Fra Dostojevskij e Čechov

Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018 (pp. 191, euro 13)

Georges Simenon, Il fiuto del dottor Jean e altri racconti, Adelphi 2018 (pp. 163, euro 12)

Georges Simenon, Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018 (pp. 176, euro 18)

A fine anni Trenta Simenon aveva già firmato col proprio nome le sue prime storie di Maigret,  abbandonando lo pseudonimo che aveva usato per qualche tempo.

Il commissario aveva ormai iniziato la sua carriera, e dunque perché inventarsi questo dottor Jean? Solo perché lo scrittore si stava facendo una nuova casa nella Charente Maritime, sopra Bordeaux, e non sapeva starsene con le mani in mano e perciò non trovò di meglio da fare che scrivere del giovane medico in servizio, appunto, in quella regione? Probabile, vista la sua prolificità irrequieta, ma doveva esserci dell’altro. Forse il bisogno di mettere al mondo il dottore detective – non come esperimento preparatorio, ma come figura parallela – rispecchia un momento in cui Simenon non ha ancora del tutto deciso se il suo personaggio sarà quello dell’investigatore che pensa e deduce, come Jean appunto, interessato al proprio gioco  intellettuale più che agli uomini protagonisti della vicenda su cui indaga, o invece un altro: un uomo che non pensa, e però “vede, soltanto vede”. Ma questo è Maigret: “Io non penso mai”, confessa a volte il commissario. Ma allora cosa fa? Cerca di ragionare come i sospetti; cerca di capirli nella loro umanità, prima che nei loro moventi. A ben vedere, questo modo di fare non si può dire sia del tutto estraneo al dottor Jean, un po’ Sherlock Holmes, o forse meglio: Hercule Poirot, ma un po’ anche Maigret: “Gli altri, il sostituto, il commissario, brancolavano nel buio, e – pensava il dottore – non poteva essere altrimenti, perché era così che funzionava in una inchiesta poliziesca. Perché sbagliavano metodo! Lui, invece… Che metodo aveva usato in realtà? Non avrebbe saputo precisarlo, ma lo sentiva. Si metteva nei panni di…”.

Il percorso di uno scrittore è fatto anche di questi momenti di indecisione, o di messa a punto del carattere del suo personaggio, soprattutto quando di un grande scrittore si tratta, come Sciascia sostiene, sulla scorta di Alberto Savinio che riteneva Simenon un “Dostojevskij mancato”. Salvo poi precisare, Sciascia, che Simenon non tanto in Dostojevskij si riconosceva, ma in Gogol e in Čecov, vale a dire, secondo lo scrittore siciliano, nello “scrittore che vede”  e nello “scrittore che ama”. “E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alla verità dell’uomo così come a Maigret permettono di giungere alla soluzione del caso.” Il metodo di Maigret e la tecnica narrativa di Simenon sono quindi le due facce di una stessa medaglia: “Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čecov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini quanto Maigret.”

Eppure, nella famiglia che incontriamo in Il fondo della bottiglia – un romanzo di Simenon di quelli senza Maigret, i “romanzi duri” come diceva lui stesso – e nel gioco aspro che si è instaurato fra i fratelli e alla fine esplode, un po’ di Dostojevskij c’è. Un Dostojevskij della borghesia ha detto qualcuno, non ricordo quale dei suoi lettori eccellenti (Gide, Montale, Benjamin…).

Il ricordo di quando erano bambini si mescola dolorosamente a una rivalità mai sopita nel rapporto fra Patrick Martin e Donald, ripiombato nella vita  del fratello, agiato possidente  in Arizona, senza esser mai uscito da quella travagliata della sorella. E’ il groviglio lacerante quanto insolubile in cui la relazione tra fratelli può tradursi al centro della narrazione, è l’odio più funesto, l’“odio fra consanguinei”, ad emergere nei loro dialoghi tesi e irrisolti, nei quali a prevalere alla fine, per entrambi, è un senso di umiliazione.

Si direbbe che in questo ancor più che in altri romanzi Simenon abbia dato fondo alla sua capacità di introspezione psicologica, con una partecipazione  ancor più viva che in altri casi: qualcuno ha intravisto una trama autobiografica nella storia di Patrick e Donald, la storia di Georges e di Christian, suo fratello minore, collaborazionista nel ’45, poi militare nella Legione straniera da cui non sarebbe più tornato a turbare la vita di lui, Simenon, nel frattempo trasferitosi, guarda caso, in Arizona.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

“Nella composizione ad anello, il narratore comincia a raccontare…”

“Nella composizione ad anello, il narratore comincia a raccontare una storia solo per interrompersi e riandare a un momento precedente che aiuta a spiegare un certo aspetto della storia che sta raccontando –, poi magari si spinge ancora più indietro a un momento o oggetto o episodio ancora precedente che aiuterà a capire meglio quell’altro momento di poco più vicino, e solo a questo punto ritorna pian piano al presente, al momento da cui si era discostato per fornire tutti quegli antefatti. (…) In questo modo un’unica narrazione, o addirittura un singolo passo, può contenere l’intera biografia di un personaggio.”

(Daniel Mendelshon)

“sono sicuro che quanto stava per accadere…”

“(…) sono sicuro che quanto stava per accadere [a Virginia] fosse connesso con la fatica di rivedere il libro e con la nuvola scura che invadeva la sua mente ogni volta che, chiuso un libro, doveva separarsene, quasi ci fosse un cordone ombelicale da tagliare, e lasciare che andasse in stampa e poi arrivasse ai recensori e al pubblico.”

(Leonard Woolf)

Riconciliarsi col passato, raccontandolo

Daniel Mendelshon, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, Einaudi 2018 (pp. 312, euro 20)

 “La nostra Odissea l’avevamo vissuta – per la durata di un semestre avevamo navigato insieme, per così dire attraverso quel testo, un testo che a me, seduto lì a osservare la figura di mio padre, sembrava sempre più relativo al presente che al passato”.

L’incontro tra un figlio e un padre, un incontro a lungo rimandato, che poi si realizza in circostanze imprevedibili per entrambi. Un corso universitario e poi una crociera.
Quanti romanzi sono usciti su questo tema in questi ultimi tempi, tempi di “evaporazione” del padre? (Giusto la scorsa settimana si parlava in questi Appunti di quello di Lewis). Qui però non sono state solo le inevitabili complicazione che attraversano ogni famiglia a dividere il genitore dal figlio, ma anche il fatto di essersi entrambi arroccati in punti di vista sul mondo molto diversi, ricercatore scientifico uno, scrittore e professore di letteratura l’altro. Ma è proprio un’opera letteraria il luogo dell’incontro. Jay Mendelshon, ormai ottantunenne, decide di frequentare il seminario che Daniel terrà sull’Odissea. Se l’autore avesse voluto far filtrare per allusioni e metafore l’analogia fra la loro vicenda e quella di Telemaco con Odisseo, e di quest’ultimo con il vecchio padre Laerte, il risultato non sarebbe probabilmente stato così convincente, e coinvolgente. Mendelshon sottolinea invece, esplicitamente, il parallelismo tra la vita sua e della sua famiglia e quella raccontata nel poema omerico, ci torna sopra ad ogni passo della narrazione, stimolato dalle osservazioni degli studenti e da quelle, spesso beffarde, del padre (poco propenso a vedere in Odisseo il grande eroe che si dice), in un andirivieni che mima la circolarità che governa l’esistenza umana ma anche il racconto. Entrambi dominati da un “andamento ad anello” che si realizza nei ritorni che le età della vita comportano e la memoria ordinariamente impone così come nei flashback e nei flashforward, nelle riprese di fatti passati e nell’anticipazione di altri non ancora avvenuti che l’arte del racconto contempla: “giunta esattamente a metà, l’Odissea compie un maestoso giro di trecentosessanta gradi su se stessa e, dopo tutto quel viaggiare, torna al suo punto di partenza”; da poco superati i cinquant’anni, l’autore recupera l’infanzia propria e insieme la giovinezza del padre.

