Luoghi cose musei / La fabbrica nel territorio, nel paesaggio, nell’immaginario. Note sul caso bresciano

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(il testo è tratto dal catalogo della mostra CapoLavoro. Arte e impegno sociale nella cultura italiana attraverso il Novecento. Museo Santa Giulia di Brescia 10 ottobre 2014 – 10 dicembre 2014, a cura di Mauro Corradini e Fausto Lorenzi, Roma, Ediesse, 2014)

1. La Cartiera Avanzini, nella Valle del Toscolano, in un’incisione degli anni Trenta dell’800
1. La Cartiera Avanzini, nella Valle del Toscolano, in un’incisione degli anni Trenta dell’800

Il ritardo che segnò la comparsa della grande industria in Italia fece sì che nel nostro paese la grande trasformazione si avviasse in un periodo nel quale la tendenza artistica dominante si stava ormai orientando in una direzione poco propensa ad ammettere la fabbrica fra i soggetti della pittura, mentre erano del resto quelli tradizionali che il gusto diffuso, e il mercato dell’arte, continuavano a prediligere: le ragioni addotte per spiegare la scarsa presenza dei luoghi del lavoro industriale nella pittura italiana possono probabilmente essere trasferite in qualche misura al caso bresciano.

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Pensiero del Presente / L’ingiusta distanza. Notizie dall’Africa

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Al confronto, orientarsi fra sunniti e sciiti, e nelle nuove strane alleanze nei paesi arabi è facile. Noi, lettori di giornali e spettatori di tg, capiamo poco o niente, invece, di quel che succede in Africa, e quando succede di incontrare qualcuno che c’è stato e ne parla dunque per esperienza diretta, l’impressione di un’insormontabile difficoltà a metter ordine in quel che ci viene raccontato prevale. Soprattutto quando chi riferisce quel che ha visto non è né un turista né un volontario che per uno o due mesi si è aggregato a un’iniziativa umanitaria o a una missione. Quando si tratta di una persona che là ci sta stabilmente, da anni, è l’immagine di un mondo complicato all’inverosimile, il senso di una diversità incolmabile rispetto a quel che conosciamo, che ci si riversano addosso, e ci fanno d’improvviso sentire il nostro tremendo ritardo o, per meglio dire, l’estraneità, l’astrattezza, l’approssimazione di quel che credevamo di sapere dell’Africa.

E’ quanto mi è capitato parlando con *** (“non scrivere il mio nome, non mi interessa: faccio il mio mestiere come uno lavora in banca o insegna a scuola…”). Bresciana, sociologa (laurea a Trento poco più d’una ventina d’anni fa), e ora funzionaria Onu. Tredici anni di lavoro. In Kosovo, Costa d’Avorio, Iraq, Sud Sudan, e oggi nel Nord Kivu, una provincia – ricchissima di minerali – della Repubblica Democratica del Congo che confina con Uganda e Ruanda.
Funzionaria è però termine generico. Lei è una delle migliaia di peacekeepers. Peacekeepers: donne e uomini il cui intervento è finalizzato a “mantenere la pace”. Questo significa peacekeeping, secondo la definizione data dall’Onu stessa: “un modo per aiutare paesi tormentati da conflitti a creare condizioni di pace sostenibile”. Da non confondersi dunque, i peacekeepers , con gli esportatori di democrazia. Non fanno notizia il “disarmo e reinserimento di ex combattenti” ossia, in concreto, il cercare di convincere i guerriglieri dei vari eserciti irregolari a disertare. A tornare a casa, perché la maggior parte di loro vengono da altri paesi. Fra quelli dell’M23, uno dei tanti gruppi combattenti – è anche con quelli che l’unità cui appartiene la mia interlocutrice ha a che fare – ci sono ruandesi e ugandesi, ad esempio. Un lavoro di moral suasion si potrebbe allora definire il suo? No, non lo definirebbe così ***, perché non sono discorsi generali, di principio, che si rivolgono a queste persone. Li si invita piuttosto a badare a quel che conta, a riprendersi la loro vita, atornare a casa appunto, promettendogli l’aiuto necessario, portandogli le prove che altri hanno scelto di farlo e ci sono riusciti e adesso stanno bene, si fa per dire.

La ascolto mentre mi spiega che hanno quindici siti dislocati nel Nord Kivu, accanto alle basi militari ONU – è qui che i guerriglieri che vogliono disertare possono farlo in sicurezza – e usano cinque radio mobili, dalle quali trasmettono messaggi ai guerriglieri, nelle varie lingue locali. Poi mi mostra il video, realizzato artigianalmente, di un altro tipo di azione: il lancio di volantini dall’elicottero. Sorvolano zone montuose e verdissime, in cui la vegetazione è interrotta qua e là da villaggi che la distanza – per quanto l’elicottero voli a bassa quota – fa somigliare a villaggi vacanza (saranno i bungalow. o quelli che tali i sembrano, o il paesaggio invitante in cui sono immersi, ma l’impressione è quella). I volantini sciamano verso terra e si vedono ragazzi che corrono a raccoglierli, come si faceva, bambini della colonia marina, quando sopra la spiaggia passava l’aereo della pubblicità del dentifricio. I guerriglieri no, non si vedono: sono dentro quel verde che attornia i villaggi, ma ce ne sono anche mescolati ai civili. Non si lasciano vedere comunque, e però quei volantini li leggeranno: migliaia di loro hanno già disertato.

Ma come si è arrivati a una situazione del genere? Inevitabile chiederlo, ma ecco che di nuovo la confusione, che mi pareva di aver un po’ superato in quel racconto di messaggi radio lanciati nel fitto della foresta e in quelle immagini colorate di luoghi e persone, torna a dominare. Vicende di alleanze e tradimenti, di generali e dittatori che si fan fuori l’un l’altro, di eserciti che spuntano dal nulla, di scontri ed eccidi di cui non si riesce a fissare la successione mentre ancora te ne parlano.

Credevi di sapere qualcosa dei posti dove *** e i suoi compagni lavorano perché ti erano rimaste impresse le immagini di Hotel Ruanda, il film sul genocidio perpetrato dalla maggioranza Hutu sulla minoranza dei Tutsi (un milione di morti, nel ’94). E ti accorgi che quella tragedia non è finita. Perché fra i guerriglieri dell’M23, che combattono contro l’esercito regolare della repubblica congolese ci sono molti Tutsi: figli e nipoti dei trucidati di vent’anni fa, e a quanto pare è il Ruanda soprattutto ad armarli. Ma c’è anche la milizia Hutu delle FDLR. Sono una ventina i gruppi armati attivi nel Nord Kivu. E allora lo sforzo è quello di convincerli a smettere, sforzo contestuale all’intervento militare nel Congo orientale deciso dall’Onu nel marzo dell’anno scorso e finalizzato non solo a proteggere i civili, e gli stessi peacekeepers, ma anche a neutralizzare i gruppi armati.
Credevi che bastasse qualche foto di bambini soldato per avere un’idea della violenza che si vive là, e invece ti rendi conto, adesso, che cosa significa che molti di quelli che cercano di attraversare il Mediterraneo fuggono dalle guerre e che il viaggio sul barcone, che approdi a Lampedusa o invece finisca prima, è stato preceduto da un altro viaggio, altrettanto inimmaginabile, per fatica, costi, rischi: il viaggio per arrivare al nostro mare partendo dall’interno del continente.

Dopo l’incontro con *** leggo con altri occhi gli articoli che parlano dell’Africa, e li leggo fino in fondo. Tanto più che, nel frattempo, le notizie sono purtroppo aumentate, per via di Ebola: “all’abisso già esistente fra l’Africa e il resto del mondo che ci ha reso insensibili davanti alle stragi del Mediterraneo – ha scritto Adriano prosperi su “La Repubblica” del 9 ottobre – oggi si aggiunge la minaccia di abissi anche più profondi all’interno delle nostre società e dei nostri rapporti umani abituali. Excalibur – il cane dell’infermiera spagnola Teresa Romero contagiata da Ebola, abbattuto l’8 ottobre – può essere la prima vittima di un esperimento assai più vasto.”

Un esperimento il cui presupposto è forse già un dato di fatto: “C’è una chiara tendenza a depennare come casi da cestinare parti del mondo, quali l’Africa occidentale e quella centrale”. Lo afferma Stanley Cohen, studioso degli Stati di negazione (come si intitola il suo libro, in Italia pubblicato da Carocci nel 2002, sottotitolo: La rimozione del dolore nella società contemporanea). La mancanza di informazione non spiega tutto, anzi: “alle persone, alle organizzazioni o ad intere società sono fornite informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale perché siano interamente assorbite o apertamente riconosciute. Pertanto tale informazione è rimossa, negata, messa da parte, re-interpretata. Oppure essa viene sufficientemente ‘registrata’, ma le sue implicazioni – cognitive, emotive o morali – sono evitate, neutralizzate, razionalizzate”. E così che alle notizie su diverse realtà – come l’aumento evidente della povertà anche nelle società occidentali, o il riscaldamento del pianeta con le sue conseguenze più manifeste, o il disastro dell’Africa appunto – “la gente reagisce come se non sapesse quello che sa.”
E “sapere e non agire è non sapere”, ricorda Cohen riportando un antico detto cinese.

La forma e il volto della città / Le casére dei Mercati generali: una sentenza di morte

Una foto aerea delle Casére
Una foto aerea delle Casére

L’abbandono dell’idea di una sede unica per gli uffici comunali e del progetto dell’edificio spettacolare progettato da Libeskind negli spazi degli ex Magazzini Generali, fra via Dalmazia e via Don Bosco, sembrava avesse aperto spazio per nuove idee, un anno fa, o alla ripresa di ipotesi che erano già state avanzate pochi anni prima. Come quella di un auditorium: già attorno al 2006 si era pensato (ed era lo stesso LIbeskind l’architetto coinvolto) che ad ospitarlo potessero essere le casére, i grandi capannoni in cotto che dagli anni ’30 avevano ospitato decine di migliaia di forme di formaggio. Non era un’idea strampalata: a Parma, in uno stabilimento dismesso dall’Eridania, Renzo Piano ha realizzato appunto un auditorium, ricordavano Giovanni Comboni e Elena Franchi nel settembre 2013 su questo stesso giornale.
Solo un mese dopo, però, dell’idea non restava traccia. Dall’incontro fra l’Amministrazione comunale e la società proprietaria dell’area usciva una nuova definizione della destinazione del luogo: un nuovo centro commerciale, residenze (in buona parte edilizia convenzionata) e uffici.

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Un giallo nella Gavardo del 1238

Recentemente, nel mondo della critica letteraria è emersa l’idea che per ridare vitalità e credibilità a una letteratura sempre meno capace di incidere su un immaginario collettivo colonizzato e omologato dai media sia consigliabile tornare al romanzo storico: strumento, paradossalmente, per catturare l’attenzione di chi vive oggi.
Altri hanno invece ravvisato la stessa potenzialità nel giallo, o nel noir, nel quale ravvisano una sorta di romanzo sociale della nostra epoca.
C’è chi – a volte avvalorando teorie simili, altre semplicemente ascoltando la propria voglia di scrivere, di raccontare – ha fatto convergere i due generi, e ha scritto romanzi gialli ambientati nel passato, ed è E’ Il nome della Rosa di Eco, naturalmente, che viene innanzitutto in mente.
Più recentemente, una novità si può rilevare nel fatto che come protagonista, come detective, si sono scelti personaggi d’eccezione. Niente meno che Aristotele è l’investigatore dei romanzi di Margaret Doody, una scrittrice canadese: alla fine degli anni settanta il paio di racconti che aveva pubblicato avevano avuto così poco successo da indurre la Doody a lasciar perdere, ma nel 1999 i due volumi sono stati ripubblicati in Italia, da Sellerio, riscuotendo grande consenso di pubblico e di conseguenza la scrittrice ha ripreso la serie con nuovi racconti nei quali Aristotele mette la sua logica ferrea al servizio dell’indagine, in ciò assistito da un tale Stefanos, secondo il collaudato schema per cui non c’è uno Sherlock Holmes senza il suo Watson (come del resto nel Nome della rosa).
Seguendo l’esempio della Doody, sia pure con esiti meno brillanti, un’americana, Diane Stuckart, ha fatto indossare l’abito del detective a Leonardo da Vinci.
Albertano da Brescia. Magistrato e uomo di lettere, non ha certo la statura di Aristotele o di Leonardo, ma l’avergli assegnato attitudini e capacità di investigatore collocano in questo filone un recente romanzo di Enrico Giustacchini (Il giudice Albertano e il caso della fanciulla che sembrava in croce, Brescia, Liberedizioni, 2014), che tuttavia può vantare tratti indubbi di originalità rispetto ad altre prove del genere.
A partire dalla decisione dell’autore di non tenere per sé la natura dei documenti che gli hanno permesso di ideare la sua storia: due registri d’inventario della Mensa vescovile che danno la possibilità di restituire la fisionomia dei luoghi e dei loro abitanti. Di restituirla ma, allo stesso tempo, anche di immaginarla, perché dei documenti l’autore di romanzi storici si deve liberare, dopo essersene servito. Deve immaginare, appunto, pur sempre entro i confini del verosimile, e l’occuparsi di un’epoca come quella medievale di sicuro favorisce questo rapporto col documento: ce lo ha ben spiegato uno storico come Georges Duby, che nel suo Il sogno della storia dichiarava apertamente come la ricostruzione storica sia frutto anche di immaginazione e come l’immaginazione possa dare il suo contributo essenziale quanto più i documenti sono scarsi, lacunosi. Se questo è vero per lo storico rigoroso lo è tanto più per il romanziere, libero di forzare il documento e di colmare vuoti.
Giustacchini non vuole però abusare di questa libertà, o meglio: ne vuole rendere esplicite le condizioni, e i limiti. E dunque – avverte nell’introduzione – “coloro che lo desiderano potranno fruire, in appendice al volume, di un repertorio di notizie, citazioni, rimandi” con “la raccomandazione di accostarvisi però solo dopo aver terminato il romanzo”. Perché è appunto la logica del romanzo che deve prevalere, con tutti i suoi artifici. Artifici che l’autore usa con padronanza, mostrando in primo luogo la capacità di entrare nella testa del protagonista e di far conoscere al lettore i suoi pensieri ricorrendo all’espediente di introdurre un altro personaggio, sapendo che questo dovrà però essere all’altezza del protagonista, un intellettuale, per cui quest’altro personaggio dovrà possedere gli strumenti per capirlo e se del caso contraddirlo. Ecco allora Berengario (non a caso, un medico: come Watson, anche se lo schema della coppia genio dell’indagine-compagno che gli fa da spalla in questo romanzo non risulta dominante).
E come dire del contesto, della scena che fa da sfondo agli avvenimenti e ai discorsi dei personaggi? Usando il punto di vista di questi ultimi, mettendo in bocca a loro i cenni descrittivi, attribuendo a loro il compito essenziale di farli vedere, i luoghi, e non arrogandosi il privilegio scontato, e stucchevole, del narratore onnisciente. E le vicende storiche pregresse: come renderne conto? Spesso nei romanzi storici il raccontarle crea uno stacco sgradevole, un cambio di registro che fa venir voglia di saltare qualche pagina per ritrovare lo svolgersi della trama vera e propria. L’alternativa, scelta da Giustacchini, sta in brevi flashback, introdotti sempre in modo motivato laddove la trama lo richiede ( “L’imperatore, Albertano l’aveva visto una volta sola (…) era avvenuto a Bologna”, e poi, a due pagine di distanza: “Diciott’anni dopo, Albertano si chiedeva se avrebbe rivisto Federico”). Flashback – analessi – ma anche prolessi, anticipazioni: “Albertano meditava di scrivere un libro sul tema della consolazione e del perdono”, quel Liber consolationis che non a caso sarà un “trattato morale ma insieme il racconto di un delitto”. Lo stesso libro di cui l’autore costella il racconto con brevi estratti che marcano le tappe salienti della storia. Che segnano il testo di rimandi a un ipertesto, si potrebbe dire.
Ma veniamo al protagonista, Albertano. Conosciuto come uomo dall’intelligenza e dall’acume proverbiali, non smania tuttavia per mettersi a far ricerche e non sembra entusiasta di doversi occupare di un delitto. Se si lascia convincere dal gastaldo ad occuparsi del caso della morte di Jacoma è perché la ragazza, brevemente incontrata, l’aveva affascinato ricordandogli, con la sua bellezza e il suo profumo, “la stagione vibrante della gioventù”. Del detective ha comunque la stoffa. Ne ha l’intuizione (“Hai mentito, caro il mio ragazzo”, dice fra sé dopo aver ascoltato uno dei personaggi, Lucio Frere), ma ha anche l’atteggiamento che conosciamo ad altri investigatori: non a Holmes, ma piuttosto a un Maigret: Albertano lascia che nella sua anima “(si insinuino) mille e mille dubbi” e non disdegna affatto ma accoglie come un dono il fatto che l’intuizione gli venga da un sogno, un dono che Albertano sembra voglia lasciar libero il lettore di stabilire se venga dal buon Dio, come provvidenziale illuminazione, o dal lavorio di una mente raziocinante.
Oltre a questi, il protagonista è contraddistinto da tratti che si intuisce condivisi dall’autore: il disincanto per esempio, che si manifesta nel modo di fare di Albertano, ma anche nei suoi pensieri più profondi (“tutto ha un fine e tutto finirà. Il tempo perderà il suo significato e tra la vita effimera di una lucciola e quella del firmamento, proseguita immutabile dal quarto giorno della creazione, non vi sarà più differenza”). Non si tratta di una questione di poco conto: un personaggio è vivo e credibile quando l’autore in certa misura gli aderisce. L’identificazione dello scrittore col suo personaggio è condizione dell’identificazione e quindi del piacere del lettore, fatto anche e forse soprattutto di risonanze fra sé e quel che legge. Ed ecco allora, oltre al disincanto, la sobrietà dell’espressione (carattere decisivo in un uomo che avrebbe scritto un’opera intitolata De arte loquendi et tacendi). Una sobrietà che fa tutt’uno con una razionalità non fredda, sillogistica (come quella di Holmes), ma fatta di comprensione degli altri. Una razionalità che ammette piccole abitudini che di razionale hanno poco (mi chiedo se anche l’autore abbia l’abitudine di scarabocchiare i margini dei libri che legge con disegnini fanciulleschi come faceva Albertano e molti di noi fanno).
E infine, un altro tratto distintivo, che costituisce un carattere di fondo di questo romanzo: una certa fiducia, negli uomini, in generale, e dunque anche nella capacità del lettore di accostarsi e di gustare una vicenda non semplicemente complicata nell’intreccio ma, anche, densa di rimandi culturali: l’alchimia, ad esempio, o la complessa rete di allegorie che caratterizzava il pensiero medievale, anche queste introdotte senza cadere nel didascalico ma come riferimenti necessari alla svolgersi della trama e introdotti con naturalezza attraverso il dialogo dei personaggi.

La pazienza di vivere. Storia di Andro

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Andrea Spada (Andro), di Schilpario in Val di Scalve, racconta una storia della montagna, una storia di boschi, carbonaie e miniere. E insieme la storia di un amore coniugale e poi di una vecchiaia che, segnata dalla perdita, impone la necessità di un bilancio esistenziale e offre riflessioni che vanno oltre la vicenda personale.
Dopo un’infanzia di fame, conosce la miniera, a dodici anni; è poi carbonaio e boscaiolo con la passione del bosco e in seguito di nuovo minatore, con la passione della miniera; infine operaio e capocantiere. Le risorse cui Andro ha fatto appello in tutta la sua vita non sono mai venute meno: la passione,  per il lavoro imparato da altri che lo facevano prima di te ma che poi sei tu a poter decidere come fare, e la pazienza: “staremo a vedere”, è l’intercalare che cadenza il racconto di Andro.
La passione appartiene certamente a un’altra vita, ormai passata: “quel che è perso è perso”. Ma la pazienza no: è ancora la pazienza a guidare il cammino dell’ottantaquattrenne Andro. La pazienza di vivere.

I brani  che seguono sono tratti  dal resoconto delle mie conversazioni con Andro, e dai suoi diari.

Sì, certo: nei boschi ci vado ancora, delle volte… Ma a fare cosa?
Andro, boscaiolo e carbonaio prima che minatore, lascia cadere questa frase nel salutarci. Gli avevo chiesto come passava la giornata, adesso che era solo.
Le sue parole mi restano in mente: non è solo pena per una solitudine che sembra sconfinare nel disorientamento. In quell’immagine di lui che non trova più – nei boschi che ci sono intorno al paese, appena fuori dalla sua porta – quello che lo chiamava prima, quando a casa c’era Francesca, sento il nocciolo di una storia. La storia di un uomo che poteva aver pensato che le fatiche e i dolori appartenevano a epoche precedenti della sua esistenza, che erano finiti, e che invece si ritrova, a quasi ottant’anni, a dover ricominciare. A fare i conti con la vita. Con il suo tempo, i suoi giorni.
Quasi ottant’anni: non lo si può credere vedendolo, ascoltandolo parlare, rispondendo alle sue domande. Perché Andro ti chiede, si ricorda di cose che gli hai detto l’ultima volta che l’hai incontrato, magari un anno prima. E ascolta. Ascolta volentieri: cerca in quel che dici cose che sa anche lui, che ha sperimentato o in qualche modo lo riguardano, e con i suoi cenni di assenso, con i suoi laconici ma convinti certo, certo, ti invoglia a dirgli altro di te. E ad ascoltarlo a tua volta, poi. A guardarlo mentre racconta, sommesso, lento, e sottolinea i passaggi più significativi con un’espressione come di sorpresa, e un brillio degli occhi.
Quasi ottant’anni non li dimostra proprio l’uomo che mi aspetta lì sul ponte in mezzo al paese. Anche altre volte che sono venuto a Schilpario, e l’ho avvertito dell’ora in cui sarei arrivato, l’ho trovato lì a guardare il fiume, sempre rivolto verso valle.
Andro è uno di quelli che l’acqua la guarda andarsene.

L’ho saputo dopo che era morta, nel gennaio del 2007.
(…)
È stato la prima volta che l’ho rivisto che mi ha detto quella cosa: che nei boschi ci andava, ma non sapeva più a far cosa. Ma solo in seguito ho capito che una storia così io la conoscevo già, anche se il protagonista era più giovane, si chiamava Guglielmo, ma anche lui faceva il boscaiolo, e anche se non era carbonaio sapeva come funzionava un puiàt, perché ne vedeva spesso, fumanti, sulle stesse montagne dove lui e i suoi compagni stavano a fare il taglio del bosco. Non tanto lontano da dove altri lavoravano in miniera.
L’avevo letto molti anni prima il libro di Carlo Cassola, e mi era rimasto in mente quel che ci avevo trovato: che la malinconia, quella profonda, quella che ti fa sentire diverso dagli altri, e che ti fa credere che la vita è quella lì – non quella di prima, quando stavi bene – non è il privilegio, o il vizio, di chi non lavora con le mani.
È passato quasi un paio d’anni, e un giorno Andro, mentre mangiavamo polenta col salmì di capriolo, l’ultimo capriolo ucciso da lui – “basta con la caccia, ormai sono troppo vecchio” – mi ha spiegato come stava, cosa gli era successo: “la salute va meglio, e appetito ce l’ho, eccome, anche se dopo che mi hanno messo i baipàs e tutto il resto che ho passato dicono che dovrei mangiare il pesce. Pesce, pesce: sì va be’, una trota di qui magari, ogni tanto, ma a me piace il formaggio, e la pastasciutta. Però non è mica lì la faccenda. Non è la salute. È che adesso se non la apro io la porta la mattina, e la chiudo la sera, non la apre né chiude nessuno. Questo è il fatto. Me l’avevan detto che era brutto, ma non credevo che fosse così”.
Ho la casa fuori del paese, racconta al Guglielmo del Taglio del bosco un vecchio carbonaio, anche lui vedovo da poco: e, se un giorno mi prende male, nessuno se ne accorgerà (…). E poi sono pieno di dolori, e non ho chi mi faccia il massaggio (…). Non c’è nessuno che mi aspetta (…). Questa è tutta la differenza fra la mia vita di prima e quella di ora.
Anche nella vita di Andro si sono creati un prima e un dopo, e lui vive nel dopo. Un dopo che l’ha a lungo confinato in uno stato nel quale giorni e stagioni sembravano scorrere uguali, con una lentezza che sembrava abolire il tempo. Un vuoto che non è però rimasto immobile e identico a se stesso. Qualcosa è andato cambiando anche in quel periodo. La voglia di vivere non si è estinta.

“Sì. Qualcosa mi era già capitato di scrivere, la prima volta che mi hanno ricoverato. Poteva essere nel ’70, lavoravo ancora: ero capocava a Zogno. Avevo avuto uno scompenso cardiaco. Mi hanno ricoverato a Seriate. Ho scritto quello che si faceva nella giornata, per 10 o 15 giorni. Chissà dove sono andate a finire quelle cose lì…
Dopo, quando sono uscito dall’ospedale basta. Non ho più scritto. Cioè, solo robe di lavoro: essendo capocava dovevo scrivere delle relazioni. Non scrivevo tanto bene comunque scrivevo.
Poi sono andato in pensione e non ho più scritto, fin dopo la morte di mia moglie e tutte quelle malattie chemi sono capitate: mi sembrava di sollevarmi un po’ dal dolore se scrivevo. Non so perché. Magari piangevo anche intanto che scrivevo, ma mi faceva bene. Non le ha lette mai nessuno queste cose”.
Si tratta di un diario, che segue giorno per giorno gli stati d’animo ancor prima che gli avvenimenti. Anche questi annotati nel dettaglio, ma sempre in riferimento stretto con l’effetto che essi hanno sulla malinconia che rende le giornate uguali fra loro, immerse come sono in un tempo che sembra bloccato.
È la cronaca di una sofferenza che per mesi riempie la vita, raccontata da chi la sta vivendo.
Tentarne una sintesi significherebbe ridurla al profilo scarno e insapore di una vicenda in sé non rara né tantomeno eccezionale, rendere neutri i tratti che ne fanno invece una storia. Un nuovo capitolo della storia di Andro.Il più recente, per molti versi non concluso. Conviene allora seguirne l’andamento affidandosi alle parole di Andro stesso, al suo racconto. Monotono, non di rado ripetitivo, proprio perché fedele allo stallo doloroso nel quale la vita sembra essersi incagliata.
Anche nella scrittura si avverte infatti la perdita di naturalità con la quale ordinariamente si vive la successione dei momenti. Non si susseguono, qui: si giustappongono. Come cose.
C’è un solo tempo di vita: un presente indistinguibile da un passato che non passa.
Alcune delle situazioni di cui Andro riferisce, anche le espressioni che usa, mi richiamano alla mente cose lette in libri che riferiscono di esperienze nelle quali non si è cercato di spiegare il dolore, la depressione, con il definirne caratteri ed eziologia, ma ci si è posti il compito di comprenderli, mettendosi dalla parte di chi soffre. In queste pagine non si trovano però soltanto squarci di descrizione del proprio stato d’animo simili a quelli che a volte i testi dei colloqui clinici riportano. È un racconto conseguente, stringente anche se sommesso, quello che giorno per giorno Andro scrive, tristemente meravigliato di quello che gli accade di vivere. Mai risentito. Allarmato spesso, mai sdegnato per quel che gli tocca.
Andro scrive, senza darsi pensiero delle ragioni e degli scopi per cui lo fa, motivato solo dal sollievo che la scrittura gli dà, a partire dal febbraio del 2008, quando tutto è già avvenuto.

