Paolo Cognetti, Senza mai arrivare in cima. Viaggio in Himalaya, Einaudi 2018 (pp. 112, euro 14)
Sono coppie di opposti a governare il racconto.
Il Nepal e il Dolpo. Il primo, un piccolo paese “in rapido cambiamento”, “stritolato tra l’India e la Cina, sempre più ridotto a periferia d’altri”; il secondo, “alle spalle della storia”, una vasta oasi dove gli unici segni di presenza umana sembrano “le bandierine stracciate che [mandano] preghiere al vento”.
In realtà, di persone ne incontra, il narratore: alpinisti e montanari. I primi, personaggi che animano una montagna ormai parte dell’“immensa megalopoli europea; i secondi, figure di una “montagna autentica”, non ancora trasformata – differentemente dal Nepal – dalla modernità, portatrice del “benedetto desiderato benessere” che scalza “una cultura antica, povera e destinata all’estinzione”, com’è stata anche quella alpina”. Nel Dolpo la montagna appare invece ancora curata, vissuta, diversa da quella abbandonata che conosciamo.
Sull’Himalaya, dunque, per pensare alle Alpi, e per scrivere, e disegnare, questo libro. Per scrivere ma anche per leggere, e rileggere, un unico libro uscito a fine anni ’70, Il leopardo delle nevi, di Peter Matthiesen, un libro-guida, ai luoghi e alla meditazione che essi ispirano. Prima fra tutte quella sull’“ossessione alpinistica per le vette delle montagne”, sull’“ascesa” come metafora spirituale, quando “invece il più importante pellegrinaggio tibetano consiste nel compiere in giro intorno al monte Kailash”: “i cristiani piantano croci in cima alle montagne, i buddisti tracciano cerchi ai loro piedi”.
Se non lo sapessimo, ci parrebbe di leggere in questo libro la premessa di quell’altro, Le otto montagne: “fa’ che io sappia guardare e fa’ che trovi le parole per raccontare ciò che ho visto”, è la preghiera che il Cognetti himalayano si trova a dire, e ci sentiamo la forza narrativa di quello alpino.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora