Mori Ōgai, L’intendente Sanshō, Marietti 1820, 2019 (pp. 91, euro 10)
Quanti fratelli e sorelle popolano le fiabe che conosciamo, in qualche modo simili a Zuschiō e Aniu? E non mancano certo in questa storia le funzioni che Vladimir Propp enucleava nella sua Morfologia della fiaba, a partire dall’“allontanamento” che innesca il racconto della vicenda. Non di un racconto fantastico si tratta però in questo caso, ma di una leggenda che un medico militare giapponese vissuto fra Otto e Novecento, cultore della letteratura tedesca, riscrive in un’epoca in cui il suo paese conosceva profondi rivolgimenti politici e culturali, tali da mettere in discussione il passato e la tradizione. Il compito che Mori Ōgai si assegna è allora quello di rivisitare leggende con l’acribia dello storico, non per farne uno studio critico tuttavia, bensì per rendere il suo lavoro “del tutto contemplativo” e ottenere un “effetto di straniamento” – per il quale è stato accostato a Brecht – capace di ridare un senso attuale agli antichi racconti. Lealtà, onesta, sacrificio sono le coordinate di uno stile di vita che l’autore continuava a ritenere in grado di contrastare – come fa notare nella sua introduzione Maria Teresa Orsi – “un’etica sociale troppo rigida e irrispettosa dei diritti individuali”. L’etica con la quale si trovano a doversi misurare i protagonisti, una giovane madre che, con una figlia di quattordici, un figlio di dodici anni e una fedele servitrice, si mette in viaggio alla ricerca del marito, vittima dell’ingiustizia, ed è animata da uno spirito di fiduciosa ragionevolezza che esce confermato dall’incontro con persone semplici quanto giuste e compassionevoli, ma deve fare i conti con la doppiezza, l’arroganza, la violenza di potenti contro i quali, ad assicurare giustizia alla famiglia, interverrà la protezione di una divinità benevola, Jizō – protettrice sia dei bimbi dalla nascita travagliata o addirittura non realizzatasi e anche dei viaggiatori, ma che la nostra sensibilità potrebbe per certi versi accostare alla figura dell’angelo custode – e, infine, varrà il sacrificio della vita cui la figlia – richiamando un’altra figura, quella di Antigone – si sottopone.
Oggetto di reiterate rivisitazioni, la leggenda, proprio nella versione di Ōgai, caratterizzata dall’intento di ribadire l’irrinunciabilità dei diritti umani essenziali, ha conosciuto negli anni Cinquanta anche una trascrizione cinematografica che ha inaugurato in Italia l’interesse per il cinema giapponese.
Ken Mogi, Il piccolo libro dell’ikigai. La via giapponese alla felicità, Einaudi 2018 (pp. 169, euro 15)
La prima pagina elenca i “cinque pilastri dell’ikigai,
la seconda parla di Jirō Ono, “grande maestro” di sushi: uno dei soliti manuali
della felicità, sia pure in salsa giapponese, e che per fare esempi di chi è
riuscito ad applicarne le regole parte da uno chef. Il libro, appena sfogliato,
tornerebbe al suo posto sul bancone della libreria se non venisse alla mente il
Sukegawa delle Ricette della signora Tokue (Einaudi 2018) link al 22 aprile 2018 e la sua saggezza
lieve, ma perentoria, a suo modo: nella letteratura giapponese contemporanea
sono spesso personaggi che svolgono mestieri come quello della cucina a
veicolare significati e valori in cui non c’è traccia di banalità né di
esotismo. Tornando a scorrere le pagine del “piccolo libro” ci si rende conto
che parlando dell’ikigai offre esempi ragionati dello stile di vita giapponese,
e allora il richiamo è al Noteboom di Cerchi
infiniti. Viaggi in Giappone,
Iperborea 2017 link al 2 luglio 2018,
un libro che parlando di Giappone parla di noi.
Bene. Ma cos’è questo “ikigai”? Il “pentalogo” che
apre il libro si scioglie, pagina dopo pagina, in casi ben raccontati,
concreti, capaci di chiarirci che l’ikigai non è altro che la somma dei
“piaceri” e dei “contenuti di senso della vita”: due cose diverse, si potrebbe
obiettare. Ma proprio qui sta il punto:
se si “comincia in piccolo” (la giornata come un nuovo lavoro o una
nuova relazione), se ci si prova a “dimenticarsi di sé” e a vivere in
“armonia”, non solo con gli altri, ma anche con piante, animali, cose, in un
orizzonte di “sostenibilità”, se si impara così a gustare la “gioia delle
piccole cose” stando “nel qui e ora”,
piacere e senso della vita convergono, si lasciano vivere come un’unica
esperienza, il cui sottofondo è, nella sostanza, la capacità di “accettare se
stessi”. Ne viene non solo una “felicità” della quale ci si può render conto
nel momento stesso che la si vive, ma anche una serenità che fa tutt’uno con la
capacità di resistere a disgrazie e ingiustizie subite, di vivere bene anche se
la propria vita non è quella che si sognava, perché non c’è altra vita che
quella che ci si trova a vivere. E allora “prender sul serio i fenomeni
transitori” (come la famosa fioritura dei ciliegi) non è l’espediente di chi
accontentandosi gode, ma un atteggiamento conseguente e lucido che traduce
nella pratica una filosofia.
Condotta individuale e comportamenti collettivi si intrecciano in aspetti molteplici della vita quotidiana in Giappone: la gentilezza di cui parlano i visitatori del paese del Sol levante non è che il portato dell’ikigai.
Si era partiti con uno chef. Si incontrano artigiani,
monaci zen, musicisti, e fin qui tutto bene. Leggere delle virtù sapienziali
dei lottatori di sumo può lasciar perplessi, ma bisogna ammettere che Mogi ci
sa fare, spiega, persuade. Almeno fino a quando arriva a sostenere che l’ikigai
annulla la differenza fra perdenti e vincitori, nel senso che anche chi sta
sotto se la può passare bene, perché “l’ikigai è pane per gli svantaggiati”,
“permea tutti i livelli gerarchici delle strutture competitive e concorrenziali”.
Forse le aiuta anche a perpetuarsi… vien da pensare, tanto più quando si legge
che “si può declinare l’ikigai in modo personale anche in una nazione dove la
libertà è limitata”. Ma non è finita: “ironia della sorte, potremmo trovare il
nostro ikigai anche sganciando la bomba atomica che decreterà la fine del
mondo” (sic). Detto da un giapponese, tra l’altro…: che distanza resta fra l’ikigai
e la pura esecuzione di un ordine da parte del pilota dell’Enola Gay?
