anima confortata dal saper guardar in se stessa. L’anima d’un poeta che trae nutrimento dal proprio filosofare, d’un filosofo che può dar sostanza al suo pensiero poetandone; e a una seconda verità mi sento di credere: la quiete grandiosa che percorre queste righe è figlia della malinconia più angosciosa; il respiro che qui apre l’anima non sarebbe se non avesse conosciuto il pericolo di rimaner soffocato.
Se non son io a ridirmelo, è il canto stesso de L’infinito a risonar nella mia mente, facendomi ogni volta scoprir qualcosa che giurerei di non aver prima veduto. Non cesseranno di dirmi sempre il nuovo questi pochi versi, come fossero tanti di più, come se un’Odissea fosse in essi rappresa. Stasera è quella siepe ad aver conquistato il mio sentire: dove sono i monti azzurri che lo tiravan là, a contemplarli, a nutrir il sogno di poter essere un giorno valicati? È l’aver preso atto di non averlo potuto fare e un’amara consapevolezza di non poterlo fare mai ad averli esclusi? O è il presentimento d’una delusione che, fattolo, quel che v’è al di là arrecherebbe? Ma che vale por domande simili, quando ciò che l’idillio sembra dirmi è che qui, qui si può trovar l’altrove, sì che il desiderio struggente della partenza sa sciogliersi nella dolcezza dell’arrivo fino a non distinguersene… Ha forse Giacomo trovato una superiore ragione per restare, un convincimento in luogo della rinuncia? Ha forse disarmato finalmente la lama tagliente della malinconia nell’amplesso soave della tristezza?
Nel Novembre del 1819
Non m’ha dato mai a copiare il suo idillio. Non so se abbia provveduto egli stesso, non so distinguere il foglio sul quale stamane ancora apportava lievi mende da quel che ho veduto or son quasi due mesi fa. Due mesi… Se dovessi dire quel ch’è accaduto in questo lasso di tempo non saprei che richiamar l’immagine di lui, ieri, seduto su una sedia addossata al muro dell’orto: gli occhi attoniti, la bocca un poco aperta, le mani fra le ginocchia. Immobile. Indifferente al freddo che oramai è arrivato. Quando s’è reso conto ch’ero lì non ha cambiato posizione. Ha solo detto, a voce tanto bassa da farsi sentir appena, che se fosse impazzito è così che sarebbe rimasto sempre. Io non so se la sua anima sia tanto grande da contemplar stati tanto diversi, e opposti, tra i quali dover migrare senza posa, abbandonando quel che sembrava finalmente raggiunto per tornare ad altro che si sarebbe detto appartenere ormai al passato; o se piuttosto sian diverse le anime che lo abitano, ignare l’una dell’altra, sì che ognuna torna a occupar la casa da padrona, dimentica di quella che vi stava prima. Oppure, si dovrebbe pensare, egli cammina sempre sull’orlo d’uno scoscendimento, vi torna a rovinare, e giace laggiù, sul fondo del burrone, e poi da capo ricomincia a cercar di risalire la china erta lungo la quale è precipitato. Gliela farà, anche questa volta, a tornar alla luce? O rimarrà, inerte, in quel pantano? «Non ho più la forza di desiderare alcunché, neanche di morire» ha detto ancora. Ma chi parla in questo modo non è affatto pazzo, ché quegli ha perso cognizione d’aver nutrito desiderio, né s’avvede del fango che minaccia di sommergerlo del tutto. Le ha scritte a Giordani le cose che mi diceva, là al muro dell’orto, me le ha dettate colla stessa voce flebile, monotona. Torno ogni giorno a recitarmi quei versi. Non gliene ho mai detto nulla. Perché temo che avrei l’impressione di parlarne a un altro, non al loro autore. Ma allo stesso tempo io so bene che è lui, Giacomo, ad averli scritti, e che lui solo avrebbe potuto. Non un altro che non è più. So che è pur sempre nella sua mente tormentata che han preso forma e han potuto trovare la loro voce sommessa, e potente, inaudita quanto il silenzio maestoso di un cielo nel quale si vedano le stelle e la luna e il sole insieme. Quel che non so più, e non credo scriverei ancora, è che sian figlie della malinconia, quelle parole. Non di questa che da qualche settimana l’ha preso, almeno. Gli avrei invece parlato, dell’idillio intendo, se non fosse caduto nello stato in cui è? È la sua prostrazione a impedirmi di farlo anche se lo vorrei? O non è piuttosto il sentimento di soggezione, non saprei chiamarlo altrimenti, che dal momento in cui l’ho letto m’ha preso? Soggezione… timidità, forse, ritegno… Nel momento in cui l’ho sentito più vicino, dentro di me vorrei dire, l’ho anche sentito lontano, ad altezze per me inaccessibili. Ma lui? Lui dov’è, ora? Darei il cuore per sapere se anche a lui quelle altezze paiono adesso inarrivabili; se gli sembra che un altro, non lui, le abbia potute raggiungere. Che cosa sente quando torna a riveder quel foglio? Sente suo ancora lo scrivere che v’ha depositato quelle parole, che le ha disposte in quel modo ineguagliabile? O se ne sente lasciato indietro, come avesse perduto il passo che aveva consentito di salir lassù, al punto da dubitar d’averlo mai posseduto? Un dono che giunge a illuminar la vita e che la vita poi toglie: così lo scrivere gli appare? Così, lo scrivere, non può che apparire?
