L’attrice Francesca Garioni legge Il tempo della limonaia, di Carlo Simoni, in occasione della manifestazione “Giardini d’agrumi” (chiostro della Chiesa di S. Francesco a Gargnano, 27 aprile 2019):
Angelo Villa, L’origine negata. La soggettività e il Corano, Mimesis 2018 (pp. 142, euro 14)
Sapersi
confrontare con il diverso, accoglierlo nella sua diversità sono disposizioni
che, più o meno implicitamente, implicano l’esigenza di sapere quanto il diverso è tale, come e in che
cosa, sapendo bene che è proprio in questa esigenza, in sé legittima ma
bisognosa di essere portata alla luce senza ambiguità, che trovano terreno
fertile pregiudizi, fantasmi identitari, notizie nella maggior parte dei casi
approssimative e parziali.
Nella
nostra cultura, la cultura occidentale, il tema della soggettività occupa un
posto centrale, e questo tema è ormai inscindibile dalle concezioni introdotte
da Freud e dalle elaborazioni successivamente fornite dalla psicoanalisi.
Confrontarsi
con la diversità – psicologica, culturale, religiosa, antropologica – significa
innanzitutto, per noi, considerare la differenza di atteggiamenti rispetto alla
soggettività intesa come rivendicazione della
soggettività stessa, di quella realtà “intimamente connessa con quello che un
singolo individuo umano è o ritiene di essere”. Una soggettività frutto di
interpretazione, quindi, ma di un’interpretazione che non può dimenticare di
essere sempre condizionata dal fatto che l’“Io non è padrone in casa propria” e
la sua intenzionalità è in buona parte rimossa: è piuttosto l’inconscio ad
esprimere, nei modi che gli sono propri, “una tensione che anela alla ricerca
di una verità, non appagandosi delle menzogne – difese, coperture, ideologizzazioni
– che l’Io subdolamente gli propina” e smascherando impietosamente l’illusione
dell’esistenza di un “soggetto consistente, presente e identico a sé”.
Concentrando
l’attenzione sulla cultura – sulle culture
– “di matrice islamica”, l’autore segnala due circostanze decisive: in primo
luogo, la soggettività appare in quest’ambito “un tema poco frequentato”,
soprattutto – occorre aggiungere – se a prevalere è, come in effetti pare sia
oggi, una lettura dogmatica, ostile a un atteggiamento di interpretazione del
Corano. Testo che, comunque, risulta caratterizzato da aporie e contraddizioni
che lasciano adito alla visione di un dio che non ammette dialogo con l’uomo, e
ad una realtà in cui questioni come quelle della paternità, della femminilità e
più in generale della sessualità risultano rigidamente definite, una volta per
tutte normate, e per molti aspetti non univocamente tematizzate. Senza che,
sull’onda di simili constatazioni, si debba disconoscere la presenza, in questo
testo “polisemico”, di passaggi che sembrano aprire a concezioni diverse e
porsi con esse in un rapporto di compatibilità.
In
secondo luogo, l’inconscio, luogo delle storie che hanno accolto e accompagnato
il soggetto dall’inizio della sua esistenza nel mondo, è attraversato dai
discorsi, dai desideri, dalle storie degli altri, dei familiari innanzitutto, e
più in generale dalla cultura e dalla lingua che definiscono il contesto in cui
il soggetto si è venuto a trovare. E il religioso, il tradizionale – nella loro
accezione islamica non diversamente che in altre – possono risultare ostacoli
al lavoro di analisi e di comprensione della realtà dell’individuo quanto “lo
scientismo o la superficialità contemporanea”.
Non si tratta di postulare un’astorica e immutabile realtà umana, indifferente ai caratteri culturali e religiosi nei quali si declina, ma di riconoscere come sia proprio dell’umano interrogarsi circa gli “enigmi che assillano la vita di [ogni] individuo nel suo impatto con l’esistenza, con il trauma rappresentato dalla sessualità”: “ciascun essere umano è erede della propria storia, la quale è inevitabilmente marcata dalla cultura d’appartenenza. La questione riguarda meno la suddetta cultura che non la relazione che il singolo realizza o permette sussista tra la stessa e il prender forma di un percorso di rilettura della medesima.”
Attorno a queste assunzioni di fondo si dipanano analisi e considerazioni storiche e filosofiche che mettono in relazione la religione musulmana con quelle ebraica e cristiana, oltre che ampie digressioni in ambito psicoanalitico che spaziano dal pensiero di Freud a quello di Lacan. Nella consapevolezza che, se sono “semplificazioni” quelle degli islamisti che piegano la loro religione a un’“idéologie de combat”, altrettanto lo sono i “pregiudizi occidentali rispetto all’Islam”: tutti, nel tempo della mondializzazione, siamo “colti di sorpresa ed egualmente impreparati” davanti ai fenomeni inediti e spesso traumatici che, in misura e secondo prospettive diverse, viviamo, ma a tutti si offre la possibilità, anch’essa inedita, della “concretezza di uno scambio” nel quale si fanno “più permeabili le barriere” fra culture diverse e, nello specifico, fra “il sapere freudiano” e la religione musulmana. “Può essere – si domanda in conclusione l’autore – questa crisi, storicamente in atto, l’occasione propizia affinché anche per chi non ha avuto modo, per ragioni cosiddette culturali, di confrontarsi con la realtà del proprio inconscio si materializzi la possibilità di saperne qualcosa?”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Natan Feltrin-Federica Lovato, Umani, prede e predatori, Graphe.it
edizioni 2018
Daniele Palmieri-Nicola Zengiato, Il mondo dell’animalità: dalla biologia alla
metafisica, Graphe.it edizioni 2018
Ci sono ambiti di discorso che chiedono
un pensiero radicale, che esigono di essere prodotti e animati da un pensiero
critico alieno da prudenze e distinguo. Quello attinente al rapporto che
intercorre tra noi e gli animali, e più in generale all’ecologia e alla crisi
dell’ambiente, è uno di questi. E quello quelloquellquellad un’”ecologia filosoficamente intesa” – di cui i
primi due volumi della collana “Semi per il futuro” offrono prove illuminanti –
appare allora un passaggio obbligato. Non si tratta tanto di ripercorre la
storia del pensiero filosofico per rintracciarvi assonanze significative e
ascendenti autorevoli – un approccio per altro ineludibile, lo dimostrano studi
come Filosofia della crisi ecologica,
di Vittorio Hösle (Einaudi 1992) –, quanto di confrontarsi con espressioni disinvoltamente adottate dal
linguaggio giornalistico e con concezioni che, come quella antropocentrica,
nonostante siano state da tempo sottoposte a critiche circostanziate, risultano
nei fatti largamente egemoni.