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Recensioni

Dal Corriere della Sera-Brescia del 9 gennaio 2014.
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Costruire la vita. Una storia gardesana

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La storia gardesana che si racconta in queste pagine è la storia dell’incontro e poi dell’amicizia con Giacomo Usardi, un olivicoltore di Toscolano Maderno, nata nel periodo in cui si dava avvio al recupero di un’area posta alle spalle dello stesso paese, la Valle delle Cartiere.
I brani che di tanto in tanto interrompono la testimonianza di Giacomo danno conto del percorso che ha via via permesso di cogliere la singolarità e il valore della sua esperienza e della sua cultura.
La vicenda di Giacomo si svolge a partire dalle origini contadine per approdare, dopo l’esercizio di altre professioni e un’ininterrotta passione sportiva, a un’attività nella quale le finalità economiche convergono con quelle ambientali e sociali. Il recupero di terreni alla coltura più caratterizzante dell’area, l’uliveto, si risolve infatti non solo in un contributo sostanziale alla salvaguardia di un paesaggio segnato dalla squilibrio creatosi tra la fascia costiera e l’entroterra,  ma anche nella possibilità di offrire nuove possibilità a giovani in difficoltà.

I brani che seguono sono tratti dal racconto di Giacomo.

Il mio sogno preferito è sempre stato quello di volare. Mi buttavo, e stavo su. Volavo.
Quando li facevo da giovane, delle volte, erano anche sogni brutti: sognavo che mi inseguivano, volevano prendermi, e io via: mi buttavo giù e volavo.
Oppure volavo e andavo a salvare qualcuno.
Volavo su Toscolano. Da Gaino, dal monte sopra Toscolano. Era sulla mia zona che volavo. Magari succedeva, nel sogno, che i miei amici venivano giù per andare a lavorare, alla Cartiera, e io gli passavo sopra a volo, scherzando, ridendo.
Però mi è capitato di volare anche sul lago, sull’acqua. E anche su in alto, verso il Pizzocolo.
Sarà un mese fa che ho sognato ancora di volare: sono stato contento tutto il giorno, dopo. Perché era un po’ che non sognavo più di volare. Mi sono alzato la mattina felice proprio, perché avevo fatto un sogno… come una volta.
E’ una cosa meravigliosa.

Andavo in giro. Guardavo. Quando vedevo un terreno abbandonato facevo la mia proposta al padrone. Se ci fosse qualcun altro che fa la stessa cosa ci sarebbe un servizio ambientale straordinario, per tutti, e un reddito, nello stesso tempo.
(…) Io posso dire che è stato questo lavoro che mi ha permesso di sviluppare tutte quelle passioni che prima non potevo avere. Non si può avere passioni se devi essere sempre da qualche parte. Io adesso trovo il tempo che voglio io. Perché sono senza padrone. Un uomo libero.

(…) quando si parla di amore di solito si intende quello fra un uomo e una donna, ma si dimentica che questo amore diventa meno… pesante, se cresce l’amore per tutto quello che incontri, che vedi: l’amore è una cosa grande. E’ la vita, l’amore: riconoscere che tutti quelli che incontri sono tuoi fratelli. Se ti chiudi tu e la tua donna è un amore rovinato: non hai capito niente. E’ difficile spiegarlo a una donna: io sono innamorato di te, ma sono più innamorato se insieme a te vivo tutte quelle passioni che posso vivere per esempio quando mi trovo in Camerate, o sul Pizzocolo. Se due persone si amano, ma fuori dalla loro porta non hanno passione per niente, non c’è amore neanche fra di loro.
Ecco perché oggi vivo meglio che qualche anno fa: sento un’apertura verso qualcosa che non è legato solo a me e a mia moglie.
(…) Forse la gente ha paura, e non fa nessuno sforzo per cambiarsi. La gente se ne vuole poco di bene: credono di volersi bene perché si pitturano, si mettono il vestito di marca, cambiano la macchina. Più la macchina che hai è bella e più sei attraente.
Chi si vuole bene davvero non è che mette fuori il manifesto. Lo vedi dal comportamento che ha, e dalla volontà di cambiare.
(…) Io ho cominciato a pensare queste cose quando mi sono messo a passare il tempo in campagna, nel bosco, nel silenzio… In mezzo al casino non puoi avere passioni. Ma quando hai passato un periodo che hai pensato, in silenzio, allora anche nel casino ti mantieni così, le cose superflue non ti tirano più. Io non ne ho neanche uno rispetto a qualche anno fa ma ne ho abbastanza di avere quello che mi occorre, di essere in salute, di lavorare. Sono contento quando lavoro.  Non mi interessa di avere la macchina tutta rotta, cerco di farla accomodare quando posso. Lavoro per avere quello che mi occorre. Il mio reddito è composto da quel poco che vendo e da quello che non compro.
Questo cambiamento non l’ho fatto di colpo, ma giorno per giorno.  Stai fischiando e non lo sai neanche che lo stai facendo intanto che lavori. Senti la musica nella natura. L’aria, gli animali: suoni sempre diversi. A secondo di come ti senti psicologicamente puoi sorridere o sentirti colpito dall’emozione: perché la natura parla.
Senti la musica in mezzo al silenzio: non la suonano mica, ma la senti, dentro di te. E lì nasce la volontà, il pensiero, la voglia di vivere.
Respiri un’aria sana. Se ti viene da piangere piangi: ti emozioni e ti vengono anche le lacrime. Non ti vergogni. Forse è coraggio invece. Coraggio di aprire la propria esistenza: agli altri.
Quelli che dicono mi piace la natura e perciò  vado fuori dalle scatole, da tutti: non è mica quella lì la questione. E’ vivere dentro di sé ma apprezzando tutto quello che c’è intorno. Non isolarsi dagli uomini. Può andare bene un giorno o due se fai una vita stressata, ma non puoi immaginarti che stai benone perché non c’è più nessuno intorno. Dal giorno che sei da solo non sei niente: occorre vivere bene in mezzo agli altri. Far gli eremiti potremmo farlo tutti. Qualcuno ci riesce a farlo bene, ma io penso che il Padre Eterno non ci ha messo qui per essere da soli. Ci ha messo qui per essere in compagnia.
A me piuttosto tornano in mente tutte le persone sagge che ho conosciuto quando ero bambino. Adesso saggio è quello che è capace di parlare per un’ora con tutte le parole e le virgole giuste. Quelle che io ricordo invece erano persone sagge senza saperlo: amavano se stessi ma amavano tutti. Erano contadini, gente di montagna.

Io me ne sono accorto ancora quando ero giovane che la vita, così, non poteva dare serenità. Una volta avevano pochissimo: è brutto dire così ma… insomma, mio padre lavorava tanto ma quando aveva finito di lavorare era sereno. Aveva poco se non niente, però quando era nella sua casa non c’era più niente da pensare. L’unica cosa da pensare era di avere qualcosa da mangiare. E’ venuto dopo il grande cambiamento, che abbiamo tutto e di più ma ci manca quello che ci serve. Si corre si corre perché si vuole quel che non serve, si dà più spazio al superfluo che al reale.
Allora: che cos’è stato questo gran cambiamento che è venuto? Non è tutto da rifiutare, soprattutto per le ricerche, la salute e così via. Ma d’altra parte, noi uomini siamo al mondo per migliorare la nostra salute, e anche il nostro modo di vivere. O se no per quale motivo viviamo? Essendo che siamo intelligenti, dicono, il nostro scopo è vivere meglio, ma vivere meglio non vuol dire avere tanti soldi, avere tanto che non serve a niente. Vuol dire avere quel che serve, migliorare la salute, migliorare i rapporti sociali, riconoscere che siamo fratelli, cristianamente, come si dice. Ma fratelli di chi, che ci mangiamo uno con l’altro? Se si arriva a questo punto si è perso il senso della vita.
Adesso si muore più vecchi, allora aumentiamo gli anni di lavoro, dicono. Ma non è giusto morire più vecchi? E’ un principio sbagliato. L’uomo non è uno strumento da usare mano mano che la tecnologia avanza: ti do dieci anni da vivere in più e allora vai in pensione più tardi. Ma è naturale che l’uomo cerchi di star meglio e di vivere di più, e lavori anche, io sono d’accordo, ma se può lavorare di meno è meglio: ognuno diventando vecchio dovrebbe avere più tempo per sé.

Certo morire si muore, ma a me non fa paura. La vedo come una cosa normale.  Io sono contento della vita che ho fatto. E’ stata dura però è una vita che è cambiata. Perché la vita è sempre passare al di là di quello che ti può succedere. Bisogna sempre essere disponibili a andare al di là, perché domani non sarai quello che sei oggi.