Ma qui non possiamo prendercela con Ken Mogi: qui sono
le filosofie dell’atarassia, è il pensiero orientale a mostrare – nonostante
tutte le suggestioni e gli insegnamenti che ne possiamo derivare – a mostrare
il limite drammatico di una ricerca della salvezza che non sa o non vuole fare
i conti con le contraddizioni stridenti e insormontabili del mondo
contemporaneo. Persino a un conoscitore profondo e partecipe come Francois
Jullien è accaduto di doverlo ammettere.
Lisa Luzzi, La polvere che danza in un raggio di luce. Una suggestiva interpretazione del De profundis di Oscar Wilde, Armando Editore 2019 (pp. 160, euro 14)
“La profondità dell’esperienza espressa nel De profundis è stata spesso
sottovalutata dalla critica”, afferma senza mezzi termini l’autrice, per la
quale il ritrovamento di quest’opera, letta al tempo del liceo, ha
rappresentato un’“epifania”, una rivelazione non solo umana e letteraria, ma
filosofica e religiosa.
Scritta nella forma di una lunga lettera al proprio amante, di fatto un intenso monologo con se stesso, durante l’incarcerazione per omosessualità – un reato, in Gran Bretagna, sino a tempi non lontani: si pensi al destino di Alan Turing –, la testimonianza di Wilde ha un valore che va oltre la sua vicenda, risultando emblematica di un dato comune: “Siamo tutti, in fondo, vittime di noi stessi – ci vien fatto notare –, tanto delle nostre debolezze quanto delle nostre apparenti forze, anche se non ce ne avvediamo”. Occorre avere “il cuore di Cristo e la mente di Shakespeare”, lo stesso Wilde afferma, per giungere a riconoscere – e qui è Ellmann, biografo dello scrittore inglese, a parlare – che “noi siamo naturalmente nemici di noi stessi e andiamo in cerca degli eventi che inconsciamente ci si addicono”. Secondo quella coazione a ripetere, verrebbe ad aggiungere, che la psicoanalisi ha interpretato come espressione della pulsione di morte.
Wilde si vergogna, si pente amaramente di “aver usurpato il proprio genio, e infangato il proprio nome, per aver commesso l’errore di assecondare appetiti superficiali e frivoli” – anche se altrove li fa derivare da un “profondo affetto spirituale” al pari di quello provato dai grandi Michelangelo e Shakespeare. Senonché, più che un cedimento, la vicenda ha fatto “emergere l’ombra che abitava nel suo animo che, se da un lato, amava perdersi nella bellezza dall’altra sentiva anche l’urgenza di un traumatico svelamento della concretezza del reale e della verità della materia”. Una tensione drammaticamente opposta a quella della sublimazione e alla tendenziale identificazione fra estetica ed etica; una spinta a portare al livello dell’atto la convergenza avvertita fra bellezza, amore e morte, tratto comune alla vita e alle opere di Wilde, come l’autrice analizza stabilendo paralleli convincenti – con il Ritratto di Dorian Grey, in particolare: una sorta di anticipazione del destino che attendeva lo scrittore.
Non di meno, la sua decisione è ferma, e la
saprà rispettare: “Devo conservare l’Amore nel mio cuore a tutti i costi. Se
vado in prigione senza amore che ne sarà della mia Anima?” E dunque, assicura
l’interlocutore, “Non scrivo questa lettera per far nascere amarezza nel tuo
cuore, ma per eliminarla dal mio”.
“Ho scritto tutto quello che c’era da
scrivere. Ho scritto quando non conoscevo la vita, e ora che ne conosco il
significato non ho più niente da scrivere”, confessa Oscar Wilde pochi mesi
prima della propria morte. Convinto che “lo scopo della vita è lo sviluppo di
noi stessi, la perfetta attuazione della nostra natura”, e quindi, anche, il
dovere di non vergognarsi neppure degli atti che non si vorrebbe aver commesso.
Non citerà più con leggerezza gli aforismi,
sempre sapidi nei loro paradossi quanto calzanti con l’attualità, chi ha letto
questo libro e magari, sulla sua scorta, ha sentito il bisogno di conoscere
anche il De profundis.
“Si vive in una pace meravigliosa senza pubblicare. Mi piace scrivere, è la cosa che amo di più, ma mi piace scrivere per me stesso, per il mio piacere.”
Leonardo, Amore ogni cosa vince. Segreti di vita e bellezza, Interlinea 2019 (pp. 64, euro 10)
Spesso, e con qualche ragione, ci
si guarda dagli anniversari e dalle celebrazioni. Conoscendo per esperienza il
valore del tutto effimero di gran parte di ciò che in queste occasioni si dice
e si pubblica, si preferisce lasciarne decantare quel che non è mera
ripetizione, luogo comune, agiografia.
Il cinquecentenario della morte di Leonardo non fa eccezione, ma è tuttavia possibile distinguere, nel mare di saggi e di romanzi usciti in questi ultimi mesi, alcune pubblicazioni che si sbaglierebbe a trascurare per le loro dimensioni contenute. Di queste, la raccolta di pensieri curata da Gino Ruozzi, massimo studioso italiano della letteratura aforistica, “una letteratura marginale perché poco attraente e ammiccante”, ha avuto occasione di scrivere lo stesso Ruozzi, ma che in realtà “ci invita non al sogno, ma al confronto con noi stessi e la società in cui viviamo”. E a questo confronto, appunto, le pagine di Amore ogni cosa vince invitano chi, come noi, è chiamato a misurarsi con la vecchiaia secondo prospettive diverse dal passato, imposte dall’invecchiamento della popolazione e dalla tendenziale rimozione non solo della fine ma ormai anche dell’inevitabile declino della vita nella sua ultima stagione. Senonché, leggiamo in uno dei primi pensieri che il libro riporta, “A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello esser di bastevole transito”. A torto perché, a ben vedere, “molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente”, e quel che conta è allora la qualità di quelle cose, una qualità “che ristori il danno della tua vecchiezza, overo che trastulli la tua vecchiezza”. È insomma il genere di vita che si è fatto a stabilire quello della propria morte: “Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire” e, in conclusione, “La vita bene spesa lunga è”.
Ma anche altri di questi pensieri rimandano all’oggi: il primato della “sperienzia” contro la semplice citazione, la superiorità degli “inventori” rispetto ai “recitatori” possono richiamare la sudditanza e la credulità oggi dilaganti di fronte all’invasività delle informazioni indiscriminate se non false di cui, grazie alla rete ma non solo, siamo vittima (ogni epoca ha quel che si merita: le autorità del passato, un tempo; i makers il più delle volte irrintracciabili di news e fake news, oggi). Così come all’attuale discredito da cui sono investite le competenze e alla disinvolta condotta di non pochi reggitori della cosa pubblica fan pensare le parole che Leonardo dedicava a “quelli che usano la pratica senza scienzia”, “come ’l nocchieri ch’entra in navilio senza timone o bussola”. Pensieri stimolanti, insomma, che aprono – sia pure sul filo della libera associazione – percorsi diversi ma tutti convergenti nel mettere in luce la modernità del pensatore: dalla differenza di grado, più che da una radicale discontinuità e tantomeno da una conclamata superiorità, che intercorre fra uomini e animali (“L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso. Li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero”) al riconoscimento, tutt’altro che scontato quando Leonardo scriveva, che “El sole non si move”. Verità scientifiche intuite con certezza, capacità anticipatrice di un pensiero che se da un lato esprime la convinzione che “Nessuna certezza delle scienzie è dove non si po’ applicare una delle scienzie matematiche”, dall’altro sostiene che “Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti”. Per cui lo sguardo indagatore che si rivolge al sole può tingersi di accenti ben diversi non appena si posa sulla luna: “La luna, densa e grave, densa e grave, come sta, la luna?”.
Un libro piccolo da leggere e rileggere, dunque, per
avvicinarsi davvero, al di fuori di ogni logica monumentalizzante, a quest’uomo
che, pienamente immerso nei suoi tempi di guerre e congiure – anche l’Ultima cena di Santa Maria della Grazie,
nota il curatore, mette in scena una congiura, la congiura per eccellenza della
cultura occidentale – si pone “all’inizio della modernità”, maestro di una
pittura sempre innervata dalla conoscenza naturale e dalla riflessione filosofica (il pensiero corre all’animale che
compare in copertina, nella celebre Dama con l’ermellino, quando si legge che “Moderanza raffrena tutti i
vizi: l’ermellino prima vol morire che ’mbrattarsi”).
Avvicinarsi all’uomo, in conclusione, senza per questo disconoscerne la grandezza, e insieme il suo essere “vario e instabile”, come gli rimproverava Vasari. “Una sostanziale incapacità caratteriale a concludere le cose – ammette Ruozzi –, distratto o attratto da troppi interessi contemporaneamente” ha senz’altro connotato Leonardo. Produttore di un’opera ricca di “lacune e frammenti” – quali sono questi stessi pensieri – interpretabili però “come mimetici dell’imperfezione e della fragilità intrinseca della nostra esistenza.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Il massimo che possiamo fare è scrivere – in modo intelligente, creativo, critico, evocativo – di quello che vuol dire vivere in questo mondo in questa epoca.”
Tommy Wieringa, Una moglie giovane e bella, Iperborea 2019 (pp. 117, euro 14)
“Collezionista
di prime volte” nella sua vita sentimentale, il virologo Edward, finché non
incontra Ruth, di parecchi anni più giovane di lui. Al solo vederla prova “una
nuova sensazione: la bruciante nostalgia di qualcuno che ancora non conosceva”.
La sposa, la tradisce con una collega, hanno un bambino, che non smette di
piangere, neanche la notte, e cui la moglie si dedica in modo esclusivo
attribuendo al marito un’indefinita responsabilità: il piccolo, sostiene,
percepisce che lui non lo desiderava. È meglio che non abiti con loro, dunque,
e al virologo non resta che accamparsi, all’insaputa dei colleghi, nel suo
laboratorio, fra le cavie. Senonché, la sensibilità animalista della moglie
l’ha contagiato: “A volte guardava gli animali nelle loro gabbie con gi occhi
di Ruth e vedeva che la prima forma di sofferenza a cui venivano sottoposti era
la noia. Smettevano di prendersi cura di sé (…). Più spesso e a lungo li
guardava, più si affievoliva dentro di lui la negazione della loro sofferenza”,
sulla scorta delle idee non solo della moglie ma anche di Jeremy Bentham,
secondo il quale la domanda da porsi se si vuole tracciare un confine tra
uomini e animali «non è: “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono
soffrire?”».
La
riflessione sul dolore animale si intreccia sempre più strettamente con quella
su di sé: la gallina bianca che trent’anni prima, ancora ragazzino, aveva
salvato dall’allevamento intensivo è forse l’unico essere che ha davvero amato,
o per il quale aveva provato “una sorta di compassione”, mentre col passare
degli anni quella sensibilità è scomparsa e riesce difficile ricordare “com’era… avere un cuore, un cuore
che ti mette in condizione di lasciarti trasportare e sentirti parte della vita
sulla terra…”. Ma il tempo è passato, e ormai “le singole parti della sua biografia
non volevano saperne di amalgamarsi in un insieme, in un’unica vita che
mostrasse significato e coerenza.”
Ecco il punto: Edward è uno di quegli uomini che, superati i quaranta, si rende conto di aver continuato “a salire e scendere la scala della (loro) vita” e faticano a cogliervi qualcosa che possa riconoscere come una biografia: come i depressi (si pensi all’io narrante di Emanuele Trevi, in questi Appunti lo scorso 26 maggio), così anche questi personaggi sembrano aggirarsi con assiduità nei romanzi che l’editoria oggi ci propone. Ne fa parte, per fare un esempio, anche lo psichiatra Kadoke di Terapie alternative per famiglie disperate di Arnon Grunberg (Bompiani 2019), afflitto da una pervasiva “stanchezza di vivere” che “bisogna scavalcare come si scavalcano le pozzanghere”, assorbito da un rapporto con la figura materna dai tratti patologici, eppure privo di passioni al punto che “talvolta va all’opera per vedere e ascoltare emozioni che non gli sono del tutto estranee, ma che non vive più in forma diretta.” Chi sono questi uomini? Hanno forse alle spalle l’esperienza dei giovani di cui spesso si parla: espropriati di futuro, più o meno apparentemente anaffettivi, incapaci di un progetto biografico?
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“A quanto pare sono interessato a come – e perché e quando – un uomo agisce contro quella che ritiene la sua parte migliore, contro il modo in cui gli altri immaginano che lui sia, o preferirebbero che lui fosse.”
