Dal Corriere della Sera Brescia del 9 giugno 2015.
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Carlo Simoni
Nessuno ha detto niente
Diversi sono gli episodi e le situazioni da cui prendono spunto questi racconti, pensosi alcuni, altri venati di umorismo, ma percorsi da un tratto comune, rappresentato dall’atteggiamento di chi vi è coinvolto. Nessuno dice niente, per ragioni diverse: banale conformismo, o ritegno prudente; reticenza o indiff erenza, vera o apparente che sia.
Un non voler vedere, un non voler sapere: una scelta di diniego se non di rimozione, che si risolve comunque nell’astenersi dal prendere posizione, dal passare a un intervento attivo. In questo contesto, maturano però anche altre scelte, dettate da attitudini discrete alla separatezza, da private secessioni, da progressive adesioni alla pratica di un silenzio che non è assenza, né rinuncia alla parola. Un silenzio che somiglia a quello degli animali.
Sono i narratori che via via compaiono in questi racconti, essi stessi coinvolti nelle vicende che riferiscono, a dover constatare l’emergere di questa generalizzata e diff usa propensione a chiamarsi fuori, o comunque a tacere, e a farvi in qualche modo argine contrapponendo il loro bisogno di rendere testimonianza di quanto accade.
È proprio la loro incapacità di allinearsi a quella sorta di omertà volontaria che sembra pervadere i comportamenti collettivi a fornire un’occasione essenziale e a off rire una motivazione di fondo alla scrittura.
Perché scrivere – lo ricorda Maria Zambrano – “è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento eff ettivo, ma comunicabile”.
Quelle che seguono sono le pagine iniziali di alcuni dei racconti.
Pappataci
Guarda… una cosa mai successa. Ero lì che stiravo. Tutt’a un tratto ho sentito… come un prurito, ma fortissimo: un bruciore, ecco. Come una scottatura, ma da grattarsi, da non farcela più a star fermi. Ho dovuto metter giù il ferro da stiro: sulla gamba era, dietro il ginocchio, che sai che se c’è un posto brutto quando ti pungono le zanzare… be’, una roba che… mi sono seduta e ho cominciato a grattarmi che non la finivo più… sì, certo che lo so, figurati: ero io a dirtelo sempre, ti ricordi? lascia stare, non grattarti che se no è peggio. Ma questa era un’altra cosa: da non resistere, ecco. Sì, due o tre segni rossi, appena un po’ gonfi, niente di speciale, semplici tossole a guardarle. Eh no, è questo il fatto: che qui di zanzare non ne abbiamo mai avute, tant’è vero che non abbiamo mai avuto in casa niente… non so, zampironi, o spray… Ah sì? A te era capitato quando andavi a caccia col papà? Be’, però lì eravate nell’umido, si capisce che c’erano zanzare e roba del genere, ma qui… No ti dico, non ne ho viste: è questo il fatto. Di zanzare neanche l’ombra… Ma no, figurati se sono andata nelle ortiche… a fare? Sì, va be’, ciao, sì, andrò in farmacia a prendere qualcosa… ciao… ciao…
Come al solito ho messo giù il telefono tirando un sospirone, di sollievo e di rabbia anche. Se non la liquidavi, a un certo punto, lei era capace di andare avanti ore con una telefonata, anche quando non aveva niente da raccontare. Come adesso: mezz’ora perché un insetto l’aveva punta! Che palle! Ma del resto, se non le ho fatto la telefonata giornaliera… è come se non mi sentissi a posto. Hai bisogno di soffrire, mi dice Mara. No, dico io: si deve prevenire il rimorso, inutile dire, dopo: pensare che quando c’era non le telefonavo mai povera mamma e cose del genere.
Stanotte mi sono svegliato di soprassalto: l’alluce destro, sul lato interno. Mi ero sognato che camminavo sui sassi e mi facevano male. Invece nel sonno mi ero grattato, un piede contro l’altro, e adesso non ce la facevo a star fermo. Mi giravo, mi rigiravo. Cercavo di non grattarmi più. Mi son messo un po’ di saliva dove mi prudeva di più, ma non serviva a niente. Stavo svegliando anche Mara col mio agitarmi. Allora mi sono alzato, sono andato in bagno: niente, un piccolo rossore. Solo quando sono stato lì, a guardarmi l’alluce alla luce del lavandino mi è tornata in mente la telefonata di mia madre. Vuoi vedere che… Ma no. Lei è in città, a trecento chilometri da qui, nel caldo della città. Qui siamo al fresco, in montagna… Eppure…
Neanche l’acqua fresca mi dava sollievo. Ho cercato di distrarmi. Ma cosa volevi fare lì, in una camera d’albergo? Tornare a letto, al buio, neanche parlarne, con quel tormento. Ho preso il giallo che avevo iniziato e mi sono seduto sul water chiuso, a leggere. Ogni tanto il piede nel bidè, sotto l’acqua. Ma non mi passava neanche così. Sono rimasto in piedi due ore prima di poter tornare a stendermi e addormentarmi.
E’ cominciata così, per quel che mi ricordo. E non è più finita. Ma non è sempre andata allo stesso modo. Allora, nei primi tempi, e ancora per un bel po’ dopo, non si faceva che parlarne. Tutti ne parlavano, o ne scrivevano: i giornali, le tivù. Adesso no. Non è che sia vietato, ma…
Allora sembravano tutte coincidenze, casi strani, accaduti solo a te, e dunque volevi saperlo se erano capitati proprio a te soltanto. Spiacevoli, certo, ma più che altro roba da far due chiacchiere, un po’ come il tempo e le stagioni. Era tutto un ma pensa te, ma non dirmi, sai che anch’io eccetera.
Poi sono cominciati i pareri degli esperti. Primi gli entomologi naturalmente: eravamo diventati tutti esperti delle diverse famiglie di pappataci, una parola che avevo già sentito ma che non avevo mai usato: mi sembrava goffa…
***
La bufera
Si guardano negli occhi. Non s’era mai accorto che l’asino ha gli occhi così distanti, ai due lati del muso: adesso che ce l’ha proprio di fronte vede che sporgono, a sinistra e a destra. Eppure, anche se messi in questo modo, lo guardano fisso.
Gli occhi, dell’asino, nei suoi. I suoi in quelli dell’asino.
Stava passando, a testa bassa, e non si era accorto. E’ stato l’asino a venir giù per il prato, di corsa. Ha raggiunto il filo spinato nel punto dove era arrivato lui in quel momento, e ha fatto il suo raglio. Quell’urlo appena tentato che poi, nel sentirsi, sembra si perda d’animo e finisca in quel resto di grido sconsolato che suona come una rinuncia, quasi che l’asino si fosse una volta di più convinto che non è il caso di continuare, né di riprovare.
Ogni raglio di asino sembra l’ultimo. L’ultimo tentativo, una prova cui ancora una volta non ha saputo resistere ma che non farà più.
E’ stato dopo, che sono rimasti lì a guardarsi negli occhi. Dopo il raglio e dopo che l’uomo è salito di un passo sulla proda e tenendosi a un paletto del filo spinato ha raggiunto con la mano la fronte dell’asino e ce l’ha tenuta un momento.
Adesso sono lì uno di fronte all’altro. Fermi. Passano almeno due o tre minuti prima che l’animale distolga lo sguardo.
L’uomo sente che ha fatto male. Non doveva insistere, doveva smettere prima lui di guardar fisso negli occhi l’asino. Ma è andata così.
Gli dà ancora un carezza. Nota che è un asina, non un asino.
Le dice arrivederci, ad alta voce.
Poi riprende a salire, ma sente i tonfi degli zoccoli dell’animale che lo seguono: cammina poco dietro di lui, lungo il sentiero che le sue zampe hanno scavato parallelo alla strada, appena di là del filo spinato.
L’uomo, quando arriva all’angolo dove la recinzione finisce, si impone di non girarsi a guardare l’asina. Sa che è là che lo guarda andarsene.
E’ una cosa che conosce e non sopporta. Lui che se ne va e qualcuno che lo guarda andarsene, e il cuore che gli si fa pesante della pena di quell’andare. Come se fosse, nello stesso tempo, quello che se ne va ma anche quello che rimane e guarda l’altro allontanarsi.
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San Rocco
Anche la mia è una casa uscendo dalla quale, al mattino, si può decidere se andare da una parte o dall’altra.
La mia come tutte le altre case, si potrebbe osservare. In realtà, ce ne sono che non si possono dire di questo genere. Ne ho abitato alcune dalle quali si usciva per andare sempre e soltanto da una parte. Quella stessa in cui sto la maggior parte del tempo, in città, è una di queste. Essendo ai margini del centro storico, è verso quello che invariabilmente portano i passi. Si può anche prendere dalla parte opposta, naturalmente, ma è solo un diversivo: alla prima traversa si torna dalla parte che si era creduto di non aver scelto quella mattina.
L’altra casa, quella di cui dicevo all’inizio, si trova invece in un piccolo paese, uno dei cinque o sei che stanno sul monte sopra il lago. Non ce n’è uno più importante dell’altro, anche se ognuno si ritiene il migliore, per il panorama di cui gode, o la tranquillità che vi regna, o per le sue vie lastricate più di recente, o ancora perché – unico fra tutti – ha un ufficio postale.
In realtà – per me almeno, che non sono nativo del luogo ma ospite, o tale mi sento, anche se vi abito per qualche mese all’anno da più di un trentennio – più dei paesi sono altri i punti di riferimento. Quando si esce, al mattino, si può decidere, come dicevo: se andare dalla parte di San Valentino o da quella di San Rocco.
Si può, ho scritto. Ma, a dire il vero, certe mattine si deve.
Ci sono giorni nei quali si sa quel che si vuole. O meglio: si fa, si va. Senza bisogno di volerlo. Altri, invece, nei quali l’obbligo di scegliere si presenta di continuo, importuno, e quando, perplesso, scegli, è come se un altro l’avesse fatto al posto tuo. Giorni nei quali una cosa equivale all’altra, e allora tanto varrebbe non farne nessuna. Ma appunto questa è l’unica scelta che appare inammissibile.