“Antropocene” è una di quelle
espressioni, e non a caso Natan Feltrin si concentra su di essa, depurandola,
in primo luogo, di ogni possibile ambiguità: se alla collisone della Terra con un
asteroide è generalmente fatta risalire l’estinzione di più del settanta per
cento delle specie, sessantacinque milioni di anni fa, oggi, “i Sapiens, e in particolar modo i più
ricchi e oltracotanti tra essi, incarnano il micidiale asteroide”, e occorre
dunque mettere a fuoco il senso profondo del termine, e correggerlo: l’era “in
cui il pianeta esisterà quasi esclusivamente grazie noi e per noi” merita piuttosto di essere
definita “Eremocene, l’Era della
Solitudine”. Della solitudine di uomini che avranno totalmente sottomesso
il wilderness.
Ne deriva la necessità di andare
“oltre gli ideali di preservazione e conservazione” imboccando una strada
inedita: quella del rewilding, “un
processo antropologico in cui Homo
sapiens riscopre il suo essere Animale co-partecipe e co-responsabile del
proprio ambiente. Un percorso, dunque, di liberazione. Liberazione dell’animale
uomo dalle catene che si è autoimposto nel momento in cui domesticando il mondo
domesticava, in prima istanza, se stesso”. Vittima del proprio “orgoglio di
specie”; in realtà, mai davvero emancipato dalla paura atavica della natura,
dell’alterità animale, una paura, e un odio vendicativo, maturati quando gli uomini, lungi dall’essere
“predatori alfa” erano al tempo stesso prede e predatori. Uscire finalmente da
questo non detto, sotterraneo e pure potente nel forgiare i comportamenti –
quello alimentare innanzitutto – è condizione imprescindibile per non
“sprofondare nel nichilismo di cui la civiltà globale non è che la maschera”,
per segnare una discontinuità netta nel “processo d’estraneazione del genere
umano dalla natura”, come sottolinea Federica Lovato a conclusione del suo
breve densissimo saggio sulla storia della caccia “Dalla predazione
dell’animale alla distruzione dell’ecosistema”: un processo sfociato in “un
vero e proprio antagonismo”, dal momento che “l’uomo, oggi, sembra aver assunto
che lo sviluppo sociale possa avvenire solo a spese dello sviluppo naturale”.
Mettere in luce un termine come Antropocene porta inevitabilmente
all’esame di concezioni radicate, come si diceva: l’antropocentrismo, da questo
punto di vista, merita di essere indagato – avendo presente l’insegnamento
decisivo di Jacob von Uexküll, sul quale offre un utile contributo Daniele
Palmieri – a partire dai due dogmi che sembrano renderlo inattaccabile,
ritenendosi impossibile uscirne, obiettivo del resto velleitario in quanto
ispirato e conformato comunque entro un quadro di riferimento ineludibilmente
antropocentrico. Non si tratta di aggiungere alle molte formulate nuove
perorazioni avverse all’antropocentrismo. Occorre invece – spiega Nicola
Zengiaro – riuscire ad assumere che “lo stesso mondo – di cui ci pretendiamo più
o meno implicitamente al centro – è vissuto da esseri aventi schemi concettuali
propri e perciò differenti punti di vista che determinano diverse realtà”: è
“attraverso la comparazione percettiva (che) usciamo dal primo dogma”, così
come ci liberiano del secondo passando “da strumenti differenti da quelli che
comunemente sono accettati come distintivi e specifici di Homo sapiens”, ossia “il ragionamento logico e il linguaggio”. Il
discorso va seguito nel suo dipanarsi serrato, e in certi punti senz’altro impegnativo,
per arrivare comunque a un’immagine risolutiva – e non estranea all’esperienza
di molti – a cui proposito Zengiaro richiama Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti: “«Accettare di farsi
guardare dall’animale significa aprire la porta a questa molteplicità di
viventi”». E’ questo il vero movimento che dev’essere attuato dall’essere umano
per uscire dall’antropocentrismo. Significa aprirsi all’evento dell’incontro
tra il proprio corpo e l’alterità”, alla possibilità di “comprendere noi stessi
attraverso la sensazione di essere guardati dal mondo.”
Lo diceva anche John Berger, quando si chiedeva Perché guardiamo gli animali (Il Saggiatore 2016): “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiare lo sguardo degli animali”, somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.