Rachel Cusk, Transiti, Einaudi 2019 (pp. 196, euro 17)
Una scrittura, una narrazione all’altezza dell’epoca? Forse in questo modo si potrebbe definire l’obiettivo – e, a seconda dei giudizi, il risultato – del lavoro di Rachel Cusk, che fin dalle prime pagine ci propone giudizi precisi sul nostro tempo, appunto. “Quest’epoca di scienza e incredulità (in cui) abbiamo smarrito il senso del nostro significato”, e la vita scorre per molti “priva di storia”, in una sostanziale solitudine e nella assillante “paura di non essere desiderati”. Al punto che, a chi si aggira nel deserto della depressione, può accadere “di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari”. Ma nulla è più lontano dalle intenzioni dell’autrice del costruire una teoria circa il mondo in cui viviamo: quello che dice lo riporta, non lo presenta mai come l’esito del suo pensiero, ma sempre come il frutto della sua attitudine ad ascoltare gli altri, le persone fra loro diverse che la vita quotidiana le fa incontrare. In ciò proseguendo la strada intrapresa con Resoconto (in questi Appunti lo scorso 9 dicembre), ma dando ancora più spessore a un senso di irrealtà che permea l’esperienza, “come se vivessimo in una vetrina”, dove la vita “è una messa in scena, ma nello stesso tempo è reale”. Una realtà nella quale tuttavia molti degli adulti fra i quali ci muoviamo a mala pena riescono a nascondere la loro natura di bambini mai davvero del tutto cresciuti, e perfino gli studenti di un corso di scrittura creativa danno l’impressione di non “credere a sufficienza nella realtà umana per costruirci sopra delle fantasie”. Né maggiore consistenza paiono avere i matrimoni, che sembrano funzionare “come si dice che funzionino le storie, grazie alla sospensione dell’incredulità” e si reggono secondo uno dei “resoconti” raccolti, “non tanto sulla perfezione, quanto sull’elusione di determinate realtà”, come ad esempio i sentimenti del compagno. Ma non si tratta solo di esperienze coniugali: tutta la vita è dominata da una sorta di rimozione, dalla tendenza a “sottovalutare ciò che ci ha formato di più, e a replicarlo ciecamente”.
E lo scrivere? è forse il segno di un destino diverso, più
consapevole, più responsabile? Pare di no: “Tutti gli scrittori sono in cerca
di attenzione (…) Il fatto è che nessuno – sostiene un collega nel corso di un
incontro pubblico – si è preso cura di noi quando eravamo piccoli e adesso
gliela facciamo pagare. Se uno scrittore nega, per quanto lo riguarda, una componente
di vendetta infantile in ciò che fa, è un bugiardo. Scrivere è solo un modo di
farsi giustizia con le proprie mani”.
Ma lei, l’autrice, in proposito come la pensa? O meglio: come la pensa la protagonista, voce narrante del romanzo (del tutto somigliante all’autrice stessa, si giurerebbe comunque)? Lo dice, con chiarezza: ritiene un bene “il fatto che ogni lettore si avvicina al tuo libro come un estraneo che devi convincere a restare”, persuasa com’è della necessità di un “fondamentale anonimato del lavoro di scrittura”. Ed è un impegno mantenuto, questo: il personaggio di cui meno sappiamo, alla fine, è proprio lei, la narratrice, anche se il suo sguardo è pagina dopo pagina divenuto il nostro. Uno sguardo distaccato abbastanza per riportare con scrupolo le storie udite, ma partecipe in misura tale da permetterle di far di quelle storie l’occasione di riflessioni, di interventi in prima persona sommessi quanto penetranti, che solo il contatto stabilito con l’estraneo del momento pare aver reso possibili.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Le luci della sala si sono spente, e siamo rimasti al buio: lo schermo non si è illuminato. È nero. Il film però è cominciato, senza immagini. Solo un rumore. Il rumore che facevano i treni fino a non molti anni fa. TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… Quando l’immagine appare vediamo un signore, un vecchio, più in là dei settant’anni, che tiene un libro in mano, aperto, ma sta guardando fuori dal finestrino. Il treno non è di quelli di oggi, appunto: ci sono ancora gli scompartimenti. Roba di una quindicina d’anni fa almeno. Davanti al vecchio c’è un bambino. Lui non guarda i tralicci, i capannoni, i campi piatti e deserti che scorrono di fuori. Non distoglie lo sguardo da quello che tiene in mano, ma non ha pagine da girare. Sta giocando. Un videogioco. Guarda fisso e schiaccia, ora sul lato destro ora sul sinistro della scatolina di plastica rossa che tiene fra le mani, emettendo di tanto in tanto, sottovoce, qualcosa di simile agli urli della folla allo stadio quando fanno goal. Gioca e mastica. Ai suoi piedi la carta del chewing gum che ha in bocca. Accanto a lui siede una donna, giovane, sottana corta e stivali, un maglione con dei brillantini che disegnano un fiore sulla lana lilla. Parla al cellulare. Sbocconcella un biscotto, l’ultimo, la scatola che c’è sul sedile, vicino alla borsetta, sembra vuota. L’uomo seduto verso il corridoio invece ascolta, soprattutto. Il cellulare all’orecchio anche lui. Si direbbe addormentato, non fosse per il cenno di assenso che ogni tanto fa, a intervalli regolari, e per i sorsi che ogni tanto dà alla bottiglietta di plastica che tiene fra le gambe. La voce della donna però non si sente. Solo quel TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… Forse il regista vuol farci capire che non c’è nient’altro da sentire. E poco da vedere anche, si direbbe: lo schermo è di nuovo buio. Dev’essere uno di quei film in cui tra una scena e l’altra succede così.
“Indubbio è che le storie, molte volte, le si crea anche per riequilibrare, che la stessa invenzione, la più pura, si fa strada per compensare delle mancanze.”
Louise Penny, Case di vetro. Le indagini del commissario Armand Gamache, Einaudi 2019 (pp. 552, euro 15)
Dopo cinquanta pagine non è ancora successo niente: si può
reagire così alla lettura del primo dei romanzi dedicati dall’autrice canadese
al commissario Gamache. Il primo pubblicato in Italia di ben quattordici. Sì,
la lentezza: è come guardare un film in bianco e nero di qualche decennio fa,
uno di quei romanzi che si permettono di lasciare che i personaggi si
costruiscano per minime pennellate successive. Così avviene per il
protagonista, e proprio il processo che a poco a poco ci rende familiare questo
personaggio è al centro della narrazione. Armand Gamache “credeva fermamente
alla legge, aveva lavorato tutta la vita a servizio della giustizia, ma l’unica
a cui sentiva di rendere conto era la propria coscienza.” E la storia si può
leggere, infatti, anche come l’assommarsi delle circostanze che portano questo
integerrimo poliziotto a far sua senza esitazioni o mezze misure la massima di
Gandhi – secondo la quale “Esiste un tribunale più alto di quello degli uomini,
ed è quello della coscienza. Il primo tra tutti i tribunali” – e a metterla in
pratica correndo sul limite di quella che potrebbe apparire assenza di
scrupoli. Quella stessa che qualcuno imputò a Churchill quando lasciò che i
nazisti bombardassero Coventry per impedire che potessero rendersi conto che
loro, gli inglesi, avevano decifrato il loro codice segreto: non opporsi alla
morte di centinaia di persone per scongiurare quella di un numero molto
maggiore di innocenti. Lasciare che un carico ingente di droga passi il confine
fra il Canada e gli Stati Uniti pur avendone avuto notizia non è diverso:
servirà al commissario a decapitare i due potenti cartelli, americano e
canadese, dei trafficanti di morte.