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Recensioni

Dal Corriere della Sera-Brescia del 12 agosto 2012.
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Dal Corriere della Sera-Brescia del 9 dicembre 2020, Nino Dolfo rivisita la storia di Giacomo, protagonista del racconto-testimonianza di Carlo Simoni.
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Il segreto dell’arte

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La vicenda delle diverse generazioni di una famiglia di cartai di Toscolano Maderno, sul lago di Garda, incontra la grande storia in un arco di tempo che va dall’età napoleonica agli anni ’50 dell’Ottocento.
Costruita sulla base di una documentazione in gran parte originale, la narrazione corre su più piani e si ambienta in luoghi e situazioni tra loro diverse: il fervore di attività delle fabbriche di carta e il paesaggio della gardesana Valle delle Cartiere, gli intrighi dei palazzi della Milano napoleonica e i silenzi raccolti dei monasteri benedettini, riunendo in un intreccio avvincente avventure imprenditoriali, vicissitudini umane e inquietudini esistenziali.
Con questo romanzo si conclude il ciclo narrativo iniziato con
L’orizzonte del lago e proseguito con I tempi del mondo.

Quelle che seguono sono alcune pagine del Segreto dell’arte in cui compaiono alcuni personaggi – il monaco Bartolomeo, Clemente, che svolgono un ruolo essenziale nel romanzo – e il luogo in cui gran parte della storia si svolge: la Valle delle cartiere  a Toscolano, sul lago di Garda. Qui è ambientata la vicenda del cartaio Faustino Andreoli e della sua famiglia, fabbricatori della carta pregiata che il governo napoleonico richiedeva.

In un monastero dell’Appennino,
la mattina del 25 di Maggio del 1806

La luna si è levata poco dopo la metà della notte e illumina i monti e i boschi che ne ricoprono le coste.
Nessun suono traversa questa luce. Nemmeno quel di vento che frusci tra le foglie ancora tenere delle querce e dei castagni.
Apparirebbe inabitato questo mondo se bianche non si levassero sul manto scuro le mura del monastero, che brevemente interrompono ad un punto quell’immobile mare di fronde.
Solo la luna e le stelle muovono in questo silenzio compiendo il loro muto altissimo cammino.
Non turba la calma della notte la voce lieve d’una campana che presto s’acquieta, né i lumi che a tratti baluginano dietro le strette finestre della casa dei monaci.
Non si è dileguato il sogno che il novizio continua nel suo sonno di ragazzo. Ma i tre colpi sommessi che sfiorano la porta della sua cella lo tolgono dalla visione, che s’infrange allora e sprofonda fuori della sua memoria.
Ancora non è uso il giovane Bartolomeo a questi risvegli, che tali non sono per gli altri fratelli, già in attesa, ancor prima che giunga, del segno che la campana invia loro come crisma della loro vigilia: il dì ha inizio nel cuore della notte, le tenebre non sanno sopraffare la speranza della vita nuova che ciascun giorno dona a chi sa ogni mattina rialzarsi e riprendere il suo viaggio.
Ripensa a queste parole udite dal suo maestro, il novizio, e si guarda attorno alla luce fioca della lampada ad olio che arde sempre nella cella, senza togliersi di dosso la coperta e il coltrone, la testa ancora poggiata sul cuscino di crine.
I suoi occhi incontrano quelli piccoli e puntuti d’un topo che lo guarda cauto da un angolo, e poi con un prillo fulmineo scompare in una breccia tra muro e pavimento. Come avesse presentito il movimento dell’altro, che da quel guizzo appunto sembra trarre la risoluzione a levarsi.
Rabbrividisce il giovane nel suo saio, del quale, secondo Regola, non s’è spogliato: per esser pronti al segnale, vi si legge. Né s’è levato le calze di lana grossa. Stringe la cintura alla vita, calza i sandali, china il capo ad infilare la cocolla e, con gesto fattosi a lui quotidiano, scosta le ante della finestrella per veder le montagne. La neve, tornata ancora una settimana fa anche se si è giunti ormai alla fine di Maggio, resta sulle cime di quelle lontane, che chiudono la valle a settentrione.
Non sembra però che venga di là il freddo che fa alzare al novizio il suo cappuccio, bensì da quella luna chiara e lucente come uno stagno ghiacciato.
Il gelo ora entrato è però diverso da quello che prima era nella cella, ed entrambi lo sono da quel che incontrerà nella chiesa. Si diviene abili a discernere i diversi caratteri del freddo a viver nel monastero, dove solo la cucina, l’infermeria e la farmacia, e la residenza dell’Abate, sono confortate dal tepore d’un focolare.
Bartolomeo s’incanta a guardare la notte. Un belato gli giunge dall’ovile che sta entro le mura del monastero, e si ripete lamentoso, come a chiamare, ma ammutolisce all’abbaìo del cane che sta alla guardia degli animali.
Si affretta ora il novizio, ma nel corridoio s’avvede di non esser ultimo. Altri passi si attardano dietro a lui, e poco innanzi claudica lento Padre Anselmo, cui l’Abate l’ha affidato quando è entrato nella comunità. Ha ritegno a superarlo, né s’azzarda ad offrirgli sostegno: ne è stato redarguito quando l’ha fatto. Cammina dopo di lui, dunque, anche quando il vecchio monaco, nello scendere la scala notturna che li conduce alla chiesa, accosta le mani alla parete come a cercarvi appiglio.
Il suo stallo è l’ultimo, essendo lui novizio, ammesso solo per eccezione voluta dall’Abate tra i coristi. Lontano dall’altare dunque, e vicino al banco degli infermi, dove da qualche settimana prende posto Padre Anselmo.
Oltre quello alza gli occhi Bartolomeo, come ad ogni Mattutino, a salutare con un breve cenno fratello Michele, che siede tra i conversi, nell’altra parte della navata, più vicina al portale. È quegli l’ortolano a fianco del quale ha lavorato lunghe giornate a vangare, seminare, pulir delle erbacce, raccogliere, nei primi tempi della sua vita qui. La sua via era già segnata dai suoi nobili natali: sarebbe stato corista, monaco dedito solo a pregare, cantar in coro le lodi di Dio e studiare i Libri sacri. Ma quella strada neanche per lui doveva esser piana, e dunque la sua vocazione è stata messa lungamente alla prova. È stato allora che Bartolomeo – devoto ed insaziato cultore del sapere fin da quando aveva appreso dal suo precettore l’arte del leggere e dello scrivere, e perciò con tanto maggiore determinazione dal padre avviato, lui secondo genito, alla vita monacale  – ha conosciuto le gioie fin allora a lui ignote del lavoro delle mani nella terra greve e della fatica nell’aria mutevole delle stagioni. Ma è finito quel tempo, e il suo destino si sta compiendo: nelle lunghe ore di meditazione delle Sacre Scritture nella solitudine della cella, nelle ripetute salmodie innalzate in quella stessa navata ogni giorno coi confratelli, nell’infinito esercizio sulle pagine dei Testi tra i banchi dello scriptorium.
Signore, quanti sono i miei oppressori!
Molti contro di me insorgono
.
Le parole del Salmo di Davide si levano sotto le volte scure e la voce adolescente di Bartolomeo si distingue tra quelle gravi che l’accompagnano.
Molti di me vanno dicendo:
«Neppure Dio lo salva!»
Ma tu, Signore, sei mia difesa,
tu sei mia gloria e sollevi il mio capo.
Al Signore innalzo la mia voce
e mi risponde dal suo monte santo
.
L’immagine delle montagne innevate è rimasta negli occhi di Bartolomeo e si confonde ora con quel monte santo, gravando le palpebre d’un dolce abbandono, che il Salmo sembra assecondi:
Io mi corico e mi addormento
Un colpo alla spalla destra lo desta in un sussulto. Il monaco anziano, assolto il suo compito di non lasciar che il sonno interrotto riprenda i confratelli, è già oltre.
Il novizio raccoglie il libro che gli era caduto di mano e dalle parole che ode comprende quale sia il Salmo al quale ora vanno gli occhi degl’altri.
L’Eterno conosce i pensieri dell’uomo e sa che sono vani.
Beato l’uomo che tu correggi, o Eterno, e che istruisci con la tua legge…
Se l’Eterno non fosse venuto in mio aiuto, sarei presto finito nel luogo del silenzio