Claudio Coletta, Prima
della neve, Sellerio 2019 (pp. 182, euro 13)
Andare per boschi per non doversi un giorno accorgere che non si è vissuto – così Thoreau – o lasciare la città e raggiungere la montagna, per schiarirsi le idee, alla Cognetti: per cercare una verità che giù, fra i rumori e le chiacchiere, si può solo sospettare esista. Ma nel romanzo di Coletta la montagna è un passo obbligato, e non è ospitale. È lavoro duro dietro alle mucche, è freddo, nebbia. Ma è comunque là che occorre andare. Solo là si potrà chiarire il “mistero” di “come certe cose accadano in un preciso momento e non in un altro” e scoprire che “esiste una seconda verità” fra “le pieghe di questa storia, sotterranea e sfuggente”: la storia di due amici, legati da un’amicizia tanto stretta da sconfinare nel patologico, e di due donne, una sorella e una moglie, protagonisti di un romanzo che alterna alla loro vicenda l’evocazione degli anni di piombo, ricordo bruciante per chi li ha vissuti da protagonista e adesso, passati gli anni, non sa spiegare il senso delle proprie scelte se non in negativo: “non c’era altro, se non l’eroina. Metà dei compagni morti di overdose, gli altri in giro come tanti lazzari, a vendersi per una dose tagliata chissà come, le braccia massacrate dai buchi. Hanno invaso l’Italia con quella merda, hanno distrutto un’intera generazione. Non abbiamo avuto scelta, la verità è questa”. E invece no, non era destino che le cose andassero come sono andate: “Come sarebbe bello se davvero esistesse il destino, invece della caotica sequenza di coincidenze, decisioni, azioni, che se ne fregano della nostra volontà e delle nostre speranze.” Solo i sentimenti restano nella casualità insensata cui sembra ridursi la storia di ognuno, sono forse solo quelli a darle una direzione, o a cercare di farlo. Anche quando non se ne sa, o non se ne vuole comprendere il messaggio. Una storia drammatica, e triste, immersa in un disincanto pensoso, raccontata con la leggerezza delle parole di tutti i giorni.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Lisa Ginzburg, Pura
invenzione. Dodici invenzioni sul Frankenstein di Mary Shelley, Marsilio
2018 (pp. 109, euro 12)
Se della vicenda conoscete solo la trasposizione
cinematografica di Frankenstein Junior,
niente paura: anche l’autrice è partita da lì, non sapeva nulla del libro di
Mary Shelley prima di leggerlo, rileggerlo e darcene una lettura che non è solo
un’analisi originale, ma soprattutto il tramite di una nuova storia che
riflette in un gioco di specchi la vicenda della scrittrice inglese, quella dei
suoi personaggi – sia il medico visionario che il “Mostro” – e la vicenda
dell’autrice stessa. Un gioco di specchi che si annuncia sin dalla copertina,
dove titolo e sottotitolo si dispongono specularmente, e si traduce in una
serie di rimandi, pertinenti quanto inattesi: la “straziante solitudine” del
Mostro sono analoghi all’autocommiserazione di Frankenstein (che è il medico,
non come spesso si crede, la sua creatura): “I toni derelitti usati da entrambi
sono speculari (…) il creatore lamenta la sconfitta, le conseguenze della
propria hubris; il Mostro piange
l’amore che gli è mancato – quello di una donna, ma anche quello di un
demiurgo/padre.” Sennonché quest’ultimo non riconosce nel Mostro la propria
creatura, che a sua volta non può quindi riconoscere nel suo creatore un padre:
è da una tale “reciproca, irrimediabile delusione”, che nascono il
risentimento, la rabbia. Dei protagonisti. Ma anche di lei, Mary Shelley,
rimasta per sempre segnata dalla ferita inferta dalla morte della madre, ferita
e indotta a un risentimento che solo nella “pura invenzione” sa trasfigurarsi e
dar luogo al lungo racconto che la renderà capace di affrontare la propria
condizione di “brava figlia di due persone di preclara fama letteraria”. Ed è
qui che anche l’immagine della Ginzburg entra nella storia: “che altro potrei
fare – si chiede – vista la mia storia e l’ambiente in cui sono cresciuta?” Che
altro se non scrivere? Gli interrogativi che si pone Lisa Ginzburg – nipote di
Natalia, figlia di due storici come Carlo Ginzburg e Anna Rossi Doria – sono in
tutto simili a quelli con cui si era misurata Mary Shelley: “proprio perché è
tanto poco sorprendente che lo faccia, come riuscire, come trovare un modo, un
cammino che sia davvero mio?”. E come sentirsi legittimati a seguire questa
strada se non ottenendo il riconoscimento di chi quella stessa strada ha, di fatto,
indotto a intraprendere? Solo cinque anni dopo la pubblicazione di
Frankenstein, il padre di Mary le comunica la propria ammirazione: “Io –
confessa Ginzburg – simile legittimazione non l’ho avuta: forse anche per ciò
tanto mi emoziona ricordare come l’ho trovata in mia madre, e viceversa sono
colpita quando riscontro nelle storie di altri l’incoraggiamento da parte dei
loro padri. Basica invidia, la mia: sentirsi appoggiato nei propri talenti, e
prima ancora, nelle inclinazioni, sempre, è apparso il dono più grande, il
miglior battesimo che si possa ricevere da un genitore.”
Dall’intrico dei richiami e delle analogie in cui il lettore si trova coinvolto, sono le motivazioni e la possibilità stessa di scrivere ad emergere e precisarsi in approssimazioni successive e sempre più stringenti in un libro che nasce dall’incontro con un altro libro, dal quale l’autrice si lascia attraversare ingaggiando un corpo a corpo con la vicenda e le parole di un’altra scrittrice: un caso esemplare di quel lasciarsi leggere dal libro che si sta leggendo di cui ha recentemente scritto Massimo Recalcati (A libro aperto. Una vita è i suoi libri, Feltrinelli 2018).
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“[L’arte di narrare] si avvia al tramonto. Capita sempre più di rado d’incontrare persone che sappiano raccontare qualcosa come si deve: e l’imbarazzo si diffonde sempre più spesso quando, in una compagnia, c’è chi vorrebbe sentirsi raccontare una storia.”
Nadia Terranova, Addio
Fantasmi, Einaudi 2018 (pp. 202, euro 17)
A che punto si è nella vita: forse è questo che dei loro
protagonisti vorremmo i romanzi ci dicessero, e il racconto fosse lo spazio
necessario per dirci delle ragioni e dei percorsi che li han portati lì.
Leggere romanzi è anche questo: confrontarsi con le storie di altri per
ricavare spunti utili a far luce sulla propria, a farsi un’idea del punto cui
ciascuno di noi è arrivato.
La vita di Ida è di quelle segnate da un prima e un dopo.