Ordini
Se vuoi leggere il libro nella sua interezza lo puoi acquistare alla nuova libreria Rinascita di Brescia (15 euro). Via della Posta, 7 – 25121, Brescia Tel. 0303755394 libri@nlr.plus
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Recensioni
Dal Giornale di Brescia del 13 novembre 2019. Clicca sull’immagine per visualizzare l’articolo.
Da Bresciaoggi del 15 novembre 2019.
Leopardi e sua sorella
Paolina: se ne parla oggi alle 18 alla nuova libreria Rinascita
Simoni e “Quei monti
azzurri”
Due protagonisti e un luogo. Continuano gli affondi di Carlo Simoni nella storia umana dei grandi che tanto privata non è, mai disgiunta dalla loro arte. Stavolta con “Quei monti azzurri”, edizioni Castelvecchi, l’occhio spione si intrufola in casa Leopardi a Recanati con l’espediente del diario fra il 1817 e il 1819 della “sorellina” Paolina infatuata di Giacomo, come lui chiusa nel palazzo prigione da cui è possibile per i fratelli evadere solo con la mente, grazie agli studi disperatissimi di lui, alla lettura di nascosto per lei femmina, l’unica della prole, dei libri della vasta bilioteca di casa. Lui è un giovane a noi noto: tutti abbiamo conosciuto dai testi scolastici le sue pene fisiche e psicologiche, il difficile rapporto con una madre bigotta, la contessa Adelaide, e con il conte Monaldo, un padre soffocante che gli preclude il mondo, gli censura la corrispondenza. L’abbiamo immaginato chino sulle pagine, triste, trovare conforto nella penna, invidiare la libertà dell’usignolo, amare Teresa vista dalla finestra. “Io vivo, o piuttosto non vivo al mio solito” scriveva. Simoni ce lo restituisce, Muccio, tramite le descrizioni di Pilla, come da nomignoli dell’infanzia. Preda degli umori e dei loro sbalzi, preda di malinconia e depressione, di frenesie, di turbamenti amorosi, di contraddizioni. Con un fermo e deciso ardore di immortalità- “volto a cercar eccelsa meta”- che a volte lo sorregge, a volte lo prostra ancora di più. “Sentimento desolato dell’inanità della propria vita, della possibilità di morire come mai si fosse nati”. Brutto lui, brutta la sorella si descrive, lei stessa a vivere non solo le paturnie di Giacomo ma i propri fremiti, le gelosie per l’altro fratello, Carlo, la paura dello specchio, il trasporto verso un amico di lettera del poeta, Pietro Giordani, l’altrettanta voglia di fuga da giornate di claustrofobia nella magione “monastero” pur senza i voti, il peso della solitudine, senza nemmeno la speranza, lei, di lasciare un’orma di sé. “Oscura se non a chi mi ha avvicinato, fin che quegli viva, almeno, e duri memoria di me”. Con il leggere sola consolazione della vita, leit motiv nelle narrazioni di Simoni. Così come il significato dei posti, e qui non poteva essere che l’ermo colle, contrapposto al carcere dal quale per molto non riesce a evadere, nemmeno dopo la maggiore età; il colle dove è possibile “fingersi nel pensiero”, fuori dalle stanze paterne eppur esso stesso sbarrato dalla siepe che consente volo solo all’immaginazione. Come la ricerca sul linguaggio ottocentesco letterario che riesce a stagliare meglio le figure umane, pennellandocele come in una pellicola in costume. (Magda Biglia)
Dall’Eco di Bergamo del 28 novembre 2019. Clicca sull’immagine per visualizzare l’articolo.
La vita quotidiana e le figure che animano palazzo Leopardi riempiono le pagine di un immaginario, ma non inverosimile, quaderno di Paolina, divisa tra passione per lo studio e senso di segregazione; vaghe speranze d’amore e consapevolezza del proprio infelice aspetto; soddisfazione per le prime prove della genialità del fratello e timore che il suo desiderio di gloria si traduca fatalmente nella decisione di lasciare Recanati, di valicare quei «monti azzurri» che chiudono l’orizzonte, e sembrano evocati nella composizione cromatica che William Turner creò nel 1819. L’anno stesso in cui Giacomo tenterà di fuggire dalla casa paterna e, a poche settimane dal fallimento del suo disperato progetto, comporrà L’infinito, dove non i monti lontani ma la vicina siepe impedisce allo sguardo di giungere all’ultimo orizzonte. Sarà in questi versi che Paolina potrà credere, sia pure per poco, di intravedere l’approdo all’idea che, a confronto dell’immensità dello spazio, e dell’incommensurabilità del tempo, l’altrove sfumi nel qui, nel posto in cui ci è stato dato di vivere.
Dal Corriere della Sera Brescia del 24 dicembre 2019. Clicca sull’immagine per visualizzare l’articolo.
Roland Barthes, Sul racconto, Marietti 1820, 2019 (pp. 88; euro 8)
Fra l’introduzione di Paolo Fabbri, intervistatore dello studioso francese più di cinquant’anni fa – e oggi sintetico commentatore di quel testo brillantemente sopravvissuto ad un periodo in cui “la problematica narrativa è passata da un iniziale negazionismo, all’accettazione decerebrata dello storytelling – e la postfazione di Gianfranco Marrone, che “in questo straordinario documento” individua i nuclei che lo rendono tanto più attuale e incisiva “in un’epoca di restaurazione positivista”, leggiamo la lezione di Roland Barthes. Perché di una lezione di chiarezza esemplare si tratta, che prende le mosse da una necessità innegabile: “milioni e milioni di racconti” sono stati elaborati “in tutte le società umane”, “Il racconto è dovunque: in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le culture; si serve di qualunque sostanza – la parola scritta, parlata, l’immagine mobile e immobile”. Di qui il tentativo di “scegliere un modello di descrizione”, illustrandone i “ragionevoli” presupposti. Fra rimandi culturali illuminanti ed esempi capaci di accompagnare anche il lettore poco addentro in queste tematiche, Barthes spiega di che cos’è davvero fatto un racconto, a partire dalle sue unità insopprimibili, funzionali dunque all’intelligibilità della storia, secondo un criterio diverso da quello che ci è consueto e si concentra su comportamenti, sentimenti, monologhi interiori. Diverso ma in grado di considerare comunque le “espansioni”, quelle “unità complementari o riempitive – cioè – che pure compongono il racconto. Anche un racconto come Goldfinger, che – né più né meno che l’Odissea – non sfugge alla possibilità di essere analizzato sulla base della logica che governa la successione e i reciproci “inscatolamenti” delle sequenze delle sue unità essenziali, dei “nuclei” che lo fanno essere quel racconto e non un altro.
E dopo l’individuazione dei nuclei e delle loro relazioni, i personaggi, non come “essenze psicologiche” ma “in quanto partecipano a certe azioni”, sull’esempio di quelli individuati da Vladimir Propp, familiare a insegnanti e genitori curiosi di comprendere le fiabe che raccontavano iniziando con quell’immancabile “c’era una volta”, ossia con quel segnale – ci fa notare Barthes – che avvertiva che un racconto iniziava. E il contesto del racconto? la sua “origine sociale”, i suoi risvolti ideologici? Non si tratta di ignorarli, quanto piuttosto di riconoscervi i luoghi nei quali “il sistema del racconto tocca il mondo” – e il “mondo scritto” incontra il “mondo non scritto”, avrebbe forse detto Calvino. Sarebbe necessario che l’analisi semiologica giungesse a quella ideologica, ammette Barthes, non senza ricordare tuttavia, in conclusione, che “solo se il sistema ideologico passa attraverso il relais d’un sistema simbolico diventa opera letteraria, opera d’arte”.