E allora esco, ma ancor prima di raggiungere il cancellino mi rendo conto che non so da quale parte prenderò. Sono ormai sulla soglia e continuo a non saperlo. So solo che non potrò avviarmi da una parte, poi ripensarci e tornare sui miei passi. Quello no. Non so perché, ma sento che quello sarebbe passare il segno, un’eventualità di cui non saprei valutare le conseguenze.
E’ un istante quello in cui la sospensione si risolve in decisione. Un istante tanto breve, infinitesimale, che nessuno che fosse lì a osservarmi potrebbe cogliere un’ombra d’incertezza. Tanto breve, del resto, che neanch’io potrei dire con sicurezza di aver deciso.
***
L’aquila
Una course ha detto: venerdì facciamo una course, indicando dietro di sé, oltre la finestra, le montagne che chiudono la valle. Dolomiti all’aspetto: campanili e sfasciumi di roccia, solcati da rare lingue verdi di erba aggrappata al terreno quasi verticale.
Una course. Col mio poco francese ho chiesto la differenza con la promenade, la bonne promenade che mi auguravano quando mi vedevano andare a far un giretto fino alla sorgente della Clarée, un’ora di cammino, o su al rifugio della Buffere, poco di più. E la differenza con la balade: si erano complimentati con me due giorni prima per la balade che avevo fatto, da solo. Sei ore. Lo chemin de ronde del monte Thabor, che partendo in alto sopra i loro tre chalets – baite, diremmo noi, che loro avevano riadattato – arriva fino in fondo alla valle, sotto a quelle rocce che sembrano via via spostarsi, l’una nascondendo l’altra e lasciandola poi riapparire, per restare comunque sempre inarrivabili, al di là del confine dei luoghi fatti per gli uomini.
Ecco: una course era andare là, su quelle rocce. Non una passeggiata come la promenade o una gita come la balade. Una course era di più. Era un’ascensione.
Mi sono subito reso conto, già mentre cercavo le parole per fare la domanda, che quella mia curiosità lessicale non era che un modo per differire un cortese ma fermo no. No: non è cosa per me. Magari un’autoironica ammissione dei miei limiti, o – perché no? – della mia paura: mi era sembrata questa la strada quando Marie, la moglie di Albert, aveva buttato lì un cauto mais… le vertiges: lei c’era andata lassù, col marito. Fino a pochi anni prima l’aveva accompagnato sempre, prima di rinunciare alle courses, e poi anche alle balades.
Lui però non ha raccolto, come si trattasse d’una obiezione tanto futile da non meritare neanche un cenno di risposta, e non m’ha dato tempo di confermare che sì: io soffro di vertigini e dunque…
Ha invece continuato in quel che stava dicendo, lasciando anzi il suo tono pacato e dimenticandosi di parlar lentamente, come faceva di solito, in modo da farsi capire anche da me, perché Francesca, mia moglie, il francese lo parla bene, ma io no.
Di quel che diceva ho colto solo un hors du sentièr, accompagnato dal gesto del braccio e della mano tenuti quasi a novanta gradi, e mi era sembrato un po’ sinistro il suo sorriso nel dire di questo andar fuori dal sentiero per arrampicarsi su pendii che era facile immaginare quanto ripidi anche solo guardandoli da lontano.
E cos’è successo? E’ successo che ho detto va bene. Non gli ho detto che lo ringraziavo della fiducia ma là non ci andavo, non me la sentivo di andarci. E non è che non l’ho detto solo perché per me era difficile da dire in francese, una roba del genere.
Ma cosa gli era saltato in mente di propormi, anzi, di decidere, un’impresa del genere? Lui stesso era qualche anno che non ne faceva di simili… E cosa diavolo mi aveva impedito di tirarmi indietro?
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Racconti a Parigi
La domenica, la domenica pomeriggio, si vede chi è solo e chi no. O meglio: chi vive solo e chi vive con una moglie, con dei figli. Il che non implica necessariamente che sia solo, o che tale si senta.
Le persone sole, nei giorni feriali, camminano come tutti gli altri. E come tutti gli altri guardano davanti a sé. Verso una loro meta. La casa, il lavoro, un impegno preso in un certo posto con una certa persona. La domenica pomeriggio, invece, camminano lente, e si guardano in giro. Guardano attente – come a studiarli, a cercar di definire una differenza decisiva – quelli che non sono soli, o che tali non appaiono.
Anche questi ultimi camminano lenti, a differenza che nei giorni feriali, ma guardano avanti a sé, anche la domenica, non però verso una meta. Guardano avanti ma come non vedessero, o come se avessero già visto tutto. Un po’ come i ciechi, che non vedono niente, o non hanno mai visto niente, se ciechi dalla nascita, o vedono, a loro modo, qualcosa di completamente diverso da tutti gli altri. Che magari non è come non vedere niente.
Quelli che vanno a passeggio con la famiglia non mostrano attenzione. Tutt’altro. Sono distratti. Distratti da un vuoto che, a differenza di chi è solo, non possono immaginare di riempire.
Chi è solo può essere triste. Chi non è solo, ma tale si sente, no. E’ distratto, appunto Se è triste, non lo sa.
Mica male. Non importa se è vera questa cosa delle persone sole e non sole. Vorrebbe scrivere tutti pezzi così. Brevi. Semplici. Che però danno l’idea che sa vedere quello che c’è intorno.
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Racconto n° otto
Stamattina, come ogni mattina, s’è svegliato poco prima delle sette.
E’ rimasto a letto una mezzora, ma non per cercare nei sogni di quella notte qualcosa di utile per i suoi racconti. Più di una volta gli era accaduto che aprendo gli occhi addirittura un’intera storia si fosse formata durante la notte nella sua mente, nella forma d’un sogno già disposto in modo da essere trascritto. O almeno si era ritrovato con uno spunto: il sogno gli aveva portato una figura, una voce, un luogo, e sempre, ad accompagnarli, un senso di consolazione o di disgusto. Niente mezze misure: conforto o nausea. Senza un perché. Ed era capitato che cercare quel perché diventasse scrivere un racconto.
Ancor prima di alzarsi trascriveva allora sui suoi foglietti – ne teneva ovunque, anche sul comodino naturalmente, o più spesso sul letto stesso, dalla parte lasciata vuota dalla moglie – quel che aveva in testa, poche parole, spesso nella forma di un incipit, e solo dopo, magari non quella stessa mattina, gli riusciva di farne nascere qualcosa. Era, questa dei sogni, una risorsa di cui si era compiaciuto di parlare in pubblico, anche durante le presentazioni dei suoi libri, e s’era accorto che faceva sempre effetto. Creava un ponte fra lui e chi ascoltava – tutti dormono, e sognano – ma nello stesso tempo sottolineava la sua diversità, l’unicità del suo talento. Solo lui sapeva mettere a frutto quel che il sonno portava anche agli altri.
Non cerca più, da parecchio tempo, fra i brandelli di sogni che gli restano. Non fanno a tempo a comparire e già gli si squagliano nella memoria. Neanche brandelli. Sensazioni. Sogna ma è come non sognasse più. Le benzodiazepine arruffano i pensieri della notte e li fanno d’una materia densa e viscida, grigiastra, che si disperde alla prima luce.
Non dormire più non era meglio, del resto. Oltre a non sognare si ritrovava poi a cadere da un pisolino all’altro durante il giorno. La testa vuota fra uno sbadiglio e l’altro. Del tutto sprovvisto di quella fiducia benevola, verso di sé, senza la quale non si può scrivere nulla, neanche pensare di poterlo fare. Neanche desiderarlo.
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Recensioni
Dal Giornale di Brescia dell’8 giugno 2015.
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Da Bresciaoggi del 3 ottobre 2015.
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Dal Corriere della Sera del 10 ottobre 2015.
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La storia, le storie / Il capitale umano
Dal Corriere della Sera-Brescia del 24 febbraio 2015.
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Pensiero del Presente / Il lavoro nella cultura e nell’immaginario attuali*
*Intervento al Convegno Il lavoro che trasforma il mondo, organizzato nell’ambito della mostra promossa dalla Cgil di Brescia CapoLavoro. Arte e impegno sociale nella cultura italiana attraverso il Novecento (Brescia, Museo di Santa Giulia, 10 ottobre-10 dicembre 2014)
Oltre la dimensione economica e tecnica che lo connota, al lavoro ne va riconosciuta una culturale: la sua considerazione, la sua promozione, il ritenerlo un diritto non negoziabile – e di più: una delle condizioni che fondano la relazione con gli altri – non dipendono solo dal grado di sviluppo tecnologico, dall’andamento dell’economia e dallo stato dei rapporti fra le parti sociali e le loro rappresentanze, ma anche dal posto che esso occupa nella mentalità diffusa.
Indipendentemente dal fatto che il lavoro dei contadini di pianura e di montagna ha costruito grande parte del paesaggio e che il lavoro degli artigiani ha fornito i presupposti di gran parte del nostro vivere quotidiano e continua a svolgere in questo senso un ruolo essenziale assicurandone la continuità, è innegabile che il lavoro che trasforma il mondo – stando all’immagine che il titolo di questo incontro evoca – rimanda al lavoro industriale, al lavoro che maneggia la materia di cui il mondo è fatto cambiandone natura e forma. Ma è proprio l’immagine del lavoro industriale che oggi evidenzia i segni di un appannamento della sua presenza nel sentire collettivo. Un appannamento che torna in questi ultimi tempi a farsi divaricazione dei modi di rappresentare il lavoro, il lavoro operaio in particolare: per gli uni componente e per molti aspetti matrice delle sperimentazioni della democrazia, per altri residuo di una società scomparsa (si pensi a come si parla degli anni Settanta, quasi fossero una sorta di preistoria, quasi non appartenessero alla storia del paese, e non fossero ancora memoria viva).