Lei è nel dopo, ma non sa dimenticare il prima né tanto meno la linea che ha
separato le due parti in cui la sua esistenza si è divisa. Ci sarà uno stacco
ulteriore, una seconda cesura capace di restituirle una vita sua? Il titolo ce lo fa pensare,
l’inizio no: la madre l’ha chiamata a Messina perché ha deciso di sistemare la
casa in cui la famiglia abitava, in cui lei ha continuato ad abitare; in cui ha
abitato anche il marito, il padre di Ida –fino al giorno in cui, senza
preavviso, se n’è andato, è scomparso, annientato dalla depressione – e anche
la figlia ha abitato, prima di trasferirsi a Roma, trovare un lavoro (scrive
“finte storie vere” per la radio) e sposarsi, con un uomo gentile, con il quale
però il desiderio si è esaurito. E il desiderio, quando si è incrinato, non si
può “rattoppare”, neanche se si è ancora giovani, poco più che trentenni, e quel
che resta sono allora la tenerezza, la comprensione, la solidarietà. Perché i
matrimoni, tutti i matrimoni si arenano “imprigionati nella pretesa di avere
accanto un’unica persona a cui abbiamo chiesto di farci da amante, compagno,
familiare, amico, per poi assistere devastati all’inevitabile franare di una di
queste definizioni o di tutte insieme.” Sono parecchie le pagine riservate al
tema del rapporto fra uomini e donne, ma non è, questo, l’unico fulcro attorno
al quale la narrazione si addensa: la madre ha chiamato la figlia per
svuotarla, quella casa, non solo per sistemarla in vista di una possibile
vendita. E qui emerge il discorso sugli oggetti, e sul loro essere appigli
essenziali, veicoli imprescindibili della memoria: “Non voleva che un giorno
potessi rinfacciarle di aver dato via i miei oggetti, bisognava che tornassi
per scegliere cosa lasciar andare. Pensai che era facile, perché, a parte una
scatola di ferro rosso custodita in fondo a un cassetto, non tenevo a niente.”
Una scatola di ferro rosso: “dal momento in cui un oggetto compare in una
narrazione, si carica d’una forza speciale”, notava Calvino, ed è questo il
caso, come scopriremo nelle ultime pagine. Ma prima di arrivarci occorre
attraversarne altre, pervase da un dire teso, accorato, incerto della propria
necessità eppure costretto da un bisogno di ricostruire, capire, dissezionare i
sentimenti, evocare fino allo stremo quel passato che non sa passare, quel
lutto non elaborato dalla madre e tanto meno dalla figlia, e tuttavia marcando passi avanti, sempre precari ma capaci di fissarsi in frasi, in immagini
che sostanziano la vicenda, la rendono unica, ne mettono in luce aspetti che
vanno oltre di essa e ci raggiungono. A partire, appunto, dai passi dedicati
alle cose che ci seguono nella vita, che conserviamo e finiscono per assumere
la fisionomia di “speranze inutilizzate”. Perché “la vita non si fa con i
residui”, e gli oggetti, anche i più cari, i più evocativi, “non sono
affidabili”, e “i ricordi non esistono, esistono solo le ossessioni”. E
ossessivo è il dolore della perdita del padre: “Hai permesso al tuo dolore di
divorarti – dice a Ida l’unica amica rimasta nella città natale – e la tua ferita
è diventata più grande di te. Vivi come una schiava, sei la schiava di quello
che ti è successo”. E lo ammette la stessa protagonista: “Amiamo le nostre
ossessioni, e non si ama ciò che ci rende felici”.
“Una diade ossessiva” è anche quella formata da madre e
figlia: “sbranarci era una forma d’intimità”, riconosce Ida, che ha capito
“cos’è davvero una madre: qualcosa da cui non esiste riparo. Dicono che una
madre dà tutto e non chiede niente; nessuno dice invece che chiede tutto e dà
ciò che non chiediamo di avere.”
Scrivere allora. Quelle storie per la radio: “io riuscivo a
tollerare il dolore solo scrivendone, e trasformandolo in invenzione potevo
trovare quella pace che nella quotidianità mi mancava”; “i fatti scorrono
accanto a noi mentre ci illudiamo, un giorno, di dominarli. Ecco perché mi
rifugiavo nelle mie finte storie vere: su di loro io esercitavo una signoria
assoluta. Di quello che scrivevo ero sovrana. (…) Scrivendo, mi illudevo di
essere autarchica.”
Non dalla scrittura però ma da un oggetto, anzi dai due oggetti riposti ventitre anni prima in quella scatola rossa, verrà la liberazione: dalla pipa appartenuta al padre e dalla sua voce, registrata in un’audiocassetta. Perché sono l’odore e la voce, “le due tracce più volatili”, a riportarci la vicinanza di chi è assente. Una vicinanza che può tuttavia risolversi nella distanza necessaria per vivere, finalmente.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“La solitudine è una condizione indispensabile per colui che scrive. La solitudine può non essere un ritiro sulla montagna o nel deserto, la si può vivere anche in mezzo agli altri. Ma l’atto dello scrivere è, sì, un atto assolutamente solitario.”
Giuseppe Pontiggia, Le
parole necessarie. Tecniche di scrittura e utopia della lettura, Marietti
1820, 2018 (pp. 107, euro 9,50)
“Contribuire alla formazione di una coscienza del linguaggio
che sia insieme etica e retorico-espressiva”: i corsi di Pontiggia – di cui il
libro offre brevi significativi saggi – avevano di mira “l’acquisizione di un
linguaggio responsabile”, non per questo disposto a rinunciare a convincere (“vincere
con l’accordo dell’altro”) grazie “alla persuasione in una duplice valenza:
psicologica ed estetica”. Che è come dire: si tratta di scegliere con
accuratezza le parole e usarle a proposito, con rispetto, in primo luogo, e poi
combinarle senza disdegnare il ricorso all’arte della retorica, un’arte
ingiustamente assimilata all’ipocrisia o all’inutile sfoggio: di fatto, non più
riconosciuta nelle sue valenze positive e dunque dimenticata dalla scuola (un
po’ come la paziente pratica della scrittura manuale). E, prima di esser
dimenticata, osteggiata dalla cultura idealistica che assimilava la retorica ad
una tecnica, ossia ad un sapere minore e puramente strumentale.
