Il segreto dell’arte

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La vicenda delle diverse generazioni di una famiglia di cartai di Toscolano Maderno, sul lago di Garda, incontra la grande storia in un arco di tempo che va dall’età napoleonica agli anni ’50 dell’Ottocento.
Costruita sulla base di una documentazione in gran parte originale, la narrazione corre su più piani e si ambienta in luoghi e situazioni tra loro diverse: il fervore di attività delle fabbriche di carta e il paesaggio della gardesana Valle delle Cartiere, gli intrighi dei palazzi della Milano napoleonica e i silenzi raccolti dei monasteri benedettini, riunendo in un intreccio avvincente avventure imprenditoriali, vicissitudini umane e inquietudini esistenziali.
Con questo romanzo si conclude il ciclo narrativo iniziato con
L’orizzonte del lago e proseguito con I tempi del mondo.

Quelle che seguono sono alcune pagine del Segreto dell’arte in cui compaiono alcuni personaggi – il monaco Bartolomeo, Clemente, che svolgono un ruolo essenziale nel romanzo – e il luogo in cui gran parte della storia si svolge: la Valle delle cartiere  a Toscolano, sul lago di Garda. Qui è ambientata la vicenda del cartaio Faustino Andreoli e della sua famiglia, fabbricatori della carta pregiata che il governo napoleonico richiedeva.

In un monastero dell’Appennino,
la mattina del 25 di Maggio del 1806

La luna si è levata poco dopo la metà della notte e illumina i monti e i boschi che ne ricoprono le coste.
Nessun suono traversa questa luce. Nemmeno quel di vento che frusci tra le foglie ancora tenere delle querce e dei castagni.
Apparirebbe inabitato questo mondo se bianche non si levassero sul manto scuro le mura del monastero, che brevemente interrompono ad un punto quell’immobile mare di fronde.
Solo la luna e le stelle muovono in questo silenzio compiendo il loro muto altissimo cammino.
Non turba la calma della notte la voce lieve d’una campana che presto s’acquieta, né i lumi che a tratti baluginano dietro le strette finestre della casa dei monaci.
Non si è dileguato il sogno che il novizio continua nel suo sonno di ragazzo. Ma i tre colpi sommessi che sfiorano la porta della sua cella lo tolgono dalla visione, che s’infrange allora e sprofonda fuori della sua memoria.
Ancora non è uso il giovane Bartolomeo a questi risvegli, che tali non sono per gli altri fratelli, già in attesa, ancor prima che giunga, del segno che la campana invia loro come crisma della loro vigilia: il dì ha inizio nel cuore della notte, le tenebre non sanno sopraffare la speranza della vita nuova che ciascun giorno dona a chi sa ogni mattina rialzarsi e riprendere il suo viaggio.
Ripensa a queste parole udite dal suo maestro, il novizio, e si guarda attorno alla luce fioca della lampada ad olio che arde sempre nella cella, senza togliersi di dosso la coperta e il coltrone, la testa ancora poggiata sul cuscino di crine.
I suoi occhi incontrano quelli piccoli e puntuti d’un topo che lo guarda cauto da un angolo, e poi con un prillo fulmineo scompare in una breccia tra muro e pavimento. Come avesse presentito il movimento dell’altro, che da quel guizzo appunto sembra trarre la risoluzione a levarsi.
Rabbrividisce il giovane nel suo saio, del quale, secondo Regola, non s’è spogliato: per esser pronti al segnale, vi si legge. Né s’è levato le calze di lana grossa. Stringe la cintura alla vita, calza i sandali, china il capo ad infilare la cocolla e, con gesto fattosi a lui quotidiano, scosta le ante della finestrella per veder le montagne. La neve, tornata ancora una settimana fa anche se si è giunti ormai alla fine di Maggio, resta sulle cime di quelle lontane, che chiudono la valle a settentrione.
Non sembra però che venga di là il freddo che fa alzare al novizio il suo cappuccio, bensì da quella luna chiara e lucente come uno stagno ghiacciato.
Il gelo ora entrato è però diverso da quello che prima era nella cella, ed entrambi lo sono da quel che incontrerà nella chiesa. Si diviene abili a discernere i diversi caratteri del freddo a viver nel monastero, dove solo la cucina, l’infermeria e la farmacia, e la residenza dell’Abate, sono confortate dal tepore d’un focolare.
Bartolomeo s’incanta a guardare la notte. Un belato gli giunge dall’ovile che sta entro le mura del monastero, e si ripete lamentoso, come a chiamare, ma ammutolisce all’abbaìo del cane che sta alla guardia degli animali.
Si affretta ora il novizio, ma nel corridoio s’avvede di non esser ultimo. Altri passi si attardano dietro a lui, e poco innanzi claudica lento Padre Anselmo, cui l’Abate l’ha affidato quando è entrato nella comunità. Ha ritegno a superarlo, né s’azzarda ad offrirgli sostegno: ne è stato redarguito quando l’ha fatto. Cammina dopo di lui, dunque, anche quando il vecchio monaco, nello scendere la scala notturna che li conduce alla chiesa, accosta le mani alla parete come a cercarvi appiglio.
Il suo stallo è l’ultimo, essendo lui novizio, ammesso solo per eccezione voluta dall’Abate tra i coristi. Lontano dall’altare dunque, e vicino al banco degli infermi, dove da qualche settimana prende posto Padre Anselmo.
Oltre quello alza gli occhi Bartolomeo, come ad ogni Mattutino, a salutare con un breve cenno fratello Michele, che siede tra i conversi, nell’altra parte della navata, più vicina al portale. È quegli l’ortolano a fianco del quale ha lavorato lunghe giornate a vangare, seminare, pulir delle erbacce, raccogliere, nei primi tempi della sua vita qui. La sua via era già segnata dai suoi nobili natali: sarebbe stato corista, monaco dedito solo a pregare, cantar in coro le lodi di Dio e studiare i Libri sacri. Ma quella strada neanche per lui doveva esser piana, e dunque la sua vocazione è stata messa lungamente alla prova. È stato allora che Bartolomeo – devoto ed insaziato cultore del sapere fin da quando aveva appreso dal suo precettore l’arte del leggere e dello scrivere, e perciò con tanto maggiore determinazione dal padre avviato, lui secondo genito, alla vita monacale  – ha conosciuto le gioie fin allora a lui ignote del lavoro delle mani nella terra greve e della fatica nell’aria mutevole delle stagioni. Ma è finito quel tempo, e il suo destino si sta compiendo: nelle lunghe ore di meditazione delle Sacre Scritture nella solitudine della cella, nelle ripetute salmodie innalzate in quella stessa navata ogni giorno coi confratelli, nell’infinito esercizio sulle pagine dei Testi tra i banchi dello scriptorium.
Signore, quanti sono i miei oppressori!
Molti contro di me insorgono
.
Le parole del Salmo di Davide si levano sotto le volte scure e la voce adolescente di Bartolomeo si distingue tra quelle gravi che l’accompagnano.
Molti di me vanno dicendo:
«Neppure Dio lo salva!»
Ma tu, Signore, sei mia difesa,
tu sei mia gloria e sollevi il mio capo.
Al Signore innalzo la mia voce
e mi risponde dal suo monte santo
.
L’immagine delle montagne innevate è rimasta negli occhi di Bartolomeo e si confonde ora con quel monte santo, gravando le palpebre d’un dolce abbandono, che il Salmo sembra assecondi:
Io mi corico e mi addormento
Un colpo alla spalla destra lo desta in un sussulto. Il monaco anziano, assolto il suo compito di non lasciar che il sonno interrotto riprenda i confratelli, è già oltre.
Il novizio raccoglie il libro che gli era caduto di mano e dalle parole che ode comprende quale sia il Salmo al quale ora vanno gli occhi degl’altri.
L’Eterno conosce i pensieri dell’uomo e sa che sono vani.
Beato l’uomo che tu correggi, o Eterno, e che istruisci con la tua legge…
Se l’Eterno non fosse venuto in mio aiuto, sarei presto finito nel luogo del silenzio

Quasi fosse stata la mano stessa di Dio a ricondurlo alla veglia, Bartolomeo riprende con rinnovato fervore la preghiera, e poi il canto del Gloria, e degl’altri Salmi, ascolta una lettera di San Paolo e intona infine il Kyrie, col quale il Mattutino ha termine.
Un breve lasso di tempo è concesso acché le necessità della natura possano aver corso. Per raggiungere le latrine i monaci escono nel chiostro. Al centro, il pozzo è ancora un’ombra nera, e solo non fissandovi lo sguardo, che altrimenti si perde nell’oscurità, si possono distinguere le macchie colorate dei fiori che l’attorniano.
Perché il cielo non è più scuro come prima. O lo è meno delle cornacchie che traversano il brano che il chiostro ne lascia scorgere. Il loro gracchiare sembra irridere al silenzio che i monaci rispettano in questo intervallo della preghiera, mentre pare l’accompagnino discretamente gli altri suoni che ora giungono. Sono gli uccelli, che ad annunciare l’alba fanno udire la loro voce.
A quella si unisce il canto delle Laudi che i monaci, adunatisi per la seconda volta nella chiesa, elevano al Signore.
Nel chiostro, la luce va mutando frattanto, e la valle tutta si bagna del chiarore rosato dell’aurora.
È già alto il sole quando i monaci escono dalla chiesa. Alle Laudi ha fatto seguito la Messa, col ricordo dei Santi di questo 25 di maggio. Beda, il venerabile e sapientissimo confratello, luminoso esempio per i monaci coristi, e Urbano, che sembra invece rivolgere il suo benigno insegnamento a quelli che tra i conversi lavorano la terra e ricordano che per Sant’Urbano il frumento è grano.
Morte e vita sono in potere della lingua, ammonisce il Padre che nella sala del Capitolo legge alcuni passi della Regola sulla virtù e il dovere del silenzio.
Facciamo come dice il profeta: Ho detto: custodirò le mie vie per non peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone.
Ama il silenzio Bartolomeo, anche ora che, alla colazione, mangia il suo pane con un poco di brodo nel refettorio. Ama che solo il canto rompa il silenzio, quasi da quello soltanto si potesse levare, come luce dall’oscurità. E ama la voce dell’organo che nelle feste solenni riempie la chiesa. Imparar l’arte di far risuonare ordinatamente quelle canne è quel che più di tutto vorrebbe apprendere, e alza verso di esse gl’occhi mentre il canto di Terza si spegne e lascia il campo al lavoro del mattino. Il Priore lo assegna a tutti, che come ogni giorno indossano lo scapolare a proteggere le vesti, dal fango come dall’inchiostro.
Il sedicenne novizio osserva fra Venanzio che s’avvia alla farmacia, ma è soprattutto ai due conversi che gli son concessi in aiuto che va il suo sguardo, così come segue quei che ricevono gli strumenti per il lavoro della terra e della stalla, e fra Demetrio che troverà gli attrezzi sul banco di falegname dove li ha lasciati il giorno prima.
Al giovane, il Priore rivolge un semplice cenno. Lo scriptorium è il luogo cui deve recarsi, e lui vi si dirige, mentre la sua mente va a ciò che, ora è un anno, con fra Michele ed altri conversi faceva nell’orto di questi tempi, quando la luna di maggio dà vigore alle piante, ed anche alle malerbe, per scacciar le quali ogni settimana occorreva sarchiare la terra tra le file di zucchine, carote, bietole, fagioli e fagiolini da poco seminati. Ed era poi il tempo di letamare, e far scolare dal terreno l’acqua delle piogge primaverili, sempre copiose tra questi monti. Nel mentre che si raccoglievano primizie odorose, piselli e bietole, ravanelli e radicchi, la cipolla bianca ed il prezzemolo, seminato in aprile e già a fine maggio verdeggiante; così come, nel giardino dei semplici, la borragine e la melissa, della quale aveva appreso a staccare i rametti meno vigorosi per la preparazione delle tisane, lasciando gli altri per la fioritura estiva.
Un rumore che nulla ha a fare col silenzio degli orti molesta quel fantasticare, e l’interrompe in fine: è il tossicchiare insistente di Padre Fortunato, che con quel suo malanno è giunto al settantaseiesimo anno e prosegue sereno il suo studio. Domestico in altre mattine, riesce oggi importuno quel suono al novizio, che uditolo si sente ora attorniato dal grattar delle penne sui fogli, dal cigolio d’una sedia, dal fruscio delle pagine come da un frastuono da cui vorrebbe fuggire.
Recita allora col pensiero una preghiera: per Padre Fortunato, per i fratelli che son lì attorno a leggere e scrivere. Prega per loro e prega per sé, atterrito dal risentimento che irragionevolmente invade la sua anima come un grido: non qui non ora non con costoro.

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Recensioni

Dal Corriere della Sera-Brescia del 21 agosto 2012.
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L’orizzonte del lago

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È un orizzonte che può apparire angusto e desolato in certi giorni, quello del lago, ma rivelarsi in altri sereno e vasto, tanto da ricomprendere ogni possibile altrove.
Entro questo orizzonte si svolge la vicenda, che copre l’intero Settecento, del marchese Giovan Antonio Archetti, mercante e filosofo, personaggio storico che questo romanzo ricrea facendone il protagonista di un percorso umano originale e ricco di aspetti che sanno parlare al lettore di oggi: dalla critica alle sicurezze della Ragione alla faticosa conquista, mai raggiunta una volta per tutte, di un senso del proprio operare.
E accanto al marchese utopista, un altro protagonista: il lago di Garda, con i suoi paesaggi e le sue stagioni.

L’orizzonte del lago è un romanzo epistolare: quelle che seguono sono alcune delle lettere che lo compongono.

[Campione e il lago]

A Federico, Brescia

Campione, 3 gennaio 1735

Federico carissimo, eccomi a Campione, per la prima volta solo. Non ho aspettato che scaricassero la mia roba dal battello. Ho solo avvertito un dei barcaioli chiamarmi ignore  e al momento ho pensato che dicesse a mio Padre, come fosse lì. Ma lui questa volta non c’è. E non verrà.
Mi son subito incamminato per il sentiero: ricordi, quello che porta alla cascata. Ho capito quando son stato là, al balcone (l’abbiamo sempre chiamata così quella naturale sporgenza della roccia), che da giorni vivevo con il cuore sospeso. Temevo che Campione, adesso che son delegato dai miei a condur il Negozio, anche se il direttore resta mio Padre,  fosse cambiato.
Lo guardavo da lassù, come sempre ho fatto, fin da bambino. E Campion era lì: splendente e lontano. Lontano da tutto.
Ricordo che una delle prime volte che qui son venuto, avrò avuto quattro o cinque anni, era stato mio Padre a portarmi là al balcone e mi aveva insegnato i nomi dei villaggi che si vedevan sulla sponda veronese, i nomi delle cime del Baldo, il nome del vento che veniva giù dalla forra e arrivava lì dov’eravamo e di quello che a quell’ora increspava le acque del lago. E ricordo soprattutto  il Baldo: il monte più grande che avessi mai visto. Un monte che è fatto di tanti monti, ed è un solo. Fermo e tranquillo come un grande animale adagiato. Dopo quel giorno, ogni volta che in chiesa si diceva aeternum io pensavo al Baldo. M’accade ancor oggi.
Due giorni dopo, venuta l’ora della partenza, ero fuggito. Non mi potevan trovare. Ero risalito al balcone, con Antonio. Si chiamava come me. Era il figlio maggiore del mugnaio. M’aveva spiegato tutto, m’aveva fatto vedere i pesci del lago che nuotavan vicino a riva e le trote del torrente, il leccio che stava attaccato alla rupe e gli ulivi che stavan al riparo di essa. E adesso era scappato con me, lui e il suo cagnolino che lo seguiva sempre, ansante sul sentiero.
Eravamo diventati amici, io e Antonio, e spiaceva a lui che me n’andassi.
Mio Padre era venuto su sicuro, come sapendo ch’ero là. M’ero nascosto la faccia con le mani, in attesa di rimproveri aspri o d’un ceffone senza parole, come faceva lui. E invece non accadeva nulla. Allora avevo tolto le mani e alzato la testa. Mio Padre mi guardava e sorrideva. M’aveva teso la mano. Eravam tornati al porto.
Quando? gli avevo chiesto.
Fra un mese.
Fra un mese avevo detto ad Antonio e al suo cane, ch’eran venuti fin lì ad accompagnarmi.
Ed ero tornato infatti, e tornato tutte le volte che potevo convincere mio Padre a portarmi con lui o ad affidarmi ai suoi complimentari, il suo amministratore e il suo scritturale. Da bambino, e poi da giovinetto. Più di una volta, quando ero preso dalla melanconia, che tanto spesso mi aggrediva nelle stanze scure della casa di contrada Sant’Agata, avevo sperimentato che lassù, al balcone a guardare    Campione e il lago e il monte, quella stessa melanconia scura, pesante come un mantello bagnato, diventava una cosa che non era più mia, che non era mai stata davvero mia. Come se l’orizzonte del lago l’escludesse.
Ma adesso? che quel luogo diventa anche per me, come per i miei, il Negozio più importante della famiglia, e io ne dovrò render conto?
E invece sì, Campione è ancora quello che ho sempre conosciuto.
Il mio rifugio. Un rifugio in cui non fuggo, ma torno al mondo.
Ti saluto.

Gian Antonio

***

A Carlotta, Brescia

Campione, 6 febbraio 1735

Mia cara, ogni giorno torni nella mia mente, ma avrei dato cento zecchini per averti con me ieri al principiar della notte.
Invisibile per chi arriva dal lago, nella spaccatura della roccia che sovrasta il paese insieme al torrente di cui giunge la voce in tutto il paese, corre anche un sentiero, unica via che non sian le acque, per entrar in questo romitorio. Ebbene, son uso da sempre a risalir  quel sentiero che prosegue fin ai paesetti dell’altopiano, ed a giunger dove è possibile raccoglier alla vista l’intero paese e l’universo che l’avvolge.
Ieri, quando ormai da ore il sole era tramontato dietro la rupe ma lasciava ancor giungere al lago il suo rosso fulgore e di quello colorava, sull’altra riva, il grande Monte Baldo, è sorta la luna, a contender con la sua pallida luce bianca quella sanguigna del sole morente. E in quel gioco m’è ad un punto accaduto di distinguer in mezzo al lago isole argentee che correvan verso il meridione, come i barconi che navigano da Riva a Desenzano.
Eran ghiacci, lastroni nei quali si era rappresa le gelida acqua del grande Benaco. Correvano, senza schiocchi di vele e tonfi di remi, cambiando di continuo il colore. Come di pesci che solitamente stian celati negli abissi e solo a ogni volger di secolo salgan a segnar la lor presenza al mondo.
Ho sentito una felicità che non ricordavo gonfiarmi il cuore, una felicità che non ho più saputo distinguer dal desiderio di te e da ogni possibile felicità che abbia potuto provare. E ne ho d’improvviso distinto l’origine: la memoria d’un racconto udito da bambino, poco più che infante, da un vecchio che doveva esser il nonno, il Padre di mio Padre, appena conosciuto e ormai perso fra i primi ricordi d’un pargolo. Ma di quel racconto tornava ora l’imagine che le parole avevan fatto nascere nella mia anima: il lago ghiacciato, le acque nascoste sotto un pavimento bianco ceruleo, che per più giorni si era steso a perdita d’occhio fra le sponde. Ricordo distintamente che la visione che dal racconto mi veniva non si fermava tuttavia a questa solida superificie, ma scendeva sotto di essa, dove comparivan  i pesci, i pesci del lago che nuotavano in un’acqua buia e in un silenzio nuovo, e vi continuavan la loro vita segreta. Nuovamente al sicuro da reti e ami, queti e laboriosi come ai giorni della creazione. Prima dei pescatori, prima degl’uomini.
Ho sentito poi parlar ancora di quell’invernata straordinariamente fredda. Era il 1709. Ne parlano ancora qui, sul lago, abbassando la voce, con timore, e insieme con il rimpianto per un’epoca in cui potevan accadere cose meravigliose, ancorché terribili,  e col rapimento che ci portano le evenienze che sanno arrestar il fluire usuale dei giorni.
Mi pare d’averti avuta un po’ qui con me, ora che t’ho raccontato.

Il tuo

Gian Antonio

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Recensioni

Da Bresciaoggi del 31 luglio 2010.
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Da AB n° 103 estate 2010.
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I tempi del mondo

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La vita di un uomo di scienza del primo Ottocento, Giambattista Brocchi, e le sue idee, note negli ambienti scientifici europei e apprezzate da Darwin, costituiscono il filo conduttore di una biografia immaginata, costruita sulle testimonianze di coloro che lo svolgersi stesso del romanzo mette in scena e che entrano via via in contatto con il protagonista.
La figura e la vicenda umana di Brocchi, studioso appassionato e irrequieto viaggiatore, emergono così da un intreccio di ricordi che assumono spesso la consistenza di narrazioni parallele. Come quelle del minatore e spaccapietre Antonio, dell’amico collega al Liceo di Brescia Rosetti, del medico filosofo Aldobrandi, e di Giovanni, un ragazzo che è testimone del suo ultimo viaggio. È tuttavia Nicolò, un giovane benestante bresciano, schivo e, al contrario di Brocchi, riluttante all’azione e agli spostamenti, a tener le fila della narrazione offrendoci il diario del suo lavoro teso a ricostruire la vita del “Professore”, le sue indagini e le sue battaglie in campo scientifico, i suoi amori e le sue peregrinazioni, sino alla fine in terre lontane.
Dal proprio lavoro, Nicolò ricava non soltanto i fatti che hanno costellato una vita, ma la sua storia intima. La storia di un’interminata ricerca capace di sondare, e comparare, i tempi del mondo: dagli abissi delle ere geologiche alle distese sterminate delle età dei viventi, dal lento procedere della storia umana attraverso i secoli e i millenni al rapido volgere delle stagioni dell’esistenza di ognuno.

Quelle che seguono sono alcune pagine del romanzo che racchiudono episodi salienti della vicenda di Giambattista Brocchi.

[L’incontro con Giambattista Brocchi, “il Professore”]

Se non mi fossi quel giorno precipitevolmente ritirato nella biblioteca, per sottrarmi alla vista e così fuggire l’arrivo di Adalberta, mai avrei raccolto questi libri, e fascicoli, d’una materia allora a me ignota, né fatto correre la mia penna su tutti questi fogli che ormai compongono tante pile ordinate da empir due armadi. Adalberta contava allora quattordici anni, due meno di quelli cui io ero giunto, e pure era già a me promessa, come le sue due maggiori sorelle lo eran state ad altri rampolli ben nati, per volere del padre e della madre, che nell’estate tenevan residenza in una villa non distante dalla nostra. Era così nata fra le due famiglie – noi, i Grisetti Martini, e loro, i Lanti de Chieri – una conoscenza che s’era via via fatta deferente familiarità, e mentre il mio genitore e quel di lei discorrevano di vendemmie e di cacce, le signore madri avevan guardato più in là della stagione, e avevano disposto ciò che i consorti avrebbero creduto poi di statuire secondo il loro paterno imperio.
Le visite degli uni agl’altri, che da tempo si eran fatte consuetudine, avevano così aggiunto al diletto che a loro procuravano, il beneficio di esser motivo d’incontro tra i due giovinetti. Non era la loro amicizia, tuttavia, che quegl’incontri avevano di mira, e men che mai l’eventualità che ne nascesse un sentimento che la sopravanzasse, ma unicamente l’adempimento del precetto che stabiliva due promessi doversi conoscere, cioè vedersi l’un l’altro, e fin discorrere, alla presenza dei genitori o di alcuno cui essi s’affidassero. Era stato perciò don Giovan Angelo, maestro spirituale di entrambe le famiglie, o il maestro Soltini, che educava alla musica Adalberta, a seguirci vigile nel parco in quei pomeriggi nei quali avrei voluto esser distante cento miglia, convinto che anche la fanciulla li avesse in dispetto e che la sua gioiosità, in quelle ore, fosse non già frutto del piacere che ne potesse ritrarre ma solo del suo spirito d’obbedienza, assai più saldo del mio, e tale da impedirle che quell’allegria, a me importuna, si lasciasse in lei rannuvolare dall’obbligo.
Eran comunque i primi momenti i più odiosi, quando tutti ci guardavano come fossimo solo allora comparsi al mondo e ci conducevano uno davanti all’altra, a star come le marionette che mio fratello muoveva nel suo teatrino, ed io ero indirizzato dalle raccomandazioni che mia madre aveva fatto precedere alla visita, ed ora dai suoi occhi, a far un cenno di inchino ad Adalberta come in un preludio di baciamano, mentre era lei tenuta ad aver gli occhi a terra. Ma sorrideva, a quanto m’era dato di vedere, d’un sorriso che non sapevo come potesse apparirmi di sodisfazione, quasi fosse lei stessa l’artefice compiaciuta di quella commedia.
Quel pomeriggio d’una domenica di Giugno, dunque, non volli obbedire a quel dovere. Sentito il cigolar delle ruote della carrozza dei nostri vicini egregi, corsi fuor della mia camera, senza indossare la giacca, e scesi di corsa la scala che portava all’atrio dove di lì a poco i miei genitori si sarebbero presentati a render omaggio ai visitatori, e questi affacciandosi avrebbero pronunciato studiati complimenti come varcassero per la prima volta quella soglia.
Su quell’atrio dava però anche la porta della biblioteca, e fu lì che entrai, richiudendo senza rumore dietro di me il battente bianco e dorato. Rimasi dietro ad esso in silenzio, ascoltando le voci che già si udivano e attendendo col cuore in gola l’echeggiare del mio nome. Ma ciò non avvenne. Che Adalberta quel giorno imprevedutamente non fosse venuta, e dunque neanche me si cercasse? Ma ecco che il riverisco di quella si udì chiaro, e subito dopo il trapestio di due servitori che salivan le scale, certo inviati da mia madre a sollecitarmi a scender dalla mia camera e a presentarmi sulla nota scena.
Le voci calarono: eran certo passati al salotto, essendo la giornata calda e torrido il giardino, risonante di cicale.
Come se il silenzio mi restituisse la vista, fin a quel punto ottenebrata dall’esser repentinamente passato dal chiaro dell’atrio alla penombra della biblioteca, solo allora vidi, sul podio che coronava l’alta e fragile scala che giungeva sin agl’ultimi scaffali, un uomo, fermo come una statua. Mi volgeva le spalle, e fu per questo che non lo riconobbi che quando mi mossi, senza far rumore, e potei vederlo di profilo. Gli occhialetti sulla punta del naso, come gli avevo visto solo quando era intento a compilar i registri della tenuta di caccia: a far di conto, dunque, non a leggere. E stava invece leggendo ora, come un abate. Un libro trattenuto sotto il gomito sinistro, e un altro aperto tra le mani. Il naso affondato fra le pagine, i capelli bianchi ad aureolare la testa, immobile. Solo gli occhi dovevan muoversi da una riga all’altra.
Stava lassù sospeso come un uccello, un vecchio uccello, più ossa ormai che piume, come certi grossi corvi, regali pur nella loro goffaggine, pesanti anche se smagriti e pur capaci ancora di levarsi in volo. E poco mancò in fatti che cadesse rovinosamente di lassù quando, sentendo d’esser guardato, si riscosse: il libro che teneva stretto sotto il braccio cadde vicino ai miei piedi, ma come aggrappandosi a quel che teneva in mano, l’uomo riuscì a ritrovar l’equilibrio e cauto ridiscese, sorridendomi come sempre faceva al vedermi.
Era Antonio. Il servitore che mio padre aveva elevato a intendente dei terreni in cui amava esercitare coi pari suoi l’arte di prender a fucilate lepri e fagiani, e volpi, tassi ed ogni altro essere fosse buono a farsi rincorrer dai cani.
Che cosa cercate, Antonio?
Oh, be’, certe notizie…
Su quale argomento?
Ma subito mi pentii di quella mia curiosità che temevo potesse suonar volontà di controllo, e mutai discorso col raccontar che stavo anch’io cercando un libro. Di geografia, improvvisai.
Ecco, sì, è un libro di geografia questo, si animò Antonio.
Di geografia? e di quale luogo tratta?
Delle terre che stanno attorno a Roma, e più oltre, dei monti di là. Ce n’è uno che si chiama Soratte, diceva scendendo dalla scaletta, e mi mostrava la pagina che così attentamente stava leggendo lassù.
Vides ut alta stet nive candidum Soracte?
Antonio mi guardò incerto: che mai gli avevo domandato?
È Orazio, Antonio, un poeta di Roma che parlava del Soratte. Ma stiamo dunque studiando le stesse cose? Gli chiesi ridendo, incredulo e divertito.
Ma anche questa volta ebbi a pentirmi: l’espressione di Antonio era adesso quella che assumeva di fronte a mio padre, quando si controllavano i registri a verificar le legne vendute o l’erba ceduta ai contadini.
Volevo dire che anche a me è toccato d’incontrare il Monte Soratte, studiando il latino. Ma voi perché ve ne occupate?
Perché là è stato il Professore, sapete…
Quel vostro antico padrone che vi manda lettere e plichi, di tanto in tanto?
Sì, lui.
Non ve l’ho mai chiesto: che cosa insegna?
Nulla, non insegna. Studia, cerca…
Ma perché al Soratte, e non a Roma, dove son biblioteche sterminate?
Lui studia quel che vede, studia viaggiando…
La porta della biblioteca si spalancò d’un colpo: mia madre, che l’occupava tutta con l’ampia gonna, pareva una furia. Gli occhi fiammeggianti, ancor prima della giacca che mi porgeva, bastavano a dirmi quel che intendesse.
Mi parai davanti ad Antonio, quasi a proteggerlo da quei lampi, e uscii nell’atrio, seguendo mia madre che entrando nel salotto, il volto ridente ora e la voce squillante, inaspettatamente mi circondò affettuosamente le spalle con un braccio informando gli astanti che Nicolò era fatto così: quando studiava se ne andava dal mondo, si rintanava in biblioteca e le voci che venivan dagli antichi autori erano le uniche che potesse udire. E così dicendo mi conduceva tra i divani dove i Lanti de Chieri se ne stavan a sorseggiare rosolio e caffè, e tra di essi lei, Adalberta, che naturalmente sorrideva e abbassando gl’occhi, nell’alzarsi, mi porse la mano.
Fu quel Nicolò di cui mia madre aveva parlato a porgere l’omaggio dovuto, non io, che ero rimasto con Antonio, e m’aggiravo alle falde del Monte Soratte, quasi sperassi di potervi incontrare il Professore, e non quei che avevo d’attorno.


[Brocchi visita una miniera abbandonata con Antonio, ex minatore]

Fosse stato per lui sarebbe passato senza vederla. Certo era imboscata, e la si poteva prendere per uno di quei ripari per le pecore. Ma la bocca c’era.
È qui, Professore, gli ho detto. Lui è tornato indietro.
Dove?
Ho tolto la roncola dalla cintura e ho aperto il passo: qui, vedete?
Si è avvicinato alla bocca.
Veniva un vento freddo e si sentiva acqua che correva. Guardava nel buio lui, poi ha buttato un sasso. Si è sentito subito il rumore: non va giù, ho detto io. Non ci sono pozzi qui dalle nostre parti. Le gallerie van quasi in piano.
Ho preso la boccia dell’olio dal sacco, l’ho messo nella lucerna, ho aggiunto lo stoppino e ho acceso.
Vedete? Non va giù.
Mi sono piegato, e sono entrato. Lui dietro.
Attento alla testa, gli ho detto. È facile batterla.
Si camminava nell’acqua, ma si camminava.
Guardate qua, Antonio, ha detto lui. Era quel che restava del carretto che lì avevano usato per portar fuori la vena: qui si poteva far così, e anche avanti per un po’, ma poi si fa stretta e il carretto non ci passa più. Occorre portare a braccia.
Mi ha chiesto di illuminare una zocca. Gli ho detto io che si chiamava così quel pilastro che avevano lasciato per tener su il tetto. Lì han potuto lasciare una zocca. Più in là invece, gli ho fatto vedere, han dovuto mettere dei puntelli, di legno. Erano piegati, mezzi marci.
Andiamo via di qua, ho detto.
Abbiamo preso a destra, e siamo arrivati alla camera grande. La luce non arrivava al tetto. Lui è stato a guardare palmo a palmo le pareti. Si è fermato, e ha preso il suo libricino, come per scrivere, ma lì non si poteva e l’ha rimesso nella scarsella.
Dopo un po’ la via che seguivamo s’è fatta di nuovo stretta.
Come ci passa un uomo per di qua? ha chiesto lui.
Non un uomo, un ragazzo. Sono ragazzi che portano fuori il minerale con le ceste. Di dieci undici anni, ho risposto. Massimo quindici.
Abbiamo preso per un’altra via, che sapevo ci riportava da dove eravamo venuti, ma per prenderla occorreva salire, perché non si vedeva ma eravamo sempre andati in discesa. Poco, ma in discesa. L’ho aiutato a venir su. I gradini che avevano fatto nella roccia adesso erano coperti di terra, e si scivolava.
Poi, mi sono accorto che era rimasto indietro qualche passo, e mi chiedeva di illuminare. Osservava una zoncatura, uno di quei tagli che traversano dall’alto al basso la roccia, e ne cavava con le mani la pietra fatta quasi terra.
È vena troppo matura, gli ho detto. Lui mi ha guardato senza dir niente.
Dal colore della fiamma ho visto che era ora di tornar fuori.
Di già? ha chiesto lui.
Non ci ho mica messo tutto l’olio che ci sta, ho detto. Se no potevamo star dentro sette ore. Tanto dura l’olio, tanto la giornata.
Mi meraviglio che non diano più olio ai mineranti per allungar loro il lavoro, ha detto.
Nessuno dà l’olio, ho risposto, né la polvere per la mina, né la mazza la punta e il badile e il piccone: tutta roba che dobbiamo avere noi. Comprata con quei trenta soldi alla giornata che sono rimasti quelli che prendevo io quando venivo qui dentro.
Non so se per la sorpresa di sentire questa cosa, ma il Professore si è levato e così ha dato la testa in uno spuntone che veniva giù dal tetto, e ha tirato un sacramento né più né meno come uno di noi.
Quando siamo usciti si è legato il fazzoletto alla testa, gli sanguinava un po’.
Era al Paulino che eravamo entrati quel giorno. Una miniera che conoscevo bene.
Dopo lui ha voluto vedere altre bocche a Pezzase: il Zaglio, il Campolongo, il Pagherino. Tutte abbandonate da anni. Si andava pochi passi e poi l’acqua si faceva alta.

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Dal Corriere della Sera-Brescia del 2 luglio 2013.
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La forma e il volto della città / Skyline in frantumi. La città che cresce e l’immaginario.

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“Ma lo si vede dappertutto…”: questo il primo commento, il più diffuso quando il cantiere era all’ultima fase e l’edificio aveva già raggiunto la sua dimensione definitiva. Un commento generico, inconcludente. Con quel ma iniziale però, rivelatore non tanto di una critica, certo, quanto piuttosto di una perplessità, o di un disagio indistinto, come quello che si avverte quando andando verso piazza Repubblica, da via Ugoni come da via Vittorio Emanuele, la prospettiva non è più libera, segnata al più dall’esile serbatoio pensile dell’ATB che si stagliava nel cielo proprio lì, dove adesso lo sguardo si ferma contro la nuova imponente costruzione.
L’immagine giusta me la dà un amico, uno che se ne intende, un architetto: fa venire in mente quelle grandi navi che passano nel canal Grande a Venezia, più alte del Palazzo Ducale.

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Maria Zambrano: perché si scrive

Non per imparare a scrivere, ma per capire perché si scrive conviene leggere quello che chi si dedica a questa pratica ha detto della propria attività. Non sempre però, o raramente anzi, si trovano spunti illuminanti nei testi che programmaticamente si propongono di rispondere alle domande decisive: perché e per chi si scrive? da dove nasce il desiderio di scrivere e il piacere di farlo?
Il più delle volte è in passaggi brevi, di fatto o apparentemente incidentali – in racconti, romanzi, saggi che parlano d’altro – che si trovano spunti interessanti.
Ci sono però eccezioni. Come lo scritto di María Zambrano del quale si propongono qui alcuni passaggi essenziali (il testo integrale si può leggere in María Zambrano,
Verso un sapere dell’anima, Milano, Cortina, 1996).
Se lo scopo di questa sezione del nostro sito è quello di raccogliere, oltre che riflessioni e resoconti, anche citazioni più o meno corpose attinenti all’esperienza dello scrivere, iniziare con la rilettura delle risposte della Zambrano alla questione che lei stessa pone,
perché si scrive, può essere un buon inizio.
(secondorizzonte/c.s.)

MARÍA ZAMBRANO
Perché si scrive

Scrivere è difendere la solitudine in cui ci si trova; è un’azione che scaturisce soltanto da un isolamento effettivo, ma comunicabile, nel quale, proprio per la lontananza da tutte le cose concrete, si rende possibile una scoperta di rapporti tra esse.
E’ una solitudine, però, che non ha bisogno di essere difesa, che non ha bisogno cioè di giustificazione. Lo scrittore difende la sua solitudine, rivelando ciò che trova in essa e in essa soltanto.
Se esiste un parlare, perché scrivere? Ma l’espressione immediata, quella che sgorga dalla nostra spontaneità, è qualcosa di cui non ci assumiamo interamente la responsabilità, perché non emana dalla totalità integrale della nostra persona; è una reazione sempre dettata dall’urgenza e dalla sollecitazione. Parliamo perché qualcosa ci sollecita e ci sollecita dall’esterno, da una trappola in cui ci cacciano le circostanze e da cui la parola ci libera. Grazie alla parola ci rendiamo liberi, liberi dal momento, dalla circostanza assediante e istantanea. Ma la parola non ci pone al riparo, né pertanto ci crea, anzi, il suo uso eccessivo produce sempre una disgregazione; per mezzo della parola vinciamo il momento e subito dopo siamo vinti da esso, dalla successione di momenti che superano il nostro assalto senza lasciarci rispondere. È una continua vittoria, che alla fine si trasforma in sconfitta. Leggi tutto