Quasi fosse stata la mano stessa di Dio a ricondurlo alla veglia, Bartolomeo riprende con rinnovato fervore la preghiera, e poi il canto del Gloria, e degl’altri Salmi, ascolta una lettera di San Paolo e intona infine il Kyrie, col quale il Mattutino ha termine.
Un breve lasso di tempo è concesso acché le necessità della natura possano aver corso. Per raggiungere le latrine i monaci escono nel chiostro. Al centro, il pozzo è ancora un’ombra nera, e solo non fissandovi lo sguardo, che altrimenti si perde nell’oscurità, si possono distinguere le macchie colorate dei fiori che l’attorniano.
Perché il cielo non è più scuro come prima. O lo è meno delle cornacchie che traversano il brano che il chiostro ne lascia scorgere. Il loro gracchiare sembra irridere al silenzio che i monaci rispettano in questo intervallo della preghiera, mentre pare l’accompagnino discretamente gli altri suoni che ora giungono. Sono gli uccelli, che ad annunciare l’alba fanno udire la loro voce.
A quella si unisce il canto delle Laudi che i monaci, adunatisi per la seconda volta nella chiesa, elevano al Signore.
Nel chiostro, la luce va mutando frattanto, e la valle tutta si bagna del chiarore rosato dell’aurora.
È già alto il sole quando i monaci escono dalla chiesa. Alle Laudi ha fatto seguito la Messa, col ricordo dei Santi di questo 25 di maggio. Beda, il venerabile e sapientissimo confratello, luminoso esempio per i monaci coristi, e Urbano, che sembra invece rivolgere il suo benigno insegnamento a quelli che tra i conversi lavorano la terra e ricordano che per Sant’Urbano il frumento è grano.
Morte e vita sono in potere della lingua, ammonisce il Padre che nella sala del Capitolo legge alcuni passi della Regola sulla virtù e il dovere del silenzio.
Facciamo come dice il profeta: Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone.
Ama il silenzio Bartolomeo, anche ora che, alla colazione, mangia il suo pane con un poco di brodo nel refettorio. Ama che solo il canto rompa il silenzio, quasi da quello soltanto si potesse levare, come luce dall’oscurità. E ama la voce dell’organo che nelle feste solenni riempie la chiesa. Imparar l’arte di far risuonare ordinatamente quelle canne è quel che più di tutto vorrebbe apprendere, e alza verso di esse gl’occhi mentre il canto di Terza si spegne e lascia il campo al lavoro del mattino. Il Priore lo assegna a tutti, che come ogni giorno indossano lo scapolare a proteggere le vesti, dal fango come dall’inchiostro.
Il sedicenne novizio osserva fra Venanzio che s’avvia alla farmacia, ma è soprattutto ai due conversi che gli son concessi in aiuto che va il suo sguardo, così come segue quei che ricevono gli strumenti per il lavoro della terra e della stalla, e fra Demetrio che troverà gli attrezzi sul banco di falegname dove li ha lasciati il giorno prima.
Al giovane, il Priore rivolge un semplice cenno. Lo scriptorium è il luogo cui deve recarsi, e lui vi si dirige, mentre la sua mente va a ciò che, ora è un anno, con fra Michele ed altri conversi faceva nell’orto di questi tempi, quando la luna di maggio dà vigore alle piante, ed anche alle malerbe, per scacciar le quali ogni settimana occorreva sarchiare la terra tra le file di zucchine, carote, bietole, fagioli e fagiolini da poco seminati. Ed era poi il tempo di letamare, e far scolare dal terreno l’acqua delle piogge primaverili, sempre copiose tra questi monti. Nel mentre che si raccoglievano primizie odorose, piselli e bietole, ravanelli e radicchi, la cipolla bianca ed il prezzemolo, seminato in aprile e già a fine maggio verdeggiante; così come, nel giardino dei semplici, la borragine e la melissa, della quale aveva appreso a staccare i rametti meno vigorosi per la preparazione delle tisane, lasciando gli altri per la fioritura estiva.
Un rumore che nulla ha a fare col silenzio degli orti molesta quel fantasticare, e l’interrompe in fine: è il tossicchiare insistente di Padre Fortunato, che con quel suo malanno è giunto al settantaseiesimo anno e prosegue sereno il suo studio. Domestico in altre mattine, riesce oggi importuno quel suono al novizio, che uditolo si sente ora attorniato dal grattar delle penne sui fogli, dal cigolio d’una sedia, dal fruscio delle pagine come da un frastuono da cui vorrebbe fuggire.
Recita allora col pensiero una preghiera: per Padre Fortunato, per i fratelli che son lì attorno a leggere e scrivere. Prega per loro e prega per sé, atterrito dal risentimento che irragionevolmente invade la sua anima come un grido: non qui non ora non con costoro.

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Recensioni

Dal Corriere della Sera-Brescia del 21 agosto 2012.
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L’orizzonte del lago

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È un orizzonte che può apparire angusto e desolato in certi giorni, quello del lago, ma rivelarsi in altri sereno e vasto, tanto da ricomprendere ogni possibile altrove.
Entro questo orizzonte si svolge la vicenda, che copre l’intero Settecento, del marchese Giovan Antonio Archetti, mercante e filosofo, personaggio storico che questo romanzo ricrea facendone il protagonista di un percorso umano originale e ricco di aspetti che sanno parlare al lettore di oggi: dalla critica alle sicurezze della Ragione alla faticosa conquista, mai raggiunta una volta per tutte, di un senso del proprio operare.
E accanto al marchese utopista, un altro protagonista: il lago di Garda, con i suoi paesaggi e le sue stagioni.

L’orizzonte del lago è un romanzo epistolare: quelle che seguono sono alcune delle lettere che lo compongono.

[Campione e il lago]
A Federico, Brescia

Campione, 3 gennaio 1735

Federico carissimo, eccomi a Campione, per la prima volta solo. Non ho aspettato che scaricassero la mia roba dal battello. Ho solo avvertito un dei barcaioli chiamarmi ignore  e al momento ho pensato che dicesse a mio Padre, come fosse lì. Ma lui questa volta non c’è. E non verrà.
Mi son subito incamminato per il sentiero: ricordi, quello che porta alla cascata. Ho capito quando son stato là, al balcone (l’abbiamo sempre chiamata così quella naturale sporgenza della roccia), che da giorni vivevo con il cuore sospeso. Temevo che Campione, adesso che son delegato dai miei a condur il Negozio, anche se il direttore resta mio Padre,  fosse cambiato.
Lo guardavo da lassù, come sempre ho fatto, fin da bambino. E Campion era lì: splendente e lontano. Lontano da tutto.
Ricordo che una delle prime volte che qui son venuto, avrò avuto quattro o cinque anni, era stato mio Padre a portarmi là al balcone e mi aveva insegnato i nomi dei villaggi che si vedevan sulla sponda veronese, i nomi delle cime del Baldo, il nome del vento che veniva giù dalla forra e arrivava lì dov’eravamo e di quello che a quell’ora increspava le acque del lago. E ricordo soprattutto  il Baldo: il monte più grande che avessi mai visto. Un monte che è fatto di tanti monti, ed è un solo. Fermo e tranquillo come un grande animale adagiato. Dopo quel giorno, ogni volta che in chiesa si diceva aeternum io pensavo al Baldo. M’accade ancor oggi.
Due giorni dopo, venuta l’ora della partenza, ero fuggito. Non mi potevan trovare. Ero risalito al balcone, con Antonio. Si chiamava come me. Era il figlio maggiore del mugnaio. M’aveva spiegato tutto, m’aveva fatto vedere i pesci del lago che nuotavan vicino a riva e le trote del torrente, il leccio che stava attaccato alla rupe e gli ulivi che stavan al riparo di essa. E adesso era scappato con me, lui e il suo cagnolino che lo seguiva sempre, ansante sul sentiero.
Eravamo diventati amici, io e Antonio, e spiaceva a lui che me n’andassi.
Mio Padre era venuto su sicuro, come sapendo ch’ero là. M’ero nascosto la faccia con le mani, in attesa di rimproveri aspri o d’un ceffone senza parole, come faceva lui. E invece non accadeva nulla. Allora avevo tolto le mani e alzato la testa. Mio Padre mi guardava e sorrideva. M’aveva teso la mano. Eravam tornati al porto.
Quando? gli avevo chiesto.
Fra un mese.
Fra un mese avevo detto ad Antonio e al suo cane, ch’eran venuti fin lì ad accompagnarmi.
Ed ero tornato infatti, e tornato tutte le volte che potevo convincere mio Padre a portarmi con lui o ad affidarmi ai suoi complimentari, il suo amministratore e il suo scritturale. Da bambino, e poi da giovinetto. Più di una volta, quando ero preso dalla melanconia, che tanto spesso mi aggrediva nelle stanze scure della casa di contrada Sant’Agata, avevo sperimentato che lassù, al balcone a guardare    Campione e il lago e il monte, quella stessa melanconia scura, pesante come un mantello bagnato, diventava una cosa che non era più mia, che non era mai stata davvero mia. Come se l’orizzonte del lago l’escludesse.
Ma adesso? che quel luogo diventa anche per me, come per i miei, il Negozio più importante della famiglia, e io ne dovrò render conto?
E invece sì, Campione è ancora quello che ho sempre conosciuto.
Il mio rifugio. Un rifugio in cui non fuggo, ma torno al mondo.
Ti saluto.