Ma non solo: è l’intero romanzo – uno di quei romanzi che sono anche saggio –a seguire lo stesso modo di procedere offrendo un esempio concreto di “quella straordinaria tecnica narrativa capace di intrecciare presente e passato dilatando un episodio specifico nella vita di un personaggio fino ad abbracciare la sua intera esistenza”. Tecnica narrativa, ma anche arte del vivere: quel che l’Odissea ci dice è che “per poter avanzare nel futuro, bisogna prima riconciliarsi col passato”, ed è utile allora ricorrere alle storie, al racconto, perché “abbiamo tutti bisogno della narrazione per dare un senso al mondo.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Scrivere contro il tempo

Phillip Lewis, La montagna del padre, Bompiani 2018 (pp. 384, euro 19)

Una passione divorante di scrivere, in una famiglia in cui si pensa che non è quello il modo per guadagnarsi da vivere, in una cittadina in cui il pastore e i suoi parrocchiani bruciano i romanzi di Faulkner.

Eppure scrivere, di sé, della propria famiglia, cercando l’approvazione della madre, morta la quale scrivere non ha più senso. E’ la depressione, l’alcoolismo: lo spettacolo di “un’esistenza mancata offerto alla moglie e ai due figli soprattutto. Henry – lo stesso nome del padre – e la minore, Threnody, che ricevono dal genitore un’eredità fatta di centinaia di libri, che amano e leggono insieme, ma anche un sentimento angoscioso della caducità: “guardi all’indietro – scriveva il padre – e ti rendi conto all’istante di tutto quello che hai perso e non è altro che tempo e il tempo è vita. Ci sono ancora dei giorni che ti aspettano. Ti riprometti di fare un miglior uso di quelli che restano. E’ una bugia.”

Il racconto non segue linearmente lo scorrere del tempo: anche dopo che ha abbandonato la lugubre casa sulla montagna fuori dall’abitato, l’immagine del padre si ripresenta, le sue parole continuano a risuonare. Il tempo fugge e “ti ruba l’anima”, ma non impedisce al passato che si è vissuto di non passare più: la volontà di Henry di riscattarsi e vivere la propria vita, lontano, con la donna che ha incontrato, è l’altra faccia del lancinante senso di abbandono in cui la sorella passa dall’infanzia alla giovinezza. Torna, il protagonista, a rassicurare Threnody con la sua presenza, con le sue promesse di portarla via, dove vuole. Non fosse che lei – lo  riconosce – non ha mai saputo dove andare. Rimettere in sesto quella casa maledetta piena di ricordi brucianti allora, e poi venderla, ossia: far ordine nel passato familiare, e poi disfarsene. Henry ci prova, e non sappiamo se ci riuscirà.

Non sappiamo se il suo destino sarà lo stesso di alcuni che “vivono la loro vita morendo poco a poco, a volte così piano che quasi nessuno se ne accorge a parte loro”, o se invece sarà fra coloro che “cadono in quell’oscurità impossibile che è la morte senza neanche il beneficio di una fioritura”. In ogni caso – e sono le parole che chiudono il romanzo – “tutti viviamo le nostre vite come se fossimo sicuri del domani”. Tutti eccetto lui, il padre del protagonista, autore, se non di libri fortunati, delle parole che ha voluto sulla propria tomba: “Straniero a questo mondo, il tempo non se ne accorse. Non omnis moriar.”

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Il prima e il dopo che segna le vite

Roberto Alajmo, L’estate del ’78, Sellerio 2018 (pp. 173, euro 15)

In tutte le vite c’è un prima e un dopo. Un giorno, una stagione, un anno che hanno fatto da spartiacque. Ma devono essere passati perché la loro crucialità risulti evidente.

L’estate attorno alla quale gravita il racconto di Alajmo è quella in cui ha visto per l’ultima volta la  madre, e che fosse l’ultima non lo sapeva. Sarebbe stata diversa, si sarebbe comportato in un altro modo… Ma non affoga nel rimpianto o, peggio, nel rimorso, Roberto: racconta, invece, il prima e il dopo di quell’estate. E non ci sono né colpe da espiare né risarcimenti possibili; né buoni né cattivi, e il disamore arriva com’era arrivato l’amore, “la felicità non si cerca né si trova: la si incrocia”. Tutti hanno fatto quel che han saputo fare. Nella sua come in tutte le famiglie. Avrebbero potuto fare diversamente? Certo, se non fossero stati dentro il momento che stavano vivendo, se avessero potuto vedere il loro presente come fosse già passato e fosse stato loro possibile riconoscere in un gesto quotidiano l’evento che segnava irreversibilmente il cambiamento.
Era e continua ad essere così. Ora che è adulto e ha un figlio, Roberto lo confessa: non si è reso conto del “lungo smottamento impercettibile durate il quale lui cresceva e io invecchiavo”,  una trasformazione silenziosa – direbbe François Jullien –  di cui l’evento non è che lo sbocco. C’è stata l’ultima sera in cui ha accompagnato in camera sua il figlio, ma non ha saputo accorgersi che quel momento portava “ognuno su un binario diverso”.

