Appunti presi nel corso della lettura di libri che hanno lasciato traccia e si segnalano, per ragioni fra loro diverse, fra le pubblicazioni recenti. Leggi di più
Voltaire, Candido, o l’ottimismo, Blackie edizioni 2020 (pp. 221, euro 17,90)
Metti al posto dell’”armonia prestabilita” la crescita felice dei più incalliti credenti nella religione del Progresso e del PIL o, ancor meglio: le certezze dei sostenitori di una globalizzazione che se non sempre appare buona si rivelerà tale; al posto della convinzione che questo sia il migliore dei mondi possibili, il TINA (There Is No alternative), che sarebbe come dire la Thatcher al posto di Leibniz… O, anche, la pandemia da coronavirus del 2020 al posto del terremoto di Lisbona del 1755: le “pene d’inferno” di cui deve soffrire Pangloss, il filosofo ottimista, gli vengono da una graziosa cameriera che “doveva questo regalo a un cordigliere dottissimo che ne era risalito alla fonte: l’aveva preso da una vecchia contessa che, a sua volta, l’aveva ricevuto da un capitano di cavalleria che lo doveva a una marchesa che l’aveva avuto da un paggio che l’aveva preso da un gesuita il quale, durante il noviziato, l’aveva ricevuto da uno dei compagni di Cristoforo Colombo”: se non è tracciamento del contagio questo, con tanto di paziente zero… (se si sorvola sul fatto che si tratta di sifilide, nello specifico, non di Covid-19).
Il gioco dei rimandi e delle assonanze potrebbe continuare (gli esportatori di democrazia e i missionari gesuiti del Paraguay, tanto per dire): l’attualità del romanzo di Voltaire è il secondo motivo per rileggerlo. Il primo sono i sorrisi che la lettura suscita, facendo gustare un’ironia contro il Potere che resta acuminata, purissima, anche là dove appare venata di una volontà di denuncia che non ha purtroppo avuto la meglio sui suoi bersagli, dallo sfruttamento dei poveri del Sud del mondo a quello delle donne. Fino – per andare al cuore del discorso – alla polemica contro l’ottimismo, opzione di carattere metafisico a quel tempo; orizzonte tutto terreno ma in compenso obbligatorio nel mondo dei consumi e del godimento immediato di oggi, tant’è vero che mantiene il suo sapore la storiella dell’ottimista e del pessimista (“Questo è il migliore dei mondi possibili”, ripete sicuro il primo; “Ho paura che sia proprio così…”, commenta mesto il secondo).
Ma ci sono altre ragioni per riaprire il romanzo di Voltaire, e ce le indicano due note, una all’inizio e una a conclusione, che arricchiscono il testo (insieme alle spiritose illustrazioni di Quentin Blake). La prima è la prefazione che Italo Calvino aveva scritto nel 1974 per l’edizione del romanzo nella Bur, la biblioteca universale della Rizzoli: “oggi – vi si sostiene – non è il racconto filosofico che più ci incanta (…): è il ritmo”. Un ritmo fatto di “velocità e leggerezza”, spiega Calvino – e sembra anticipare le prime due delle sue Lezioni americane –, per cui Candido si configura come “un riassunto a rotta di collo”, in cui i disastri si succedono a grappolo come nel “cinema comico” e “i personaggi sembrano fatti di gomma”, escono di scena miseramente impiccati o sbudellati per poi tornarvi, e qui più che alle comiche siamo ai cartoni animati.
Non la velocità ma la pertinenza rispetto al mondo attuale appare la cifra caratterizzante il romanzo a Julian Barnes, autore della nota finale, con una precisazione sostanziale tuttavia: “è il modo in cui Voltaire espone le sue ragioni a renderlo vivo ancora oggi”, la fulmineità di certe sue asserzioni, come quella racchiusa nella “frase universalmente nota che sta a chiusura del romanzo – il faut cultiver notre jardin”. Universalmente nota ma spesso intesa “nel senso di guardare al proprio interesse”, stando a una lettura riduttiva, a un sostanziale fraintendimento anzi, che non avrebbe sorpreso il suo autore, uso a ben altri attacchi polemici. “Un’utopia”, in realtà – nota Calvino – in un libro “in cui il lavoro appare solo come dannazione e in cui i giardini vengono regolarmente devastati”, per cui, a ben guardare, ci si rende conto che “la voce della ragione nel Candido è tutta utopica”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Gian Mario Villalta, L’apprendista, SEM 2020 (pp. 228, euro 17)
Ipermercati che, dopo i negozi al minuto, si mangiano anche i supermercati; villettame che assedia un centro storico spopolato; capannoni abbandonati attorno all’abitato, svuotati dalla crisi che ha bloccato anche l’edilizia, tanto che le uniche cose che ancora si costruiscono sono le rotonde: siamo dalle parti di Pordenone, il paesaggio è quello ordinario di molto Nordest, e non bastano due ville venete, visitate da torme di turisti rassegnati e distratti, a sollevare le sorti del paese. Nulla che non si conosca già, dunque, non fosse per il punto d’osservazione, inconsueto: la chiesa. Tutto si vede e si racconta a partire da lì, perché i due protagonisti sono due vecchi sacrestani, l’ultraottantenne Fredi e il poco più che settantenne Tilio, sacrestano in capo il primo, investito del compito di servir messa; ancora “apprendista”, nonostante la rispettabile età, il secondo, che oltre a collaborare con il collega a tener pulita e in ordine la chiesa, raccoglie le elemosine.
Due personaggi che ricordano i flaubertiani Bouvard e Pécuchet, ha scritto qualche recensore, o – come hanno fatto notare altri, con maggior pertinenza – l’Estragon e il Vladimir di Aspettando Godot: uomini ai margini, persi in discorsi futili, almeno all’apparenza, che battibeccano a volte ma tornano sempre a rappacificarsi, legati da una dipendenza reciproca, immersi in un tempo sospeso, segnato solo dal cadere delle foglie nel capolavoro beckettiano, dalle ricorrenze liturgiche in questo romanzo.
E dunque, loro, il decadimento del paese lo leggono soprattutto nel rarefarsi della partecipazione alle messe, non escluse quelle celebrate in suffragio dei defunti; nel gelo che regna nella chiesa e gli scarsi mezzi a disposizione non permettono che di contrastare debolmente; nella malavoglia di chierichetti sempre più rari e attaccati al telefonino, fosse per loro, anche nell’esercizio delle loro funzioni; in innovazioni come le ostie per celiaci e la vendita esclusivamente on line dei generi prima venduti dai negozi d’arte sacra. Eppure, non si può dire vuota la vita dei due sacrestani, tutt’altro: se i loro dialoghi sono scarni, all’inizio soprattutto, i loro pensieri riempiono le pagine grazie al ricorso generalizzato a quell’espediente che permette alla voce del narratore di confondersi con quella dei suoi personaggi, il discorso indiretto libero. Via via li conosciamo bene quindi, Tilio e Fredi. Attento agli altri, il primo, animato da un desiderio di sapere che mescola la cronaca spicciola alle grandi questioni del mondo attuale, se pur solo orecchiate (“Vedrai che se viene il clima globale che tutti dicono le messe le fanno via Internet, così ognuno sta a casa sua, sui ventun gradi fissi”), ma che non arretra neanche davanti agli enigmi del Vecchio e del Nuovo Testamento. Perché a suo modo è filosofo, Tilio: “Non si può vivere senza servire a niente”, “quando hai tutti i giorni liberi i desideri che avevi si squagliano (…). Oppure corri dietro ai desideri impossibili, ti incazzi con il mondo perché sono fuori portata”. Ed è qui, in questa saggezza frammentaria ma distillata dall’esperienza concreta della propria vita, che i due si incontrano, anche se è di tutt’altra pasta Fredi, uno di quelli che sta fermo in se stesso e non deroga alle regole. Tuttavia, pur se non segnato, come Tilio, dalla morte prematura della moglie e angustiato da un rapporto asfittico con il figlio, anche lui gravato di un passato che l’ha irrigidito in uno sforzo ininterrotto di “confermare a se stesso quello che è”. Il che non gli impedisce tuttavia, dietro lo stimolo talvolta invadente, al fondo amichevole del suo “apprendista”, di riflettere sul proprio stare al mondo, sulla caduta di ogni suo interesse. Una condizione che gli fa tornare alla mente il bambino che è stato, per il quale rimandare a domani equivaleva a negare un desiderio che esigeva di essere soddisfatto oggi, subito. Senonché, ormai, un domani non c’è più per un vecchio come lui, tanto più perché sente di non averli seguiti mai i propri desideri.
Per entrambi, tuttavia – per quanto sedentario da sempre Tilio; conoscitore di ambienti e di terre lontane, in passato, Fredi –, la chiesa ha rappresentato e continua a costituire un luogo sicuro, proprio perché non è una casa da cui si può esser tentati di evadere, alla ricerca di un altrove, ma è un “posto di passaggio”, dove “puoi pensare di essere sempre e solo partito, di partire ogni giorno”.
È in considerazioni, in sentimenti condivisi come questo che i due personaggi si incontrano: “Non è soltanto il fatto che sono soli. È che non sono disperati. Ci sono molte persone che sono sole e disperate perché sono sole. Lui [Tilio] e Fredi, questo avevano capito subito, erano soli ma non erano disperati, sapevano dare un ordine alla giornata, avere pensieri per ogni cosa, ma avevano perduto la letizia del cuore. Non potevano fare nulla l’uno per l’altro, se è per questo, non c’erano dubbi, ma si erano incontrati”. E resteranno vicini, sempre più vicini nonostante le scontrosità e le ritrosie di Fredi, che alla fine – com’è nell’ordine delle cose, essendo il più vecchio – se ne andrà, per cui al suo compagno non resterà che pensare – nel suo schietto materialismo che pure non gli ha vietato di essere a modo suo uomo di chiesa – che no, non è andato da nessuna parte, Fredi, perché “tutta la sua vita, tutte le cose che ha fatto e che ha visto, tutte le parole che ha detto sono nel buio di questo corpo disteso”.
Toccherà dunque a Tilio servire il sacerdote celebrante, ma l’amico non lo potrà vedere, perché si tratterà del suo funerale. Forse sarebbe eccessivo riconoscere l’universalità di figure come quelle di Estragon e Vladimiro in Tilio e Fredi. È certo però che quando chiudiamo il libro abbiamo l’impressione di non aver letto solo di due sacrestani veneti.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
“(…) senza proteste per gli anni andati / dalla finestra osservi / le tracce del tuo passaggio”: lo spirito con cui guardare alla propria vita è dichiarato già nella prima pagina di questo libro, che come ogni libro ha avuto una storia, e si è prefisso degli obiettivi. Di questi leggiamo nel brano di apertura, un quadro esemplare – sul quale vale perciò la pena di soffermarsi – delle motivazioni e delle attese che la scrittura autobiografica sottende.
L’“urgenza di scrivere”, innanzitutto, fattasi indilazionabile nel passaggio decisivo che in un’esistenza rappresenta l’abbandono dell’attività lavorativa. Un’urgenza consapevole tuttavia di non potersi tradurre senza mediazioni in scrittura: quel che si è stati grava su quel che si è attraverso “richiami vischiosi”, immagini di sé parziali ma radicate, “sensi di perdita e di non ancora” che rischiano di cristallizzare lo sguardo sulla propria esperienza. Uno sguardo che si vuole nuovo, complessivo, all’altezza della nuova fase intrapresa e può nascere solo da uno “slancio” che si faccia determinazione coraggiosa a cercare “il filo della (propria) storia” senza pretendere di tracciarne a priori il disegno. Scoprendolo invece, “giorno dopo giorno”, nei “varchi” attraverso cui la memoria – secondo un ordine proprio, discontinuo, spesso divergente da quello cronologico quindi – lascia affiorare il ricordo di momenti che hanno segnato la quotidianità e non hanno cessato di stagliarvisi, conservando uno statuto di diversità dai fatti minuti che l’aver riempito i giorni non ha salvato dall’oblio.
È la memoria involontaria, dunque, ad essere chiamata in gioco? la sua casualità enigmatica?
