Il futuro

Noi crediamo che le utopie sono possibili.
E sappiamo che le strade si tracciano nel camminare,
che le pietre non ci possono fermare.
Scegliamo la giustizia, la solidarietà, la speranza e la libertà,
anche se sono valori che tanti disprezzano.
Non ci importa se ci accusano di essere stupidi, illusi e pazzi,
perché sono virtù necessarie per volere un mondo migliore.
Non siamo soli, siamo più di quanto crediamo.
E saremo più forti se ci mettiamo insieme.
Ernesto Sábato

Il futuro – parafrasando le parole di Italo Calvino sull’utopia1 – è “come città che non potrà essere fondata da noi, ma fondare se stessa dentro di noi, costruirsi pezzo per pezzo nella nostra capacità di immaginarla”.
Il futuro in cui crediamo, in cui ci riconosciamo, ci attende, ci stimola, ci interpella: vivrà il domani che oggi pensiamo, che abbiamo preparato nel tempo della nostra esistenza, a livello personale e insieme a uomini e donne con cui condividiamo il progetto e il cammino.
Il futuro nasce tra “l’ottimismo della volontà e il pessimismo della ragione”, non si può attendere facendoci vivere dagli avvenimenti, dai fatti, dai diktat del conformismo né di chi si arroga il potere di decidere a nome nostro.

[1] Italo Calvino, L’utopia pulviscolare, 1973

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Traversie e compromessi nella vicenda di un museo necessario

Una giornata di studio: martedì 26 marzo (inizio ore 9.30) a Brescia presso la Sala Conferenze dell’Emeroteca in Palazzo Broletto.

Ripercorrere le traversie e i compromessi che hanno caratterizzato la vicenda del Musil a Brescia non per tentare di ricostruirne gli aspetti urbanistici, economico-finanziari e politico-amministrativi, ma per seguire innanzitutto l’evoluzione del dibattito sul progetto del Museo, dalla prima formulazione a metà degli anni ’80 ad oggi: questo il tema dell’articolo di Carlo Simoni apparso nel secondo numero di “Studi bresciani”, il semestrale promosso dalla Fondazione Luigi Micheletti, in occasione del quale si svolgerà la giornata di studio del 26 marzo.

Disseminata negli articoli dei quotidiani locali, la cronaca delle vicende della sede centrale del Museo dell’Industria e del Lavoro non ha finora trovato un’elaborazione che ne faccia un capitolo significativo della storia politico-amministrativa, urbanistica, culturale della città. Tentarne una ricostruzione sulla base degli strumenti adottati dal Comune per far fronte alla trasformazione del tessuto urbano, degli accordi tra i soggetti pubblici e privati coinvolti, delle dichiarazioni e dei proponimenti da questi stessi in diverse occasioni formulati, degli stanziamenti e delle ripartizioni economiche previste per la realizzazione del Museo non elimina – soprattutto per quanto riguarda l’ultimo decennio – la sensazione che aspetti non secondari e passaggi decisivi sfuggano a un’effettiva comprensione, come accade quando la successione dei fatti non riesce a configurarsi che nella forma di una pura sequenza cronologica. Le testimonianze di professionisti, operatori privati, tecnici e amministratori pubblici offrono notizie e propongono punti di vista che, pur costituendo un contributo imprescindibile, più che ricomporsi in un quadro complessivo sembrano frastagliarsi in un gioco di specchi.

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I libri bruciano male

«Che cosa sono l’uomo o la donna
la cui unica arma sono le parole?
Cosa c’è in queste parole da renderle così pericolose
che alcuni degli uomini più potenti della Terra,
con esercito, armi e persino armi nucleari,
non possono vivere in sicurezza sapendo che
queste persone, costoro – gli scrittori – esistono?»
Azar Nafisi

È difficile bruciare un libro, questa la constatazione da cui parte Paola Ginesi, della Fondazione Piccini: nel fumo acre “l’odore lugubre e triste delle cose che non vogliono bruciare”1, contorcimenti dolorosi, le pagine sembrano difendersi compattandosi, alcune volano in alto quasi per sfuggire ad un destino di morte etica, culturale, di vita, di bellezza, di sapere… prima ancora che materiale.

Un libro bruciato è il tentativo di cancellare un qualcosa esistito per anni, per secoli, per la paura del pensiero, della coscienza, della ragione, della forza dei diritti perché si sa bene che «conoscere il mondo è connesso al volerlo cambiare» (Aldo Capitini).

In Fahrenheit 451 i “vigili del fuoco”, “custodi della pace spirituale” della popolazione, inneggiano: “il libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino: diamolo alle fiamme!”.

Però, se i libri bruciano male, ancor più difficile è bruciare il pensiero, la ragione, la bellezza, la coscienza, il sapere, il dubbio, la consapevolezza.

Ai Wei Wei, noto artista cinese in esilio – figlio di Ai Qing, uno dei più grandi poeti rivoluzionari della Cina – nelle memorie della sua famiglia2, scrive come, per evitare prigione o condanna a morte, insieme a suo padre decisero di bruciare tutti i libri di casa. In mezzo al silenzio e al dolore, quasi fisico, Ai afferma che si sentì crescere dentro una forza incrollabile: «il senso “inflessibile” della bellezza».

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Titolo: Manuel Rivas, Los libros arden mal, Alfaguara 2006
[1] Idem
[2] Ai Wei Wei, Mille anni di gioia e dolori, Feltrinelli 2023

Per una ciocca di capelli…

È cedere al disegno perverso dell’Occidente rivendicare il diritto di andare a scuola? – si chiede Paola Ginesi, della Fondazione Piccini –, guidare un’automobile, uscire da sole, essere protagoniste nella vita sociale, non subire dolorose e umilianti mutilazioni genitali, rifiutarsi di divenire una sposa-bambina, mangiare senza dover rinunciare al cibo per i “maschi” della famiglia?

Ebraim Raissa, il presidente iraniano, che denuncia le proteste delle donne come «il disegno dei nemici per destabilizzare l’Iran», concorda con l’analisi di non pochi nostri media ed opinionisti “occidentali” di vari schieramenti ideologici.

Per quest’ultimi, le proteste delle donne iraniane sono, da una parte, un ulteriore fenomeno di emulazione per aderire a costumi lontani dalla loro storia e contrari alle loro tradizioni; dall’altra, un’ulteriore dimostrazione del disegno dell’Occidente che «attraverso la liberazione del corpo femminile tenta di penetrare e invadere» (Michele Castaldo)unpaeseper imporre i propri valori per cui, di fatto, nel togliersi il velo, la donna passerebbe da una schiavitù di tipo teocratico ad una schiavitù incentrata sul sesso.

La stessa polizia morale è in un certo senso “necessaria”: «La domanda da porsi è: ancor prima di definire il fatto come conservatore, retrivo e reazionario, perché esiste una “polizia morale”? perché si ritiene da parte dell’Islam in quanto religione, di dover frenare in qualche modo l’istinto naturale che la femmina interpreta del desiderio sessuale maschile, un istinto che Malthus definisce primordiale e insopprimibile […] L’Iran, avendo subito ricatti e sanzioni continue da parte dell’imperialismo occidentale, è costretto ad essere guardingo nei confronti dei costumi occidentali per non essere invaso e disgregato. […] Chi oggi saluta trionfalisticamente la ribellione di giovani donne in Iran contro l’oppressione femminile sa di proporre come modello alternativo a quello teocratico islamico quello del liberismo occidentale, dell’individualismo femminile preda della mercificazione di tutta la società, compreso il corpo e la mente della donna, anzi proprio attraverso la donna» (Michele Castaldo).

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“Tertium non datur”*


Non avrei mai più voluto scrivere neppure una parola legata in qualche modo a “questa” guerra – scrive Paola Ginesi, della Fondazione Piccini –, ma in un incontro con alcuni amici, una ragazza mi chiese di mettere per scritto, ampliandola un poco, la discussione che era nata per condividere quelle riflessioni con i suoi compagni/e, per spiegare meglio le sue convinzioni e aiutare a riflettere, senza tabù e pregiudizi, su un argomento decisivo per il loro futuro.

Ho l’impressione di trovarmi sul banco degli imputati quando sfioro la geopolitica mondiale che si sta “chiarendo” nella guerra in Ucraina e mi viene voglia di dire con la mano tesa – su cosa: costituzione vangelo dichiarazione dei diritti umani? – “considero la guerra in Ucraina un’invasione di Putin, con tutte le conseguenze che ciò comporta”.

Ed ora, posso, insieme a tantissime altre persone, cercare di capire un po’ della storia meno recente di una zona che pochi conoscono; permettermi qualche perplessità su come il tutto viene gestito; dichiararmi contro la guerra tout court, perché uccide, distrugge, ruba pane e futuro, fa esplodere le peggiori pulsioni?

Posso rivendicare il diritto alla ricerca e alla difesa di tutto ciò che costruisce la pace anche se questo significa seguire, come ci dicono, strade estranee al buon senso comune, perse tra il fumo di inutili sogni e utopie?

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La risposta non violenta non si improvvisa*. Per una cultura di pace

“Ho ascoltato le posizioni più diverse sull’argomento  guerra-pace  – scrive Paola Ginesi, della Fondazione Piccini – ed ho cercato di mettere per scritto alcune impressioni con la certezza che è indispensabile rimettere in piedi con maggior forza il dibattito sulla pace, sui percorsi per renderla una problematica diffusa, per farne uno stile di vita (…) credo che la riflessione debba andar oltre la cronaca di oggi verso una reale, forte cultura di pace”.

L’attuale crisi geopolitica, sociale, economica, ecologica, culturale deve esser letta in un’ottica più ampia, non può esser vista come una sconfitta di chi lotta per un mondo diverso, ma come un richiamo alla “controffensiva”, all’impegno a tutto campo.

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La parola e le parole

“In questi tempi incerti dove la parola cede il posto alle armi, il ricordo va a Gino Strada con le sue scelte e la continua denuncia di ogni guerra e violenza in difesa della vita di tutti, da qualsiasi parte del “fronte” si trovino”:  una riflessione ampia, avviatasi prima dello scoppio della guerra in Ucraina e da questo evento resa ancor più attuale.

Testo di Paola Ginesi (Fondazione Piccini).

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La lingua della guerra

Dalla Guerra del Golfo, all’inizio degli anni ’90, viviamo in un’epoca di nuovo orientata verso la guerra, e dopo l’11 settembre la guerra si è riappropriata di ciò che la rende attraente agli occhi dei giovani, uomini e donne: l’elemento eroico.
Sono, queste, osservazioni che esprimevo nel 2001, che ho riletto oggi, che potrei avrei scritto ieri e perciò mi pare abbia senso riproporre (anche alla luce delle reazioni seguite alla pubblicazione di articoli come quelli di Barbara Spinelli sul “Fatto Quotidiano” dello scorso 26 febbraio, e di Tomaso Montanari su “Micromega”.

Quando scoppia una guerra ci parliamo di più, ma paradossalmente non riusciamo a comunicare di più: la lingua della guerra crea un frastuono che rende difficile farlo.
Si crea un’illusoria comunità dialogante.
E a soffrire è prima di tutto il parlare; ci accorgiamo che discorriamo male, rissosamente, scopriamo che le nostre parole, se non sono parole riconoscibili in quelle degli schieramenti che si sono andati formando, non hanno alcuna possibilità di essere recepite, sono rese del tutto superflue.
E’ in scacco la fiducia nel potere che le parole hanno di creare legami sociali, di resistere alle chiusure create dalla guerra. Soprattutto, è messo in questione il senso del parlare perché la guerra costruisce una sua lingua insensibile, corazzata, armata di ragioni e ragionamenti.

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La storia, le storie / La memoria di un giorno

La memoria di un giorno. Il giorno in cui in un villaggio della campagna ungherese arrivano due ebrei, trasportano due casse, affittano un carro per portarle dalla stazione al paese. È di quel giorno che racconta 1945, un film del 2017, di Ferenc Török. Trasmesso da Rai storia la sera del 25 gennaio, tuttora presente fra le proposte di Rai Play.

È lo stesso giorno – lo sentiamo dalla radio all’inizio del film: il 6 agosto 1945 – in cui una  bomba atomica  viene sganciata su Hiroshima. Ma si tratta di un evento che avviene lontano, e cade nella disattenzione generale: per i paesani è un giorno di festa, si sposa il figlio del notaio comunale, il boss della comunità, che il capostazione si precipita ad informare: sono tornati. Gli ebrei. Sono solo due ma potrebbero esser venuti a rivendicare anche per le famiglie degli altri, deportati e uccisi nei lager, le proprietà loro confiscate e poi “riassegnate” ai locali.

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Pensiero del Presente / 28 maggio 2020. Appunti e letture

▸ dai giorni del coronavirus

Ci sono eventi che d’improvviso aprono un varco nell’opacità del nostro vivere collettivo e nell’ordinarietà delle nostre vite individuali. Così avvenne con la strage in piazza della Loggia e la risposta che la città diede, così è accaduto – su ben altra scala – con la rapida diffusione del virus e l’isolamento con il quale si è cercato di farvi fronte. Vicende radicalmente diverse, ma che fanno comunque riflettere sul bisogno ineludibile di una memoria collettiva sensibile e capace di elaborare gli avvenimenti. Un bisogno che attraversa epoche diverse – gli anni ’70 e quelli che viviamo –, due epoche tra loro lontane, più di quanto inevitabilmente implichino i decenni passati ma, appunto, accomunate – soprattutto agli occhi di chi è testimone dell’una e dell’altra – da una stessa esigenza di memoria.
A vent’anni dalla strage, nel ’94, mi ero provato a ripercorrere l’evoluzione della memoria della strage e delle sue manifestazioni: dal ricordare al commemorare fino al celebrare, in un progressivo processo segnato non tanto dal naturale affievolimento della memoria, quanto dal suo scolorirsi nelle forme della memoria pubblica prima e dalla sua cristallizzazione nei riti celebrativi poi: un processo storico e culturale non inevitabile; una perdita che, contrariamente a quanto negli anni seguenti è avvenuto, sembrava irreversibile. Quanti si sono adoperati per contrastare questo processo, e per garantire la trasmissione di una memoria viva ai giovani che nel ’74 non erano ancora nati, sanno bene il lavoro che è stato, ed è, necessario. Un lavoro che non può conoscere interruzioni e latitanze, che si deve alimentare di una ricerca permanente e tradursi in iniziative di informazione e di sensibilizzazione, innovando sempre formule di comunicazione e modalità di coinvolgimento.

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Pensiero del Presente / Una cronaca che si fa Storia

Dieci buone ragioni per leggere un “minidiario” dai giorni della reclusione

▸ dai giorni del coronavirus

Esco alle otto e mezza di sera, perché non ho voglia di rifare la coda fuori dal supermercato, a un metro da quello prima e da quello dopo, che ci si guarda in tralice di continuo per far mantenere la distanza, con il serpentone che si allunga finché il supermercato non lo vedi nemmeno. Fuori, vuoto.
Ma vuoto vuoto. Che ho un primo attimo in cui dico ah, però, bello, mai visto così e poi mi scopro inquieto, perché le montagne, le vallate, il mare sono belli quando non ci sono le persone, le città no: se sono vuote sono città morte.

Comincia così il “minidiario dei giorni di reclusione”, scritto a partire dal 13 marzo, pochi giorni dopo l’inizio del “lockdown”, ma “scritto un po’ così”:

Sto scrivendo di getto, rileggendo a malapena quanto scrivo (è una delle regole che mi sono dato per questo diario, lo dichiaro fin dal titolo).

Ma scritto da chi? Da Trivigante, stando al nome del sito – trivigante e le cose – che evoca un personaggio dei poemi quattrocenteschi di Pulci, Boiardo e Ariosto.
E perché leggerlo, di questi tempi, intasati di commenti punti di vista critiche eccetera?
Per dieci buone ragioni. Che ti si fanno chiare man mano leggi il già scritto e si confermano poi di giorni in giorno (sperando che Trivigante tenga duro).

1.

Condizioni di vita comuni, o molto simili – anche se la barca un cui ci troviamo non è mai stata la stessa, e tanto meno lo è stata via via che la Fase Uno procedeva fino a sfociare, si fa per dire, nella Due – non hanno sgombrato la scrittura da una sua abituale e radicata postura: molte delle cose che abbiamo letto e leggiamo in questi giorni portano in sé l’ambizione, più o meno dissimulata, di alzarsi una spanna sopra gli altri, di distinguersene. Come se scrivendo, appunto, si potesse guardare quello che sta intorno da una posizione privilegiata, tirandosene fuori nella sostanza. O immaginando di farlo, comunque.

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La forma e il volto della città / Fabbriche e graffiti

Un contributo importante all’archeologia industriale

Tag, segni e tracce lasciate nelle Cattedrali del lavoro ormai abbandonate immortalate da Gigi Bellometti.

Ha respirato l’aria della fabbrica, Gigi Bellometti, sin da bambino, nelle officine meccaniche del nonno, e poi da operaio, in gioventù, e in seguito, per una vita – arrivata oggi vicino agli ottanta – attraverso l’impegno a vario titolo prestato nel sindacato.

Un’aria, quella dei capannoni e delle macchine, che si è tuttavia rarefatta a partire dalla fine degli anni ’70 e soprattutto con le grandi ristrutturazioni degli anni ’80, che dopo il tessile investirono il metalmeccanico.

Di qui la consapevolezza che, come la memoria della civiltà contadina in seguito allo spopolamento delle cascine, così anche quella dei luoghi della produzione industriale poteva disperdersi con l’abbandono e il degrado di quelle che si potevano considerare Cattedrali del lavoro. Questo il titolo del grande reportage fotografico con il quale Bellometti ha offerto un contributo importante alla ricerca archeologico-industriale diffusasi in Italia, e a Brescia, sul finire degli anni ’70. Gli stessi in cui – la coincidenza appare in questo caso significativa – apparivano nei ghetti newyorkesi i primi graffiti, manifestazione di quella cultura hip-hop non a caso richiamata in una delle immagini che in anni recenti Bellometti ha scattato fra le rovine delle fabbriche disertate dal lavoro, a Brescia come a Nave e in altri centri della provincia.

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La forma e il volto della città / Il Musil e il suo contesto

«Non si può collocare un’opera così importante – qual è il Musil – in un contesto di degrado fatto di scheletri di capannoni». Tempestiva l’osservazione di recente espressa su questo giornale da Maurizio Pegrari. Occorre tuttavia ricordare che quanto attornia gli edifici destinati alla musealizzazione non è il risultato di un naturale, inevitabile degrado, ma della sistematica demolizione che negli anni scorsi ha raso al suolo fabbriche, cinte murarie, serbatoi pensili. I segni di un passato produttivo senza i quali il nuovo museo corre un rischio di non poco conto: lo spaesamento. Non a caso l’ipotesi – nella sua formulazione originaria, negli anni ’80 – di un museo della Brescia contemporanea, della sua modernizzazione e della sua industria, attribuiva al polo espositivo anche la funzione di centro di interpretazione di un contesto del quale si riteneva essenziale fossero conservate le presenze architettoniche più significative e la fisionomia complessiva. Le cose non sono andate così, appunto, ma non sono solo «scheletri di capannoni» ciò che resta dell’ex laminatoio che affianca il museo e degli edifici industriali pericolanti che si innalzano – non sappiamo per quanto ancora – appena a sud del museo stesso: un loro recupero, capace di non cancellarne i caratteri così come di prevederne un riuso non puramente abitativo e terziario, appare indispensabile garanzia del mantenimento di quel contesto.

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La forma e il volto della città / Il «Bigio»: e il museo della città?

Dal Corriere della Sera-Brescia del 2 novembre 2018.
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Mettere temporaneamente il Bigio in un museo e intanto proseguire il dibattito per trovare una soluzione condivisa perché – sostiene il Sindaco – «Non è mai accaduto nella storia dei paesi democratici che le statue rimosse dopo le dittature, di cui erano un simbolo, siano state ricollocate. Quella dell’Era Fascista sarebbe il primo caso, non è una banalità»: ecco il punto.

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Figure e paesaggi / Da «sonadùr» al Carnevale a concertista

Dal Corriere della Sera (Brescia) del 10 gennaio 2018

Daniele Richiedei con il padre Nerio: entrambi oggi sono fra i sonadùr del Carnevale di Bagolino

«Io, bambino, accolto nel gruppo dei suonatori. Io, piccolo, in mezzo a loro, avvolto nel suono del bassetto, delle chitarre e dei violini. Ero troppo piccolo per suonare, e sentivo di essere privilegiato rispetto gli altri bambini nel poter stare lì, ai piedi di mio papà che suonava. Il violino».
Nel primo ricordo che Daniele Richiedei ha del Carnevale del suo paese, Bagolino, a occupare la scena è la musica, l’esperienza dell’essere immersi nella musica: un po’ come accade a chi, come lui oggi, suona in complessi musicali e in orchestre.

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La storia, le storie / Introduzione a ‘el médol’

el médol ovvero: la cava nella storia di uomini e donne sulla “Via del marmo”, a cura di Daniele Bonetti (Serle 2017)

Un libro di storia orale, non un libro di storia, avverte in apertura la prefazione di chi ha curato questo libro: un racconto che non si basa sull’inoppugnabilità di documenti scritti da chi non c’è più, quindi, ma sul calore e le inflessioni irripetibili delle memorie  di chi ancora vive, e ricorda,  traendo spunto dai luoghi  nei quali questa memoria è inscritta. Il racconto dei testimoni è costellato di riferimenti alle località che nelle  dieci frazioni di Serle sono state sede dell’attività estrattiva: è una conoscenza radicata del territorio che si manifesta, sedimentata nel lavoro di cavatori che sono rimasti sempre anche contadini (“dopo  la giornata al médol andavo a vangare, avevamo un sito, con un pezzetto di vigneto”).  O  carbonai.

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Luoghi cose musei / Il futuro di Santa Giulia e del Musil. Quale museo per questa città?

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Abbiamo una struttura storica che va riallestita e un progetto sul lavoro da aggiornare. Trasformare la logica collezionistica in narrativa e trovare soluzioni accattivanti.
Dal Corriere della Sera (Brescia) del 21 ott 2016

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Un quesito decisivo quello che fra altri, non meno importanti, si è ascoltato nell’incontro sulla cultura a Brescia tenutosi all’Aab nei giorni scorsi: il «Museo della città» è ancora attuale o è stato di fatto accantonato o quantomeno ridimensionato, se non travisato?

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Pensiero del Presente / Il lavoro nella cultura e nell’immaginario attuali*

*Intervento al Convegno Il lavoro che trasforma il mondo, organizzato nell’ambito della mostra promossa dalla Cgil di Brescia CapoLavoro. Arte e impegno sociale nella cultura italiana attraverso il Novecento (Brescia, Museo di Santa Giulia, 10 ottobre-10 dicembre 2014)

Oltre la dimensione economica e tecnica che lo connota, al lavoro ne va riconosciuta una culturale: la sua considerazione, la sua promozione, il ritenerlo un diritto non negoziabile – e di più: una delle condizioni che fondano la relazione con gli altri – non dipendono solo dal grado di sviluppo tecnologico, dall’andamento dell’economia e dallo stato dei rapporti fra le parti sociali e le loro rappresentanze, ma anche dal posto che esso occupa nella mentalità diffusa.
Indipendentemente dal fatto che il lavoro dei contadini di pianura e di montagna ha costruito grande parte del paesaggio e che il lavoro degli artigiani ha fornito i presupposti di gran parte del nostro vivere quotidiano e continua a svolgere in questo senso un ruolo essenziale assicurandone la continuità, è innegabile che il lavoro che trasforma il mondo – stando all’immagine che il titolo di questo incontro evoca – rimanda al lavoro industriale, al lavoro che maneggia la materia di cui il mondo è fatto cambiandone natura e forma. Ma è proprio l’immagine del lavoro industriale che oggi evidenzia i segni di un appannamento della sua presenza nel sentire collettivo. Un appannamento che torna in questi ultimi tempi a farsi divaricazione dei modi di rappresentare il lavoro, il lavoro operaio in particolare: per gli uni componente e per molti aspetti matrice delle sperimentazioni della democrazia, per altri residuo di una società scomparsa (si pensi a come si parla degli anni Settanta, quasi fossero una sorta di preistoria, quasi non appartenessero alla storia del paese, e non fossero ancora memoria viva).

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