E’ una riflessione dolente sulla vita, sul tempo che la attraversa e travolge quadri famigliari che erano sembrati destinati a durare in eterno, ma il tono non è quello del lamento, tantomeno dell’angoscia: non pacificato ma neanche assillato dalla caducità delle persone e dei loro affetti, il racconto richiama la schietta, empatica curiosità per la vita dei genitori che avevamo trovato nel Ford di Tra loro, ma ancor più  l’atmosfera di Lessico famigliare, in cui lo sguardo bonariamente ironico che sottolinea le idiosincrasie dei personaggi ne restituisce l’ irripetibile unicità.Che cosa avrebbe “pensato –  lei , la madre, finita tragicamente nel gorgo della depressione e della dipendenza dai farmaci – della mia vita, delle scelte che ho fatto, delle donne che ho amato, dei libri che ho scritto”, si chiede l’autore nelle ultime pagine: che cosa avrebbe pensato “di questo libro. Le sarebbe sembrato troppo duro?”

Domande senza risposta: scrivere dei morti serve a noi, non a loro.
“Il tempo dei posteri prosegue, scavalcando ogni dolore”.

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Il ’68 e la sua eredità ambigua, e necessaria

Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68, Il Mulino 2018 (pp. 128, euro 12)

Paolo Pombeni, storico, politologo, tenta un bilancio del’68: vent’anni in quell’anno; settanta oggi che ne scrive.

“Per la mia generazione – riconosce – quell’anno è stato una specie di battesimo collettivo, il rito di passaggio da un mondo a un altro.” Fra i tanti libri usciti per l’anniversario, che spesso raccolgono i “ricordi proposti dai reduci, a volte celebrativi, altre volte dominati da un desiderio di autoflagellazione”, questo vuole offrire “una modesta riflessione che viene da chi partecipò sia pure in quinta fila, a quegli eventi, ma nei cinquant’anni seguenti per varie vicende ha dovuto misurarsi con l’eredità di quella fase.”
Prima di tutto, che cosa è stato il ’68? “Molte cose, ma senz’altro in gran parte un’operazione intellettuale”, compiuta, e vissuta, da studenti universitari, cresciuti in un paese  che si era rapidamente modernizzato ma nondimeno propensi a sentirsi “defraudati della speranza di entrare con coraggio in quella che appariva la modernità”. Destinati comunque a subire – spesso cedendovi – le lusinghe di “alleati subdoli”, dall’industria culturale al mercato, così come il fascino di “cattivi maestri”. Risultato: l’abbandono del prosaico, “faticoso e impegnativo riformismo di cui aveva bisogno l’Italia”, e il prevalere della critica dell’esistente, della pars destruens, senza che venissero riservati pari entusiasmo e intelligenza alla pars costruens.

Non ci sono motivi per essere trionfalisti ma neanche per sentirsi sconsolati nel ripensare quel “momento storico”, perché tale è stato il ’68, non si può non ammetterlo: “Ci fu allora un impegno alla riflessione che, pur con tante ingenuità, non fu più rinnovato”.
Detto ciò, l’autore passa in rassegna i campi su cui questa riflessione si concentrò, le argomentazioni che elaborò, le speranze che concepì, ma analizza, anche, l’eredità non di rado “ambigua” che da quel fermento ci è giunta: la critico al sistema educativo, pur non misconoscendo il valore del patrimonio culturale in esso sedimentato, si è di fatto risolta nella “trappola del soggettivismo” in cui oggi ci dibattiamo, fra genitori avvocati dei loro fogli e insegnanti di nuovo autoritari, gli uni e gli altri – ma si tratta di atteggiamenti che vanno ben oltre la scuola – arroccati sulle loro posizioni e ostili ad ogni coinvolgimento dialettico.
Dall’operaismo, altro tratto decisivo della cultura del ’68, e dall’incontro operai-studenti – più episodico e transitorio di quel che apparve in quegli anni – si è giunti alla “chiusura dei sindacati verso le esigenze delle nuove generazioni”; la critica radicale al capitalismo e al consumismo non ha impedito che molti dei protagonisti delle lotte di quei giorni si siano acclimatati nel mondo accademico, economico, politico-parlamentare, così come il rinnovamento del mondo cattolico ha lasciato il campo a una religione intesa come “scelta personale”.
Come da tempo e da più parti riconosciuto, sono il femminismo, la ridefinizione del ruolo della donna con le sue conseguenze su quella del ruolo maschile, ad aver registrato un “successo duraturo”, mentre la contrapposizione al mondo della politica dei partiti non ha costituito un baluardo, a partire dai primi anni ’80, contro il venir meno di una “cultura riformista e riformatrice”, sfociando in alcuni casi in una critica radicale priva di orizzonti che non fossero millenaristici. E involuzione non dissimile ha subito il “comunitarismo”, la logica accogliente dei “gruppi spontanei”, altro aspetto che ha marcato il ’68, molto presto inquinati dallo spirito settario.
Eppure: il comunitarismo stesso, come il femminismo di cui si diceva, e l’idea di un’Italia “paese sbagliato” perché privo di una rivoluzione che abbia segnato una cesura nella sua storia, ma anche la distanza critica dal consumismo o l’attenzione alla dimensione internazionale sono tutti aspetti che hanno lasciato “ un’impronta profonda nella psicologia sociale”, nell’immaginario collettivo degli italiani  “per lunghi decenni”. Decenni che si sono conclusi? è lecito chiedersi, perché a questo servono gli anniversari: a cercar di capire a che punto si è riflettendo dove si era, o si credeva di essere. Nel caso concreto, a riconoscere che quella del ’68 è “un’eredità in cui sopravvivono più gli elementi utopici nell’immaginare il nostro futuro, che le componenti razionali utili a circoscrivere i problemi per provare a risolverli”. Si può essere d’accordo, a patto di ammettere anche che di “elementi utopici” abbiamo bisogno. Oggi, in Italia, più che mai.
E’ alle giovani generazioni – conclude Pombeni – che spetta il compito di raccoglierli, e calarli nel mondo globalizzato dei nostri giorni. Così dando conferma – chissà… – che quello del ’68 “non era che l’inizio”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

L’avventura colta e avvincente di un linguista

Andrea Moro, Il segreto di Pietramala, La nave di Teseo 2018 (pp. 380, euro 18)

Vivo e vegeto nonostante tutto, il romanzo non ha smesso di assumere forme diverse.

Uno storico della letteratura, Stefano Ercolino, ci ha spiegato che esiste ad esempio, nel panorama intricato della letteratura postmoderna,  il romanzo massimalista (Bompiani 2015), tipo  Infinite Jest di Wallace, Underworld di DeLillo, Le correzioni di Franzen: tutti poderosi (e ponderosi) tentativi di disciplinare la complessità del mondo attraverso la narrazione.
Ma prima, tra fine ’800 e prima metà del ’900 c’è stato il romanzo saggio (Bompiani 2017), quello del Doktor Faustus di Thomas Mann e dell’ Uomo senza qualità di Robert Musil, che cercava di far fronte alla crisi che da tempo minava l’apparato simbolico della modernità e si era fatta cataclisma con le due guerre mondiali, e dunque un romanzo in cui la narrazione si contaminava con l’argomentazione, l’intreccio con il ragionamento, le vicende con le nozioni.

Ecco, se lo si dovesse collocare, quello di Moro lo potremmo considerare un “romanzo saggio”, racconto di una vicenda condita di avventura e di suspense ma infarcita di considerazioni scientifiche che solo un linguista, qual è l’autore, avrebbe potuto seminare di pagina in pagina. Sino a farci arrivare, alla fine, alla incontestabile verità che, se mai avessimo pensato il contrario, “le lingue umane sono oggetti naturali e non convenzioni culturali di natura arbitraria, progettabili a tavolino” come vorrebbe l’avversario del protagonista, Elia Rameau (un linguista, ovviamente). Ma per arrivarci occorre – a Elia, e al lettore – aggirarsi prima fra le case abbandonate del paese fantasma di Pietramala, in Corsica, e le vie trafficate di New York, inseguendo e poi cercando di sfuggire al professor Shannon, velleitario e maniacale ideatore di lingue e leader di un’organizzazione misteriosa – il Giardino degli Equivalenti – che ricorda un po’ la Spectre.

Trama e teoria dunque. Dalle parti del Pendolo di Foucault di Eco, per intenderci. Con la linguistica al posto delle teorie del complotto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Emilia, elefante spaesato e gentile

Arto Paasilinna, Emilia l’elefante, Iperborea 2018 (pp. 252, euro 17)

“L’elefante è un miracolo di intelligenza e un mostro di materia”, ma non solo. A sorprendere, in questo essere contraddittorio, è anche la sensibilità:

“Il suo odorato è squisito e ama con passione i profumi di tutti i tipi e soprattutto i fiori fragranti; li raccoglie, li coglie uno ad uno, ne fa mazzetti e dopo averne assaporato il profumo li porta alla bocca e sembra godere del loro gusto”.
La simpatia che Buffon mostra nei confronti di questo bestione, a prima vista temibile quando non sovranamente  indifferente a ciò che gli sta intorno, si ritrova nel romanzo di Paasilinna: Emilia non perde occasione di manifestare la sua “animale amicizia” cingendo con la proboscide e sollevando a un paio di metri da terra chi le si è dimostrato amico, e il suo sguardo, con quelle morbide e lunghe ciglia, ha un’“aria dolce e commovente”.

Ma quello di Paasilinna richiama anche altri pachidermi costretti a viaggi interminabili, in terre a loro estranee: sono spaesati i protagonisti dei testi raccolti in i Morte di un elefante a Venezia (Canova 2004), dell’Elefante di Napoleone di Paolo Mazzarello (Bompiani 2017), e soprattutto quello che incontriamo nel Viaggio dell’elefante di José Saramago (Einaudi 2010). Il peregrinare di Emilia non  si deve tuttavia al fatto di essere stata spedita in dono da un sovrano all’altro, come avveniva in passato: lei è un’elefantina da circo che si esibisce lungo la Transiberiana prima di finire in Finlandia, esule ma sempre accudita con amore da Lucia, sollecita e affettuosa con il suo animale anche più del cornac dell’elefante di Saramago. Non solo custode del suo benessere ma anche mediatrice tra il suo buonsenso animale e la follia, l’ipocrisia, l’avidità degli uomini. Mai condannati però, dall’autore, che come sa restituirci la saggezza intelligente dell’elefante così guarda agli umani con l’ironia bonaria e lo humor che gli sono propri, segno di un piacere di raccontare – senza fretta, indugiando su particolari e cedendo a digressioni – che comunica quel senso di leggerezza, scherzosa ma non del tutto, che con i suoi romanzi ci regala da più di vent’anni (risale al 1994 la pubblicazione in Italia dell’Anno della lepre, con Iperborea).
Attenzione però: bonario sì, ma anche pungente, e apertamente critico, quando se la prende con il formalismo protocollare della UE che non sa tener conto della specificità locale dei problemi, o con il gruppo di verdi che col “Movimento di difesa dell’elefante” si rivelano più interessati alla loro visibilità mediatica che alla difesa della salute di Emilia, senza riuscire tuttavia a impedirle di raggiungere alla fine un parco nazionale del Sud Africa dove “gli elefanti e gli altri animali selvatici possono muoversi liberi, mentre i turisti sono sprangati nei loro campi base da cui possono uscire a vedere la fauna solo in macchina, accompagnati da guide professioniste”.

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Nati per guardare e ascoltare il mondo

Durian Sukegawa, Le ricette della signora Tokue, Einaudi 2018 (pp. 184, euro 18)

Per fare i dorayaki, dolci tradizionali giapponesi a base di pandispagna e marmellata di fagioli, occorre sentimento: a Sentarō, il pasticcere,  sembra una stravaganza della vecchia Tokue – aiutante che da subito si rivela maestra –  quello stare a guardare i fagioli da vicino; a osservarli uno ad uno, come se volesse sentirne la voce, o sperasse comunque di sentirla.