Perché, in altri termini, nelle pagine che seguono leggeremo di un fatto piuttosto che di un altro? perché quell’episodio, quell’incontro invece che altri sono divenuti oggetto di scrittura? La risposta è già qui, nelle prime pagine: sono le “ombre”, i “nodi che hanno imbrigliato la scioltezza del filo” della propria esistenza a meritare uno spazio privilegiato nel racconto, ed è “l’impronta del bisogno che l’(ha) contraddistinta” a delimitarne il campo. L’esperienza sindacale e il femminismo, la dimensione pubblica e l’orizzonte politico, non devono impedire di risalire a quel bisogno fondamentale. È un punto decisivo, questo: la scrittura autobiografica può, deve, allargare lo sguardo oltre il che cosa si è stati – la professione svolta, i ruoli giocati, gli scopi dichiarati che hanno ispirato le scelte – per dar conto di chi si è stati, e si è. Il campo, in un primo momento coincidente con la vita adulta, chiede quindi di esser dilatato a comprendere l’infanzia, e a scoprirvi il segno dell’unicità – cosa diversa dall’eccezionalità – che contraddistingue ogni vita. E quel segno è identificabile, in questo caso, nel “bisogno di non perdere di vista la vita materiale delle persone, le cose, i luoghi”. Gli altri e le altre, dunque, ma entro i contesti e la concreta storicità che li ha visti disporsi in costellazioni via via concretamente intervenute nel corso della vita, animate da compagni e compagne di strada cui la scrittura consente di offrire il riconoscimento dovuto al di là del “riserbo” che troppo spesso ingabbia le nostre relazioni, le parole che ci scambiamo. È “riguardando il legame” con queste persone che diventa possibile “rivivere” le proprie esperienze fondamentali nei loro tratti caratterizzanti. La tendenza alla “fuga”, in primo luogo, sull’onda di un “desiderio di mondo” che porta a “non rimanere schiacciata dai legami famigliari”, a fuggire la “litigiosità quotidiana” e il “mare agitato del non detto” che dominavano i rapporti fra i genitori, a fuggire “per troppo amore. Per poter riconoscere le loro impronte nella donna che sono e sono stata”, ma anche “per amore della vita potente” del nipote da poco giunto, il figlio della figlia che forse troverà in queste pagine “segni del suo inizio”: è un ideale passaggio di testimone, da un’infanzia a un’altra, il fine ultimo di queste pagine di evocazioni e bilanci, riflessioni e speranze.
I capitoli si susseguono nella forma di racconti in sé conchiusi e tuttavia mai privi di rimandi reciproci, secondo una logica che sembra echeggiare quella visualizzata nella copertina: alle costellazioni dei nomi di chi ha lasciato un segno – non puramente ideale ma concretamente terrestre, appunto – nella propria esperienza corrisponde questa costellazione di “frammenti di vita”, disposti secondo la progressione degli anni ma ciascuno, al suo interno, capace di sovvertire il rapporto tra passato e presente: non un prima e un dopo linearmente in successione, ma un qui e ora che alimenta il desiderio di riandare ai fatti e alle figure che l’hanno generato, di portarli alla luce raccontando dell’io che si è stati, per restituire a quello che si è oggi quel di più di senso che la scrittura ha permesso di guadagnare.
Sono momenti indimenticabili perché mai scivolati nel passato, tracce di memoria per decenni custodite quelle che occupano i primi racconti, quei “ricordi ancora gracili dell’infanzia” – verrebbe da dire, con Walter Benjamin – con cui “la vita suole per lungo tempo condursi come una madre che accosti il neonato al suo petto senza svegliarlo”. Ed è la figura del padre a imporsi, il padre dal quale “devo aver mutuato quel passo a lato che sento dentro ogni qualvolta mi vien fatto un torto”, a meno che l’offesa non riguardi altri, perché allora è la voce della madre a risuonare perentoria – Non è giusto! È forse dall’interiorizzazione di questi opposti atteggiamenti che nascerà la scelta del “mestiere di sindacalista” da parte della figlia, mai pacificata tuttavia nel rapporto con la madre, l’una e l’altra impegnate in una lotta sotterranea per ottenere l’amore di lui, uomo segnato da un’infanzia di bambino non desiderato contro la quale ha opposto per una vita uno sforzo tenace di emancipazione, non solo economica, che ha forgiato la sua fiera ostinazione. Un carattere che non verrà incrinato neanche dalla vecchiaia e dalla malattia, e pure capace di riandare alla prima stagione della sua vita e riconoscerne – in un incontro che coinvolge e commuove la figlia – emblemi come il “vecchio ciliegio” che ormai ha cessato di dare frutti (e ritroviamo in uno degli acquerelli che corredano il testo).