Gian Antonio

***

A Carlotta, Brescia

Campione, 6 febbraio 1735

Mia cara, ogni giorno torni nella mia mente, ma avrei dato cento zecchini per averti con me ieri al principiar della notte.
Invisibile per chi arriva dal lago, nella spaccatura della roccia che sovrasta il paese insieme al torrente di cui giunge la voce in tutto il paese, corre anche un sentiero, unica via che non sian le acque, per entrar in questo romitorio. Ebbene, son uso da sempre a risalir  quel sentiero che prosegue fin ai paesetti dell’altopiano, ed a giunger dove è possibile raccoglier alla vista l’intero paese e l’universo che l’avvolge.
Ieri, quando ormai da ore il sole era tramontato dietro la rupe ma lasciava ancor giungere al lago il suo rosso fulgore e di quello colorava, sull’altra riva, il grande Monte Baldo, è sorta la luna, a contender con la sua pallida luce bianca quella sanguigna del sole morente. E in quel gioco m’è ad un punto accaduto di distinguer in mezzo al lago isole argentee che correvan verso il meridione, come i barconi che navigano da Riva a Desenzano.
Eran ghiacci, lastroni nei quali si era rappresa le gelida acqua del grande Benaco. Correvano, senza schiocchi di vele e tonfi di remi, cambiando di continuo il colore. Come di pesci che solitamente stian celati negli abissi e solo a ogni volger di secolo salgan a segnar la lor presenza al mondo.
Ho sentito una felicità che non ricordavo gonfiarmi il cuore, una felicità che non ho più saputo distinguer dal desiderio di te e da ogni possibile felicità che abbia potuto provare. E ne ho d’improvviso distinto l’origine: la memoria d’un racconto udito da bambino, poco più che infante, da un vecchio che doveva esser il nonno, il Padre di mio Padre, appena conosciuto e ormai perso fra i primi ricordi d’un pargolo. Ma di quel racconto tornava ora l’imagine che le parole avevan fatto nascere nella mia anima: il lago ghiacciato, le acque nascoste sotto un pavimento bianco ceruleo, che per più giorni si era steso a perdita d’occhio fra le sponde. Ricordo distintamente che la visione che dal racconto mi veniva non si fermava tuttavia a questa solida superificie, ma scendeva sotto di essa, dove comparivan  i pesci, i pesci del lago che nuotavano in un’acqua buia e in un silenzio nuovo, e vi continuavan la loro vita segreta. Nuovamente al sicuro da reti e ami, queti e laboriosi come ai giorni della creazione. Prima dei pescatori, prima degl’uomini.
Ho sentito poi parlar ancora di quell’invernata straordinariamente fredda. Era il 1709. Ne parlano ancora qui, sul lago, abbassando la voce, con timore, e insieme con il rimpianto per un’epoca in cui potevan accadere cose meravigliose, ancorché terribili,  e col rapimento che ci portano le evenienze che sanno arrestar il fluire usuale dei giorni.
Mi pare d’averti avuta un po’ qui con me, ora che t’ho raccontato.

Il tuo

Gian Antonio

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Recensioni

Da Bresciaoggi del 31 luglio 2010.
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Da AB n° 103 estate 2010.
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I tempi del mondo

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La vita di un uomo di scienza del primo Ottocento, Giambattista Brocchi, e le sue idee, note negli ambienti scientifici europei e apprezzate da Darwin, costituiscono il filo conduttore di una biografia immaginata, costruita sulle testimonianze di coloro che lo svolgersi stesso del romanzo mette in scena e che entrano via via in contatto con il protagonista.
La figura e la vicenda umana di Brocchi, studioso appassionato e irrequieto viaggiatore, emergono così da un intreccio di ricordi che assumono spesso la consistenza di narrazioni parallele. Come quelle del minatore e spaccapietre Antonio, dell’amico collega al Liceo di Brescia Rosetti, del medico filosofo Aldobrandi, e di Giovanni, un ragazzo che è testimone del suo ultimo viaggio. È tuttavia Nicolò, un giovane benestante bresciano, schivo e, al contrario di Brocchi, riluttante all’azione e agli spostamenti, a tener le fila della narrazione offrendoci il diario del suo lavoro teso a ricostruire la vita del “Professore”, le sue indagini e le sue battaglie in campo scientifico, i suoi amori e le sue peregrinazioni, sino alla fine in terre lontane.
Dal proprio lavoro, Nicolò ricava non soltanto i fatti che hanno costellato una vita, ma la sua storia intima. La storia di un’interminata ricerca capace di sondare, e comparare, i tempi del mondo: dagli abissi delle ere geologiche alle distese sterminate delle età dei viventi, dal lento procedere della storia umana attraverso i secoli e i millenni al rapido volgere delle stagioni dell’esistenza di ognuno.

Quelle che seguono sono alcune pagine del romanzo che racchiudono episodi salienti della vicenda di Giambattista Brocchi.

[L’incontro con Giambattista Brocchi, “il Professore”]

Se non mi fossi quel giorno precipitevolmente ritirato nella biblioteca, per sottrarmi alla vista e così fuggire l’arrivo di Adalberta, mai avrei raccolto questi libri, e fascicoli, d’una materia allora a me ignota, né fatto correre la mia penna su tutti questi fogli che ormai compongono tante pile ordinate da empir due armadi. Adalberta contava allora quattordici anni, due meno di quelli cui io ero giunto, e pure era già a me promessa, come le sue due maggiori sorelle lo eran state ad altri rampolli ben nati, per volere del padre e della madre, che nell’estate tenevan residenza in una villa non distante dalla nostra. Era così nata fra le due famiglie – noi, i Grisetti Martini, e loro, i Lanti de Chieri – una conoscenza che s’era via via fatta deferente familiarità, e mentre il mio genitore e quel di lei discorrevano di vendemmie e di cacce, le signore madri avevan guardato più in là della stagione, e avevano disposto ciò che i consorti avrebbero creduto poi di statuire secondo il loro paterno imperio.
Le visite degli uni agl’altri, che da tempo si eran fatte consuetudine, avevano così aggiunto al diletto che a loro procuravano, il beneficio di esser motivo d’incontro tra i due giovinetti. Non era la loro amicizia, tuttavia, che quegl’incontri avevano di mira, e men che mai l’eventualità che ne nascesse un sentimento che la sopravanzasse, ma unicamente l’adempimento del precetto che stabiliva due promessi doversi conoscere, cioè vedersi l’un l’altro, e fin discorrere, alla presenza dei genitori o di alcuno cui essi s’affidassero. Era stato perciò don Giovan Angelo, maestro spirituale di entrambe le famiglie, o il maestro Soltini, che educava alla musica Adalberta, a seguirci vigile nel parco in quei pomeriggi nei quali avrei voluto esser distante cento miglia, convinto che anche la fanciulla li avesse in dispetto e che la sua gioiosità, in quelle ore, fosse non già frutto del piacere che ne potesse ritrarre ma solo del suo spirito d’obbedienza, assai più saldo del mio, e tale da impedirle che quell’allegria, a me importuna, si lasciasse in lei rannuvolare dall’obbligo.
Eran comunque i primi momenti i più odiosi, quando tutti ci guardavano come fossimo solo allora comparsi al mondo e ci conducevano uno davanti all’altra, a star come le marionette che mio fratello muoveva nel suo teatrino, ed io ero indirizzato dalle raccomandazioni che mia madre aveva fatto precedere alla visita, ed ora dai suoi occhi, a far un cenno di inchino ad Adalberta come in un preludio di baciamano, mentre era lei tenuta ad aver gli occhi a terra. Ma sorrideva, a quanto m’era dato di vedere, d’un sorriso che non sapevo come potesse apparirmi di sodisfazione, quasi fosse lei stessa l’artefice compiaciuta di quella commedia.
Quel pomeriggio d’una domenica di Giugno, dunque, non volli obbedire a quel dovere. Sentito il cigolar delle ruote della carrozza dei nostri vicini egregi, corsi fuor della mia camera, senza indossare la giacca, e scesi di corsa la scala che portava all’atrio dove di lì a poco i miei genitori si sarebbero presentati a render omaggio ai visitatori, e questi affacciandosi avrebbero pronunciato studiati complimenti come varcassero per la prima volta quella soglia.
Su quell’atrio dava però anche la porta della biblioteca, e fu lì che entrai, richiudendo senza rumore dietro di me il battente bianco e dorato. Rimasi dietro ad esso in silenzio, ascoltando le voci che già si udivano e attendendo col cuore in gola l’echeggiare del mio nome. Ma ciò non avvenne. Che Adalberta quel giorno imprevedutamente non fosse venuta, e dunque neanche me si cercasse? Ma ecco che il riverisco di quella si udì chiaro, e subito dopo il trapestio di due servitori che salivan le scale, certo inviati da mia madre a sollecitarmi a scender dalla mia camera e a presentarmi sulla nota scena.
Le voci calarono: eran certo passati al salotto, essendo la giornata calda e torrido il giardino, risonante di cicale.
Come se il silenzio mi restituisse la vista, fin a quel punto ottenebrata dall’esser repentinamente passato dal chiaro dell’atrio alla penombra della biblioteca, solo allora vidi, sul podio che coronava l’alta e fragile scala che giungeva sin agl’ultimi scaffali, un uomo, fermo come una statua. Mi volgeva le spalle, e fu per questo che non lo riconobbi che quando mi mossi, senza far rumore, e potei vederlo di profilo. Gli occhialetti sulla punta del naso, come gli avevo visto solo quando era intento a compilar i registri della tenuta di caccia: a far di conto, dunque, non a leggere. E stava invece leggendo ora, come un abate. Un libro trattenuto sotto il gomito sinistro, e un altro aperto tra le mani. Il naso affondato fra le pagine, i capelli bianchi ad aureolare la testa, immobile. Solo gli occhi dovevan muoversi da una riga all’altra.
Stava lassù sospeso come un uccello, un vecchio uccello, più ossa ormai che piume, come certi grossi corvi, regali pur nella loro goffaggine, pesanti anche se smagriti e pur capaci ancora di levarsi in volo. E poco mancò in fatti che cadesse rovinosamente di lassù quando, sentendo d’esser guardato, si riscosse: il libro che teneva stretto sotto il braccio cadde vicino ai miei piedi, ma come aggrappandosi a quel che teneva in mano, l’uomo riuscì a ritrovar l’equilibrio e cauto ridiscese, sorridendomi come sempre faceva al vedermi.
Era Antonio. Il servitore che mio padre aveva elevato a intendente dei terreni in cui amava esercitare coi pari suoi l’arte di prender a fucilate lepri e fagiani, e volpi, tassi ed ogni altro essere fosse buono a farsi rincorrer dai cani.
Che cosa cercate, Antonio?
Oh, be’, certe notizie…
Su quale argomento?
Ma subito mi pentii di quella mia curiosità che temevo potesse suonar volontà di controllo, e mutai discorso col raccontar che stavo anch’io cercando un libro. Di geografia, improvvisai.
Ecco, sì, è un libro di geografia questo, si animò Antonio.
Di geografia? e di quale luogo tratta?
Delle terre che stanno attorno a Roma, e più oltre, dei monti di là. Ce n’è uno che si chiama Soratte, diceva scendendo dalla scaletta, e mi mostrava la pagina che così attentamente stava leggendo lassù.
Vides ut alta stet nive candidum Soracte?
Antonio mi guardò incerto: che mai gli avevo domandato?
È Orazio, Antonio, un poeta di Roma che parlava del Soratte. Ma stiamo dunque studiando le stesse cose? Gli chiesi ridendo, incredulo e divertito.
Ma anche questa volta ebbi a pentirmi: l’espressione di Antonio era adesso quella che assumeva di fronte a mio padre, quando si controllavano i registri a verificar le legne vendute o l’erba ceduta ai contadini.
Volevo dire che anche a me è toccato d’incontrare il Monte Soratte, studiando il latino. Ma voi perché ve ne occupate?
Perché là è stato il Professore, sapete…
Quel vostro antico padrone che vi manda lettere e plichi, di tanto in tanto?
Sì, lui.
Non ve l’ho mai chiesto: che cosa insegna?
Nulla, non insegna. Studia, cerca…
Ma perché al Soratte, e non a Roma, dove son biblioteche sterminate?
Lui studia quel che vede, studia viaggiando…
La porta della biblioteca si spalancò d’un colpo: mia madre, che l’occupava tutta con l’ampia gonna, pareva una furia. Gli occhi fiammeggianti, ancor prima della giacca che mi porgeva, bastavano a dirmi quel che intendesse.
Mi parai davanti ad Antonio, quasi a proteggerlo da quei lampi, e uscii nell’atrio, seguendo mia madre che entrando nel salotto, il volto ridente ora e la voce squillante, inaspettatamente mi circondò affettuosamente le spalle con un braccio informando gli astanti che Nicolò era fatto così: quando studiava se ne andava dal mondo, si rintanava in biblioteca e le voci che venivan dagli antichi autori erano le uniche che potesse udire. E così dicendo mi conduceva tra i divani dove i Lanti de Chieri se ne stavan a sorseggiare rosolio e caffè, e tra di essi lei, Adalberta, che naturalmente sorrideva e abbassando gl’occhi, nell’alzarsi, mi porse la mano.
Fu quel Nicolò di cui mia madre aveva parlato a porgere l’omaggio dovuto, non io, che ero rimasto con Antonio, e m’aggiravo alle falde del Monte Soratte, quasi sperassi di potervi incontrare il Professore, e non quei che avevo d’attorno.


[Brocchi visita una miniera abbandonata con Antonio, ex minatore]

Fosse stato per lui sarebbe passato senza vederla. Certo era imboscata, e la si poteva prendere per uno di quei ripari per le pecore. Ma la bocca c’era.
È qui, Professore, gli ho detto. Lui è tornato indietro.
Dove?
Ho tolto la roncola dalla cintura e ho aperto il passo: qui, vedete?
Si è avvicinato alla bocca.
Veniva un vento freddo e si sentiva acqua che correva. Guardava nel buio lui, poi ha buttato un sasso. Si è sentito subito il rumore: non va giù, ho detto io. Non ci sono pozzi qui dalle nostre parti. Le gallerie van quasi in piano.
Ho preso la boccia dell’olio dal sacco, l’ho messo nella lucerna, ho aggiunto lo stoppino e ho acceso.
Vedete? Non va giù.
Mi sono piegato, e sono entrato. Lui dietro.
Attento alla testa, gli ho detto. È facile batterla.
Si camminava nell’acqua, ma si camminava.
Guardate qua, Antonio, ha detto lui. Era quel che restava del carretto che lì avevano usato per portar fuori la vena: qui si poteva far così, e anche avanti per un po’, ma poi si fa stretta e il carretto non ci passa più. Occorre portare a braccia.
Mi ha chiesto di illuminare una zocca. Gli ho detto io che si chiamava così quel pilastro che avevano lasciato per tener su il tetto. Lì han potuto lasciare una zocca. Più in là invece, gli ho fatto vedere, han dovuto mettere dei puntelli, di legno. Erano piegati, mezzi marci.
Andiamo via di qua, ho detto.
Abbiamo preso a destra, e siamo arrivati alla camera grande. La luce non arrivava al tetto. Lui è stato a guardare palmo a palmo le pareti. Si è fermato, e ha preso il suo libricino, come per scrivere, ma lì non si poteva e l’ha rimesso nella scarsella.
Dopo un po’ la via che seguivamo s’è fatta di nuovo stretta.
Come ci passa un uomo per di qua? ha chiesto lui.
Non un uomo, un ragazzo. Sono ragazzi che portano fuori il minerale con le ceste. Di dieci undici anni, ho risposto. Massimo quindici.
Abbiamo preso per un’altra via, che sapevo ci riportava da dove eravamo venuti, ma per prenderla occorreva salire, perché non si vedeva ma eravamo sempre andati in discesa. Poco, ma in discesa. L’ho aiutato a venir su. I gradini che avevano fatto nella roccia adesso erano coperti di terra, e si scivolava.
Poi, mi sono accorto che era rimasto indietro qualche passo, e mi chiedeva di illuminare. Osservava una zoncatura, uno di quei tagli che traversano dall’alto al basso la roccia, e ne cavava con le mani la pietra fatta quasi terra.
È vena troppo matura, gli ho detto. Lui mi ha guardato senza dir niente.
Dal colore della fiamma ho visto che era ora di tornar fuori.
Di già? ha chiesto lui.
Non ci ho mica messo tutto l’olio che ci sta, ho detto. Se no potevamo star dentro sette ore. Tanto dura l’olio, tanto la giornata.
Mi meraviglio che non diano più olio ai mineranti per allungar loro il lavoro, ha detto.
Nessuno dà l’olio, ho risposto, né la polvere per la mina, né la mazza la punta e il badile e il piccone: tutta roba che dobbiamo avere noi. Comprata con quei trenta soldi alla giornata che sono rimasti quelli che prendevo io quando venivo qui dentro.
Non so se per la sorpresa di sentire questa cosa, ma il Professore si è levato e così ha dato la testa in uno spuntone che veniva giù dal tetto, e ha tirato un sacramento né più né meno come uno di noi.
Quando siamo usciti si è legato il fazzoletto alla testa, gli sanguinava un po’.
Era al Paulino che eravamo entrati quel giorno. Una miniera che conoscevo bene.
Dopo lui ha voluto vedere altre bocche a Pezzase: il Zaglio, il Campolongo, il Pagherino. Tutte abbandonate da anni. Si andava pochi passi e poi l’acqua si faceva alta.

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Dal Corriere della Sera-Brescia del 2 luglio 2013.
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“Ma lo si vede dappertutto…”: questo il primo commento, il più diffuso quando il cantiere era all’ultima fase e l’edificio aveva già raggiunto la sua dimensione definitiva. Un commento generico, inconcludente. Con quel ma iniziale però, rivelatore non tanto di una critica, certo, quanto piuttosto di una perplessità, o di un disagio indistinto, come quello che si avverte quando andando verso piazza Repubblica, da via Ugoni come da via Vittorio Emanuele, la prospettiva non è più libera, segnata al più dall’esile serbatoio pensile dell’ATB che si stagliava nel cielo proprio lì, dove adesso lo sguardo si ferma contro la nuova imponente costruzione.
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Maria Zambrano: perché si scrive

Non per imparare a scrivere, ma per capire perché si scrive conviene leggere quello che chi si dedica a questa pratica ha detto della propria attività. Non sempre però, o raramente anzi, si trovano spunti illuminanti nei testi che programmaticamente si propongono di rispondere alle domande decisive: perché e per chi si scrive? da dove nasce il desiderio di scrivere e il piacere di farlo?
Il più delle volte è in passaggi brevi, di fatto o apparentemente incidentali – in racconti, romanzi, saggi che parlano d’altro – che si trovano spunti interessanti.
Ci sono però eccezioni. Come lo scritto di María Zambrano del quale si propongono qui alcuni passaggi essenziali (il testo integrale si può leggere in María Zambrano,
Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996).
Se lo scopo di questa sezione del nostro sito è quello di raccogliere, oltre che riflessioni e resoconti, anche citazioni più o meno corpose attinenti all’esperienza dello scrivere, iniziare con la rilettura delle risposte della Zambrano alla questione che lei stessa pone,
perché si scrive, può essere un buon inizio.
(secondorizzonte/c.s.)

MARÍA ZAMBRANO
Perché si scrive

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta. Leggi tutto