Per una rilettura di “Senilità”: psicoanalisi, narrazione e cura nel pensiero di Svevo

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I rapporti tra psicanalisi e letteratura sono talmente complessi che sembra sia impossibile poter esaustivamente cogliere i nessi profondi che legano queste due discipline fra le quali, da sempre, vi è un vivo interesse reciproco.
Vorrei qui limitare il discorso all’uso della psicanalisi, o meglio del suo linguaggio e delle sue strutture interpretative, in relazione alla critica letteraria.
Molto spesso la critica letteraria -ma anche quella che si applica al cinema o alle arti figurative – si avvale di strutture interpretative desunte dalla psicoanalisi che, utilizzata al di fuori del suo naturale habitat clinico, sembra essere in grado di offrire l’opportunità di svelare aspetti che, altrimenti, resterebbero nascosti.
È vero che la psicoanalisi nasce come strumento terapeutico, ma essa è anche un tramite di conoscenza secondo una teoria che può anche non essere condivisa, ma che comunque rappresenta uno dei possibili modi di leggere la realtà e, a maggior ragione, la realtà artistica, la produzione artistica, dal momento che in essa è quanto mai agevole riconoscere linee interne di percorso inconsce, passibili quindi di analisi del profondo.
L’impressione che se ne ricava è che queste due discipline si incontrino in uno spazio condiviso, abitato dalla comune ricerca del “capire” e del “dare significato”.
Il lavoro dello psicanalista consiste infatti nel “dare significato” a quel mondo interno che rischierebbe di restare inaccessibile o, peggio, utilizzabile solo con modalità patologiche, proprio come il lavoro del critico consiste nell’indicare i possibili modi di “leggere” un’opera, individuandone e portandone alla luce gli aspetti “segreti”.
Vi sono opere letterarie che con prepotenza si offrono a un’interpretazione analitica, o perché propongono personaggi dagli evidenti tratti patologici, o perché il loro intreccio induce a riflettere sulle dinamiche psicologiche, o, ancora, perché traspare in esse una ricerca dell’autore, più o meno consapevole, diretta verso le parti più profonde di sé.
Tra gli autori di opere siffatte rientra senza dubbio Italo Svevo: credo sia davvero impossibile leggere Svevo senza fare un collegamento con la psicoanalisi, se non altro per ragioni storiche, dal momento che la produzione sveviana si sovrappone cronologicamente a quella di Freud, il cui pensiero, come è noto, penetrò precocemente in Italia proprio nella Trieste sveviana.
Tuttavia, nell’individuare le ragioni dell’interesse reciproco fra psicoanalisi e letteratura, non va dimenticata quella che è certamente la meno riconoscibile, ma anche la più profonda, e cioè il fatto che la stessa psicanalisi può essere considerata un genere letterario basato sulla narrazione.
La psicanalisi, o le psicoterapie analitiche, si dipanano infatti secondo un filo narrativo, anzi si può dire che la psicoanalisi sia una narrazione, una narrazione del tutto particolare alla quale non interessa tanto il descrittivismo naturalistico, quanto la possibilità di individuare connessioni simboliche che introducano nella narrazione un elemento di conoscenza critica sulla quale fondare la possibilità di giungere alla meta finale che è la trasformazione di una struttura psichica.
Durante una psicoanalisi il paziente rivive e riscrive, e non già descrive, il “romanzo” della propria vita e, nel corso della narrazione, il paziente e il terapeuta sono chiamati al tempo stesso ad essere protagonisti ed osservatori.
Ecco che allora la psicanalisi solleva degli interrogativi relativi al senso del narrare: a cosa serve narrare ?
Quale è lo scopo del narrare?
È semplicemente portare fuori da sé quegli aspetti esistenziali che vengono percepiti come dolorosi o fastidiosi – per liberarsene – o è introdurre una possibilità di conoscenza trasformativa?
È proprio intorno a tali quesiti che si articola la differenza tra interpretazione analitica di un’opera letteraria ed opera letteraria di contenuto analitico.
La differenza sta, come si capisce, non tanto in ciò che si narra, ma nella qualità della narrazione; non consiste tanto nel descrivere una patologia, o semplicemente un carattere, quanto nel cogliere il nesso tra malattia e narrazione da una parte e narrazione e terapia dall’altro.
Da questo punto di vista Svevo è un autore che si può definire analitico, poiché la sua narrazione risponde a un buon numero di quelle caratteristiche che contraddistinguono la psicoanalisi.
Innanzi tutto egli, nel corso della narrazione, è osservatore, sa mantenersi lucido e critico, ma è anche protagonista, poiché il colore della narrazione è quello di una vicenda vissuta in prima persona (anche se formalmente “Senilità” è scritto in terza persona, a differenza della Coscienza di Zeno, che è un romanzo-diario).
Non solo, ma il tema centrale di “Senilità” è quello della narrazione, anzi di una narrazione mancata e, per traslato, di una terapia mancata e di una guarigione mancata.

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La storia, le storie / L’evasione da Lipari*

Nella lunga e difficile lotta contro il fascismo pochi episodi hanno avuto la rilevanza politica e simbolica della fuga da Lipari. Già nell’estate del 1927 Ernesto Rossi aveva manifestato ad Alberto Tarchiani, un ex giornalista del «Corriere della Sera» esule in Francia, il proposito di organizzare l’evasione degli amici confinati: un’idea che cominciò a prendere corpo nel marzo 1928, quando in un incontro tra Tarchiani e Salvemini a Londra furono definite le «linee maestre dell’azione»¹. Fatto venire dall’America Raffaele Rossetti, l’affondatore della Viribus Unitis, che avrebbe dovuto guidare le operazioni, la macchina organizzativa si mise in moto. Mentre tra Lipari, Londra e Parigi si sviluppava un fitto intreccio di messaggi cifrati, Emilio Lussu e Carlo Rosselli, ai quali si erano associati Francesco Fausto Nitti e Gioacchino Dolci, adottarono comportamenti volti ad allontanare ogni sospetto. Il primo usciva di casa con regolarità cronometrica, creando nei suoi guardiani la convinzione che fosse incapace di alterare le proprie abitudini. Il secondo faceva il possibile per dare l’immagine di un uomo tutto dedito allo studio e alla famiglia; negli ultimi mesi, addirittura, si impegnò ad apportare migliorie all’abitazione in cui risiedeva con la moglie e il figlio². Intanto raccoglievano tutte le informazioni utili, effettuavano accurati rilevamenti sul servizio di vigilanza, studiavano orari, percorsi e punti d’appoggio, s’esercitavano al nuoto.
Il piano consisteva nell’eludere la sorveglianza nel breve lasso di tempo compreso tra la ritirata e i controlli serali, buttarsi in mare, approfittando dell’oscurità, e farsi recuperare in un luogo convenuto da un’imbarcazione veloce in grado di sottrarsi all’inseguimento dei MAS che pattugliavano le acque dell’isola. Da tramite con l’esterno avrebbe agito la moglie di Rosselli, che essendo inglese poteva muoversi liberamente. Ma difficoltà e ostacoli imprevisti misero in forse la riuscita del progetto. Prima due tentativi di fuga attuati da altri confinati causarono una stretta nel sistema di sicurezza. Poi le proibitive condizioni del mare e guasti ai motori del motoscafo salpato dalla Tunisia mandarono a vuoto i rendez-vous fissati per il 17 e 19 novembre 1928, obbligando a precipitosi rientri nelle abitazioni per evitare di essere scoperti. Gli insuccessi ripetuti, la cattiva stagione e la necessità di sostituire il natante, dimostratosi inaffidabile, costrinsero a un lungo rinvio che consentì a Dolci, liberato per fine pena, di passare clandestinamente in Francia e unirsi agli organizzatori dell’operazione. Il suo posto fu preso da Paolo Fabbri, un contadino socialista, amico e discepolo di Giuseppe Massarenti³. Finalmente, la sera del 27 luglio 1929, il motoscafo con a bordo Italo Oxilia, che aveva sostituito Rossetti, Gioacchino Dolci e un motorista francese arrivò all’appuntamento. Raccolti gli uomini in mare, ma non Fabbri che, intercettato da una pattuglia di militi, aveva finto di essere ubriaco per coprire i compagni, si allontanò a gran velocità. Quando fu dato l’allarme era ormai irraggiungibile.

Note
* Questo saggio è stato pubblicato in Gli italiani in guerra. Conflitti, identità, memorie dal Risorgimento ai giorni nostri, direzione scientifica di Mario Isnenghi, vol. IV, Il Ventennio fascista, t. 1, Dall’impresa di Fiume alla Seconda guerra mondiale (1919-1940), Torino, UTET, 2008, pp. 572-577.
¹ Alberto Tarchiani, L’impresa di Lipari, in No al fascismo, a c. di Ernesto Rossi, Einaudi, Torino 1963 [1957], pp. 120-21.
² Carlo Rosselli, Fuga in quattro tempi, in Almanacco socialista 1931, Partito socialista italiano, Parigi s.d. [ma 1930], ora in Id., Socialismo liberale, a c. di John Rosselli, Einaudi, Torino 1973, p. 515.
³ Dirigente sindacale a Molinella, perseguitato dal fascismo, dopo il confino lavorò alla riorganizzazione del Partito socialista. Animatore della Resistenza nel Bolognese, fu ucciso nel febbraio del 1944 mentre tentava di passare le linee tedesche. Cfr. il profilo biografico di Luigi Arbizzani, in Franco Andreucci, Tommaso Detti, Il movimento operaio italiano.

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La poesia è un domatore perplesso

Questo testo nasce dalla richiesta rivoltami dall’associazione culturale La Guglia di Agugliano, Ancona: si tratta di uno scritto introduttivo all’antologia dei poeti selezionati lo scorso anno per il Premio “Poesia senza confine”, di cui l’associazione è promotrice.

“Una poesia dove non si nota nemmeno un bicchiere o una stringa, m’ha sempre messo in sospetto. Non mi è mai piaciuta: non l’ho mai usata nemmeno come lettore. Non perché il bicchiere o la stringa siano importanti in sé, più del cocchio o di altri dorati oggetti: ma appunto perché sono oggetti quotidiani e nostri “.
Giorgio Caproni

A volte, non ravvisando essi nulla di luminoso e di bello nelle cose che li circondano, si chiudono a sognare e a cercare lontano . Ma pur nelle cose vicine era quel che cercavano, e non avendolo trovato, fu difetto, non di poesia nelle cose, ma di vista negli occhi.(…) Or dunque intenso il sentimento poetico è di chi trova la poesia in ciò che lo circonda, e in ciò che altri soglia spregiare, non di chi non la trova lì e deve fare sforzi per cercarla altrove.
Giovanni Pascoli

“Trovo che nulla è più ammirevole dei tramonti” riprese lei ”ma sulla riva del mare, soprattutto”
Gustave Flaubert

“La poesia non è fatta per nessuno
non per altri e nemmeno per chi la scrive.
Perchè nasce? Non nasce affatto e dunque
non è mai nata. Sta come una pietra
e un granellino di sabbia. Finira’
con tutto il resto”
Eugenio Montale

Di parole quotidiane sono fatte le frasi eterne
Concetto Marchesi

Il libro deve essere una scure per il mare gelato che è dentro di noi
Franz Kafka

“Un racconto, un romanzo o una poesia dovrebbero sferrare un certo numero di pugni all’emotività del lettore”
Raymond Carver

Un’altra caratteristica certa, che distingue i mediocri e i falsi romanzieri, è la preoccupazione – la intenzione programmatica – di apparire ai propri contemporanei, a qualsiasi costo, “nuovi”, “ moderni”, “all’avanguardia”ecc. E’ comprensibile infatti che un mediocre e un falso romanziere si preoccupi di eccitare, a qualsiasi costo, la curiosità dei propri contemporanei: giacché, fuori di quella che gli offrono i suoi contemporanei, a lui non è data nessuna’altra occasione di farsi leggere. Col sopravvenire di una nuova generazione – o, magari, anche soltanto della prossima stagione- la sua falsa realtà non ingannerà più nessuno. Mentre il poeta vero sente (anche se non lo sa) che molti dei suoi lettori devono ancora nascere, e che la sua realtà è vera per sempre.
Elsa Morante

L’occupazione preferita e più intensa del bambino è il gioco. Forse si può dire che il bambino impegnato nel gioco si comporta come il poeta: in quanto si costruisce un suo proprio mondo o, meglio, dà a suo piacere un nuovo assetto alle cose del mondo … Anche il poeta fa quello che fa il bambino giocando: egli crea un mondo di fantasia, che prende molto sul serio
Sigmund Freud

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La forma e il volto della città / Etica e metropoli

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Nelle città vive ormai più del 50% della popolazione mondiale. Il contesto urbano, nelle sue diverse forme, in quanto ambito privilegiato nel quale si svolge la vita degli uomini, è dunque sempre più lo scenario delle grandi questioni di civiltà che interessano il comportamento degli uomini.
Nella città si manifestano il tema del confronto tra culture diverse e della necessaria convivenza di modi di vita differenti, la questione della redistribuzione della ricchezza e della più equa ripartizione delle risorse, la necessità della garanzia di pari opportunità di accesso a beni, servizi e diritti, il problema della tutela dei diritti dei più deboli, quello della efficacia delle leggi e, al contempo, della operatività di norme condivise che permettano la civile convivenza.
Inoltre la gestione della città è sempre più urgentemente chiamata a misurarsi con problematiche quali l’uso delle risorse, la tutela dell’ambiente naturale, la manutenzione del patrimonio storico, che fanno assumere sempre di più all’etica la dimensione della responsabilità nei confronti delle generazioni future.

Ethos e polis, secondo Cacciari

Una trattazione del rapporto tra ethos e metropoli non può prescindere dalla riflessione che in questi anni ha svolto su questo tema Massimo Cacciari, facendone anche strumento di guida della sua prassi politica.
Prendiamo in considerazione il libro ‘La Città’’, trascrizione di una conferenza/seminario del 2004 tenuta a Fiesole, in cui vengono riprese anche le osservazioni anticipate nel saggio apparso sulla rivista Micromega nel 1990 con il titolo appunto “Ethos e metropoli”, che pur affrontando frontalmente la tematica proposta ora appare però troppo legato alla contingenza politica.
Fin dalla prefazione del libro A. Rizzi rivela perché la riflessione sulla città sia centrale in Cacciari:
“La città nella storia è il perenne esperimento per dare forma alla contraddizione, al conflitto” (Non a caso Cacciari riprende la tesi di Vico e di Schmitt che la radice di polis derivi da polemos guerra).
Non esiste la città in generale ma esistono forme diverse di vita urbana.
Lo possiamo riscontrare nella assenza di un corrispondente latino al termine che designa la città greca, la polis, “la polis è il luogo dell’ethos, il luogo che da sede ad una gente, a un genos”. Riprendo la trattazione della differenza tra civitas e polis come la sviluppa Cacciari, senza entrare nel dibattito più approfondito in merito; basti citare qui ‘La città antica’ di Fustel de Coulanges o ‘La Civiltà dei greci’ di Burckhardt, in cui questi temi dell’origine della polis e della nozione stessa di genos appaiono con una complessità e una ricchezza che è a volte anche contraddittoria. L’ethos greco non ha il significato dei mores latini, è radice, radice del genos, appartenenza, tradizione.La città greca, la polis, da cui la politica, è una città che non vuole crescere, che si sviluppa intorno all’agorà, è il territorio dove governa l’ethos.

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