L’ombra, il lato oscuro che nascostamente agisce anche nei creatori di opere immortali, è il tema che attraversa, in forme diverse, i tre racconti: una considerazione di sé che mina la relazione con gli altri, costringendola inconsapevolmente entro i riti ripetitivi e ambigui della seduzione; l’inibizione che impedisce un reale scambio d’amore, rivelando una segreta e radicata vocazione all’infelicità; un’immagine del femminile nella quale si confondono gli spettri contraddittori e perturbanti del materno.
Sennonché, quella stessa ombra che sembrava poter offuscare il profilo dei protagonisti si rivela nello svolgersi della vicenda come una componente del loro stesso potenziale creativo, aspetto essenziale del loro genio, elemento che concorre a definire la cifra inimitabile dell’arte di Johann Wolfgang Goethe, Adalbert Stifter, Gustav Klimt.
Oltre a quella dei tre grandi, un’altra decisiva presenza che anima e lega fra loro queste storie è quella del Garda, un lago capace di suscitare negli estimatori che raccoglie attorno alle sue rive “un’affezione tale da sfiorare la devozione”.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dai tre racconti:
da La Finestra sul lago:
È davanti al paese, sotto il sole. Mi pare di vederlo.
Fa caldo ma l’arietta che vien giù da Riva non lo fa sentire. E non è forte da far agitare le acque: il lago è calmo, la barca sta ferma come fosse in secca.
Lui guarda la costa, quel gran monte che c’è sopra, e il paese: a occhio nudo. Poi prende il binocolo. Si concentra sulle case di Malcesine, il porto, le vele gialle dei barconi. Comincia, forse, a sentire qual è il pezzetto che gli interessa ritagliare in quel paesaggio.
Perché di questo sentiva il bisogno. Come ogni estate, ma tanto più in questa: aveva appena terminato di dipingere quel gomitolo – non saprei come dire – di corpi che non si sa se appartengano a più donne o a una sola, e gli sembrava di avervi guadagnato una serenità che non si era invece saputo concedere in quell’altra tela, che aveva ancora sul cavalletto. Anche in quella un groviglio di corpi, di entrambi i sessi, ma a osservarli c’è la Morte.
In tutt’e due, comunque, un tempo che scorre per tornare sempre su se stesso: che la Morte sia lì a spiare il suo momento oppure che resti nascosta. Ma qui no: nelle luci e nei colori dell’acqua, del paese, del monte, nei profili delle cose che han fatto gli uomini come di quelle che non sono stati loro a fare, il tempo si può sospendere. Basta entrarci, nel paesaggio: avvicinarlo, e così appiattirlo, ridurlo a due dimensioni, per estrarne un quadratino. Per inquadrarlo, appunto. Facendo sempre attenzione a escluderne l’orizzonte. Doveva restare fuori del quadro, non lo si doveva vedere. Quel limite che può far sognare altrove insperati ma che condanna anche a non esser mai soddisfatti del luogo in cui si è, e dunque a non esserci mai, interi.
Ed eccolo qui allora, fermo sulla sua barca, anch’essa sospesa, fra il cielo e la profondità delle acque su cui è posata. Scorre le lenti su quel che vede, come se di lì, e non da una sua decisione, dovesse emergere, staccandosi dal resto, la parte che le sue matite e poi i suoi pennelli ritrarranno. Ecco, appunto: trarranno, tireranno fuori da quel che c’è intorno.
È in quel momento che vede un brillio, a una finestra…
da Vertigine:
Due sorelle è il titolo del breve romanzo che Adalbert scrisse ventitré anni fa. Aveva allora quarant’anni precisi, ed ora non è più. La sua vita, giunta ai sessantatré, non ha più avuto domani. Per sua stessa risoluzione.
Solo ora mi sono deciso ad evocare la vicenda da cui il racconto di Adalbert prese origine, e così facendo mi pare d’aver dato voce al presentimento che, sull’onda del senso di congedo che pervade quelle pagine, era affiorato in me sin dalla prima volta che le avevo lette.
Ma sopra tutto mi sono liberato del peso che mi gravava per avergli promesso di serbare il segreto che avvolge quel suo racconto. Un racconto che mi è sopra tutto caro, a dispetto che molti l’abbian ritenuto ineguale ai risultati che l’arte di Adalbert talora raggiunse. Di contro, altri – da contarsi tra gli estimatori del lago che nella narrazione compare e che notoriamente ha il potere d’attrarre su di sé un’affezione tale da sfiorare la devozione – tengono in gran conto quest’opera. Non tanto per il suo valore tuttavia, ma perché fondatamente ritengono miracoloso, ed enigmatico, che l’autore abbia saputo trasfondere nella pagina la bellezza ineffabile di quei paesaggi pur senza averli mai veduti. (…) Ebbene, occorre innanzitutto sapere che l’amico grazie
al quale Adalbert sostiene – nel Prologo al suo scritto – esser venuto a conoscenza della vicenda, altri non era che il sottoscritto, Alois Sauer (anche se le regole della finzione consigliarono al narratore di celarmi sotto il nome di Otto Falkhaus). Ma di più, e qui sta il segreto di cui dicevo: non fui affatto io a raccontare a Adalbert quel che era avvenuto laggiù, essendo che quel che in realtà io feci fu semplicemente di accompagnarlo in quel viaggio, dato che lui su quel lago ci andò, ed io non fui che il testimone di quel che là accadde, ossia del suo repentino mutamento di volere, d’un improvviso tornar sui propri passi che mi sorprese ma al tempo stesso non poté risultarmi nuovo del tutto, avendo io a lungo frequentato l’uomo.
da Beniamini della vita
Sul finire dell’estate del 1844, giunto al ventisettesimo anno della mia vita, sull’onda del mio amore per l’opera di Johann Wolfgang Goethe e in ispecie della mia lunga frequentazione del suo Italienische Reise – la cui prima parte era stata pubblicata nell’anno stesso in cui vedevo la luce – presi la risoluzione di andare, da Verona, la città nella quale risiedevo, al paesello di Malcesine, sulla sponda orientale del Benaco. Non mi era sconosciuta quella plaga, e in quello stesso paese mi ero recato altre volte, senza mai tuttavia darmi ad una metodica perlustrazione dei luoghi che il Poeta aveva percorso. La speranza d’incontrare alcuno che avesse conservato memoria di Lui, debbo ammettere, la vinceva sull’incertezza estrema che ciò riuscisse possibile,
stante che erano trascorsi ormai quasi sei decenni da quando Goethe era stato là. L’esser Lui scomparso solo dodici anni prima e, ripeto, la familiarità con la sua persona, guadagnata attraverso la lettura pressoché quotidiana dei suoi scritti, teneva viva tuttavia quell’aspettativa.
Avrei potuto giungervi anche per la via del lago, come Lui. Ma qualcosa, forse il timore d’una sorta d’irriverente emulazione, mi trattenne dal mettermi nella condizione di vedere il paese, e il suo castello, allo stesso modo in cui il Poeta li aveva potuti contemplare dalla barca, e fin ritrarre, prima che il vento contrario l’investisse costringendo i rematori all’approdo.
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Recensioni
Dal Corriere della Sera dell’11 agosto 2016.
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Da Giornale di Brescia del 27 settembre 2016.
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Da Bresciaoggi dell’8 ottobre 2016.
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