Discorsi, quelli di Pontiggia, che suonano tanto attuali da apparire
stridenti di fronte alle semplificazioni linguistica e alla povertà
argomentativa dell’odierno linguaggio pubblico (solo pubblico? Come parlano fra
loro i giovani, soprattutto sui social?). L’autore stesso, del resto, era
consapevole del “deterioramento del linguaggio”, di cui “l’invadenza dei
gerghi”, dei linguaggi specialistici è un fattore decisivo: linguaggi che rappresentano
“una scorciatoia pericolosa”, che contraddice la capacità del linguaggio di
“esplorare esperienze nuove e diverse”, sottintendendo un “accordo preliminare”
quanto molto spesso inesistente tra chi parla e chi ascolta.
D’altra parte non si può insegnare a scrivere, non c’è
scuola di “scrittura creativa” che possa far diventare scrittore chi non
possiede quella vocazione alla scrittura che è tanto indefinibile quanto
indispensabile. Non si nasce scrittori, ma lo si diventa per vie che
l’insegnamento non può artificialmente riprodurre. È meglio allora concentrarsi
sul possibile, sul “migliorare la qualità espressiva” ad esempio, anzitutto
studiando modelli di scrittura efficace, individuando i meccanismi ad essi
sottesi, e poi passando in rassegna gli errori più comuni, e non rifuggendo da
una critica reciproca dei testi che sappia indicare senza infingimenti e
genericità che cosa va bene e che cosa non va.
Scrivere, ma anche parlare: non sappiamo far bene né l’una
né l’altra cosa, e non conviene prendere esempio da molti intellettuali che
parlano “come libri stampati” e “dunque non parlano. Non si servono della
parola con energia e convinzione.”
Quanto ai “nostri politici”, osserva Pontiggia, “molte volte non sono
all’altezza” della “forte educazione retorica” che posseggono (e qui – solo
qui, ma occorre riconoscerlo – il discorso appare decisamente datato…).
Non si scrive e non si parla soltanto, comunque: si legge, o
converrebbe farlo: “Pontiggia – osserva Daniela Marcheschi nella sua
introduzione – insegna a leggere e nello stesso tempo offre indicazioni per
scrivere” e, offrendo indicazioni per scrivere, contemporaneamente insegna a
leggere”. Ma ha ugualmente presente la dose di velleitarismo che
inevitabilmente si annida nelle campagne di promozione della lettura: “perché
il libro non è, come la carne, una tentazione universale. È una vocazione
individuale”, ed è altamente “improbabile che il libro possa diventare di
moda”. Piuttosto, “se c’è una moda che il libro può perseguire è di essere
orgogliosamente fuori moda.”
Annie Ernaux, La
vergogna, L’orma 2018 (pp. 125, euro 15)
“Ho riportato alla luce i codici e le regole degli ambienti
in cui ero rinchiusa. Ho inventariato i linguaggi dei quali ero impregnata e
che plasmavano la mia percezione di me stessa e del mondo.” La drogheria dei
genitori; la loro subalternità psicologica e culturale, “prova dell’esistenza
di due mondi e della nostra inconfutabile appartenenza a quello di sotto”; la
chiusura del paese, un mondo altro rispetto alla città solo fantasticata; il
complesso di usi, norme, abitudini che scandiscono il tempo della giornata,
dell’anno, della vita; l’orizzonte ristretto e gravato di precetti, detti e non
detti, dell’istituto religioso che lei frequenta: il mondo della giovanissima
Ernaux ci era noto dai libri che L’orma ha ripubblicato negli ultimi anni. In
questo – già uscito da Rizzoli nel 1997 – un elemento nuovo si aggiunge senza
potersi amalgamare al contesto. Né nel proprio mondo interiore né in quello che
la circonda, la dodicenne sa infatti inscrivere la “scena di quella domenica di
giugno”: “Mio padre ha voluto uccidere mia madre”, è la frase con cui inizia il
romanzo. Non l’ha fatto, e tutto è continuato come prima. Tutto tranne un
sentimento nuovo che costituisce l’unico, il più profondo fra la donna adulta,
che ne scrive, e la ragazzina di allora: la vergogna. La vergogna che si è come
rappresa in quella scena: se un fatto del genere è accaduto nella mia casa, “non
sono più degna della scuola privata, della sua eccellenza e della sua
perfezione.” Quello che è avvenuto, anche se non ha avuto conseguenze ulteriori,
riduce all’isolamento chi ne è stato testimone: “L’aspetto peggiore della vergogna
è che si crede di essere gli unici a provarla”, e in essa “c’è questo: la
sensazione che possa accaderci qualsiasi cosa, che non ci sia scampo, che alla
vergogna possa seguire soltanto una vergogna ancora maggiore.”
Ma al di là dei fatti, del loro vissuto, dell’ambiente – e
dell’epoca, perché anche in questo romanzo Ernaux sa dilatare la memoria
individuale in quella collettiva – in cui si verificano, un altro itinerario di
riflessione percorre come sempre le pagine di Ernaux: “non posso cominciare a
scrivere davvero senza fare luce sulle premesse della mia scrittura”. Né è
possibile adagiarsi nella suggestione del narrare. “Già solo dire quell’estate,
o l’estate dei miei dodici anni, rende romanzesco ciò che all’epoca non lo era,
non più di quanto lo sia per me, oggi, nel 1995, questa estate in cui sto
scrivendo”. Scrivere non garantisce, di per sé, il guadagno di una visione in
grado di gettare nuova luce sul passato: “sto iniziando un nuovo libro, mi sono
assunta il rischio di aver rivelato tutto fin da principio. Ma in realtà non ho
svelato nulla, se non i nudi fatti.” Perché, nonostante lo scopo dello scrivere
questo romanzo sia quello di “ritrovare le parole attraverso le quali pensavo
me stessa e il mondo circostante”, “la donna che sono nel ’95 è incapace di
ricollocarsi nella ragazzina del ’52”. Occorre riconoscerlo: “non esiste
un’autentica memoria di sé”. E cercare di contrastare questo dato, evocando il
se stesso di un tempo, può avere un risultato paradossale: “Mi fa sentire e mi
conferma la mia frammentazione e la mia storicità”.