Ma capirà: il libro è tutto qui. Nel percorso di un uomo che si lasciava vivere, oppresso dai dolori del  passato e dai debiti nel presente, e che poco a poco comprende che la via per imparare a vivere sta lì: nel cercar di “sentire la voce di ciò che non ha voce”, nell’imparare ad “essere all’ascolto”. Non è una cosa facile: Tokue è sessant’anni che si esercita, ma si può cominciare a qualsiasi età, anche se si è adolescenti come la studentessa golosa di dorayaki.  Perché la differenza di età non impedisce che l’esperienza, fatta di una ricerca ininterrotta, si possa trasmettere: il tempo della vita non è poi tanto importante rispetto a quello delle stagioni che donano aspetti differenti al ciliegio che sta davanti al negozio di Sentarō e fiorisce, mette foglie, le perde, resta spoglio, rigermoglia, torna a rifiorire.

In questo, come in molta letteratura giapponese, la vicenda è tramite di un messaggio che, proprio perché originato dai fatti e aderente alla vita dei personaggi, non suona teorico, ed è quindi tanto più in grado di raggiungerci: nulla di ciò che facciamo – che cuciniamo dolci o scriviamo libri – si esaurisce nella sua strumentalità, nell’efficacia del procedimento, nella bontà del risultato, ma può esprimere – se si è all’ascolto – un irripetibile modo di rapportarsi a se stessi, e al mondo, e dunque essere la traccia che ognuno lascia del proprio passaggio sulla terra. Perché “siamo nati per guardare e ascoltare il mondo. E il mondo non desidera altro. Perciò – conclude Tokue, non con l’aria di chi sostiene una tesi ma di chi fa una semplice constatazione – il mio essere venuta al mondo ha un senso”.

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La Storia e le storie, le vite e il romanzo

Marco Balzano, Resto qui, Einaudi 2018 (pp. 192, euro 18)

La “marcia su Bolzano” nel ’22, con incendi di edifici pubblici, pestaggi, e i carabinieri che restano a guardare. La città ne esce cambiata: “ancora oggi camminare per Bolzano mi scombussola.

Tutto mi sembra ostile. I segni del ventennio sono tanti”. E dalla città alle valli, ai paesi: “Mussolini ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne”, “hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti”. E l’italiano, “una lingua esotica” per chi viveva in “Alto Adige”, è l’unica lingua ammessa: la protagonista, se vuole insegnare, deve farlo nelle “catacombe”, fare la “maestra clandestina”, sotto la minaccia dell’olio di ricino o, peggio, del confino.
Qualcosa sapevamo (i cartelli bilingui, con quelle italianizzazioni spesso fantasiose, a volte grottesche…), ma non altrettanto si sa di quel che il fascismo ha seminato fra i monti del Sud Tirolo: “Sperare in Adolf  Hitler era la ribellione più vera”. Essere antifascisti e filonazisti. E quando, nell’estate del ’39, “i tedeschi di Hitler vennero ad annunciare che, se lo volevamo, potevamo entrare nel Reich e lasciare l’Italia”, dividersi: fra “optanti” e “restanti”, fra chi accetta l’opzione e se ne va in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi decide di restare perché il posto in cui è nato ha un significato, le strade e le montagne gli appartengono come lui appartiene ad esse.
Ma oltre al fascismo e all’opzione offerta dai nazisti, oltre alla guerra e alla vita alla macchia, alla fuga continua e alle morti di chi ci si era trovati vicino, oltre a tutto questo c’è il progetto della diga, i lavori che si era sperato la guerra fermasse e che riprenderanno invece, costringendo di nuovo alla scelta. Erich, protagonista del romanzo, insieme alla moglie Trina, la voce narrante, non ha dubbi: lui resta. “Perché qui ci sono nato, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro.”

“Le industrie – scrive Trina: per nessuno, per se stessa – stavano trattando Curon e la valle come fossero un posto senza storia. Invece noi avevamo un’agricoltura e allevamenti e prima che arrivasse quell’esercito di cafoni e quella marmaglia di ingegneri regnava l’armonia tra i masi e il bosco, tra i prati e i sentieri. Era una terra ricca e piena di pace, la nostra. Sacrificare tutto questo per una diga era semplicemente selvaggio. Una diga si può costruire altrove, un paesaggio una volta devastato non può rinascere più. Non si può rimediare né replicare, un paesaggio”.
Ma paesaggio è anche quello della Val Venosta di oggi per i turisti che si fermano e si fotografano davanti a quel campanile che spunta dalle acque del lago artificiale, che nel 1950 ha sommerso il paese, “come se sotto l’acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita.”
La storia è esistita invece, ma se si è fatta romanzo e proprio per questo è riuscita a raggiungerci è perché l’autore ha saputo intravederci le vite, irripetibili come sono le vite, di donne e uomini in carne ed ossa: “Se la storia di quella terra e della diga non mi fossero parse capaci di ospitare una storia più intima e
personale – scrive infatti in una  “nota” conclusiva – attraverso cui filtrare la storia con la s maiuscola, se non mi fossero immediatamente sembrate di valore generale per parlare di incuria, di confini, di violenza del potere, dell’importanza e dell’impotenza della parola, non avrei, nonostante il fascino che questa realtà esercita su di me, trovato interesse sufficiente per studiare quelle vicende e scrivere un romanzo».

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Il suicida riluttante

Auður Ava Ólafsdóttir, Hotel silence, Einaudi 2018 (pp. 188, euro 18,50)

“Devo spararmi in sala o impiccarmi in camera da letto, il gancio del lampadario della cucina oppure quello del bagno? Cosa sarebbe più appropriato, il pigiama, un vestito elegante o i vestiti di tutti i giorni, con le scarpe o solo coi calzini?”

Il tono è questo: dire che questo romanzo tratta, dall’inizio alla fine, di un proposito di suicidio potrebbe fuorviare se non ci fossero questi incisi, queste perplessità irrisolvibili che possono a volte richiamare i tratti dello Zeno Cosini di Svevo.
Certo, ragioni ne ha: la madre non si sa quando c’è con la testa; la moglie se n’è andata; la figlia non è davvero figlia sua. Ed è anche lucidamente realista : “Mi rimpiangerà il mondo? No. Il mondo sarà più povero, senza di me? No. Il mondo se la caverà senza di me? Sì.”
E dunque, perché continuare a vivere, a sopportare una solitudine inattaccabile? Persino il vicino, che pure  cerca la sua compagnia “non dialoga, monologa”, e non c’è da far conto – come i padroni di cani, forse, o gli appassionati di whalewatching – neanche su una possibile un’empatia tra uomo e animale, tra lui e una foca ad esempio: “I loro sguardi si sono incrociati, uomo e animale, nient’altro da dire, nessun significato più profondo”. Quanto a conforti che possano venire dall’Alto, non c’è da farci conto: “non credo più in Dio e ho paura che Lui non creda più in me” – (potrebbe essere una battuta di Woody Allen).
No: l’unica cosa di cui si può esser certi è la morte, la propria morte. Lo sapeva già quando trent’anni prima, quando nei suoi diari di ventenne scriveva che  “La gente muore. Gli altri. Si muore. Con «si» intendo me stesso – (altro che Woody Allen: qui siamo a Heidegger) – . Io muoio. Se avrò dei figli anche loro moriranno. Quando succederà, io non sarò con i miei figli…”.

Senonché: se proprio lo si è deciso, meglio morire lontano, non lasciare a nessuno – tanto meno alla figlia – il compito di occuparsi di quel che lasci… E dunque via: biglietto di sola andata. Per dove? “Navigo in rete alla ricerca della meta più adatta e focalizzo l’attenzione a latitudini di guerra.” E difatti è in un luogo devastato da eccidi e bombardamenti che va – per suicidarsi, naturalmente – nella cornice di  un paesaggio speculare a quello interiore: “la devastazione è ovunque”.
Senonché: all’Hotel silence scopre che qualcuno, di cui non sospettava l’esistenza, qualcuno che per lui era nessuno, ha bisogno di lui.
E’ là che la voce della madre lo raggiunge, in sogno. Lui non se ne rende conto, al momento, ma quella che ha ricevuto è una specie di rivelazione: “Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro?”
Grandi domande sulle cose essenziali della vita, e poche risposte, e se non quelle racchiuse nelle vicende che la vita stessa propone e il racconto sembra limitarsi a riferire. Si direbbe, questo, l’orizzonte in  cui si muovono i personaggi di molti scrittori islandesi di oggi.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora