Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi 2019 (pp. 239, euro 17,50)
“Siamo i bimbi del Mezzogiorno. La solidarietà e l’amore degli emiliani dimostra che non esistono Nord e Sud, esiste l’Italia”: è la scritta che compare in una foto ricordo di un fatto poco noto. Nel 1946, il Partito Comunista organizza il trasferimento e il soggiorno di un anno di bambini del Sud presso famiglie emiliane per toglierli dalla miseria che appena dopo la guerra si è fatta laggiù ancora più drammatica.
Questo il fatto. Ma è innanzitutto il linguaggio adottato a farne materia di romanzo. Il linguaggio e chi lo parla: è di uno di quei bambini, Amerigo, il punto di vista da cui la storia viene narrata, a partire dal tragitto che lui e la madre fanno per andare a sentire dell’inaspettata opportunità: “Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo, due miei. Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti. Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai…”.
La madre Antonietta, che vive di espedienti e di scambi di favori con un malavitoso, chiusa nel suo realismo disperato; Maddalena, l’attivista che organizza il viaggio superando la diffidenza della donna; e poi altre donne, lassù in Emilia: Derna, l’affidataria, un’altra attivista, e la cugina Rosa, nella cui casa Amerigo passerà la maggior parte del tempo fra i figli di lei (Rivo, Luzio e Nario): il romanzo mette in scena figure, di donne soprattutto, delineate con pochi tratti, ma che nel corso della vicenda acquisiranno sostanza e fisionomie inconfondibili, destinate a fissarsi nella memoria del lettore.
È là, lontano da casa, che Amerigo, oltre che poter calzare scarpe decenti, conoscerà la musica, e la vocazione che ne farà un musicista, un giorno, ma intanto, passato il periodo stabilito, deve tornare: superata la paura con cui era partito (indotta da voci come quella che li avrebbero portati in Russia, lui e gli altri) e lo spaesamento dei primi tempi, è poi il dover tornare a confrontarsi con lo squallore senza speranza del basso dove la madre ha continuato a vivere e della bottega di calzolaio – ancora le scarpe… – in cui il bambino sarà messo a lavorare a imporsi, a suscitare l’impressione di essere spezzati in due metà. Non più là, ma neanche qui, come un tempo. E allora la fuga, il ritorno al Nord, e una vita che andrà per la sua strada e solo molti anni dopo riporterà il protagonista a Napoli, dove la madre è appena morta, ma la città non lo accoglie, né come un “turista” né come “uno che appartiene alla città”: “Forse – conclude Amerigo – sarò sempre solo questo: uno che è andato via”.
Avevamo già conosciuto sentimenti simili di irrecuperabile lacerazione, nell’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, ma è il pathos de La storia di Elsa Morante a risuonare via via in queste pagine.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.