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La forma e il volto della città / Salvare le casére
Dal Corriere della Sera-Brescia dell’11 gennaio 2015.
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La forma e il volto della città / L’Albero della vita e altre storie
È bene dirlo all’inizio. Se fossi vissuto negli anni ’80 dell’Ottocento, e per di più a Parigi, temo che sarei stato fra coloro che guardarono con diffidenza o aperta ostilità la costruzione della Tour Eiffel, emblema ingegneresco dell’Esposizione Universale del 1889. Non mi sarei trovato in cattiva compagnia, c’è da dire. Guy de Maupassant e Alexandre Dumas figlio si schierarono senza remore contro “l’inutile e mostruosa Tour Eiffel”. Quanto ai pittori, se Seurat manifestò la sua approvazione ritraendola quando ancora le mancava l’ultimo piano, Pissarro ci tenne a non raffigurarla mai nei suoi quadri.
Difficile comunque, oggi, confondersi fra quei parigini – una sparuta minoranza di certo – che si ostinano a chiamare la Tour che domina la loro città “l’asparago di ferro”. Come non essere d’accordo con un maître à penser, certo non di bocca buona, come Roland Barthes, al quale la creazione di Gustave Eiffel appariva un “edificio inutile e insostituibile, testimone di un secolo e monumento sempre nuovo, oggetto inimitabile e incessantemente riprodotto”?
Passeggiando nei «Giardini d’inverno», sulle orme di Calvino. Una lettura dei racconti di Paola Baratto*.
(* Paola Baratto, Giardini d’inverno, Manni 2014)
Da dove viene il senso di leggerezza – e di conforto, vorrei dire: di quieta fiducia – che ci resta dopo la lettura di questi racconti, come dopo una passeggiata. breve e ristoratrice? Non certo dal fatto che si tratti di una lettura scacciapensieri. E perché conserviamo una simpatia solidale con i personaggi che abbiamo incontrato? Personaggi che sono lontanissimi dai modelli di vincenti che molto spesso ci vengono proposti più o meno esplicitamente come termini di identificazione, e che dichiarano questa loro estraneità sin dai nomi che portano, nomi comuni (Nino, Irma, Bianca, Fausto, Giulia, Adele) o che suonano addirittura un po’ prosaici, fuoricorso (Biagio, Martino, Gabriele), quasi se ne fosse voluto sottolineare la non eccezionalità. Uomini e donne miti, modesti, e tuttavia animati da una ferma consapevolezza della propria diversità e della necessità di proteggerla. Con discrezione. Ecco la parola: sembrano personaggi ritagliati da un libro, recensito da “La Repubblica” qualche mese fa ma non ancora tradotto in italiano: La discrétion, di Pierre Zaoui, pubblicato dalle parigine Édition Autrement. Vi si parla di persone che praticano “una forma felice e necessaria di resistenzan. (…) lontana dalla dissimulazione, dal calcolo prudente, o dalla paura d’esser vista, l’anima discreta offre una giusta presenza al mondo”. La discrezione: “l’esperienza di un tempo modesto che basta a se stesso”. Non una qualità da esibire, né un atteggiamento che possa generalizzarsi, dal momento che si tratta di un andar controcorrente: “la nostra modernità – sostiene Zaoui – non pare caratterizzarsi solo per una lotta sfrenata per il riconoscimento e la visibilità, ma in pari grado per una lotta sotterrane, più calma ma molto tenace, per l’anonimato et l’invisibilità.” Un fare sotterraneo, deciso ma tranquillo, non appariscente: non sono avventure eclatanti quelle che i personaggi di Giardini d’inverno vivono. Vicende, piuttosto, nelle quali si rapprende uno stile di vita in grado di farsi testimonianza che contraddice la banalità dei discorsi e il conformismo dei comportamenti, e per questo suscita timore. Perché “ciò che è banale ha l’unico merito di essere rassicurante”, e ciò che non lo è non solo può inquietare, ma suscitare osservazioni sarcastiche, sdegnose prese di distanza, o addirittura reazioni ostili (la signora che veste “come se fosse sgusciata da una cartolina seppiata degli inizi del Novecento” “non dovrebbero lasciarla andare in giro”, e l’uomo che si costruisce una casa piena di finestre e lucernari, vedrà la sua “casa di vetro” presa a sassate).
Man mano che si procede nella lettura si comincia a sentire una medesima aria circolare fra le pagine dei racconti che si susseguono, un significato che li accomuna, un gioco di rimandi che li tiene saldamente insieme, senza che si ricorra all’espediente ormai collaudato di far incontrare, a un certo punto, tutti i personaggi, come avviene in tanti film, francesi soprattutto. I protagonisti di Giardini d’inverno marciano ognuno per la propria strada. Solo in un paio di casi si incrociano, comparendo uno nel racconto dell’altro ma senza interferire più di tanto. Per il resto, si attengono a una coerenza che ogni inizio di racconto ci presenta come un tratto di lungo periodo, da tempo praticata. Non enunciata, da chi scrive, ma che sta al lettore intuire dai gesti e dalle parole, poche, dei personaggi.
Si tratta di “collezionisti” nei quattro racconti della prima sezione, di sognatori o abitanti di “altrimondi” nella seconda, di ascoltatori attenti della “lingua delle cose mute” nell’ultima. Tutta gente che nello scegliere tra l’avere e l’essere non hanno dubbi. Non occorre possederle le case in cui ci piacerebbe abitare: basta assegnare ad ognuna il mese in cui preferiremmo farlo. E sono del tutto immateriali i pezzi che insegue la collezionista di stagioni, riconoscendole nel suono struggente dei garriti delle rondini, in profumi e odori evanescenti, nella sensazione tattile del velluto di muschio che avvolge il tronco di una pianta: non è la contemplazione della caducità che la donna coltiva, ma proprio il suo opposto. Lei, delle stagioni cerca “quello che non cambia”: nel loro divenire scova l’essere. L’essere di un tempo ciclico, e già questo rappresenta a ben vedere uno scarto, non una contestazione ma uno scostamento netto rispetto al tempo rettilineo che imperativamente ci domina, sin nel profondo.
Così come dilagante e contagioso è l’uso distratto, omologato delle parole: occorre riconoscerne la fisionomia, verificarne la rispondenza con noi stessi, apprezzarne addirittura la carica erotica per farne oggetto di collezione, e in questo modo contrastarne l’usura. Ma è altrettanto possibile e motivato raccogliere invece sassi, uno diverso dall’altro e anche per questo suscettibili di farsi segno della unicità di ognuno di noi, memoria inconfondibile di chi se n’è andato. E’ difficile non ritrovare in questa sensibilità, che ravvede significati umani anche nell’inorganico, una suggestione analoga a quella che doveva aver mosso l’anonimo collezionista di sabbia – sabbia grigia del Balaton, bianchissima del Siam, rossa del Senegal – la cui opera Italo Calvino aveva visto a Parigi (e dove se no… Parigi è punto di riferimento ricorrente nei racconti di cui parliamo). Un collezionista, quello, che è inevitabile sentire fratello della Irma che raccoglie sassi. Un collezionista, spiega Calvino, che “sapeva dove voleva arrivare: forse proprio ad allontanare da sé il frastuono delle sensazioni deformanti e aggressive, il vento confuso del vissuto”.
Ma in fondo non è proprio questo l’orizzonte non solo di Cuore di pietre, ma anche degli altri racconti di Paola Baratto? Non è questo il filo che ne fa un unico romanzo? “Come nelle poesie e nelle canzoni le rime scandiscono il ritmo, così nelle narrazioni in prosa ci sono eventi che rimano fra loro”: è lo stesso Calvino a ricordarcelo in una delle sue Lezioni, quella sulla rapidità.
Senza trascurare altri fili, certamente. Situazioni che tornano e via via si precisano nella ricchezza dei loro significati. Il silenzio innanzitutto. Non un vuoto, tutt’altro, essendo che “se la musica è ordita da innumerevoli combinazioni di note, lo stesso vale per il silenzio” (parole che sembrano quelle di Mario Brunello, nel suo trattatello recentemente dedicato, appunto, al silenzio).
Basta saperlo ascoltare, il silenzio. Sarà allora possibile rendersi conto che “anche il più piccolo frutto maturo possiede un suo relativo fragore, nell’istante in cui spacca la buccia”, e che non c’è “nulla di più variegato e multiforme del tacere degli esseri umani” (mi torna in mente quell’aneddoto dell’incontro fra Borges, ormai cieco, e Calvino, che la reverenza per il maestro rende più taciturno del solito: “L’ho riconosciuto dal suo silenzio”, risponde più tardi Borges a chi gli domanda come ha fatto a capire che fra le persone che erano andate a visitarlo c’era anche lo scrittore italiano).
Il silenzio, parente stretto della trasparenza (“il vetro è trasparente come il silenzio, tutto lo attraversa”), ma anche delle ombre, “quel risvolto inseparabile dai corpi, dalle cose”, presenza silenziosa, “gemello muto” degli esseri viventi. E’ fotografando le ombre dei suoi clienti che Adele ne coglie i sentimenti inespressi, o inconfessabili, così come è guardando attraverso la nebbia che avvolge la sua casa di pianura che Fausto impara a “leggere tra le righe delle frasi dette per calcolo, per compiacenza, per ipocrisia”.
Un altro tratto comune ai protagonisti: la calma, la lentezza. Di fronte ai capolavori pittorici conservati nei musei Bianca – che non è una monaca, ma un’”ispettrice in ambito turistico”, costretta dal suo lavoro “a spostarsi da una città all’altra”- si concedeva d’indugiare”, “si godeva la pausa”, e uscita dal museo amava il “passeggio senza meta”, la flânerie, ma anche il sostare “dietro le vetrine scintillanti d’una brasserie, ch’era poi, ugualmente, una forma di flânerie sedentaria”. E’ questa propensione alla lentezza che le permette di abitare i quadri che ama, di “inoltrarsi dentro una dimensione temporale cristallizzata, esclusa dall’ingranaggio inarrestabile dello scorrere”.
Non solo le opere d’arte, però, rappresentano interlocutori essenziali. Anche le cose suscitano una pietas che sa interpretare la loro “lingua muta”, e fra di esse soprattutto gli “oggetti vecchi, ossidati, opachi” (come capitava a Brecht: “Fra tutti gli oggetti i più cari”, notava, “sono per me quelli usati. Storti agli orli e ammaccati…): “gli utensili dozzinali d’uso quotidiano” per i quali Gabriele sente “una specie di pena” e che esita a buttar via, che raccoglie addirittura quando li vede abbandonati vicino a un cassonetto dei rifiuti, “relitti domestici senza più domus”.
Motivi e atteggiamenti che, si diceva, danno unità ai dodici racconti (solo dodici purtroppo), ma che non si limitano a questo. O meglio: se questo è il loro effetto è perché non sono che gli aspetti di una stessa critica. Una critica che non si vuol argomentare, che resta lontanissima da ogni intento di persuasione e ancor meno di polemica. Si direbbe che l’autrice condivida la propensione di Adele, la “fotografa delle ombre”, che “da qualche tempo disertava la chiarezza e preferiva lasciare ad altri l’incombenza spugnosa delle spiegazioni”. Non è lo sguardo che si accanisce criticamente quello che si è indotti da questa lettura a rivolgere al nostro mondo. E’ invece uno sguardo che sa cogliere qui dove siamo l’altrove di cui avvertiamo un bisogno vitale. Un altrove in cui regnano – ripetiamolo – il silenzio, la trasparenza, le ombre, la lentezza: basta pensarne il contrario e si ricavano, per contrasto, i caratteri del mondo in cui viviamo: il rumore e la chiacchiera, l’ opacità e insieme la luce cruda e abbagliante che illumina le merci (cioè tutto, tendenzialmente), la velocità ossessiva, la non affezione per le cose che usiamo e gettiamo.
Uno sguardo capace dunque di pazienza e fermezza insieme, di spietatezza e dedizione allo stesso tempo. Ma che soprattutto sa rivolgersi sempre indirettamente a ciò che osserva. Allo stesso modo di Perseo, che non posa i suoi occhi “sul volto della Gorgone ma solo sulla sua immagine riflessa nello scudo di bronzo”, in ciò offrendoci “un’allegoria del rapporto del poeta col mondo, una lezione di metodo da seguire scrivendo”: “è sempre in un rifiuto della visione diretta che sta la forza di Perseo – siamo alla Lezione sulla leggerezza adesso – ma non in un rifiuto della realtà del mondo di mostri in cui gli è toccato vivere, una realtà che egli porta con sé, che assume come proprio fardello.”
Ecco. Prendere le distanze dalla realtà del mondo è forse il modo (l’unico, oggi?) per non nascondersi l’inevitabilità di portarne il fardello.
Gira e rigira è sempre a Calvino che mi riportano i passi che muovo in questi Giardini d’inverno, a conferma del fatto che “la leggerezza è qualcosa che si crea nella scrittura”, in una scrittura come questa, prova convincente e viva della “funzione esistenziale” che può avere la letteratura quando si fa “reazione al peso del vivere”.
E’ solo a questo punto che quel senso di conforto, e di pacata fiducia, di cui dicevo all’inizio mi si chiarisce, e posso individuarne la fonte: nella voce che trascorre in queste pagine. La voce che con parsimonia i personaggi fanno sentire è la stessa che guida la scrittura di questi racconti. Apparentemente svagata, mai assertiva, e pure decisa nella sua scelta.
Ancora Calvino, quello delle Città invisibili stavolta: “L’inferno dei viventi non è qualcosa che sarà se ce n’è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
È questo secondo modo che Paola Baratto ha scelto. Di qui viene la voce che ci ha dato questi sommessi, poetici minima moralia.
L’incompleto conoscersi
Questo libro inaugura la collaborazione fra Secondorizzonte e la casa editrice veronese Cierre edizioni, che dalla metà degli anni Ottanta opera nel campo dell’editoria di approfondimento e qualità.
Una situazione “scabrosa e singolare” quella di persone “che si conoscano solo attraverso lo sguardo”: la richiama Thomas Mann nella Morte a Venezia, notando che è proprio da questo loro “incompleto conoscersi che nasce il desiderio”.
È quanto accade al protagonista, dodicenne, di questo romanzo quando incontra Heinrich e Thomas Mann, durante un loro soggiorno di cura a Riva del Garda, ed è lo sguardo del secondo a colpirlo: “alzava gli occhi a guardare il lago, però si vedeva che guardava più lontano. O non guardava neanche… Certo è che non mi avrebbe tanto colpito lo sguardo che quel signore, improvvisamente giratosi dalla mia parte, mi rivolse, se non ne avessi prima notato quel modo di guardare…”.
L’incontro, insieme a quello che si ripeterà anni dopo a Viareggio, durante un altro periodo di vacanza dello scrittore, segna la vicenda del protagonista, rivelandogli una “forza, che fino a quel momento non aveva mai sospettato di possedere” e che si traduce nel desiderio di sfuggire alla vita che il destino familiare gli offre. Un desiderio che conoscerà diversioni ma si manterrà in qualche modo fedele a se stesso e lo condurrà, prima bambino, poi giovane, a riattraversare la storia drammatica della propria famiglia da un lato, e dall’altro a intraprendere un lungo e complesso itinerario di conoscenza di sé.
Quella che segue è la pagina iniziale del romanzo.
A dodici anni portavo ancora i capelli lunghi come quando ero piccolo. Così voleva mia madre, che nei mesi precedenti la mia nascita s’era convinta che stava per veni- re al mondo la bambina che desiderava da sempre. Invece ero arrivato io, e lei mi teneva a quel modo i capelli, fin sulle spalle, e prima di uscire con mio padre, la domenica, me li lisciava con una spazzola che usava solo per me, e poi mi metteva un poco di rossetto sulle guance e non ancora contenta si inumidiva di saliva l’indice e il medio d’una mano e me li passava sulle sopracciglia.
Quanto agli abiti mi vestiva come un maschio, ma i capelli voleva che restassero così, e mio padre aveva smesso di protestare. C’era un patto fra loro, da tempo. Che quando sarei entrato in fabbrica anch’io, il giorno prima lui mi avrebbe portato dal barbiere, e non dall’Amedeo, che stava al Varone, ma dal barbiere Bonometti, quello giù in città. Perché il taglio doveva essere perfetto.
Se mi si chiedesse che cosa ne pensavo io, non saprei rispondere. O direi che ad avere i capelli lunghi ero abituato. E comunque la cosa non mi interessava poi tanto. Come se riguardasse un altro. Quella saliva sulle sopracciglia e quei pomelli rossi, quelli sì mi davano fastidio, e cercavo di divincolarmi quando mia madre me li imponeva. Ma i capelli no. Non escludo che in fondo mi ci sentissi a posto. Li avevo sempre avuti così e non badavo a quelli degli altri ragazzi, a scuola: sarebbe stato come sentirmi diverso perché il mio naso, o il colore degli occhi o la forma delle orecchie non erano uguali a quelli di un altro. Quello ero io, e basta. Coi capelli lunghi e ancora biondi del biondo che poi coll’età scurisce. Ma questo non lo sapevo, allora. Non sapevo molte cose allora.
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Recensioni
Dal Corriere della Sera-Brescia del 26 novembre 2013.
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Dal Corriere del Trentino del 20 novembre 2013.
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Dal Giornale di Brescia del 26 novembre 2013.
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Da Bresciaoggi del 28 novembre 2013.
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Da Gruppo 2009, 3 febbraio 2015.
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Da AB inverno 2015.
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La storia, le storie / Come un romanzo. Una rilettura e una conversazione a partire da un saggio storico di Gianfranco Porta
Il luogo innanzitutto: la lontana Lipari, lontana e sperduta ma non tanto da non poter stabilire contatti con la rete dei fuoriusciti antifascisti che stavano a Londra e a Parigi. E in quest’isola, che possiamo immaginare immersa nella luce e nel sole della primavera mediterranea, degli uomini, che vi sono stati confinati dal regime, e si presentano ognuno con i loro carattere, il loro stile specifico. C’è il metodico, il tipo che appare “incapace di alterare le proprie abitudini”, e quell’altro che con i suoi gesti quotidiani offre di sé “l’immagine di un uomo tutto dedito allo studio e alla famiglia”.
In realtà – e lo scopriamo presto, magari in una scena in cui li vediamo confabulare tra loro – stanno inscenando una rappresentazione per i loro sorveglianti. Impersonano una parte studiata appositamente.
Sembra l’inizio di un romanzo di Graham Green, o il soggetto di un film. A me vengono in mente i personaggi della Grande fuga – e del resto la storia che uno di questi uomini scriverà anni dopo, in inglese, si intitolerà Escape: fuga, appunto – quando appena evasi dal campo di concentramento assumono le sembianze di tranquilli cittadini tedeschi. Ma anche prima, quando sono ancora prigionieri e architettano la loro impresa, i personaggi del film sembrano vicini ai confinati di Lipari che osservano i metodi dei servizi di vigilanza, studiano orari e percorsi, addirittura si esercitano al nuoto, perché è da un’isola che devono fuggire. E fra questi uomini non manca naturalmente la figura femminile, la moglie di uno di loro, che li appoggia approfittando della relativa libertà di cui gode in quanto inglese.
Poi però, come in ogni trama romanzesca che si rispetti, l’imprevisto: il piano salta, il proposito di buttarsi in mare, nel pieno della notte, e farsi raccogliere da “un’imbarcazione veloce in grado di sottrarsi all’inseguimento dei MAS” – e qui pregustavamo già un inseguimento spettacolare, questa volta alla Fleming – non risulta attuabile. Altri confinati – che ci piace immaginare sprovveduti e impazienti, giovani e spavaldi, incapaci di adeguarsi alla preparazione metodica di quegl’altri – mettono in allarme le guardie.
La scrittura e la storia. Un percorso di lettura*
Come scrive uno storico? i suoi procedimenti sono del tutto diversi da quelli del romanziere o ci sono punti di contatto?
Perché alcuni libri di storia, al di là delle notizie che contengono e del rigore del metodo in essi impiegato, coinvolgono il lettore e altri no?
Domande che nascono in chi legge saggi storici come in chi si è trovato a scriverne (non importa se a scala locale), e che sottendono questioni di fondo attinenti al significato stesso della ricostruzione storica e, in senso più generale, al nostro rapporto con il passato.
Domande che rimandano a una lunga e non conclusa discussione che ha visto impegnati filosofi e storici, e che ha portato alcuni studiosi a sostenere che la storia non è che un genere letterario, e dunque è necessario che anche gli storici che non l’hanno finora fatto tornino (dopo aver cercato di imbrigliare le loro ricostruzioni storiche nelle reticoli di teorie di diversa ispirazione) alla narrazione.
Ma più di questo dibattito – intrigante e intricato: una buona ricostruzione si trova in La teoria della storiografia oggi, di Paolo Rossi, pubblicato dal Saggiaore nel 1983 – se si vuol cercare di rispondere alle domande iniziali occorre chiedersi se la narrazione non sia tanto una scelta che lo storico fa o non fa quando, letti e analizzati i suoi documenti, prende in mano la penna, ma piuttosto non sia l’unico modo che ha a disposizione per costruire il suo discorso, o addirittura l’unica via per dargli consistenza; capacità conoscitiva rispetto al passato e persuasiva rispetto al lettore; coerenza e rigore, sia pure in un modo diverso da quello delle scienze esatte.
Sembra di questa idea Hannah Arendt (in Vita activa. La condizione umana): “Chi parla di ciò che è stato racconta sempre una storia”, dice, e non usa il termine history, la storia in quanto disciplina, studio del passato, ma story, che significa storia nel senso di racconto, trama, narrazione (e anche, come in italiano, fandonia, bugia).
D’altra parte – e reciprocamente, si potrebbe intendere – Paul Ricoeur, nella sua opera monumentale Tempo e racconto, sostiene che “raccontare una qualsiasi cosa vuol dire raccontarla come se fosse accaduta”.
La forma e il volto della città / Paletti, istantanee dall’età della Pietra
Luoghi cose musei / La fabbrica nel territorio, nel paesaggio, nell’immaginario. Note sul caso bresciano
(il testo è tratto dal catalogo della mostra CapoLavoro. Arte e impegno sociale nella cultura italiana attraverso il Novecento. Museo Santa Giulia di Brescia 10 ottobre 2014 – 10 dicembre 2014, a cura di Mauro Corradini e Fausto Lorenzi, Roma, Ediesse, 2014)
Il ritardo che segnò la comparsa della grande industria in Italia fece sì che nel nostro paese la grande trasformazione si avviasse in un periodo nel quale la tendenza artistica dominante si stava ormai orientando in una direzione poco propensa ad ammettere la fabbrica fra i soggetti della pittura, mentre erano del resto quelli tradizionali che il gusto diffuso, e il mercato dell’arte, continuavano a prediligere: le ragioni addotte per spiegare la scarsa presenza dei luoghi del lavoro industriale nella pittura italiana possono probabilmente essere trasferite in qualche misura al caso bresciano.
Pensiero del Presente / L’ingiusta distanza. Notizie dall’Africa
Al confronto, orientarsi fra sunniti e sciiti, e nelle nuove strane alleanze nei paesi arabi è facile. Noi, lettori di giornali e spettatori di tg, capiamo poco o niente, invece, di quel che succede in Africa, e quando succede di incontrare qualcuno che c’è stato e ne parla dunque per esperienza diretta, l’impressione di un’insormontabile difficoltà a metter ordine in quel che ci viene raccontato prevale. Soprattutto quando chi riferisce quel che ha visto non è né un turista né un volontario che per uno o due mesi si è aggregato a un’iniziativa umanitaria o a una missione. Quando si tratta di una persona che là ci sta stabilmente, da anni, è l’immagine di un mondo complicato all’inverosimile, il senso di una diversità incolmabile rispetto a quel che conosciamo, che ci si riversano addosso, e ci fanno d’improvviso sentire il nostro tremendo ritardo o, per meglio dire, l’estraneità, l’astrattezza, l’approssimazione di quel che credevamo di sapere dell’Africa.
E’ quanto mi è capitato parlando con *** (“non scrivere il mio nome, non mi interessa: faccio il mio mestiere come uno lavora in banca o insegna a scuola…”). Bresciana, sociologa (laurea a Trento poco più d’una ventina d’anni fa), e ora funzionaria Onu. Tredici anni di lavoro. In Kosovo, Costa d’Avorio, Iraq, Sud Sudan, e oggi nel Nord Kivu, una provincia – ricchissima di minerali – della Repubblica Democratica del Congo che confina con Uganda e Ruanda.
Funzionaria è però termine generico. Lei è una delle migliaia di peacekeepers. Peacekeepers: donne e uomini il cui intervento è finalizzato a “mantenere la pace”. Questo significa peacekeeping, secondo la definizione data dall’Onu stessa: “un modo per aiutare paesi tormentati da conflitti a creare condizioni di pace sostenibile”. Da non confondersi dunque, i peacekeepers , con gli esportatori di democrazia. Non fanno notizia il “disarmo e reinserimento di ex combattenti” ossia, in concreto, il cercare di convincere i guerriglieri dei vari eserciti irregolari a disertare. A tornare a casa, perché la maggior parte di loro vengono da altri paesi. Fra quelli dell’M23, uno dei tanti gruppi combattenti – è anche con quelli che l’unità cui appartiene la mia interlocutrice ha a che fare – ci sono ruandesi e ugandesi, ad esempio. Un lavoro di moral suasion si potrebbe allora definire il suo? No, non lo definirebbe così ***, perché non sono discorsi generali, di principio, che si rivolgono a queste persone. Li si invita piuttosto a badare a quel che conta, a riprendersi la loro vita, atornare a casa appunto, promettendogli l’aiuto necessario, portandogli le prove che altri hanno scelto di farlo e ci sono riusciti e adesso stanno bene, si fa per dire.
La ascolto mentre mi spiega che hanno quindici siti dislocati nel Nord Kivu, accanto alle basi militari ONU – è qui che i guerriglieri che vogliono disertare possono farlo in sicurezza – e usano cinque radio mobili, dalle quali trasmettono messaggi ai guerriglieri, nelle varie lingue locali. Poi mi mostra il video, realizzato artigianalmente, di un altro tipo di azione: il lancio di volantini dall’elicottero. Sorvolano zone montuose e verdissime, in cui la vegetazione è interrotta qua e là da villaggi che la distanza – per quanto l’elicottero voli a bassa quota – fa somigliare a villaggi vacanza (saranno i bungalow. o quelli che tali i sembrano, o il paesaggio invitante in cui sono immersi, ma l’impressione è quella). I volantini sciamano verso terra e si vedono ragazzi che corrono a raccoglierli, come si faceva, bambini della colonia marina, quando sopra la spiaggia passava l’aereo della pubblicità del dentifricio. I guerriglieri no, non si vedono: sono dentro quel verde che attornia i villaggi, ma ce ne sono anche mescolati ai civili. Non si lasciano vedere comunque, e però quei volantini li leggeranno: migliaia di loro hanno già disertato.
Ma come si è arrivati a una situazione del genere? Inevitabile chiederlo, ma ecco che di nuovo la confusione, che mi pareva di aver un po’ superato in quel racconto di messaggi radio lanciati nel fitto della foresta e in quelle immagini colorate di luoghi e persone, torna a dominare. Vicende di alleanze e tradimenti, di generali e dittatori che si fan fuori l’un l’altro, di eserciti che spuntano dal nulla, di scontri ed eccidi di cui non si riesce a fissare la successione mentre ancora te ne parlano.
Credevi di sapere qualcosa dei posti dove *** e i suoi compagni lavorano perché ti erano rimaste impresse le immagini di Hotel Ruanda, il film sul genocidio perpetrato dalla maggioranza Hutu sulla minoranza dei Tutsi (un milione di morti, nel ’94). E ti accorgi che quella tragedia non è finita. Perché fra i guerriglieri dell’M23, che combattono contro l’esercito regolare della repubblica congolese ci sono molti Tutsi: figli e nipoti dei trucidati di vent’anni fa, e a quanto pare è il Ruanda soprattutto ad armarli. Ma c’è anche la milizia Hutu delle FDLR. Sono una ventina i gruppi armati attivi nel Nord Kivu. E allora lo sforzo è quello di convincerli a smettere, sforzo contestuale all’intervento militare nel Congo orientale deciso dall’Onu nel marzo dell’anno scorso e finalizzato non solo a proteggere i civili, e gli stessi peacekeepers, ma anche a neutralizzare i gruppi armati.
Credevi che bastasse qualche foto di bambini soldato per avere un’idea della violenza che si vive là, e invece ti rendi conto, adesso, che cosa significa che molti di quelli che cercano di attraversare il Mediterraneo fuggono dalle guerre e che il viaggio sul barcone, che approdi a Lampedusa o invece finisca prima, è stato preceduto da un altro viaggio, altrettanto inimmaginabile, per fatica, costi, rischi: il viaggio per arrivare al nostro mare partendo dall’interno del continente.
Dopo l’incontro con *** leggo con altri occhi gli articoli che parlano dell’Africa, e li leggo fino in fondo. Tanto più che, nel frattempo, le notizie sono purtroppo aumentate, per via di Ebola: “all’abisso già esistente fra l’Africa e il resto del mondo che ci ha reso insensibili davanti alle stragi del Mediterraneo – ha scritto Adriano prosperi su “La Repubblica” del 9 ottobre – oggi si aggiunge la minaccia di abissi anche più profondi all’interno delle nostre società e dei nostri rapporti umani abituali. Excalibur – il cane dell’infermiera spagnola Teresa Romero contagiata da Ebola, abbattuto l’8 ottobre – può essere la prima vittima di un esperimento assai più vasto.”
Un esperimento il cui presupposto è forse già un dato di fatto: “C’è una chiara tendenza a depennare come casi da cestinare parti del mondo, quali l’Africa occidentale e quella centrale”. Lo afferma Stanley Cohen, studioso degli Stati di negazione (come si intitola il suo libro, in Italia pubblicato da Carocci nel 2002, sottotitolo: La rimozione del dolore nella società contemporanea). La mancanza di informazione non spiega tutto, anzi: “alle persone, alle organizzazioni o ad intere società sono fornite informazioni troppo inquietanti, minacciose o anomale perché siano interamente assorbite o apertamente riconosciute. Pertanto tale informazione è rimossa, negata, messa da parte, re-interpretata. Oppure essa viene sufficientemente ‘registrata’, ma le sue implicazioni – cognitive, emotive o morali – sono evitate, neutralizzate, razionalizzate”. E così che alle notizie su diverse realtà – come l’aumento evidente della povertà anche nelle società occidentali, o il riscaldamento del pianeta con le sue conseguenze più manifeste, o il disastro dell’Africa appunto – “la gente reagisce come se non sapesse quello che sa.”
E “sapere e non agire è non sapere”, ricorda Cohen riportando un antico detto cinese.
La storia, le storie / Una conversazione sulla scrittura con Giuseppe Lupo
La forma e il volto della città / Le casére dei Mercati generali: una sentenza di morte
L’abbandono dell’idea di una sede unica per gli uffici comunali e del progetto dell’edificio spettacolare progettato da Libeskind negli spazi degli ex Magazzini Generali, fra via Dalmazia e via Don Bosco, sembrava avesse aperto spazio per nuove idee, un anno fa, o alla ripresa di ipotesi che erano già state avanzate pochi anni prima. Come quella di un auditorium: già attorno al 2006 si era pensato (ed era lo stesso LIbeskind l’architetto coinvolto) che ad ospitarlo potessero essere le casére, i grandi capannoni in cotto che dagli anni ’30 avevano ospitato decine di migliaia di forme di formaggio. Non era un’idea strampalata: a Parma, in uno stabilimento dismesso dall’Eridania, Renzo Piano ha realizzato appunto un auditorium, ricordavano Giovanni Comboni e Elena Franchi nel settembre 2013 su questo stesso giornale.
Solo un mese dopo, però, dell’idea non restava traccia. Dall’incontro fra l’Amministrazione comunale e la società proprietaria dell’area usciva una nuova definizione della destinazione del luogo: un nuovo centro commerciale, residenze (in buona parte edilizia convenzionata) e uffici.
La storia, le storie / E il libro si fece carne
Un giallo nella Gavardo del 1238
Recentemente, nel mondo della critica letteraria è emersa l’idea che per ridare vitalità e credibilità a una letteratura sempre meno capace di incidere su un immaginario collettivo colonizzato e omologato dai media sia consigliabile tornare al romanzo storico: strumento, paradossalmente, per catturare l’attenzione di chi vive oggi.
Altri hanno invece ravvisato la stessa potenzialità nel giallo, o nel noir, nel quale ravvisano una sorta di romanzo sociale della nostra epoca.
C’è chi – a volte avvalorando teorie simili, altre semplicemente ascoltando la propria voglia di scrivere, di raccontare – ha fatto convergere i due generi, e ha scritto romanzi gialli ambientati nel passato, ed è E’ Il nome della Rosa di Eco, naturalmente, che viene innanzitutto in mente.
Più recentemente, una novità si può rilevare nel fatto che come protagonista, come detective, si sono scelti personaggi d’eccezione. Niente meno che Aristotele è l’investigatore dei romanzi di Margaret Doody, una scrittrice canadese: alla fine degli anni settanta il paio di racconti che aveva pubblicato avevano avuto così poco successo da indurre la Doody a lasciar perdere, ma nel 1999 i due volumi sono stati ripubblicati in Italia, da Sellerio, riscuotendo grande consenso di pubblico e di conseguenza la scrittrice ha ripreso la serie con nuovi racconti nei quali Aristotele mette la sua logica ferrea al servizio dell’indagine, in ciò assistito da un tale Stefanos, secondo il collaudato schema per cui non c’è uno Sherlock Holmes senza il suo Watson (come del resto nel Nome della rosa).
Seguendo l’esempio della Doody, sia pure con esiti meno brillanti, un’americana, Diane Stuckart, ha fatto indossare l’abito del detective a Leonardo da Vinci.
Albertano da Brescia. Magistrato e uomo di lettere, non ha certo la statura di Aristotele o di Leonardo, ma l’avergli assegnato attitudini e capacità di investigatore collocano in questo filone un recente romanzo di Enrico Giustacchini (Il giudice Albertano e il caso della fanciulla che sembrava in croce, Brescia, Liberedizioni, 2014), che tuttavia può vantare tratti indubbi di originalità rispetto ad altre prove del genere.
A partire dalla decisione dell’autore di non tenere per sé la natura dei documenti che gli hanno permesso di ideare la sua storia: due registri d’inventario della Mensa vescovile che danno la possibilità di restituire la fisionomia dei luoghi e dei loro abitanti. Di restituirla ma, allo stesso tempo, anche di immaginarla, perché dei documenti l’autore di romanzi storici si deve liberare, dopo essersene servito. Deve immaginare, appunto, pur sempre entro i confini del verosimile, e l’occuparsi di un’epoca come quella medievale di sicuro favorisce questo rapporto col documento: ce lo ha ben spiegato uno storico come Georges Duby, che nel suo Il sogno della storia dichiarava apertamente come la ricostruzione storica sia frutto anche di immaginazione e come l’immaginazione possa dare il suo contributo essenziale quanto più i documenti sono scarsi, lacunosi. Se questo è vero per lo storico rigoroso lo è tanto più per il romanziere, libero di forzare il documento e di colmare vuoti.
Giustacchini non vuole però abusare di questa libertà, o meglio: ne vuole rendere esplicite le condizioni, e i limiti. E dunque – avverte nell’introduzione – “coloro che lo desiderano potranno fruire, in appendice al volume, di un repertorio di notizie, citazioni, rimandi” con “la raccomandazione di accostarvisi però solo dopo aver terminato il romanzo”. Perché è appunto la logica del romanzo che deve prevalere, con tutti i suoi artifici. Artifici che l’autore usa con padronanza, mostrando in primo luogo la capacità di entrare nella testa del protagonista e di far conoscere al lettore i suoi pensieri ricorrendo all’espediente di introdurre un altro personaggio, sapendo che questo dovrà però essere all’altezza del protagonista, un intellettuale, per cui quest’altro personaggio dovrà possedere gli strumenti per capirlo e se del caso contraddirlo. Ecco allora Berengario (non a caso, un medico: come Watson, anche se lo schema della coppia genio dell’indagine-compagno che gli fa da spalla in questo romanzo non risulta dominante).
E come dire del contesto, della scena che fa da sfondo agli avvenimenti e ai discorsi dei personaggi? Usando il punto di vista di questi ultimi, mettendo in bocca a loro i cenni descrittivi, attribuendo a loro il compito essenziale di farli vedere, i luoghi, e non arrogandosi il privilegio scontato, e stucchevole, del narratore onnisciente. E le vicende storiche pregresse: come renderne conto? Spesso nei romanzi storici il raccontarle crea uno stacco sgradevole, un cambio di registro che fa venir voglia di saltare qualche pagina per ritrovare lo svolgersi della trama vera e propria. L’alternativa, scelta da Giustacchini, sta in brevi flashback, introdotti sempre in modo motivato laddove la trama lo richiede ( “L’imperatore, Albertano l’aveva visto una volta sola (…) era avvenuto a Bologna”, e poi, a due pagine di distanza: “Diciott’anni dopo, Albertano si chiedeva se avrebbe rivisto Federico”). Flashback – analessi – ma anche prolessi, anticipazioni: “Albertano meditava di scrivere un libro sul tema della consolazione e del perdono”, quel Liber consolationis che non a caso sarà un “trattato morale ma insieme il racconto di un delitto”. Lo stesso libro di cui l’autore costella il racconto con brevi estratti che marcano le tappe salienti della storia. Che segnano il testo di rimandi a un ipertesto, si potrebbe dire.
Ma veniamo al protagonista, Albertano. Conosciuto come uomo dall’intelligenza e dall’acume proverbiali, non smania tuttavia per mettersi a far ricerche e non sembra entusiasta di doversi occupare di un delitto. Se si lascia convincere dal gastaldo ad occuparsi del caso della morte di Jacoma è perché la ragazza, brevemente incontrata, l’aveva affascinato ricordandogli, con la sua bellezza e il suo profumo, “la stagione vibrante della gioventù”. Del detective ha comunque la stoffa. Ne ha l’intuizione (“Hai mentito, caro il mio ragazzo”, dice fra sé dopo aver ascoltato uno dei personaggi, Lucio Frere), ma ha anche l’atteggiamento che conosciamo ad altri investigatori: non a Holmes, ma piuttosto a un Maigret: Albertano lascia che nella sua anima “(si insinuino) mille e mille dubbi” e non disdegna affatto ma accoglie come un dono il fatto che l’intuizione gli venga da un sogno, un dono che Albertano sembra voglia lasciar libero il lettore di stabilire se venga dal buon Dio, come provvidenziale illuminazione, o dal lavorio di una mente raziocinante.
