Il Cognetti himalayano, dopo quello alpino

Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi 2018 (pp. 112, euro 14)

Sono coppie di opposti a governare il racconto.

Il Nepal e il Dolpo. Il primo, un piccolo paese “in rapido cambiamento”, “stritolato tra l’India e la Cina, sempre più ridotto a periferia d’altri”; il secondo, “alle spalle della storia”, una vasta oasi dove gli unici segni di presenza umana sembrano “le bandierine stracciate che [mandano] preghiere al vento”.

In realtà, di persone ne incontra, il narratore: alpinisti e montanari. I primi, personaggi che animano una montagna ormai parte dell’“immensa megalopoli europea; i secondi, figure di una “montagna autentica”, non ancora trasformata – differentemente dal Nepal – dalla modernità, portatrice del “benedetto desiderato benessere” che scalza “una cultura antica, povera e destinata all’estinzione”, com’è stata anche quella alpina”. Nel Dolpo la montagna appare invece ancora curata, vissuta, diversa da quella abbandonata che conosciamo.

Sull’Himalaya, dunque, per pensare alle Alpi, e per scrivere, e disegnare, questo libro. Per scrivere ma anche per leggere, e rileggere, un unico libro uscito a fine anni ’70, Il leopardo delle nevi, di Peter Matthiesen, un libro-guida, ai luoghi e alla meditazione che essi ispirano. Prima fra tutte quella sull’“ossessione alpinistica per le vette delle montagne”, sull’“ascesa” come metafora spirituale, quando “invece il più importante pellegrinaggio tibetano consiste nel compiere in giro intorno al monte Kailash”: “i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi”.

Se non lo sapessimo, ci parrebbe di leggere in questo libro la premessa di quell’altro, Le otto montagne: “fa’ che io sappia guardare e fa’ che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto”, è la preghiera che il Cognetti himalayano si trova a dire, e ci sentiamo la forza narrativa di quello alpino.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il senso complicato del mondo

Oreste Aime, I camaleonti. Nuovi luoghi del potere, Marietti 1820 (pp. 120, euro 10)

Dopo I Giacobini, i camaleonti, anzi: I grandi camaleonti: dopo Robespierre e Saint-Just, i  Fouché, e i  Talleyrand; dopo gli ideali della Rivoluzione, il trasformismo della politica. È a quei grandi teleromanzi della televisione di metà anni Sessanta che corre la mente di chi ne fu spettatore da ragazzo. Ma è allo shakespeariano duca di Gloucester, futuro Riccardo III, che l’autore ci rimanda all’inizio del suo saggio, alla camaleontica strategia da lui adottata al fine di “mimetizzarsi sia per evitare gli attacchi sia per attuarli”: è questa figura emblematica il riferimento dell’analisi del potere che ci viene proposta allo scopo di rispondere a due domande fra loro strettamente connesse: che cos’è il potere, qual è la sua natura? e dov’è, oggi, il potere, dove e come si manifesta?

È innanzitutto l’“ambivalenza” a segnalarsi quale carattere essenziale del potere, come, in modi diversi, illustrano i due recenti contributi di Simona Forti e di Gustavo Zagrebelsky, con i quali l’autore si confronta mettendo in luce da un lato la “domanda sul male nella sua forma di banalità o normalità, dall’altro “il nesso fra potere e libertà”. Se il riferimento di entrambi gli autori è Dostoevskij, Forti opera una serrata analisi del “paradigma” proposto dallo stesso sulla scorta di Arendt e Foucault, mentre Zagrebelsky individua nella Leggenda del Grande Inquisitore “la guida per leggere il presente e intravedere il futuro”. Un futuro che si presenta come “una forma di totalitarismo nuovo rispetto al recente passato”, innanzitutto perché capace di “coincidere perfettamente con le forme della democrazia”.

Una “prospettiva di filosofia politica per certi versi opposta”, quella di Forti e Zagrebelsky, essendo la “delimitazione del concetto di potere” da loro operata “quasi inversa”. Di qui la necessità di allargare lo sguardo su una “mappa delle questioni che ruotano attorno al potere” che si presenta assai più ampia e richiede dunque la dettagliata esplorazione che occupa la parte centrale del saggio e dopo aver definito “concetti, simboli e miti” del potere passa in rassegna le teorie che nel Novecento ne sono state elaborate producendo definizioni e descrizioni “talvolta reciprocamente alternative”. In ogni caso, da mettere ineludibilmente a confronto con l’attuale “crisi delle democrazie”, le trasformazioni profonde indotte dalla globalizzazione e dalla rivoluzione informatica, la moltiplicazione dei luoghi della decisione, l’erosione della sovranità degli stati nazionali, la personalizzazione che sempre più connota il potere politico, l’aumento delle diseguaglianze, la crescente possibilità di manipolazione delle persone. E a governare – si fa per dire – questo processo generalizzato e pervasivo, lo strapotere dell’economia finanziaria e la sua convergenza con quello – in modo del tutto analogo, programmaticamente privo di limiti – della tecnica. Quello che si è così costruito è un potere frutto di un “groviglio di sfaccettature”, assunte e insieme dissimulate, per descrivere il quale la metafora del camaleonte, nonostante la metamorfosi intervenuta, torna ad essere “indispensabile”.

La risposta alla domanda che ci si era posta – dov’è il potere oggi? – a partire dalle definizioni analizzate e dal bilancio della situazione attuale è dunque alla fine possibile: “Dall’ambito tradizionale politico, militare, imprenditoriale si è in buona parte trasferito strutturalmente nella finanza, nella tecnica, nella definizione dei rischi”, accentuando “il suo lato anonimo e spesso invisibile”. Lo dobbiamo ammettere: “Viviamo nel tempo di una profonda rivoluzione antropologica di cui ci sfuggono i contorni e la direzione”. Solo un “brusco risveglio”, come quello invocato dalla conclusiva preghiera laica di un poeta polacco, ci può dare la possibilità di misurarci con “il senso complicato del mondo”. 

Una storia misteriosa e ambigua, come la vita

Marlen Haushofer, La parete, e/o 2018 (pp. 256, euro 12,90)

Ci sono libri il cui commento potrebbe prendere altrettante pagine di quelle del testo di cui si intende parlare; romanzi che è facile sintetizzare, impossibile raccontare.

Una donna scopre, una mattina, che un’invisibile parete, spuntata non si sa perché, costruita non si sa da chi né a quale scopo, la separa dal mondo. Di qui la vita continua, la sua e quella di qualche animale, domestico e selvatico che sia; di là, la morte si è presa invece sia gli uomini che gli animali, immobilizzandoli come gli abitanti del castello della Bella addormentata.  Senonché, tra queste montagne misteriosamente tagliate in due non c’è una fata malvagia, né si sa se l’incantesimo finirà dopo cent’anni o durerà per sempre.

In principio è la parete. Tutto quel che leggiamo consegue da questo evento: come la vicenda di Gregor Samsa dalla sua trasformazione in scarafaggio, mi ha fatto notare un amico cui ho regalato il libro: altrettanto inspiegabile di quella, come quella posta quale assunto imprescindibile della narrazione, e di essa generatore.

E dunque, che cosa succede? Semplicemente che la protagonista si dà da fare per sopravvivere. Il richiamo a Robinson Crusoe è inevitabile – ed è richiamato infatti sin dalla quarta di copertina –, ma l’industriosità del naufrago, la sua borghese intraprendenza, sono altra cosa rispetto alla tenacia di questa donna, ricorrentemente tentata di riconoscere l’insensatezza del proprio sforzo; puntualmente ad esso richiamata da loro, dai suoi animali. Un cane, una mucca e un vitello, e diversi gatti che via via si succedono nel corso degli anni.

In molti romanzi troviamo, quale motivo centrale, la relazione con gli animali. In nessuno – mi sembra di ricordare – la troviamo raccontata in modo tanto preciso, fine, struggente. Sostanza della storia stessa. Pur non cambiando nulla, o molto poco, nella situazione della sopravvissuta, una storia c’è, infatti, ed è la storia intima del suo atteggiamento nei confronti della vita, degli altri esseri, del mondo, della morte. Una storia della quale, in alcune pagine, si dimentica il presupposto fantastico, e la si legge allora come la storia – ridotta all’essenziale, a quel che in fondo davvero conta – di chiunque si trovi ad attraversare l’esistenza. E sempre, tuttavia, una storia che non consente di cedere alla tentazione di intenderla come grande metafora esistenziale, perché sa mantenere, fino alla fine, la forza di una trama coesa, coinvolgente.  Ambigua, più che metaforica. Ambigua, priva di un vero finale che la risolva, e pure capace di far balenare significati decisivi. Come la vita, per chi non cessa di cercarne un senso sapendo che, ammesso ce ne sia uno, solo questa stessa ricerca ne potrà essere attestazione. Discontinua, inconcludente spesso, inconclusa sempre.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Montaigne com’era

Luca Romano, Il segretario di Montaigne, Neri pozza 2018 (pp. 235, euro 17)

“Agli occhi di un servo nessun padrone rimane per sempre un eroe”. Quando poi il padrone è chi ha scritto pagine su pagine per dire sinceramente della propria umana ordinarietà, delle contraddizioni e delle debolezze dalle quali si sente contraddistinto, la constatazione non può trovare che ulteriore conferma.

Parla con le parole e ripropone i pensieri dei Saggi il Montaigne di questo romanzo, e il ritratto dell’uomo e del suo stile esce convincente dalle descrizioni del suo improvvisato segretario: “Le frasi che dettava non erano mai definitive, spesso cambiava o aggiungeva qualcosa (…). I suoi discorsi ondeggiavano da un tema all’altro.” E ci dobbiamo credere, visto che a dirlo è colui al quale Montaigne per ben tre anni detta i suoi scritti, per poi scegliere la via del self publishing, sia pure non disdegnando il “privilegio del re”. Ma ecco, conclusa l’opera, l’autore cade in una “profonda malinconia”, e lui lo sa: “Quando si finisce un libro è un sollievo. Il lavoro è terminato. Se poi l’opera trova successo presso il pubblico, ecco alimentato e tenuto in vita più a lungo quel piacere di solito effimero. Ma dopo qualche tempo anche l’orgoglio e la soddisfazione e la vanità perdono consistenza. L’anima gonfia di sé ritorna alle sue estensioni naturali; brevemente incandescente di presunzione, si raffredda altrettanto presto che la brace che si spegne.” In notazioni come questa, oltre che in un intreccio appassionante, sta la qualità del romanzo. Attuale e stimolante, come possono essere i romanzi storici migliori.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Fratello Bartleby

Daniel Pennac, Mio fratello, Feltrinelli 2018 (pp. 121, euro 14)

“Le lacrime non c’erano più. Mio fratello arrivava all’improvviso e adesso il mio magone non lo cacciava più via”: a sedici mesi dalla morte di Bernard – un fratello paterno, anche se maggiore di lui solo di qualche anno – Daniel racconta dell’elaborazione di un lutto che all’inizio l’aveva ridotto all’inconsapevole ricerca di seguire il congiunto nella morte. Incidenti, all’apparenza. Distrazioni che potevano rivelarsi fatali.  Ma proprio lo star dentro il dolore della perdita, il far sì che si faccia “ospitale”, l’accettarlo “così com’è”, indica la via per “riprendere in mano la situazione”: “mi sono detto che avrei scritto qualcosa su di lui. Su di noi.” E Bartelby, col suo enigmatico  preferirei di no, diventa il tramite di una narrazione in cui le pagine di Pennac dialogano con quelle di Melville: era stato il fratello a passare quel racconto a Daniel, ma altro lega la storia dello scrivano alla memoria viva dello scomparso. Un’affinità profonda congiunge l’umorismo che era di Bernard a quello, involontario (?) di Bartleby, ma comune ai due si rivela soprattutto una discrezione confinante con la volontà precisa di sottrarsi agli altri, di fuggire la “confusione del mondo”, un atteggiamento silenziosamente riluttante che si traduce in uno sguardo che non giudica, in una riservatezza estrema dei propri sentimenti: in una progressiva presa di distanza dalla vita, nella sostanza (prima di morire sotto i ferri di un chirurgo, Bernard aveva già rischiato di morire a seguito di un precedente intervento mal eseguito; eppure, ripresentatosi il male, era tornato nella stessa clinica).

E’ nella riduzione del racconto di Melville a monologo teatrale, nell’impararlo a memoria recita dopo recita, che Daniel si lascia alle spalle la disperazione senza per questo rinunciare alla profonda vicinanza con il fratello che non c’è più: “Bartleby per me era una compagnia che suppliva – inspiegabilmente, in misura assai lieve, come un’allusione – all’assenza di mio fratello”. La memoria non diventa ricordo, si mantiene attiva, conserva il sapore di una relazione essenziale e pure indefinita: “Non so niente di mio fratello morto, se non che gli ho voluto bene. Non c’è nessuno al mondo che mi manchi come mi manca lui e tuttavia non so chi ho perso”. Sono le relazioni che sanno mantenere il senso dell’alterità – sembra dirci Pennac –, che si alimentano del non detto, e sono in grado di  accettare che l’unicità dell’altro resti inafferrabile, sono queste le relazioni che neanche la morte può sciogliere.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“In realtà il poeta è soltanto un accumulatore di Tempo…”

“In realtà il poeta è soltanto un accumulatore di Tempo, conscio che settant’anni di vita distratta dietro agli affari e i traffici e le cosiddette cose concrete può contenere soltanto un minuto primo di Tempo vero, mentre diciotto o vent’anni o trenta di vita vissuta davvero in profondo, possono viceversa contenerne secoli a volte miellenni, nel passato come nel presente e nel futuro, amen.”

(Giorgio Caproni)

Gli animali, e noi

Carl Safina, Al di là delle parole, Adelphi 2018 (pp. 687, euro 34)

“Parliamo di esseri umani e animali, come se tutti i viventi ricadessero in due sole categorie: noi e tutti gli altri.”

“Come può l’uomo conoscere, con la forza della sua intelligenza, i moti interni e segreti degli animali? Da quale confronto fra essi e noi deduce questa bestialità che attribuisce loro?”
A dispetto dell’“intimità” che connota il nostro rapporto con diversi animali – cani e gatti innanzitutto – “conserviamo una tentennante insistenza sul fatto che gli animali non sono come noi – benché noi stessi siamo animali. Potrebbe mai una relazione basarsi su un intendimento più profondo?”
“Abbiamo difficoltà a capire gli animali, ma, invece di prendere atto di questo limite, abbiamo l’impudenza di crederci superiori a loro”.
“Può darsi che noi siamo (…) incapaci di comprendere la ricchezza che altre specie percepiscono nella propria comunicazione: così come loro sono incapaci di capire quella della nostra specie”.
“Noi non comprendiamo le bestie più di quanto loro comprendano noi. Esse potrebbero avere di noi la stessa considerazione che noi abbiamo di loro. Dobbiamo quindi prendere in considerazione l’ipotesi di una sostanziale parità e provare a verificarla. (…) Del resto, vediamo in modo evidente, che c’è fra loro una piena e totale comunicazione, e che esse si capiscono fra loro, non solo quelle della stessa specie, ma anche quelle di specie diverse”.

Alcune frasi sono dell’autore di questo libro; altre di Montaigne. La consonanza è tale che sarebbe difficile distinguere le une dalle altre e attribuirle correttamente se  il corsivo non evidenziasse quelle di Safina. Non si tratta solo di riconoscere la straordinaria modernità di Montaigne, ma di ammettere che sono secoli ormai che abbiamo capito come stanno le cose, fra noi e gli animali. Sennonché un conto è sapere, un altro è saper di sapere e quindi regolarsi di conseguenza. I massacri di elefanti in Africa (10 milioni all’inizio del secolo scorso; 400mila oggi) ci dicono che continuiamo a fare come non sapessimo. Che cosa? Tutto quello che Safina ci dice prendendo spunto dall’osservazione di elefanti, appunto, e lupi e orche, ma allargando il discorso a molte altre specie: lo spirito cooperativo degli animali, la loro capacità di provare non solo dolore, ma anche empatia e compassione, sentimento del lutto e felicità del gioco; le loro abilità comunicative e linguistiche; la complessità delle loro forme di socialità.
Caratteri che altri autori illustrano con altrettanta precisione, ma forse non così efficacemente. Perché Safina, al dato di osservazione e all’argomentazione scientifica unisce la capacità narrativa. 
Al comparire di una mandria di elefanti, “la terra cotta dal sole aveva preso la forma di qualcosa d’immenso e vivo, ed era in movimento. (…) La pelle, mentre si muovevano, corrugata dal tempo e dall’uso, con le screpolature impresse dal passare degli anni, quasi che vivessero avvolti dalle mappe sgualcite  della vita già percorsa. Viaggiatori nei paesaggi dello spazio e del tempo.”

“Quando orche e delfini ci vedono spesso vengono a giocare; noi li salutiamo, e guardandoli negli occhi possiamo riconoscere che là dentro c’è qualcuno di molto speciale. Là dentro c’è qualcuno. Non è umano, ma è qualcuno…”. Ed proprio guardando i delfini che seguono la sua imbarcazione, dopo la meraviglia si chiede il perché dell’insoddisfazione che prova: “Volevo sapere che cosa stessero provando, e capire perché li percepiamo tanto interessanti e così… vicini. Questa volta mi permisi di porre loro la domanda che è il frutto proibito: chi siete?”

Ecco, in questa domanda sta il fulcro del metodo di Safina, etologo e filosofo trasgressivo: perché sa muoversi nello spazio stretto che è rimasto fra il comportamentismo (inaugurato, di fatto, da Cartesio e dalla visione dell’animale-macchina che ne è derivata) e l’antropomorfismo; senza perdersi nella polemica contro il primo, senza cedere alla paura di scivolare nel secondo, ma avendo fiducia nella propria empatia nei confronti degli animali riconoscendone allo stesso tempo la diversità, fra di loro innanzitutto e, dunque, anche fra ciascuna specie e la nostra.
La strada maestra è quella indicata da Henry Beston, citato in esergo (e in questi giorni in libreria con La casa estrema. Un anno di vita sulla grande spiaggia di Cape Cod, Ponte alle Grazie 2018): “l’animale non ha la sua misura nell’uomo. (…) Non sono nostri fratelli, non sono nostri sottoposti; sono altre nazioni, catturati insieme a noi nella rete della vita e del tempo, prigionieri con noi dello splendore e del travaglio della Terra.”

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Un tempo fuori dal tempo

Benjamin Gross, Un momento di eternità. Il sabato nella tradizione ebraica, EDB 2018 (pp. 206, euro 19,50)

Lo shabbat: “il contributo più importante che l’ebraismo ha portato all’umanità”, avverte inapertura Benjamin Gross. Per tutta l’umanità, per ebrei e non ebrei, per credenti e non credenti. E lo stesso si può dire per questo libro del grande pensatore ebraico scomparso tre anni fa. Chi, infatti, ha una conoscenza soprattutto letteraria dell’ebraismo e delle sue pratiche trova in queste pagine le nozioni necessarie per tradurre le suggestioni che gli sono venute dalla lettura di romanzi e racconti in riferimenti filosofici precisi, in rimandi essenziali al grande racconto biblico e al significato profondo che si manifesta nel rito delle festività del calendario ebraico. Ma, quel che più conta, trova anche lo spunto per riflessioni che lo riguardano, perché rappresentano una critica stringente della concezione del tempo che domina il nostro mondo. Una concezione disposta a riconoscere la necessità di un giorno di riposo settimanale, non fosse che già l’espressione, giorno di riposo,  richiama  l’immagine della saracinesca abbassata di un pubblico esercizio, e dunque la sensazione che sia un significato puramente utilitaristico quello che si attribuisce all’interruzione del lavoro (sempre che, di questi tempi, non finisca col prevalere l’imperativo alla continuità dei consumi in untempo del tutto indifferenziato, come il dibattito sull’apertura domenicale di negozi e centri commerciali fa presagire).