Occorrerà non solo tempo ma un’esperienza del tutto inedita perché anche la figura della madre si apra alla comprensione della figlia, che solo quando deve affrontare una maternità vissuta nella contraddizione tra la donna che è e la madre che sta per divenire a sua volta, riesce a superare la propria “incapacità di vedere” nella sua, di madre, “la donna che (era) in un’epoca infelice per i destini femminili”. Diversa da quella che la protagonista del racconto vive, gli anni in cui “il femminismo era un’onda felice”, tale da indurla a ripromettersi con la figlia un rapporto diverso, ben presto gravato però dallo suo stesso “essere donna inquieta, alle prese con se stessa, con quanto andav(a) scoprendo e cercando per la (sua) vita”. Dopo quella con i genitori è la relazione con la figlia a balzare in primo piano, i “passaggi sofferti” che deve attraversare e sembrano ripercorrere, in tempi e contesti differenti, il travaglio del rapporto già vissuto con la propria madre – “Volevo che mia figlia mi vedesse per la donna che ero” – ma diversamente da quello destinato a tradursi in una consapevolezza nuova e rigenerante: “Cadde in me la pretesa e al suo posto trovò spazio la fiducia”. Momenti di presa di coscienza come questo costellano il racconto: il superamento della “solitudine” che a lungo accompagna l’esperienza nel sindacato, in primo luogo, dove sono “i legami con donne che mi hanno mantenuto radicata in me stessa” a far luce sulla possibilità “non di appartenere, ma di essere protagonista consapevole di un contesto troppo spesso ostile alla libertà femminile”.
Non c’è soluzione di continuità fra il vissuto delle proprie relazioni familiari e sentimentali e quello del proprio ruolo professionale e politico, e a garantire questa coerenza sostanziale è il tessuto delle relazioni, quelle di amicizia – l’amicizia femminile, altro da quella con gli uomini, cui tuttavia la voglia di capire la “differenza maschile” apre –; le relazioni d’amore, nelle quali si è fatta strada la convinzione che “amore per la libertà” e “libertà nell’amore” stanno insieme; le relazioni di solidarietà e impegno comune nelle fabbriche; le relazioni nate dalla condivisione di una politica delle donne orientata dal pensiero della differenza: “dalle relazioni è venuto quel di più di intelligenza che giova alla mia vita”, e anche le pratiche che l’hanno arricchita, dall’acquerello alla scrittura, di cui questo stesso libro con i suoi testi e le sue immagini è testimonianza.
È su questa base che gli anni accumulati non si fanno ostacolo alla ricerca da sempre nutrita e che si fa ora – ora che “la vita si infila nel suo tempo breve” – apertura al domani, capacità di evitare “il rischio di proiettare un senso cupo sul presente, a scapito del suo divenire”, fiducia nei giovani che “meno pervasi dall’idea di un futuro da costruire, costi quel che costi, com’era stato per la mia generazione e per quelle immediatamente precedenti”, possono “restare più concentrat(i) sulla vita che vanno facendo” e così “sottrarsi al fascino di dispositivi esterni, per quanto carichi di promesse di successi futuri”.
È la morte del padre a segnare una cesura decisiva, oltre la quale il racconto aderisce al presente fino a farsi addirittura diario, diario di luoghi e di sentimenti nei giorni che precedono – in Palestina, dove è andata a vivere con il marito nato in quella terra tormentata – il parto della figlia e la nascita di Rami, il bimbo cui il libro è dedicato, a cui parla la poesia che conclude queste pagine.
“Senza proteste per gli anni andati”, recitava l’incipit: scrivere di sé può essere un modo per fare pace con se stessi; una “forma di riparazione” che non prevede autoassoluzioni né è tentata di infliggersi condanne definitive.