Neanche quando si è coerenti, coraggiosi, essenziali come Annie Ernaux; neanche quando si dispone di una capacità di narrare e di narrarsi come la sua, neanche allora la vita accetta di risolversi nella scrittura, neanche allora la scrittura sa riscattare davvero la vita.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Chi sa scrivere a mano sarà sempre in vantaggio su chi sa premere dei tasti, sia sul piano della memoria che su quello dell’organizzazione del testo. Lo dicono anche le neuroscienze. (…) Chi scrive a mano tende a trattenere di più le informazioni.”
“Ogni autore ha un insieme limitato di temi archetipici, a volte uno soltanto. Più che sceglierli, li ereditiamo dalla configurazione della nostra vita. Anche se cerchiamo di espellerli dal libro a cui stiamo lavorando, spesso riescono a trovare il modo per intrufolarsi di nuovo.”
Ludovica Danieli, Donatella Messina, A scuola di autobiografia.Gràphein, Mimesis 2018 (pp. 140, euro
12)
Il sottotitolo rimanda alla pratica alla quale la
Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari da vent’anni avvicina coloro
che, secondo percorsi e gradi di approssimazione diversi, hanno individuato
nella scrittura una risorsa per la vita e nello scrivere di sé la via per
accedervi (“Il progetto di scrivere la mia
storia ha preso forma quasi contemporaneamente al progetto di scrivere”,
diceva Georges Perec). Una Scuola di scrittura autobiografica, quindi,
che tuttavia non si può confondere con le numerose scuole di scrittura che al
di là delle intenzioni, finiscono nella maggior parte dei casi per limitarsi a trasmettere
regole e tecniche, più o meno efficaci.
I presupposti della Lua e le sue finalità traggono
spunto dal pensiero di Duccio Demetrio e dalla sua concezione dell’autobiografia
come cura di sé (come recitava il titolo del libro pubblicato alla vigilia
dell’avvio dell’esperienza di Anghiari: Raccontarsi.
L’autobiografia come cura di sé, Cortina 1996). “Un luogo accogliente,
tranquillo, silenzioso” e la possibilità di godere di un “tempo per sé” sono
dunque ciò che in primo luogo si offre: silenzio e solitudine, condizioni ma
anche sostanza dello scrivere, insieme tuttavia allo scambio, a un confronto
con gli altri improntato alla “cura”, intesa come forma della relazione, e alla
sospensione del giudizio sulla propria e l’altrui scrittura. È lo “stare individualmente insieme” di cui parlava Bauman,
la condizione di fondo che si persegue, il quadro entro il quale lo scrivere di
sé può evitare il rischio del ripiegamento narcisistico e l’illusione
dell’autosufficienza per consentire invece un avvicinamento al “nucleo
centrale” che costituisce ognuno di noi, che ci fa simili e allo stesso tempo
unici. Avvicinamento, mai compiuto disvelamento, perché la scrittura non ci
restituisce una verità, oggettiva e
inconfutabile, su noi stessi e la nostra vita, ma permette di individuare i nodi
della nostra esistenza riattivando la memoria, rivisitando i ricordi,
recuperando la dimensione collettiva entro la quale si sono formati.
Non è un’operazione semplice, attuabile a partire
semplicemente dal desiderio di scrivere di sé: incertezze e resistenze vi si
oppongono. Occorre interrompere la “voce interna che sembra colonizzare il
pensiero”, sono necessari il coraggio di esporsi e insieme l’umiltà di
riconoscere il proprio limite per accettare e dar corso all’umana aspirazione a
lasciare una traccia della propria storia.
È per questo infatti che si scrive, secondo molti che
della scrittura hanno fatto il loro lavoro: si scrive perché si ha paura della
morte, ma anche perché si ha paura della vita; si scrive per dare sbocco alla nostalgia
dell’infanzia, ma anche per attenuare il rimpianto, o il rimorso, per le scelte
non fatte, che hanno determinato la nostra vicenda quanto quelle fatte, e
dunque per “avvolgere il dolore in una rete di parole”, per riuscire a sentirlo
come parte ineliminabile e costitutiva di sé; si scrive dunque per trovare un
senso della nostra esistenza. Ma anche per giocare: per giocare con la serietà
di cui sono capaci i bambini.
Non solo il coraggio di osare e l’umiltà di farlo con
senso della misura, occorrono per scrivere, ma anche introspezione e insieme
presa di distanza da se stessi, quella sorta di “bilocazione cognitiva” che si
rivela come un guadagno sul piano della conoscenza di sé, ma anche su quello
più propriamente esistenziale, incoraggiando la rinuncia a collocarsi sempre “nel
fare, nell’agire, nell’accelerare”, quando invece si tratta, scrivendo, di “rallentare,
fino a fermarsi, rispettare le indecisioni, le interruzioni, le soste e gli
intermezzi”. Una sospensione della logica dell’efficienza è necessaria, un
sottrarsi al dominio della ragione strumentale che governa i nostri giorni.
Scrivere, come risulta evidente, è sempre riflettere
sullo scrivere, ad Anghiari. È
recuperare la fiducia, il rispetto delle parole in tempi nei quali sono spesso
piegate ad assumere significati diversi o addirittura opposti al loro. È riconoscere la propria identità in tempi nei quali
essa sembra dipendere da imprecisati quanto aggressivi distinguo fra noi e loro. Nella consapevolezza, sempre, che “la scrittura non salva ma
ripara”, e “rivitalizza l’invito ad esserci, perché “la penna diventa l’oggetto
simbolico attraverso i quale ci si riconnette al sentimento più vasto
dell’arrendersi alla vita”.
L’unico modo per viverla davvero, forse.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
Maurizio
Maggiani, L’amore, Feltrinelli 2018
(pp. 200, euro 16)
Sì,
il titolo mantiene quel che promette: disseminato in queste si può rintracciare
un trattato De l’amour, l’amore per
la “sposa” – una moglie c’è, una
sposa la si sceglie ogni giorno. Un
amore che si intreccia a far tutt’uno con l’amore per la vita, un amore per
nulla astratto, fatto invece di quello che la giornata porta, del saper godere
di quello che si ha, del sentirsi parte dell’insieme più vasto delle piante,
degli animali. Senza dimenticare la fragilità di tutto questo, ma senza
lasciarsi avvelenare i giorni dal senso della caducità, perché il “mancare” – di
qualcuno che si amava, di cui si era amici – “è un fatto, una verità” e “mancare
è una buona parola, è l’unico buon modo per spiegare che c’è la morte”. Del
resto, “cosa ne sappiamo noi della morte, niente di niente…”. E allora di vivere,
si tratta, all’insegna di un ottimismo pacato, estraneo ai toni di quello
obbligatorio della pubblicità e dei consumi, fondato invece sulla certezza che
“c’è sempre un buon modo di fare”, che “si può imparare un buon modo per fare
ogni cosa”, e le cose possono sempre “prendere una piega inaspettata e
promettente”.
La scrittura divagante di Maggiani, digressiva nei contenuti e a tratti apparentemente stralunata, è percorsa da un’ironia serena fatta non per prender le distanze ma, al contrario, per esercitare uno sguardo pregiudizialmente empatico nei confronti degli altri, ripercorrere momenti della propria vita, ricordare incontri, amicizie, amori: il tutto nell’arco di una giornata, di una comune giornata, illuminata dalla superiore intelligenza della gentilezza, della bonomia, della pietas, fin che viene sera e si cucina per lei, in ciò celebrando il “sacro” che ancora resta nel nostro mondo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Magari fosse possibile un’opera concepita al di fuori del self, un’opera che ci permettesse d’uscire dalla prospettiva limitata d’un io individuale, non solo per entrare in altri io simili al nostro, ma per far parlare ciò che non ha parola, l’uccello che si posa sulla grondaia, l’albero in primavera e l’albero in autunno, la pietra, il cemento, la plastica…”
Francesco Erbani, Non
è triste Venezia. Pietre, acque, persone. Reportage narrativo da una città che
deve ricominciare, Manni 2018 (pp. 232, euro 15)
Vero: non è triste. È disperata. E noi con lei.
Questo viene da pensare leggendo il “reportage narrativo”
del giornalista di “Repubblica”. Che a Venezia esistano – come si illustra nel
primo capitolo – “le condizioni per prefigurare un organismo urbano del futuro”
e che siano presenti nella città occasioni e soggetti che esprimono una
“resistenza” – vedi l’ultimo – non basta a bilanciare la rabbia e la
desolazione che gli altri cinque capitoli suscitano: la Laguna è “maltrattata”,
dopo secoli di sapiente convivenza con i veneziani ridotta a semplice
contorno della città; la quale a sua
volta si è spopolata – innanzitutto per la differenza fra nati e morti – e, coi
suoi poco più di cinquantamila abitanti viene simbolicamente oltre che economicamente
e fisicamente “mangiata dal turismo”. “Una città di crociera” dalla quale non
si sa bene come e quando verranno espulse le grandi navi e è destinata per anni
ancora ad assistere alla tragicommedia del Mose, “scandalo infinito” che ha
attraversato stagioni politiche fra loro diverse.
Dati aggiornati e incontri con intelligenze critiche vive
nella città – a partire da quella di Edoardo Salzano – sono l’opportunità
indubbia che il libro offre. Ma perché dargli quel titolo? Non si può scrivere
se non ci si legittima nell’universo dell’ottimismo obbligatorio?
A quanto pare sì: Se
Venezia muore, si intitolava il libro che Salvatore Settis ha dedicato alla
città (Einaudi 2014).
* Arnaldo Fusinato, L’ultima ora di Venezia (19 agosto 1849)
Jhumpa Lahiri, Dove mi
trovo, Guanda 2018 (pp. 169, euro 15)
Una madre che lascia un biglietto di ringraziamento per chi ha acceso un
lume sulla tomba del figlio: invisibili, sia lei che l’autore del gesto
pietoso; solo due baci sulle guance con l’uomo che potrebbe essere il suo
amante (“Senza dirci nulla sappiamo che, volendo, potremmo avventurarci in
qualcosa di sbagliato, anche inutile”); non una parola all’amica che va da lei
a raccontare i suoi guai (“Non le dico niente, voglio bene alla mia amica, le
permetto di sfogarsi”); lo sguardo del signore che resta in silenzio ma è come
le parlasse (“Non cerca di rassicurarmi, solo di farmi capire che capisce”): si
direbbe siano solo i rapporti che non si realizzano, che non si consumano nelle
parole, a dare qualcosa, a risultare a loro modo significativi. Ma si tratta sempre
di un significato solo intravisto, imminente forse, sull’orlo del quale comunque
la protagonista si ferma, presentendo forse la delusione, l’impoverimento che
deriverebbero dal voler dire, spiegare. E allora meglio contemplare la
dilazione, limitarsi al sospetto della presenza di un senso in quel che accade dove ci si trova, e limitarsi a
descriverlo, godendosi “il piacere di prendere una penna calda in mano
all’aperto e scrivere, magari, due righe”.
E’ fatto di pezzi brevi questo libro, e scritti con una levità che fa
pensare avrebbero potuto in parecchi casi risolversi in poesie. Ma una
narrazione c’è: quello star a guardare le cose che succedono intorno, e fra
quelle anche se stessi, rivela un risvolto di dolore. Mano a mano si procede
nella lettura, quella che era apparsa saggia cautela lascia intravedere una
mancanza, un’incapacità: “I miei colleghi tendono a ignorarmi e io ignoro loro.
Forse mi trovano ispida, scostante, chi lo sa. Siamo costretti a essere vicini,
sempre irraggiungibili, eppure mi sento alla periferia di tutto”. E’ qui, in
una irreparabile periferia esistenziale che davvero si trova la protagonista?
Ed è allora per questo che titola puntualmente i suoi brani con un riferimento
al luogo, alla stagione, alla situazione in cui si trova? Un trovarsi che
non è sinonimo di esserci, ma
piuttosto il frutto di un ininterrotto cercarsi
nonostante la vita si riveli fatta sempre di perdita: “non posso fare a
meno di rimpiangere la mia giovinezza malandata, per niente trasgressiva”;
“riempio la mia agenda, quella che mi compro alla fine di ogni anno sempre
nella stessa cartoleria, della stessa misura e dello stesso spessore. Taccuini
di vari colori che inevitabilmente con gli anni si ripetono: blu, rosso, nero,
marrone, rosso, blu, nero, e così via. Ecco la collana poco variata della mia
vita”; “mi rendo conto per l’ennesima volta di avere un viso che mi ha sempre
deluso. Ogni sguardo mi costa, ecco perché tendo a evitare gli specchi”. Ma non
è solo da se stessa che lei ricava questo senso di desolazione. Anche gli altri
si rivelano soli, ognuno chiuso in un mondo a sé. A partire dalla madre (“Sara
la paura della sua paura che mi ha condotta a una vita così?”), e dal padre
(“Spendere due soldi, comprami qualcosa di bello ma in fondo non necessario mi
ha sempre angosciato. Sarà stato per via di un padre che contava
scrupolosamente ogni moneta prima di darmela?”). Eppure l’esperienza famigliare
non basta a rende conto dell’isolamento che vediamo, che viviamo: “La piscina è
molto grande, ci sono varie corsie e siamo quasi sempre al completo, in otto.
Otto vite separate che condividono quell’acqua senza incrociarsi.”
Qualcuno ha parlato di spietatezza a proposito di questo sguardo sul
mondo, su di sé, sulla propria vita.
Perché non vederci l’impegno che il realismo esige (e l’assenza del punto di domanda in quel Dove mi trovo del titolo testimonia), il coraggio che l’esattezza richiede, la consapevolezza del limite che rivela uno scrivere che vuole tenacemente risolversi nel descrivere?
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora
“Scrivere un romanzo da solo in una stanza con i propri pensieri forse è la sola maniera di ottenere la massima soddisfazione dai tuoi sforzi creativi. Tutti gli altri modi possono spezzare il cuore.”
Falsi miti. Storie
di migranti oltre i luoghi comuni e le fake news, a cura di Paolo
Beccegato e Renato Marinaro, EDB 2018 (pp. 149, euro 10)
C’è chi lavora in iniziative di
accoglienza, chi insegna italiano a chi non lo parla ma lo deve parlare, chi addirittura
si imbarca sulla nave di una ong che insiste a prestare la sua opera nel
Mediterraneo, ma accanto al volontariato assunto in prima persona, l’impegno a
non ridursi a spettatori degli avvenimenti che ogni giorno i mezzi di
informazione registrano, spesso diffondendo – anche al di là delle intenzioni – un senso di
allarme di fronte alle migrazioni, può imboccare due strade, certo non alternative.
Da un lato, non perdere occasione per contrastare “i luoghi comuni e le fake
news” diffondendo dati realistici e aggiornati. È la via indicata da Stefano
Allievi, per esempio, con un libro minuscolo ma denso, e necessario: 5 cose che tutti dovremmo sapere
sull’immigrazione (e una da fare) (Laterza 2018). Ma si può
anche, abbandonando
il modo di vedere diffuso – che non sa vedere differenze fra etnie, provenienze,
vicende – conoscere quelli, fra i migranti, con i quali possiamo avere una
relazione diretta, e così constatare che ognuno di essi è una persona, con una
storia, una speranza, un progetto. È la via indicataci da scrittrici come Jenny Erpenbeck (Voci del verbo andare,
Sellerio 2016) o Melania Mazzucco (Io sono con te. Storia di Brigitte,
Einaudi 2016), e da questo stesso libro, che riporta “storie
raccolte e raccontate”, in cui “le trame, i luoghi e i personaggi sono veri, ma
sono raccontati attraverso lo stile proprio” di diversi autori”, tutti
impegnati “nel variegato mondo dell’immigrazione”. Si tratta di “storie con al
centro vicende umane, talvolta straordinarie, altre volte assolutamente
ordinarie”: storie, non ragionamenti,
non spiegazioni. Storie, nella
consapevolezza che – lo diceva Jaspers – “si può spiegare qualcosa senza averlo
compreso”, il che può avvenire invece “attraverso il racconto”.
Si risolvono del resto in “narrazioni”
anche i luoghi comuni, le generalizzazioni, gli stereotipi, che crescono
sull’insofferenza di dati e notizie precise, di distinguo e ricostruzioni. E
allora si tratta, forse, di contrapporre a narrazioni false narrazioni vere,
consapevoli che la malafede nasce spesso dalla paura, dall’inquietudine
suscitata da fenomeni che travalicano confini e modi di pensare consolidati, ed
è alimentata dalla diffusione interessata di fake news da parte degli
spregiudicati imprenditori della paura che affollano la scena pubblica.
Storie, dunque, come quelle di Amadou,
“italiano nero che parla un dialetto misto tra lombardo e romano”; di Tiziana,
infermiera trentenne imbracata sull’Aquarius; di Himane, nata ad Atene, la cui
madre Lousa è una profuga siriana bloccata in Grecia dall’accordo fra l’Unione
Europea e la Turchia; di Romeo, “uno dei circa ventimila braccianti agricoli
stranieri che lavorano in provincia di Ragusa”, e di tanti altri.
Storie, per non
limitarsi ad “affrontare il tema solo in chiave astratta o, ancora peggio, in
chiave moralistica”, quando è invece “opportuno – lo sottolinea Oliviero Forti
in conclusione – entrare in dialogo con chi non dispone di tutti gli elementi
per indagare la complessità del fenomeno. Diversamente si rischia la
contrapposizione che, nel peggiore dei casi, diventa contrapposizione
ideologica”.
L’accusa di razzismo trova purtroppo
sempre più spesso appigli concreti e ragioni fondate, ma non può essere
scambiata per una soluzione: è sempre una sconfitta, per entrambe le parti, la
rinuncia al dialogo.
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