Senonché, questo è solo un ramo della vicenda, l’altro si
svolge in un tranquillo, minuscolo villaggio fuori da Montreal, lo stesso i cui
abitanti – non numerosi, cui si aggiungono qualche turista e anche Gamache e la sua famiglia – sono sconvolti
dalla comparsa di una figura misteriosa, addobbata come la Morte nell’iconografia
tradizionale: un cobrador, un
misterioso personaggio la cui presenza, muta e di per sé innocua, suscita in
ciascuno dei residenti il rimorso per un atto che avrebbe potuto evitare e
invece ha compiuto, o si è colpevolmente astenuto dal fare. Tutti colpevoli, ma
qualcuno – uno in particolare – più degli altri.
Il rapporto fra la ricerca dell’identità del personaggio mascherato e, poi, di quella che viene ritenuta dal paese come la sua vittima, da un lato, e dall’altro la lenta, paziente lotta ai padroni del mercato della droga, resta in sospeso per gran parte delle oltre cinquecento pagine del romanzo, persino agli occhi di personaggi decisivi come la giudice che, a fatti avvenuti, sta conducendo un processo nel quale, inspiegabilmente, il procuratore e il commissario chiamato a testimoniare, contrariamente a quanto sarebbe naturale, sembrano schierati su fronti opposti. L’andirivieni fra la cronaca del processo e quanto avviene al villaggio è frutto di una tecnica narrativa consumata, che permette di tener ferma l’attenzione del lettore, oltre che su quanto avviene, sui risvolti inaspettati del carattere di Gamache, uomo ironico, gentile, disincantato, ma al tempo stesso determinato, capace della pazienza lungimirante di uno stratega come dell’intervento tempestivo e se necessario violento del soldato: lo si scoprirà verso la fine, quando l’autrice dimostrerà di saper accelerare il ritmo narrativo fino alla tensione di un film d’azione. A colori.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
In un’estate che non potrà dimenticare, luoghi e situazioni coinvolgenti, ricordi che non cessano di turbarlo e figure che stenta a decifrare, si avvicendano attorno a Lucio, diciottenne alle soglie di una nuova vita, insicuro tuttavia nel comprendere i desideri e i sentimenti che avverte, tormentato dalla sensazione di non saper prendere decisioni, di non riuscire a chiarire a se stesso quel che davvero vuole. È solo alla vigilia della partenza, osservando i gabbiani che si librano come aquiloni accanto al barcone che lo porterà a Stromboli, che gli pare di capire: occorre l’indifferenza di una cosa per star così, nell’aria, ma insieme la concentrazione di un animale che ha fiutato la preda, preso in quello che sta facendo, nel momento in cui lo sta facendo, tanto da dimenticarsi quasi dello scopo del suo fare e fin di se stesso. Occorre essere distanti da sé e allo stesso tempo mai così raccolti, ma non basta volerlo. Occorre confondersi con il vento, smetterla di difendersene.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:
La bambina tende le mani. Vorrebbe che si avvicinassero ancora di più a prendere il biscotto che tiene sul palmo. I suoi richiami si mescolano ai loro stridi. La madre cerca di farle fare un passo indietro: ha paura dei becchi uncinati, e di quelle zampe, che potrebbero artigliare la manina tesa verso di loro, anche se pendono inerti sotto quei corpi tozzi che si direbbero troppo pesanti per stare sospesi nell’aria, controvento. Immobili. Guarda come si lasciano portare, dice una ragazza al suo compagno: stan su senza far niente… Lucio non lo sa se è così davvero: i loro occhi sembrano quelli di chi sta lavorando, seri, concentrati. La donna è riuscita a convincere la figlia a lanciare il biscotto: un gabbiano lo afferra strappandolo a quello che l’aveva già nel becco e scompare. La bambina vuole continuare il gioco, piange quando la madre la trascina via. Lucio prende dallo zainetto un sacchetto di cracker e ne tira pezzi ai gabbiani. Ce n’è uno, in particolare, che gli sembra lo guardi dritto negli occhi. Si rovescia via nel vento ma poi ritorna, e sta lì, così vicino che lui, quasi, potrebbe toccarlo. Non fa niente per prendere i bocconi che Lucio tira in mezzo agli uccelli. Non sembra lì per quello. Sembra stia fermo nel vento perché così fa un gabbiano, perché vuole fare come i gabbiani che stanno sospesi intorno a lui in quel momento stesso, e come tutti gli altri che hanno sempre fatto così, da che mondo è mondo…
Rumori metallici di lamiere percosse, rimbombi cupi che risalgono tubature invisibili lo svegliano ogni pochi minuti. O così gli sembra. Quando sono voci a farlo uscire dal sonno gli occorre un momento per rendersi conto che è steso in una cuccetta, sulla nave che lo porta alle Eolie. Si riscuote. Ricorda che quando veniva con i suoi voleva che lo svegliassero prima delle sei per vedere il vulcano. Stromboli. La prima volta era rimasto deluso: dov’erano la lava, il fuoco? Aveva immaginato che il cratere si vedesse dal mare. Invece c’era solo una montagna, verde di cespugli bassi, ripida, chiazzata di terra scura. Quando la nave aveva lasciato il molo di Scari, sotto San Vincenzo, e aveva costeggiato l’isola si era visto il fianco grigio, quasi nero, senza un filo d’erba: la Sciara del Fuoco. È da lì che scende la lava, quando scende. Ma quel giorno non se ne vedeva. Una nuvoletta bianca sulla cima, quando erano stati ormai distanti dall’isola: segno che il vulcano era sveglio, gli avevano detto. Sveglio anche se non in fase di eruzione. Questo aveva visto, la prima volta, quando era un bambino di sei anni, e di tutto quello che il padre aveva via via spiegato, e tornato a spiegare, a lui e alla mamma, negli anni successivi – l’età del vulcano, la formazione della Sciara del Fuoco, la presenza di tre crateri – a Lucio era rimasta in mente soprattutto una cosa che aveva letto in uno dei romanzi che il nonno, il papà della mamma, gli regalava al suo compleanno: Viaggio al centro della terra. Era di lì, dal vulcano di Stromboli che Axel, con lo zio professore e la loro guida islandese, erano tornati sulla terra. Dallo Sneffels, il vulcano spento in cui si erano calati, a Stromboli. Dall’Islanda all’Italia.