Oltre a questi, il protagonista è contraddistinto da tratti che si intuisce condivisi dall’autore: il disincanto per esempio, che si manifesta nel modo di fare di Albertano, ma anche nei suoi pensieri più profondi (“tutto ha un fine e tutto finirà. Il tempo perderà il suo significato e tra la vita effimera di una lucciola e quella del firmamento, proseguita immutabile dal quarto giorno della creazione, non vi sarà più differenza”). Non si tratta di una questione di poco conto: un personaggio è vivo e credibile quando l’autore in certa misura gli aderisce. L’identificazione dello scrittore col suo personaggio è condizione dell’identificazione e quindi del piacere del lettore, fatto anche e forse soprattutto di risonanze fra sé e quel che legge. Ed ecco allora, oltre al disincanto, la sobrietà dell’espressione (carattere decisivo in un uomo che avrebbe scritto un’opera intitolata De arte loquendi et tacendi). Una sobrietà che fa tutt’uno con una razionalità non fredda, sillogistica (come quella di Holmes), ma fatta di comprensione degli altri. Una razionalità che ammette piccole abitudini che di razionale hanno poco (mi chiedo se anche l’autore abbia l’abitudine di scarabocchiare i margini dei libri che legge con disegnini fanciulleschi come faceva Albertano e molti di noi fanno).
E infine, un altro tratto distintivo, che costituisce un carattere di fondo di questo romanzo: una certa fiducia, negli uomini, in generale, e dunque anche nella capacità del lettore di accostarsi e di gustare una vicenda non semplicemente complicata nell’intreccio ma, anche, densa di rimandi culturali: l’alchimia, ad esempio, o la complessa rete di allegorie che caratterizzava il pensiero medievale, anche queste introdotte senza cadere nel didascalico ma come riferimenti necessari alla svolgersi della trama e introdotti con naturalezza attraverso il dialogo dei personaggi.
La forma e il volto della città / Bernardo Secchi
La forma e il volto della città / Incontrando Venturini nel «suo» parco
La pazienza di vivere. Storia di Andro
Andrea Spada (Andro), di Schilpario in Val di Scalve, racconta una storia della montagna, una storia di boschi, carbonaie e miniere. E insieme la storia di un amore coniugale e poi di una vecchiaia che, segnata dalla perdita, impone la necessità di un bilancio esistenziale e offre riflessioni che vanno oltre la vicenda personale.
Dopo un’infanzia di fame, conosce la miniera, a dodici anni; è poi carbonaio e boscaiolo con la passione del bosco e in seguito di nuovo minatore, con la passione della miniera; infine operaio e capocantiere. Le risorse cui Andro ha fatto appello in tutta la sua vita non sono mai venute meno: la passione, per il lavoro imparato da altri che lo facevano prima di te ma che poi sei tu a poter decidere come fare, e la pazienza: “staremo a vedere”, è l’intercalare che cadenza il racconto di Andro.
La passione appartiene certamente a un’altra vita, ormai passata: “quel che è perso è perso”. Ma la pazienza no: è ancora la pazienza a guidare il cammino dell’ottantaquattrenne Andro. La pazienza di vivere.
I brani che seguono sono tratti dal resoconto delle mie conversazioni con Andro, e dai suoi diari.
Sì, certo: nei boschi ci vado ancora, delle volte… Ma a fare cosa?
Andro, boscaiolo e carbonaio prima che minatore, lascia cadere questa frase nel salutarci. Gli avevo chiesto come passava la giornata, adesso che era solo.
Le sue parole mi restano in mente: non è solo pena per una solitudine che sembra sconfinare nel disorientamento. In quell’immagine di lui che non trova più – nei boschi che ci sono intorno al paese, appena fuori dalla sua porta – quello che lo chiamava prima, quando a casa c’era Francesca, sento il nocciolo di una storia. La storia di un uomo che poteva aver pensato che le fatiche e i dolori appartenevano a epoche precedenti della sua esistenza, che erano finiti, e che invece si ritrova, a quasi ottant’anni, a dover ricominciare. A fare i conti con la vita. Con il suo tempo, i suoi giorni.
Quasi ottant’anni: non lo si può credere vedendolo, ascoltandolo parlare, rispondendo alle sue domande. Perché Andro ti chiede, si ricorda di cose che gli hai detto l’ultima volta che l’hai incontrato, magari un anno prima. E ascolta. Ascolta volentieri: cerca in quel che dici cose che sa anche lui, che ha sperimentato o in qualche modo lo riguardano, e con i suoi cenni di assenso, con i suoi laconici ma convinti certo, certo, ti invoglia a dirgli altro di te. E ad ascoltarlo a tua volta, poi. A guardarlo mentre racconta, sommesso, lento, e sottolinea i passaggi più significativi con un’espressione come di sorpresa, e un brillio degli occhi.
Quasi ottant’anni non li dimostra proprio l’uomo che mi aspetta lì sul ponte in mezzo al paese. Anche altre volte che sono venuto a Schilpario, e l’ho avvertito dell’ora in cui sarei arrivato, l’ho trovato lì a guardare il fiume, sempre rivolto verso valle.
Andro è uno di quelli che l’acqua la guarda andarsene.
L’ho saputo dopo che era morta, nel gennaio del 2007.
(…)
È stato la prima volta che l’ho rivisto che mi ha detto quella cosa: che nei boschi ci andava, ma non sapeva più a far cosa. Ma solo in seguito ho capito che una storia così io la conoscevo già, anche se il protagonista era più giovane, si chiamava Guglielmo, ma anche lui faceva il boscaiolo, e anche se non era carbonaio sapeva come funzionava un puiàt, perché ne vedeva spesso, fumanti, sulle stesse montagne dove lui e i suoi compagni stavano a fare il taglio del bosco. Non tanto lontano da dove altri lavoravano in miniera.
L’avevo letto molti anni prima il libro di Carlo Cassola, e mi era rimasto in mente quel che ci avevo trovato: che la malinconia, quella profonda, quella che ti fa sentire diverso dagli altri, e che ti fa credere che la vita è quella lì – non quella di prima, quando stavi bene – non è il privilegio, o il vizio, di chi non lavora con le mani.
È passato quasi un paio d’anni, e un giorno Andro, mentre mangiavamo polenta col salmì di capriolo, l’ultimo capriolo ucciso da lui – “basta con la caccia, ormai sono troppo vecchio” – mi ha spiegato come stava, cosa gli era successo: “la salute va meglio, e appetito ce l’ho, eccome, anche se dopo che mi hanno messo i baipàs e tutto il resto che ho passato dicono che dovrei mangiare il pesce. Pesce, pesce: sì va be’, una trota di qui magari, ogni tanto, ma a me piace il formaggio, e la pastasciutta. Però non è mica lì la faccenda. Non è la salute. È che adesso se non la apro io la porta la mattina, e la chiudo la sera, non la apre né chiude nessuno. Questo è il fatto. Me l’avevan detto che era brutto, ma non credevo che fosse così”.
Ho la casa fuori del paese, racconta al Guglielmo del Taglio del bosco un vecchio carbonaio, anche lui vedovo da poco: e, se un giorno mi prende male, nessuno se ne accorgerà (…). E poi sono pieno di dolori, e non ho chi mi faccia il massaggio (…). Non c’è nessuno che mi aspetta (…). Questa è tutta la differenza fra la mia vita di prima e quella di ora.
Anche nella vita di Andro si sono creati un prima e un dopo, e lui vive nel dopo. Un dopo che l’ha a lungo confinato in uno stato nel quale giorni e stagioni sembravano scorrere uguali, con una lentezza che sembrava abolire il tempo. Un vuoto che non è però rimasto immobile e identico a se stesso. Qualcosa è andato cambiando anche in quel periodo. La voglia di vivere non si è estinta.
“Sì. Qualcosa mi era già capitato di scrivere, la prima volta che mi hanno ricoverato. Poteva essere nel ’70, lavoravo ancora: ero capocava a Zogno. Avevo avuto uno scompenso cardiaco. Mi hanno ricoverato a Seriate. Ho scritto quello che si faceva nella giornata, per 10 o 15 giorni. Chissà dove sono andate a finire quelle cose lì…
Dopo, quando sono uscito dall’ospedale basta. Non ho più scritto. Cioè, solo robe di lavoro: essendo capocava dovevo scrivere delle relazioni. Non scrivevo tanto bene comunque scrivevo.
Poi sono andato in pensione e non ho più scritto, fin dopo la morte di mia moglie e tutte quelle malattie chemi sono capitate: mi sembrava di sollevarmi un po’ dal dolore se scrivevo. Non so perché. Magari piangevo anche intanto che scrivevo, ma mi faceva bene. Non le ha lette mai nessuno queste cose”.
Si tratta di un diario, che segue giorno per giorno gli stati d’animo ancor prima che gli avvenimenti. Anche questi annotati nel dettaglio, ma sempre in riferimento stretto con l’effetto che essi hanno sulla malinconia che rende le giornate uguali fra loro, immerse come sono in un tempo che sembra bloccato.
È la cronaca di una sofferenza che per mesi riempie la vita, raccontata da chi la sta vivendo.
Tentarne una sintesi significherebbe ridurla al profilo scarno e insapore di una vicenda in sé non rara né tantomeno eccezionale, rendere neutri i tratti che ne fanno invece una storia. Un nuovo capitolo della storia di Andro.Il più recente, per molti versi non concluso. Conviene allora seguirne l’andamento affidandosi alle parole di Andro stesso, al suo racconto. Monotono, non di rado ripetitivo, proprio perché fedele allo stallo doloroso nel quale la vita sembra essersi incagliata.
Anche nella scrittura si avverte infatti la perdita di naturalità con la quale ordinariamente si vive la successione dei momenti. Non si susseguono, qui: si giustappongono. Come cose.
C’è un solo tempo di vita: un presente indistinguibile da un passato che non passa.
Alcune delle situazioni di cui Andro riferisce, anche le espressioni che usa, mi richiamano alla mente cose lette in libri che riferiscono di esperienze nelle quali non si è cercato di spiegare il dolore, la depressione, con il definirne caratteri ed eziologia, ma ci si è posti il compito di comprenderli, mettendosi dalla parte di chi soffre. In queste pagine non si trovano però soltanto squarci di descrizione del proprio stato d’animo simili a quelli che a volte i testi dei colloqui clinici riportano. È un racconto conseguente, stringente anche se sommesso, quello che giorno per giorno Andro scrive, tristemente meravigliato di quello che gli accade di vivere. Mai risentito. Allarmato spesso, mai sdegnato per quel che gli tocca.
Andro scrive, senza darsi pensiero delle ragioni e degli scopi per cui lo fa, motivato solo dal sollievo che la scrittura gli dà, a partire dal febbraio del 2008, quando tutto è già avvenuto.
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Recensioni
Dal Corriere della Sera-Brescia del 9 gennaio 2014.
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Costruire la vita. Una storia gardesana
La storia gardesana che si racconta in queste pagine è la storia dell’incontro e poi dell’amicizia con Giacomo Usardi, un olivicoltore di Toscolano Maderno, nata nel periodo in cui si dava avvio al recupero di un’area posta alle spalle dello stesso paese, la Valle delle Cartiere.
I brani che di tanto in tanto interrompono la testimonianza di Giacomo danno conto del percorso che ha via via permesso di cogliere la singolarità e il valore della sua esperienza e della sua cultura.
La vicenda di Giacomo si svolge a partire dalle origini contadine per approdare, dopo l’esercizio di altre professioni e un’ininterrotta passione sportiva, a un’attività nella quale le finalità economiche convergono con quelle ambientali e sociali. Il recupero di terreni alla coltura più caratterizzante dell’area, l’uliveto, si risolve infatti non solo in un contributo sostanziale alla salvaguardia di un paesaggio segnato dalla squilibrio creatosi tra la fascia costiera e l’entroterra, ma anche nella possibilità di offrire nuove possibilità a giovani in difficoltà.
I brani che seguono sono tratti dal racconto di Giacomo.
Il mio sogno preferito è sempre stato quello di volare. Mi buttavo, e stavo su. Volavo.
Quando li facevo da giovane, delle volte, erano anche sogni brutti: sognavo che mi inseguivano, volevano prendermi, e io via: mi buttavo giù e volavo.
Oppure volavo e andavo a salvare qualcuno.
Volavo su Toscolano. Da Gaino, dal monte sopra Toscolano. Era sulla mia zona che volavo. Magari succedeva, nel sogno, che i miei amici venivano giù per andare a lavorare, alla Cartiera, e io gli passavo sopra a volo, scherzando, ridendo.
Però mi è capitato di volare anche sul lago, sull’acqua. E anche su in alto, verso il Pizzocolo.
Sarà un mese fa che ho sognato ancora di volare: sono stato contento tutto il giorno, dopo. Perché era un po’ che non sognavo più di volare. Mi sono alzato la mattina felice proprio, perché avevo fatto un sogno… come una volta.
E’ una cosa meravigliosa.
Andavo in giro. Guardavo. Quando vedevo un terreno abbandonato facevo la mia proposta al padrone. Se ci fosse qualcun altro che fa la stessa cosa ci sarebbe un servizio ambientale straordinario, per tutti, e un reddito, nello stesso tempo.
(…) Io posso dire che è stato questo lavoro che mi ha permesso di sviluppare tutte quelle passioni che prima non potevo avere. Non si può avere passioni se devi essere sempre da qualche parte. Io adesso trovo il tempo che voglio io. Perché sono senza padrone. Un uomo libero.
(…) quando si parla di amore di solito si intende quello fra un uomo e una donna, ma si dimentica che questo amore diventa meno… pesante, se cresce l’amore per tutto quello che incontri, che vedi: l’amore è una cosa grande. E’ la vita, l’amore: riconoscere che tutti quelli che incontri sono tuoi fratelli. Se ti chiudi tu e la tua donna è un amore rovinato: non hai capito niente. E’ difficile spiegarlo a una donna: io sono innamorato di te, ma sono più innamorato se insieme a te vivo tutte quelle passioni che posso vivere per esempio quando mi trovo in Camerate, o sul Pizzocolo. Se due persone si amano, ma fuori dalla loro porta non hanno passione per niente, non c’è amore neanche fra di loro.
Ecco perché oggi vivo meglio che qualche anno fa: sento un’apertura verso qualcosa che non è legato solo a me e a mia moglie.
(…) Forse la gente ha paura, e non fa nessuno sforzo per cambiarsi. La gente se ne vuole poco di bene: credono di volersi bene perché si pitturano, si mettono il vestito di marca, cambiano la macchina. Più la macchina che hai è bella e più sei attraente.
Chi si vuole bene davvero non è che mette fuori il manifesto. Lo vedi dal comportamento che ha, e dalla volontà di cambiare.
(…) Io ho cominciato a pensare queste cose quando mi sono messo a passare il tempo in campagna, nel bosco, nel silenzio… In mezzo al casino non puoi avere passioni. Ma quando hai passato un periodo che hai pensato, in silenzio, allora anche nel casino ti mantieni così, le cose superflue non ti tirano più. Io non ne ho neanche uno rispetto a qualche anno fa ma ne ho abbastanza di avere quello che mi occorre, di essere in salute, di lavorare. Sono contento quando lavoro. Non mi interessa di avere la macchina tutta rotta, cerco di farla accomodare quando posso. Lavoro per avere quello che mi occorre. Il mio reddito è composto da quel poco che vendo e da quello che non compro.
Questo cambiamento non l’ho fatto di colpo, ma giorno per giorno. Stai fischiando e non lo sai neanche che lo stai facendo intanto che lavori. Senti la musica nella natura. L’aria, gli animali: suoni sempre diversi. A secondo di come ti senti psicologicamente puoi sorridere o sentirti colpito dall’emozione: perché la natura parla.
Senti la musica in mezzo al silenzio: non la suonano mica, ma la senti, dentro di te. E lì nasce la volontà, il pensiero, la voglia di vivere.
Respiri un’aria sana. Se ti viene da piangere piangi: ti emozioni e ti vengono anche le lacrime. Non ti vergogni. Forse è coraggio invece. Coraggio di aprire la propria esistenza: agli altri.
Quelli che dicono mi piace la natura e perciò vado fuori dalle scatole, da tutti: non è mica quella lì la questione. E’ vivere dentro di sé ma apprezzando tutto quello che c’è intorno. Non isolarsi dagli uomini. Può andare bene un giorno o due se fai una vita stressata, ma non puoi immaginarti che stai benone perché non c’è più nessuno intorno. Dal giorno che sei da solo non sei niente: occorre vivere bene in mezzo agli altri. Far gli eremiti potremmo farlo tutti. Qualcuno ci riesce a farlo bene, ma io penso che il Padre Eterno non ci ha messo qui per essere da soli. Ci ha messo qui per essere in compagnia.
A me piuttosto tornano in mente tutte le persone sagge che ho conosciuto quando ero bambino. Adesso saggio è quello che è capace di parlare per un’ora con tutte le parole e le virgole giuste. Quelle che io ricordo invece erano persone sagge senza saperlo: amavano se stessi ma amavano tutti. Erano contadini, gente di montagna.
Io me ne sono accorto ancora quando ero giovane che la vita, così, non poteva dare serenità. Una volta avevano pochissimo: è brutto dire così ma… insomma, mio padre lavorava tanto ma quando aveva finito di lavorare era sereno. Aveva poco se non niente, però quando era nella sua casa non c’era più niente da pensare. L’unica cosa da pensare era di avere qualcosa da mangiare. E’ venuto dopo il grande cambiamento, che abbiamo tutto e di più ma ci manca quello che ci serve. Si corre si corre perché si vuole quel che non serve, si dà più spazio al superfluo che al reale.
Allora: che cos’è stato questo gran cambiamento che è venuto? Non è tutto da rifiutare, soprattutto per le ricerche, la salute e così via. Ma d’altra parte, noi uomini siamo al mondo per migliorare la nostra salute, e anche il nostro modo di vivere. O se no per quale motivo viviamo? Essendo che siamo intelligenti, dicono, il nostro scopo è vivere meglio, ma vivere meglio non vuol dire avere tanti soldi, avere tanto che non serve a niente. Vuol dire avere quel che serve, migliorare la salute, migliorare i rapporti sociali, riconoscere che siamo fratelli, cristianamente, come si dice. Ma fratelli di chi, che ci mangiamo uno con l’altro? Se si arriva a questo punto si è perso il senso della vita.
Adesso si muore più vecchi, allora aumentiamo gli anni di lavoro, dicono. Ma non è giusto morire più vecchi? E’ un principio sbagliato. L’uomo non è uno strumento da usare mano mano che la tecnologia avanza: ti do dieci anni da vivere in più e allora vai in pensione più tardi. Ma è naturale che l’uomo cerchi di star meglio e di vivere di più, e lavori anche, io sono d’accordo, ma se può lavorare di meno è meglio: ognuno diventando vecchio dovrebbe avere più tempo per sé.
Certo morire si muore, ma a me non fa paura. La vedo come una cosa normale. Io sono contento della vita che ho fatto. E’ stata dura però è una vita che è cambiata. Perché la vita è sempre passare al di là di quello che ti può succedere. Bisogna sempre essere disponibili a andare al di là, perché domani non sarai quello che sei oggi.
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Recensioni
Dal Corriere della Sera-Brescia del 12 agosto 2012.
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Dal Corriere della Sera-Brescia del 9 dicembre 2020, Nino Dolfo rivisita la storia di Giacomo, protagonista del racconto-testimonianza di Carlo Simoni.
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