E’ su questo sfondo, a confronto con questa mentalità diffusa, che risalta la concezione dello shabbat,occasione per ricordare che “C’è un tempo fuori dal tempo abituale, totalmente altro, che è un riferimento per la coscienza di fronte allo scorrere incessante del tempo.” Non ci troviamo di fronte, semplicemente, a un invito giudizioso a rallentare il ritmo delle nostre giornate, né solo all’offerta di un espediente per lenire il dolore – del quale si può essere più o meno consapevoli – cheappunto lo scorrere del tempo genera. L’osservanza dello shabbat, l’astensione dal lavoro non in quanto faticoso ma in quanto espressione della volontà di lasciare un segno nel mondo, coincide con il riconoscimento di un limite, e rappresenta perciò la via per mettere a fuoco un impegno decisivo, essenziale, senza il quale la nostra umanità è sviata, la nostra vita mancata: l’impegno a coltivare la capacità di vedere una dimensione della realtà, degli altri, di noi stessi, che non si esaurisce in ciò che lo sguardo ordinariamente ci offre, che non si risolve nell’esteriorità e in un presente che rende superfluo il passato e non sa immaginare il futuro. Un impegno non effimero ad ammettere il bisogno di un senso, di un’ulteriorità, di una trascendenza immanente, operante, ravvisabile qui e ora; un impegno a non cedere all’insensatezza che pervade il nostro essere sociale, a non proiettarla sulla nostra intera esistenza: non si è gettati nel mondo; si è parte, per quanto infinitesimale, di una storia nella quale dimensione cosmologica e dimensione umana si integrano. Non si nasce da se stessi, ma da “persone che non sono come le altre”, i genitori: persone “che l’individuo non ha scelto, ma alle quali è indissolubilmente legato” perché è da loro che proviene la coscienza di essere, tutti, anelli di una catena, parte di una storia, creature chenon possono prescindere da un rapporto che, come quello di filiazione, permette di cogliere la propria umana natura.

Le acquisizioni della fisica, dell’astrofisica contemporanea soprattutto, così come gli orizzonti del pensiero ecologista balenano qui e là in un discorso capace di attenersi al tema che si è dato ma anche di misurarsi con la realtà dell’oggi, con il nichilismo più o meno esplicito che circola nella società e pervade le vite, con l’“indifferenza” e l’“irresponsabilità nei confronti della dimensione sociale”, con la perdita della “nozione fondamentale del limite”. E’ in questo confronto serrato che emerge un’innegabile “tensione tra lo spirito occidentale e l’esistenza ebraica” in quanto testimonianza – nei suoi principi fondamentali, in quello dell’osservanza dello shabbat in primo luogo – della possibilità, per “un mondo disorientato”, “di ritrovare il soffio di una vera vita, che non sia né abbandono alla materialità, né evasione in un idealismo astratto”, sull’onda di un sentimento di nostalgia e insieme di speranza. Nostalgia e speranza: i due volti di un identico bisogno che definisce il nostro essere uomini, incapaci di rassegnarci a una vita senza significato, attraversati da un senso di perdita e allo stesso tempo da una tensione inestinguibile verso un mondo nel quale la serenità dello shabbat si estenda agli altri giorni, a tutti quelli che ci è dato vivere.

Le storie degli altri

Rachel Cusk, Resoconto, Einaudi 2018 (pp. 185, euro 17)

“Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”: più che una scelta, una condizione. La protagonista – scrittrice, ad Atene per insegnare in un corso di scrittura – si chiede se sia “più reale” “vivere nel momento o fuori di esso”: nel frattempo, osserva gli altri, li ascolta soprattutto.

Si forma l’opinione che la maggior parte della vita, e delle scelte che si compiono, non avviene in uno stato di consapevolezza, ed è una cosa che si paga, questa: “Talora penso che (…) uno forgi il suo destino in base a ciò di cui non si accorge o per cui non prova compassione, e che infine sarà costretto a sperimentare proprio ciò che non conosce né si sforza di comprendere.” Ma del resto, forse ha ragione quel tale (uno dei tanti che lei ascolta) convinto che “migliorare le cose è impossibile, e che ne sono altrettanto responsabili le brave e le cattive persone, e che forse l’idea stessa di miglioramento è una fantasia personale, solitaria (…)”. Un modo di vedere che sembra trovare un corrispettivo nella parole di quell’altro, secondo il quale “una storia può essere una semplice successione di eventi nei quali ci sentiamo coinvolti, ma sui quali non esercitiamo alcuna influenza”, per cui “è pericolosa la tendenza a romanzare le nostre esperienze, inducendoci a credere che nella vita umana ci sia un qualche disegno e che siamo più importanti di quanto siamo in realtà.”

Da riflessioni simili, e da una disposizione solo apparentemente passiva rispetto a quel che succede e a chi si incontra, nasce quello che non a caso l’autrice identifica come un recosonto, più che un romanzo. Un resoconto fitto, però, di considerazioni sull’artificiosità dello sforzarsi perché qualcosa accada, sulla convenienza di vivere come una rondine sorvola il territorio, seguendone le forme senza poggiar visi, sull’inevitabilità di avvertire l’esistenza “come un dolore segreto, un tormento interiore impossibile da condividere con gli altri”. Tanto che nel racconto di un altro, che pure lei segue, non può non sentire “il resoconto di ciò che lei non era”, una sorta di “antidescrizione” che, tuttavia, le dava un’idea della persona che era adesso.”

Molte chiacchiere si sono lette all’uscita di questo libro, assunto come prova della ormai decretata (e pare mai avvenuta) morte del romanzo: “Ho cercato di ripensare le convenzioni del romanzo moderno, ammette Cusk in un’intervista (“La Repubblica”, 13 settembre), per controbattere, però, che le sue scelte nascono solo dall’esigenza di “sentirsi libera”, non volendo “camuffare il fatto che la narrazione è compromessa da diversi punti di vista, come invece fa la letteratura tradizionale”, e dovendo quindi “stravolgere le convenzioni, in maniera intuitiva”.  Ha detto bene un altro commentatore (Paolo di Paolo, sullo stesso giornale un paio di giorni dopo): “E’ come se Cusk trovasse la forma di ciò che scrive mentre la sta cercando. Funziona così: qualcuno narra di qualcuno che sta narrando, e si limita ad assecondare quel movimento”. Viene in mente il bel libro di un sociologo, Paolo Jedlowski: Storie comuni. La narrazione nella vita quotidiana (Bruno Mondadori 2002). La vita come intreccio di storie, nostre e degli altri, così il sociologo, ma non diversamente la romanziera: “M’interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite: si creano, senza volerlo, piccole strutture narrative affascinanti.” Affascinanti e tanto ricche da giustificare una trilogia, di cui Resoconto è il primo volume.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Una lettura nuova della Montagna magica, una riflessione essenziale sulla medicina del nostro tempo

Vito Cagli, La medicina ne La montagna magica di Thomas Mann, Armando Editore 2018 (pp. 80, euro 18)

Fine biblista al tempo in cui scriverà Giuseppe e i suoi fratelli, musicologo aggiornato sui caratteri della dodecafonia quando si dedicherà al Doctor Faustus, Thomas Mann si rivela conoscitore dei più recenti sviluppi della concezione e dei metodi della medicina nei primi anni Venti mentre lavora alla Montagna magica. “Un estimatore e un ammiratore della scienza medica” si dichiarava del resto lo scrittore stesso. E tale appunto si dimostra nel romanzo ambientato a Davos, dove, è bene ricordare, sua moglie era stata paziente di un sanatorio pochi anni prima della Grande Guerra, in un’epoca nel quale la cura della tubercolosi polmonare non poteva ancora contare sulla cura antibiotica e al regime di vita imposto in quel mondo fuori dal mondo, in quelle “isole della maga Circe” fuori dal tempo che erano i sanatori si attribuiva una funzione decisiva. Così come un ruolo centrale occupava la capacità diagnostica, ancor prima della proposta terapeutica. Entrambe descritte da Mann “in modo perfettamente aderente” a quelle che erano le concezioni  e le conoscenze dell’epoca, come dimostra il puntuale raffronto che Cagli opera fra le posizioni via via assunte dal dottor Behrens, il dirigente del sanatorio, e quanto si legge nel Trattato di un luminare del tempo, il professore Adolph Strümpell.
Ma questo libro va oltre questa documentata constatazione. Le sue pagine suggeriscono un altro modo di attraversare la storia di Hans Castorp – che del resto lo stesso autore riteneva dovesse esser letta due volte (almeno, aggiungiamo noi) – e più in generale di riconsiderare uno dei temi centrali nella narrativa manniana, presente anche in altri romanzi e racconti come puntualmente ci segnala Cagli nelle prime pagine del suo saggio: la malattia, i suoi significati, le sue implicazioni. Oltre all’”amore per la verità” – ci ricorda Cagli – “il senso per la malattia” era, a detta dello stesso Mann, la seconda “tendenza del suo carattere”. Ma che cos’è, come si può intendere la malattia? “Rottura delle regole, disordine, via delle conoscenza, spinta alla genialità oppure, soltanto, semplice processo biologico alterato che segue esclusivamente le leggi del mondo fisico”?  Una domande aperta, che si declina secondo i punti di vista dei diversi personaggi della Montagna magica, e lascia comunque fin da questo romanzo trapelare quell’“ombra nel pensiero di Mann” che si manifesterà con chiarezza molti anni dopo, in un romanzo breve, L’inganno, dove apparirà chiaro come “ogni costruzione sui possibili significati della malattia si scontri con l’ineluttabilità delle leggi biologiche”.

Thomas Mann era comunque “interessato alle interpretazioni della malattia secondo le teorie che, sulla scia di Freud, tentavano di indagare il ‘misterioso salto’ fra psiche e corpo”, aprendo a una “visione in cui il taedium vitae passa da patologia organica (l’‘esaurimento nervoso’) a categoria psicologica” e “una malattia somatica diviene il mezzo per acquietare un diverso e più profondo disagio”. Le sue pagine tuttavia sembrano a volte anticipare osservazioni come quelle che Virgina Woolf esprimerà pochi anni dopo, nel 1930, individuando nella malattia l’occasione di uno sguardo diverso, che “adorna le facce degli assenti (abbastanza normali quando in salute) di nuovi significati, mentre la mente imbastisce su di loro migliaia di leggende e romanzi, per cui non ha né tempo né libertà in salute”. La malattia come occasione favorevole alla produzione letteraria, dunque. Non è un caso che lo stesso Cagli sia autore di un altro libro Malattie come racconti (Armando 2005), che significativamente echeggia fin dal titolo il Malattia come metafora di Susan Sontag, e, soprattutto, rimanda anche alla considerazione che “la letteratura e ogni altra forma d’arte dovrebbero far parte del corredo formativo del medico e lo aiuterebbero ad accostare i pazienti come esseri umani e a saperci confrontare con la malattia e la morte”. E’ infatti questo uno dei tratti di fondo del pensiero di Vito Cagli: la riflessione sulla malattia fa tutt’uno con  la considerazione critica della medicina, attraversata sempre dalla sensazione di fare troppo o di far troppo poco.

Più in generale, il saggio sulla Montagna magica merita l’attenzione dovuta a un contributo originale alla riflessione sul ruolo e gli scopi della tecnica nel nostro mondo ed entro questo quadro, appunto, su quell’insieme di procedure che caratterizza la medicina. Un contributo, quello di Cagli, tanto più significativo alla luce del fatto che, se sono numerosi gli psichiatri e gli psicanalisti che riflettono sulle loro discipline e le loro pratiche – da Borgna a Lingiardi a molti altri – non altrettanti sembrano i medici interessati e capaci a muoversi in questa direzione.

Le cose essenziali della vita, e la scrittura

Jón Kalman Stefánsson, Storia di Ásta. Dove fuggire, se non c’è modo di uscire dal mondo?, Iperborea 2018 (pp. 480, euro 19,50)

“Cominciamo dall’inizio: siamo a Vestubær, il quartiere ovest di Reykjavík, all’inizio degli anni Cinquanta dello scorso secolo, e spiego com’è nato il nome Ásta”: un titolo-sommario apre il romanzo. Il luogo, il tempo, la protagonista. Ma non è tutto: “Poi perdo il filo”, conclude l’autore, confermando e anzi accentuando in questo libro il tono di racconto orale della sua scrittura, che qui giunge a una sorta di confidenza con il lettore. Non si tratto di un semplice tratto stilistico, e men che meno del desiderio di risultare accattivante: siamo tutti nella stessa barca, sembra dire Stefánsson con le sue aperture al lettore, tu che leggi e io che scrivo, accomunati dalla condizione umana, dalle vite che stiamo vivendo e, pur dissimili, ci obbligano tutti indistintamente al confronto con le cose essenziali dell’esistenza. Le paure e le speranze, le gioie e le delusioni, le nascite e le morti, gli innamoramenti e gli abbandoni, che la trama del romanzo cucirà insieme come pezze colorate che rimandano una all’altra senza un nesso preciso di sequenzialità, e si accavallano in un andirivieni temporale incessante, ma alla fine lasciano trasparire una storia che prende spunto dalla vita dei personaggi per incrociare quella di tutti. E sono, anche in questo romanzo, le aperture ora liriche, ora aforistiche a gettare il ponte fra le vicende narrate e la più generale dimensione dell’esistenza: fin dal sottotitolo, per poi intrecciarsi al racconto facendo emergere i temi su cui l’autore ci ha abituato a riflettere nei suoi romanzi precedenti (in questi Appunti, lo scorso 18 febbraio).

L’amore e il sesso: motori delle scelte e dei destini, perché solo l’incantesimo che immaginari extraterrestri potrebbero esercitare sugli uomini riuscirebbe a liberarli dall’insoffferenza per la routine che li tortura finché sono vivi; la fragile brevità della vita e l’inevitabilità della morte, il suo essere inscritta nella vita senza per questo risultare serenamente accettabile; la narrazione e la poesia, la scrittura come tentativo di trovare un senso della vita, almeno fin tanto che si scrive: tutto cambia quando mi metto a scrivere. “La scrittura libera qualcosa dentro di me (…) mentre scrivo divento più grande della persona che sono. Sì, mi trasformo in una corda sensibile che vibra tra ciò che è evidente e ciò che è nascosto.” Questa l’esperienza del poeta. Ma il romanziere (perché anche lui, lo scrittore, si fa personaggio del romanzo)? Be’, chi scrive romanzi è ancor più costretto a fare i conti con il mondo in cui viviamo oggi: c’è chi lo incita a scrivere per le nuove generazioni, “per salvare il mondo”, “ma più leggo articoli d’attualità, più mi sembra che il mio compito diventi più vasto, la mia responsabilità più grave. (…) Chi di noi sopravvivrà alle tenebre che in questo momento avvolgono il pianeta?”