Dorme fin quasi alle sei. Succede con il vino bianco, gelato, se ne bevi come fosse acqua. Resta a guardarsi intorno. Aveva sempre dormito di là, in cucina c’è ancora la sua poltrona letto. Il letto dove dormivano i suoi è di quelli a una piazza e mezza, infossato al centro. Anche lì, vicino alla porta del bagno, un acquerello – non di Doriana però, di sua madre: ci s’era messa anche lei, incoraggiata dalla vicina. Il mare, e lontani, sulla destra, tre gabbiani in volo. Li vede ancora, Lucio, gli occhi di quell’uccello fissi per qualche secondo nei suoi: come si aspettasse che lui intuisse quel che aveva da dirgli, gli vien da pensare adesso. Come si fossero riconosciuti e non ci fosse bisogno di parole fra loro. Sul tavolo della terrazzina trova un cesto di cedri e arance. Non mancava mai quando i suoi erano a Salina. E i Parisi se ne sono ricordati. Gli sembra di vederla, Lara, che lo appoggia lì, in punta di piedi, e poi se ne va. Ma è la figura di Doriana a sovrapporsi subito a quella della figlia: la immagina entrare in casa e affacciarsi alla camera, e restar ferma un momento a guardarlo dormire.
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Recensioni
Dal Giornale di Brescia del 13 giugno 2019. Clicca sull’immagine per visualizzare l’articolo.
Dal Corriere della Sera – Brescia del 22 giugno 2019. Clicca sull’immagine per visualizzare l’articolo.
“Ho conquistato una certa bravura nel narrare con un’unica strategia: leggere di tutto. (…) Leggere, leggere, leggere. Ogni libro può modellarci come autori.”
Michele Serra, Le cose che bruciano, Feltrinelli 2019 (pp. 174, euro 15)
Politico del “fronte progressista”, non sa accettare che non
sia accolta la sua proposta di legge – avanzata in tempi non sospetti, e dal
fronte progressista, appunto – per la “reintroduzione dell’uniforme
obbligatoria” nelle scuole (una proposta volta a “rimediare a quella forma
subdola di banalità che è l’anticonformismo”, l’ossessione di distinguersi
cercando, velleitariamente, di vestirsi in modo diverso dagli altri). E dunque
se ne va. Se ne va proprio, in montagna, a fare (anzi, a imparare a fare) il
contadino, sicuro della sua scelta ma non della propria condizione: “fuggiasco
vittorioso” o “dimissionario soccombente”? Di certo, convinto da tempo che “La
politica è commovente, e commovente è chi fa politica”. Perché la politica,
oggi, oltre che disarmante è disarmata: “con le sue presuntuose divinazioni sul
destino degli uomini” si è ridotta ad essere una “branca della metafisica”,
superata dai fatti, affogata nelle mene di potere, svuotata di senso da
notiziari che sgranano il loro “rosario quotidiano di catastrofi” dicendo del
disordine del mondo e nel contempo riordinandolo “nella struttura a rullo delle
news”.
E intanto, “abbiamo troppe cose tutti quanti”, ne riempiamo
le nostre case, ne accumuliamo continuamente e in aggiunta ne ereditiamo:
“siamo cresciuti in una religione antropomorfa, che crede nella resurrezione
della carne e colleziona reliquie con entusiasmo feticista. Le penne sono dita,
le scarpe piedi, i cappelli scalpi, gli occhiali lo sguardo che hanno
contenuto”. E si tratta invece solo di “scorie delle vite altrui che rimiriamo
impotenti (…). Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro.
Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da
nostra memoria.” Una memoria che coincide con un “micidiale ricatto”: “quello
che, per onorare il passato, ostruisce il presente.” E allora, ecco l’idea che
fin dal titolo si annuncia: “Libertà è un rogo ben congegnato”. Bruciare,
disfarsi di vecchi mobili e soprammobili, di carte e soprattutto di fotografie
di famiglia, “volti di morti e di vivi che l’eternità irrisoria dello scatto fa
sembrare comunque morti anche quando siano sopravvissuti”.
Trovata la soluzione, dunque, perché l’abbandono della città non si tiri dietro zavorre ingombranti? No, purtroppo: come il viaggiatore socratico che, per quanto si allontani, porta sempre con sé le proprie ossessioni, così il nostro ex politico non può fingere di aver reciso legami che lo gravano: “Mi rendo conto, con un certo fastidio – deve ammettere –, che rischio di sentirmi legato a quel vecchio strumento di misura – l’opinione pubblica – che qui a Roccapane [il paese dove si è ritirato] vale quanto un peto di capra, ma giù nel mondo, dove tutti vivono addosso a tutti, ci rende oppressi.” Tanto più in questi ultimi anni, perché è “Incalcolabile quanto sia ingigantita, la sensazione di essere osservati, da quando hanno inventato la rete, la ragnatela a forma di mondo dove siamo impigliati a miliardi”.
Un libro serio che si legge sorridendo: potenza della scrittura di Serra, e del suo sguardo disincantato a ancora divertito sul mondo. E sul tempo, nonostante si sia costretti a constatare che “il passaggio del tempo non è uno spettacolo del quale si può essere semplici spettatori”, perché “Tornare indietro è impossibile, recriminare inutile. Bisogna inchinarsi al tempo che passa. Passiamo insieme a lui, e prima ce ne facciamo una ragione, meno doloroso sarà quando qualcun, tra una manciata d’anni, brucerà con pieno diritto le nostre vecchio cose.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Halldóra Thoroddsen, Doppio vetro, Iperborea 2019 (pp. 128, euro 15)
Il lavoro “è regredito all’automazione e ormai si occupa
esclusivamente della propria crescita esponenziale”, “Il mercato divora con una
forza finora sconosciuta, è diventato un predatore globale e nessuno riesce a
contenerlo. Non è solo l’ambiente a soffrirne, siamo tutti a rischio di
estinzione. Noi e tutto ciò che abbiamo di più bello, l’immaginazione e la
solidarietà”: chi è l’autore di diagnosi critiche tanto radicali?
Non un sociologo o un filosofo. È una donna di settantotto anni, che da tempo vive ritirata nella sua casa, osserva il mondo ma, “In fondo è una donna da soglia di casa”. Alla quale comunque “importa di come va il mondo” e che “ha a cuore che i giovani se la cavino e possano godersela un po’”. Perché il mondo non è dei vecchi come lei, è delle “nuove generazioni”, che della “saggezza stantia di una vecchia come lei non sanno che farsene”. È così: “ogni generazione si rintana nel proprio settore, infanzia e vecchiaia sono destinate all’isolamento. Urliamo nella nostra caverna e sentiamo solo la nostra eco”.