“Insegnavo scrittura creativa, una materia che personalmente non ho mai studiato e un’attività che non so bene come giudicare. L’unico beneficio possibile, come la vedevo io, era che lo sforzo insito nel tentativo di scrivere qualcosa avrebbe insegnato agli studenti quanto è difficile farlo bene e quindi affinato la loro capacità di apprezzare la buona scrittura”. (Paul Auster)
Majgull Axelsson, La tua vita e la mia, Iperborea 2019 (pp. 448, euro 18,50)
Per settant’anni, la protagonista di Io non mi chiamo Miriam – il romanzo della Axelsson pubblicato in
Italia tre anni fa – ha tenuto nascosta dentro di sé la verità, e cinquanta ne
sono passati prima che Märit torni là dove tutto era accaduto. Perché “certe
storie sono semi a cui serve molto tempo per germogliare”, come la scrittrice
svedese ammette nella nota finale.
Torna alla casa dei suoi, in occasione del settantesimo
proprio e del gemello Jonas, ormai sepolto nel linguaggio incomprensibile di un
uomo paralizzato dall’ictus. È con Kajsa, amica d’infanzia divenuta moglie del
fratello, che si compie il gioco terribile di rivangare un passato che non è
passato, che l’Altra non permette
scivoli nell’oblio. L’Altra, la sorella
morta durante il parto trigemellare da cui sono nati Jonas e Märit, ma che non
ha mai cessato di abitare quest’ultima, di farle sentire la sua voce
implacabile, sarcastica, ineludibile: “Infilata in un recesso profondo del mio
cervello, finge di non esistere”, ma ciononostante solo a momenti cessa di
“parassitare le mie capacità. E assillare, naturalmente: assillare, assillare,
assillare”. Impedire, in primo luogo, che si cancelli la memoria di Lars,
“Lars-lo-svitato”, il fratello che allora veniva definito “matto” e adesso si
direbbe “disabile intellettivo con evidenti tratti autistici”. Mal tollerato in
casa, dove solo la madre lo accudisce con amore, nasconde una grande
sensibilità artistica: disegna, fa ritratti somiglianti di persone incontrate
per caso, ma non sa avere rapporto con gli altri, e non è alieno da comportamenti
violenti, aggressivi. La morte della madre segna il suo destino. Märit è
l’unica a ritenerlo non un essere inferiore, ma diverso. Gli altri no: il suo
posto è un ospedale psichiatrico, in “un’epoca che non capiva o non vedeva la
propria malvagità”, un’epoca nella quale fra i medici “i più prestigiosi erano
i neurochirurghi, seguiti a ruota dai cardiologi, dopodiché, in scala
discendente, si arrivava al gradino più basso, quello degli sfortunati
psichiatri”, ma ancora più in basso stavano “quegli insignificanti figuri che
si occupavano dei dementi. E chi erano i dementi, allora? I poveri diavoli al
gradino più basso di tutte le gerarchie”, “considerati ancora più infimi e
indegni degli invalidi e degli alcolisti e dei lapponi e degli zingari”. Una Svezia
sconosciuta emerge da queste pagine, un paese che solo nei primi anni sessanta
scopre l’uso, accanto alle camicie di forza, di farmaci che permettono di
affrontare un “demente scatenato mettendolo al tappeto invece di chiuderlo in
una stanza vuota e poi sentirlo rimbalzare tra le pareti mentre ulula di
disperazione o terrore”. Sarà questo il destino di Lars, e sarà Märit a
scoprirne la condizione prima di ritrovarselo cadavere, segnato dalle botte
ricevute, sul tavolo di dissezione, lei allieva di medicina che lo stesso
giorno abbandonerà l’università, rinunciando a quello che fin dall’inizio i
suoi avevano giudicato un lavoro non da donne. Perché quella è anche l’epoca in
cui “non si può strillare e far chiasso e menar botte. Nemmeno quando se ne
avrebbe voglia. Nemmeno se se ne avrebbe tutte le ragioni del mondo. Non se si
nasce donne”.
Ma se avesse potuto, si sarebbe occupata, lei, del fratello “matto”? L’Altra la mette alle strette, la obbliga a riconoscere che no, non se ne sarebbe occupata annullandosi in lui come faceva la madre: non l’avrebbe fatto perché voleva una vita sua. Se non di medico, di giornalista. Ed è quella che imboccherà, senza tuttavia poter sfuggire al ricordo della vita sua e della propria famiglia, “una delle tante storie silenziose, importantissime e inservibili che dobbiamo portarci dentro fino al giorno in cui moriremo”. Ed è appunto una serie ininterrotta di flash back, non di rado lunghi tanto da far dimenticare al lettore di esser stato trasportato nel passato, a fare questo romanzo: “Smettila, dice l’Altra nella mia testa. Dimentica, per il tuo stesso bene. Quella ormai è storia, storia antica! È passato più di mezzo secolo. Ma io non intendo dimenticare – afferma la protagonista, in un continuo gioco delle parti con il suo doppio –. E lei, la grande amministratrice di ricordi, non deve impicciarsi.” Vuole arrivare fino in fondo, Märit, non lasciare che si dissolva nessuno dei fili di cui è intessuta la storia tragica della sua famiglia. Solo allora, sarà possibile andarsene, senza più voltarsi indietro.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Gramsci, Sherlock
Holmes & Padre Brown. Note sul romanzo
poliziesco,
Marietti 1820, 2019 (pp. 80, euro 8)
“(…)
tu avevi una felice disposizione a ricevere le impressioni più immediate e meno
complicate dai sedimenti culturali. Non eri neanche riuscita ad accorgerti che
il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle novelle poliziesche
più che delle novelle poliziesche propriamente dette”. Potrebbe sembrare ma non
è: Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, nell’ottobre del 1930 scrive alla cognata
Tatiana Schucht – “Carissima Tania” – non per rimproverarle un’ingenuità di
lettrice, ma al contrario per esprimerle “invidia” per la sua “capacità di
fresco e schietto impressionismo”. Antonio legge diversamente, e la stessa lettera lo dimostra: “Il padre
Brown è un cattolico che prende in giro
il modo di pensare meccanico dei protestanti”, di cui lo Sherlock Holmes di
Conan Doyle è l’esempio lampante, l’investigatore che trova il bandolo di una
matassa criminale partendo dal’esterno, basandosi (…) sull’induzione”, mentre
il sacerdote detective di Chesterton si basa “sulla deduzione e
sull’introspezione” e, pur così apparentemente dimesso e alieno da ogni
carattere di eccezionalità, fa apparire Holmes “un ragazzetto pretenzioso”. Ma, nella sostanza, i racconti di Padre Brown
sono “fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana”;
la sfida lanciata, con successo, dal detective cattolico contro quello
protestante.
Senonché, i libri che Gramsci poteva leggere in carcere – fa notare Jean-Louis Ska in uno dei saggi che compaiono nel libro, accanto a quelli di Chiara Daniele e Alessandro Zaccuri – non erano una biblioteca fornita cui lui potesse accedere liberamente, e così non può che trascurare il fatto che mentre Conan Doyle usciva da una famiglia cattolica, Chesterton si era formato in ambiente anglicano e solo a quarantotto anni si sarebbe convertito al cattolicesimo. L’opposizione fra i due non è dunque di carattere religioso, ma culturale: “fra una cultura mediterranea più sensibile alle motivazioni morali e psicologiche e una cultura anglosassone più induttiva, pratica ed empirica”. Una divaricazione che ogni lettore di polizieschi conosce bene, sulla quale ha scritto parole inequivocabili Sciascia definendo Simenon, non lo scrittore che ama il puro gioco intellettuale ma quello che “vede” e che “ama” (Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018), capace quindi di superare l’alternativa che pure all’inizio gli si era posta, fra un dotto Jean incline al freddo ragionamento (Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018) e il ben più fortunato Maigret, fatto di tutt’altra pasta, che inaugura un profilo di poliziotto destinato a un successo tanto solido da arrivare al nostro Montalbano.
Ci torna comunque sulla faccenda, Gramsci, nei suoi Quaderni, e a diverse riprese, andando tuttavia al di là del confronto fra le due figure di investigatore e ponendosi un problema di fondo: “perché è diffusa la letteratura poliziesca”, e più in generale “la letteratura non-artistica”, la letteratura spesso definita “popolare”? E la riposta è di quelle che fanno dei Quaderni dal carcere un’opera che non si è mai finito di consultare: la diffusione “sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano”, ma sulla distanza è il valore artistico di un testo a farsi valere, quel valore rinvenibile in Chesterton e assai meno in Conan Doyle. In quest’ultimo “c’è un equilibrio razionale (troppo) tra l’intelligenza e la scienza. Oggi interessa di più l’apporto individuale dell’eroe, la tecnica ‘psichica’ in sé”. Un giudizio del tutto sottoscrivibile anche a distanza di decenni, ma che rivela la sua sorprendente attualità in una successiva annotazione che lo sviluppa, e che vale la pena di rileggere attentamente: “Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. (…) Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? (…) Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due”: 007 per tutti, dunque? Detective sempre più dotati di mentalità e bagaglio tecnologici ma pur sempre avventurieri? Attenzione però, raccomanda l’autore: “accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole ‘avventure’, ma certezza di vita”: “il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non ‘prevedibilità’ del domani, dalla precarietà della propria vita, cioè da un eccesso di ‘avventure’ probabili”. Avventure sì, allora, anche delle più torbide, truculente o catastrofiste che siano, purché… rassicurino.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Georges
Simenon, Le persiane verdi, Adelphi
2018 (pp. 208, euro 19)
Alto,
grosso, a suo modo carismatico: venuto dal nulla, Émile Maugin è diventato un
grande attore, popolare al punto da essere riconosciuto per strada, nei
ristoranti, nei caffè. La sera a recitare in palcoscenico, la mattina sul set
cinematografico.
Simenon
ce lo fa seguire in tutti i suoi movimenti, ma anche nei suoi pensieri, nelle
sue idiosincrasie, nelle manifestazioni del suo caratteraccio: prepotente,
insofferente, violento, quasi compiaciuto della propria protervia egocentrica.
E al fondo di tutto: un’insoddisfazione corrosiva, che vino e cognac non
riescono a sopire.
Non
suscitano empatia il piacere della cattiveria, la brutalità dei comportamenti
sessuali, l’instabilità esasperante di questo personaggio. Fino a che,
ritiratosi da un giorno all’altro dalle scene, abbandonata Parigi e
trasferitosi con la giovane moglie e la figlia (non sua) nel sud della Francia,
cominciano ad affiorare in lui i segni di una debolezza che sempre più si
rivela essere sempre stata il contraltare della sua mancanza di scrupoli: ha
paura di morire, Maugin. Il medico gli ha detto che il suo cuore è quello di un
settantacinquenne, non del sessantenne che è. Ma più che la morte in sé è una
morte in solitudine che lo terrorizza. La moglie, la villa affittata dalle
parti di Nizza, la bambina rappresentano una garanzia in questo senso, ma lui non
sa realizzare il sogno di una casa in cui vivere in pace, una casa serena come
quelle che si vedono, con le persiane verdi… Il suo destino è segnato: una
banale ferita, superficiale ma non curata a dovere, sarà la causa della sua
fine.
L’intero
racconto appare allora una preparazione della scena finale: l’infezione si è
diffusa, la morte è vicina, e tutto è filtrato dal punto di vista del
protagonista, ormai perso nelle nebbie di uno stato quasi comatoso e
ciononostante attraversato da un ossessivo arrovellarsi attorno alla propria
vita, ai torti fatti, alle donne lasciate. Tutti, i genitori, i compagni
d’infanzia, il maestro di scuola, le mogli e le amanti, i colleghi e gli amici,
il prete e il dottore, tutti sono lì, al suo capezzale: se li vede intorno e
sente di dovere a tutti loro, e a se stesso, una riposta, una giustificazione
delle sue colpe, ma il bandolo di tutta l’ingarbugliata, confusa faccenda che è
stata la sua vita non si lascia trovare. Finché un tratto capace di spiegare le
sue scelte, il suo modo di stare al mondo, gli appare chiaro, inequivocabile:
“Aveva passato tutta la vita a scappare. Scappare da cosa?” “Aveva fame e
scappava dalla fame, Viveva in mezzo al tanfo degli alberghi malfamati e
scappava dal senso di nausea. Era scappato dal letto delle donne che aveva
posseduto, perché erano solo donne e niente di più, e quando si ritrovava di
nuovo solo beveva per scappare da se stesso.”
La
ripetizione è la colpa di Maugin, la ripetizione di un gesto di fuga che
nell’imminenza della morte non può essere più rimesso in campo.
Le
ultime pagine di questo romanzo risignificano le precedenti, e non possono non
richiamare quelle, insuperate, dedicate da Tolstoj alla morte di Ivan Il’ic.
“Lo scrittore è un povero animale rinchiuso dentro una gabbia in compagnia di se stesso”. (Françoise Sagan)
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