C’è però anche chi ti chiede solo di fare il tuo mestiere, dando per scontato che chi scrive abbia il suo ruolo, sia a suo modo necessario. Come il padrone della casa dove lo scrittore si è ritirato per lavorare a questo suo romanzo, che gli offre un migliore sistemazione presso il faro dell’isola chiedendo in cambio la possibilità di pubblicizzare sul suo sito di promozione turistica “la casa dello scrittore, che alimenta il faro”: come il faro rompe l’oscurità delle notti marine così lo scrittore fende le tenebre del mondo. Un “mandato sociale” all’altezza dei tempi… Tempi nei quali nelle librerie campeggia “un grande tavolo posizionato nel posto migliore con i volumi di maggior richiamo (…): i gialli appena usciti, i manuali di cucina, i libri che ci aiutano a dormire meglio, ad avere una vita sessuale migliore, cinquanta modi per non ingrassare mangiando comunque tutto ciò di cui abbiamo voglia (…)”. Ma la banalizzazione è solo un aspetto della nostra epoca dominata dai social, nella quale “alcuni raccolgono ammirazione e fama per il coraggio con cui affrontano le tempeste del mondo, quando in realtà le rifuggono. Anzi, si lanciano nelle tempeste per non dover affrontare se stessi.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il linguaggio dei piedi

Virtus Zallot, Con i piedi nel Medioevo, Il Mulino 2018 (pp. 220, euro 25,00)

In anni non tanto lontani – anni Cinquanta, su per giù – le persone ammodo non dicevano piedi. Dicevano estremità.

Un  pudore di cui non avrebbero probabilmente saputo spiegare le ragioni, ma di cui si può trovare un corrispettivo nell’atteggiamento degli storici dell’arte, grandi indagatori delle movenze e delle posture di braccia e mani, ma assai poco propensi ad abbassare allo sguardo. Alle estremità, appunto. Lo nota Chiara Frugoni – la grande medievista della quale l’autrice si dichiara allieva – che nella sua prefazione ricorda una zia che ogni volta che doveva nominare le estremità premetteva un compito “con licenza parlando”. Un fare ben diverso da quello del Nanni Moretti di Bianca, il cui sguardo è appunto ai piedi che ossessivamente corre ( “Ogni scarpa una camminata. Ogni camminata una diversa concezione del mondo”).   

Tutti atteggiamenti nei quali si possono rintracciare i segni di una storia che affonda le sue radici in secoli lontani, una storia ricostruibile innanzitutto sulla base del patrimonio iconografico che il passato ci ha consegnato: “Nella società medievale piedi e calzature erano figure parlanti”, avverte l’autrice aprendo il suo saggio, e nelle immagini del Medioevo “contribuiscono a definire la condizione fisica ed esistenziale delle figure”, “raccontando storie e frammenti di Storia” a chi, come Virtus Zallot, a una lettura estetico-stilistica antepone un’indagine iconografica che prescinde dal valore artistico, coerentemente occupandosi più di opere minori – bresciane, in alcuni casi – che di capolavori.

E’ quindi la grande lezione della storiografia delle mentalità, della vita quotidiana e della cultura materiale a innervare le competenze storico-artistiche e a permettere di far emergere un “linguaggio dei piedi”, una gamma di “gesti e usi che ancora ci appartengono” e sono documentati da una straordinaria, capillare analisi. Dai piedi mostruosi o diabolici a quelli “che soffrono” – i piedi dello storpio, “bisognoso per antonomasia” nell’arte del Medioevo –, ma, si badi, se è una spina conficcatasi nel piede quella che fa soffrire, si tratta in realtà d’altro: “la spina è peccato da estrarre ed espiare”, così come avere i piedi calzati o scalzi era un dato carico di valenze simboliche, “che elevava o declassava, proteggeva o esponeva”- Del resto, scalzare non significa ancora oggi declassare, compromettere l’autorità o il ruolo di qualcuno? Mentre scalzarsi poteva suggerire la volontà di abbandonare il peccato, sempre che non alludesse a una precisa e a suo modo polemica dichiarazione: si pensi ai primi francescani (o, per altro verso, ai “medici scalzi” della Cina di Mao). Analogamente, in un gioco di rimandi e simbolismi che ha in molti casi perduto per noi l’immediatezza del suo significato, lavare i piedi – e far levare le scarpe a chi arriva – è espressione di cortesia, umiltà o addirittura deferenza al limite della devozione; calcare i propri calzari su draghi e diavoli (o eretici), calpestarli insomma, è il segno della vittoria sul male, o sulla morte; accostare il proprio capo a piedi altrui, prosternandosi, dice della reverenza assoluta di chi  può giungere – o è richiesto, se al cospetto del papa – a baciarli (senza per questo aver nulla a spartire con l’inclinazione adulatoria e servile del  leccapiedi). La preziosità dell’appoggio offerto ai piedi può indicare lo status del personaggio, i cui piedi godono in questo modo del privilegio di non toccar terra, che li sporcherebbe, ma conta soprattutto, in questo senso, la foggia dei calzari, prodotto dell’arte dei ciabattini e dei calzolai non di rado presenti nell’iconografia medievale, figure di artigiani con i quali si conclude questa rassegna, sorta di andirivieni colto e accattivante – grazie anche a un vasto apparato di immagini – fra sacro e profano, fra storia dei privilegiati e vicende di gente comune, fra arte e immaginario.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La forma e il volto della città / Il «Bigio»: e il museo della città?

Dal Corriere della Sera-Brescia del 2 novembre 2018.
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Mettere temporaneamente il Bigio in un museo e intanto proseguire il dibattito per trovare una soluzione condivisa perché – sostiene il Sindaco – «Non è mai accaduto nella storia dei paesi democratici che le statue rimosse dopo le dittature, di cui erano un simbolo, siano state ricollocate. Quella dell’Era Fascista sarebbe il primo caso, non è una banalità»: ecco il punto.

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