Cionondimeno, questa donna “Non vuole morire proprio adesso
che sono in corso tanti cambiamenti. Vuole poter continuare a seguirne gli
sviluppi. (…) Invece di scuotere la testa come una garbata vecchietta e
lasciare che al futuro ci pensino gli altri, è avida di capire.”
Di capire, ma anche di sentire, di provare sentimenti. E qui
la storia richiama l’Haruf di Le nostre
anime di notte*, perché il tema è quello dell’amore fra vecchi, come quello
che sboccia fra la protagonista e un vicino settantacinquenne. Titubante lei,
all’inizio (“non può certo esporsi a una pena d’amore alla sua età”), ma poi
poco a poco persuasa – da una voce interiore – che “i desideri non si avverano
in un animo pavido”: “Gli telefona e gli dice sì”. Una storia intensa, felice,
la loro, proprio perché calibrata sulla loro età (“non fingono di essere
diversi da quello che sono, di serbare ancora il vigore di un tempo”) e forte
di una precisa consapevolezza, riassumibile nel fatto che “L’amore tra persone
anziane non è un amore coniugale sano, che ambisce a riempire la terra”.
Una storia intensa, dunque, ma breve: lui muore prima che
sia stato loro assegnato l’appartamento in una residenza per anziani dove
volevano vivere, insieme. E lei? Dopo il dolore della perdita, “La sofferenza
non la travolge più a ondate. Ormai la conosce, ci si è abituata. Ora riesce a
osservarla dall’esterno, a salutarla con un cenno del capo. Certo che
soffriamo, dal momento che ci troviamo in questa tragedia greca sappiamo che la
fine è inevitabile.”
E allora non resta che prenderne atto, aderendo alla propria
condizione, tornando ad osservarli, gli altri: “Là fuori tutti stanno cambiando
il mondo. Lei resta in disparte, seduta alla finestra”. Il che non significa
affatto chiudersi in se stessa, prova ne sia che quando i cittadini islandesi
protestano contro il governo nel periodo della crisi economica che non ha risparmiato
l’Islanda, anche lei va in piazza con mestolo e tegame a manifestare
sonoramente il proprio disappunto, partecipe al punto da chiedersi se “finalmente
sia diventata parte della collettività, anche se per un brevissimo momento”.
Per poi tornare tuttavia dietro la sua finestra, dietro il doppio vetro da cui
guarda il bambino che gioca con la sabbia, e sentire che la sua esperienza “non
le arriva più di riverbero”, ma che “lei è l’esperienza”; sentire che “Si fonde
con il mondo che sta fuori”, e dunque “È compiuta”.
Scrivere di vecchiaia in un Occidente sempre più vecchio testimonia dell’apertura del romanzo agli avvenimenti davvero epocali che viviamo, ma Thoroddsen fa di più. Ci racconta di un cammino umano compiuto senza infingimenti, e senza indulgenze né accanimenti verso di sé, fino alla fine.
Emanuele Trevi, Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018 (pp. 224, euro 16)
Il
senso della caducità della perdita, innanzitutto: “Quando consideriamo il
passato, l’estinzione di tante cose che ci apparivano ovvie e addirittura
necessarie al nostro stesso esistere non stupisce affatto. Perché le vediamo
fragili…”. Ma non solo le cose. Anche “il tempo degli artisti” ancora
verificabile sul finire del Novecento, quando “erano esseri umani investiti di
una vocazione”, o lo stile di vita, la dimensione dell’esistenza, che “godeva
di larghi margini di lentezza” perché “era fondamentalmente sconnessa – ossia: disconnessa –, in una
maniera che per chi ha oggi venti o trent’anni è difficilissima da immaginare.
(…) Era normalissimo assentarsi, non dare notizie di sé per giorni o per
settimane. E dunque, com’è logico supporre, le persone si pensavano con
maggiore intensità…”. Un vissuto diverso del tempo, nella sostanza, che in
certi luoghi, come il “cineclub” frequentato a diciott’anni conservava una
“qualità speciale”.
È
proprio così, o dipende dalla postura psicologica? L’autore non ha problemi, in
ogni caso, ad ammetterlo (e siamo così a un secondo tema decisivo): “sono
sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Tema non
casualmente ricorrente, la depressione, nella
letteratura recente, ma in Trevi non appare questione con cui fare i
conti, da risolvere, in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, in questi Appunti lo scorso 18
novembre –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al
mondo che consegue alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”,
“possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un
singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista
individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci
abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere
un destino è la suprema finzione”. Per tutti, anche per chi crede di trovare
nello scrivere una ragione per attribuirsi una personalità irripetibile: “la
condizione dell’«autore» può rivelarsi un ostacolo, un ulteriore gabbia”, e uno
stato di connivenza, forse, con il “gioco” imperante di “tener buona la gente a
colpi di consenso narrativo e identificazione emotiva”. Lo sapeva già
Metastasio, del resto, che pure ne faceva oggetto di un sonetto grazioso,
quanto sia assurdo, per lo scrittore, commuoversi di fronte ai sogni e alle
favole che inventa. Assurdo ma necessario, perché “solo nel riparo delle nostre
finzioni l’esistenza è tollerabile se non sempre felice e “costruire una
versione narrativa di noi stessi” è l’unico modo di preservarci “dalla follia e
dalla disperazione sempre in agguato”: “il vero fondo è quando non ti racconti
più nulla in cui puoi credere, quando per qualche motivo finisce il carburante,
la possibilità di collocarti in una storia anche minima, anche misera, e di
collocare a sua volta quella storia nel mondo che altrimenti ti apparirà per quello che è…”.
Eppure.
Eppure ci sono autori incontrare i quali apre spiragli nella “cortina di buone
maniere in cui consiste la vita sociale”. Si può trattare di un fotografo
ritrattista come Arturo Patten, di una poetessa disperata come Amelia Rosselli, o
di un letterato originale quanto spigoloso come Cesare Garboli. La capacità di
guardare del primo, di vedere oltre la maschera che “l’alveare sociale” ci ha
assegnato e alla quale abbiamo finito per credere; la “sovrabbondanza di
destino” che gravava sulla seconda; la lucidità – rispecchiata nel logorarsi
delle cose, nella “senescente dignità” che si coglieva nella sua casa – con cui
il terzo sapeva individuare “l’oggetto della scrittura, inseguito durante i
giorni passati a raccogliere, selezionare, interpretare tracce”, ossia “la
vita, e il suo segreto di Pulcinella”, “l’assoluta mancanza di significato”,
“l’illusorietà di ogni singola esistenza trascorsa in questo mondo.” E con
questo il cerchio sembra chiudersi: la ricerca, sulla scorta dei maestri incontrati, ha se mai reso ancor
più chiara la consapevolezza che “tutti noi, vivendo tra gli altri,
desiderandoli e temendoli, sviluppando infinite forme di aggressività e
dipendenza, orgoglio e sottomissione, finiamo per smarrire, in maniera più o
meno grave, la strada della somiglianza a noi stessi. Come cani che a forza di
fiutare tracce non sono più in grado di tornare a casa.”
Perché
non si esce prostrati dalla lettura di un testo che non lascia margine alla
speranza, se non a quella ravvisabile nel fatto che “noi sopravviviamo” non
nelle “cose che abbiamo portato a termine”, ma “in tutto quello che non siamo
riusciti a fare, nel tempo che non ci è bastato, nei rimpianti, nelle imprese
interrotte”?
Perché
non è un lamento, né una deprecazione, quello che l’autore ci consegna. La sua
non è la voce di un uomo disperato, ma di chi s’è a lungo sforzato di vedere un
senso nel non senso, ossia di smetterla di cercare un senso. Di qui uno sguardo
inesorabile, e tragico, certo, ma limpido, pacato: un po’ come quello di Annie
Ernaux, di cui non a caso Trevi cita un incipit indimenticabile, l’incipt de Gli anni: “Tutte le immagini
scompariranno”.
Anche quello, di Ernaux, un romanzo sui generis, per certi aspetti avvicinabile a questo, che pure porta in copertina la dicitura “Romanzo” ma si potrebbe, come qualcuno ha fatto, definire saggio autobiografico. Non certo un saggio concluso, necessariamente riferendo – come non è possibile fare altrimenti parlando della vita – di “un apprendistato”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“Non si scrive narrativa per affermare principi e credenze che chiunque sembra condividere, né per rassicurarci sulla giustezza dei nostri sentimenti. Il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell’arte è permettere tanto allo scrittore quanto al lettore di reagire all’esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità (…)- Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e di reazioni così ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all’operato della narrativa. (…) Cessando per un po’ di essere cittadini integerrimi, precipitiamo in un altro stato di coscienza. E questa espansione della coscienza morale, questa esplorazione della fantasia morale, è preziosa, è preziosa sia per l’individuo che per la società.”
Antonio Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento (Nuova edizione ampliata), Cortina 2018 (pp. 203, euro 14)
Eugenio Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi 2018 (pp. 114, euro12)
Tra gli scritti sul
concetto di nostalgia raccolti dal curatore già nella prima edizione di questo
libro, nel 2004, continua a meritare di essere (ri)letto soprattutto quello di
Jean Starobinski, inequivocabile nel mettere in luce come il termine abbia
“assunto poco a poco una connotazione spregiativa”, passando “a designare il
vano rimpianto di un mondo sociale o di un tipo di vita ormai svanito, di cui è
inutile deplorare la scomparsa”.
Sarebbe un rapporto
di sinonimia quello che corre fra la nostalgia
e il rimpianto, dunque?
Nient’affatto, spiega Borgna: “nel rimpianto ci si sente dolorosamente
colpevoli e responsabili delle cose perdute, e non ci sono mai le increspature
talora elegiache della nostalgia che ci fa guardare alle esperienze del passato
come a esperienze che continuano a vivere nel cuore e nella memoria, e che
rimarginano le ferite del presente, aiutandoci a resistere all’assenza di
persone e di luoghi che abbiamo amato.”
Ma prima di meritare questi
distinguo essenziali, il concetto di nostalgia ha accumulato una lunga storia,
a partire dall’invenzione del suo nome, fatto di ritorno e di dolore. Prete ci
accompagna nel cammino che dal neologismo coniato da Johannes Hofer nel 1668
per designare quella che si considerava una malattia,
anche mortale, ha portato ad acquisizioni successive che ne hanno fatto un sentimento: un percorso inverso, sotto
certi aspetti a quello della melanconia,
passata da presenza naturale e inevitabile nella vita degli uomini ad un’affezione
senz’altro da curare, la depressione,
non a caso contemplata nel DSM (il Manuale
diagnostico e statistico dei disturbi mentali).
Sono molti i nomi che
segnano l’evoluzione del concetto di nostalgia. Uno per tutti, Kant, secondo il
quale “il nostalgico desidera ritrovare non tanto lo spettacolo del luogo natio
quanto le sensazioni della sua infanzia”. Un desiderio impossibile da
realizzare, se non si vogliano considerare i doni miracolosi della memoria
involontaria di Proust: per i più, un ritorno che non si può non desiderare ma
è destinato a restare un desiderio. E più del filosofo è allora il poeta a
soccorrerci: in Caproni, ad esempio, “il ritorno accade, ma accade senza che ci
sia stata partenza”, la sensazione è quella “del perduto senza poter nominare
la cosa perduta”; la nostalgia, “una nostalgia senza nostos”.
E insieme a Caproni,
nel nuovo denso capitolo che Prete ha aggiunto nella nuova edizione, troviamo il
“disio” di Dante, la “ricordanza” di Leopardi, la melanconica critica del
moderno di Baudelaire, le diverse declinazioni di una sostanziale ridefinizione
del rapporto fra passato e presente – attraverso la lingua poetica, appunto – oltre
che dello stesso Caproni, di Ungaretti, Montale, Luzi. Perché “la poesia ha
contribuito – in una misura decisiva – a trasformare la nostalgia da malattia a
sentimento”.
Un sentimento per
nulla regressivo. È lo psichiatra ad assicurarcelo, sulla base della propria
esperienza così come della sua vasta e appassionata frequentazione letteraria:
“non c’è solo la nostalgia che fa male, la nostalgia che si fa talora malattia,
ma c’è (anche) la nostalgia che sollecita a vivere, e fa nascere in noi un
passato che sarebbe altrimenti perduto per sempre.” Nella sua prosa ricca di
immagini e straboccante di aggettivi che richiamano la complessità e
l’ineffabilità dello spazio interiore, la nostalgia viene indagata “nelle sue
dimensioni arcane e segrete, umbratili e luminose, fragili e strazianti” per
giungere alla constatazione conclusiva: “Così noi viviamo, e ogni volta diamo
l’addio a qualcosa di noi che la nostalgia misteriosamente ci consente di
ritrovare”.
Un tema da non smettere di sondare, due libri (oltre quelli cui sia Prete che Borgna rimandano) da leggere e rileggere. Tanto più in tempi di rotture col passato spavaldamente invocate e palingenesi disinvoltamente annunciate.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
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