Scrivere di sé non è fatalmente segno di ripiegamento, ma può rivelarsi occasione per riconoscere la centralità che le altre, gli altri hanno avuto e continuano ad avere nella propria vita. Occuparsi della propria storia può essere la via per allargare l’orizzonte del proprio sguardo a una Storia che ha bruciato speranze, ma non il proprio “desiderio di mondo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Emmanuel Carrère, I baffi, Adelphi 2020 (pp. 149, euro 17)
Non lo diresti – che storia si può mai costruire sul fatto che uno si taglia i baffi? –, ma il page turning, come dicono gli editor aggiornati (e quindi allineati sul fronte dell’anglofonia), ossia la voglia di girare una pagina dopo l’altra, in questo romanzo è assicurato. Per il lettore, infatti, l’inquietudine crescente del protagonista si fa contagiosa, soprattutto quando sconfina nella deriva paranoide e induce progressivamente al sospetto che non ci possa fidare di un personaggio del genere, come appunto prevede la tecnica che dà voce a un “narratore inaffidabile”. Il quale tuttavia all’inizio non sembrava assolutamente tale: che dici – chiede alla moglie – se mi tagliassi i baffi? Perché no? risponde tranquilla lei. Senonché, questo semplice gesto mette in moto una reazione a catena, senza dirli ma senz’altro dando per scontati (nei lettori maschi almeno) i significati sottesi, e sostanzialmente inconsci, che lasciarsi crescere barba e baffi così come raderseli comportano. C’è chi ricorrentemente fa il sogno angoscioso di tagliarsi per sbaglio un baffo mentre si dà un’aggiustata ai peli ribelli, o l’incubo di non riconoscersi più, tanto da dubitare della propria identità, una volta deciso di radersi la barba che portava da anni. Ma tornando al nostro uomo: quello che lo manda fuori di testa (è il caso di dirlo) è innanzitutto la reazione della moglie alla sua richiesta di dargli un parere circa il suo viso glabro (ma di quali baffi parli? tu non li hai mai portati); a seguire, lo stesso meravigliato diniego degli amici da cui vanno a cena e il giorno dopo dei colleghi di lavoro. “Avrebbe voluto dire loro di smetterla, tutti, che ne aveva abbastanza”: avrebbe, ma non può. Non può perché sente che lo troverebbero ancora più strano. La tregua apparente con la moglie, quando decidono dopo una notte d’amore che sarà il caso di ricorrere a uno psichiatra, non farà che precipitare ancor più nell’angoscia l’uomo che si è privato dei baffi: ognuno dei due, pensa che sia l’altro ad aver bisogno di farsi visitare. Quando poi lui le esibisce la carta d’identità e lei, convinta – a parole, almeno… – che i baffi che figurano sulla foto siano stati aggiunti col pennarello, li gratta via, il rovello dell’uomo senza più i baffi passa ogni limite, sfocia nell’ossessione, nel dubbio che si stia complottando contro di lui: per farlo davvero impazzire, o per indurlo al suicidio… E allora non resta che andarsene, col primo aereo: Hong Kong. Star lì, non far altro che andare avanti e indietro su un traghetto e ascoltare i baffi ricrescere sembrano calmare il fuggiasco, per altro sempre speranzoso che tutto possa tornare come prima, che gli ridiventi possibile tornare a casa, dalla moglie. Ma ecco che è lei a raggiungerlo, come se niente fosse, come se fossero partiti insieme: lieto fine quindi? conclusione sorridente per quanto paradossale?
Non è questo che Carrère ci riserva. Emmanuel Carrère, narratore davvero inaffidabile in questo che è stato uno dei suoi primi romanzi.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Silvia Stucchi, Farsi coraggio. Forme della consolazione nel mondo antico, Marietti 1820, 2020 (e-book)
“Incuriosire, distendere e, forse, anche far riflettere”: nell’intento dichiarato a conclusione del saggio di prefazione a “questo percorso nella saggezza e nella sensibilità antiche” è facile cogliere il nesso fra la proposta di Silvia Stucchi e gli studi di Pierre Hadot e di Michel Foucault, da punti di vista diversi – e che hanno conosciuto momenti di confronto esplicito – convinti del permanere di un significato attuale di pensatori stoici, epicurei, platonici e neoplatonici. Anche se non di autori greci, ma latini, sono le parole che leggiamo in questo libro (Cicerone, Seneca, Plinio il Giovane, ma anche autori “all’apparenza imprevisti” come Petronio), un po’ come avviene in quelli di Ivano Dionigi (da Quando la vita ti viene a trovare. Lucrezio, Seneca e noi al recente Parole che allungano la vita). È tuttavia su un tema preciso che l’analisi di Stucchi si concentra, o per dir meglio: su un “genere letterario codificato, che si avvaleva di argomentazioni ricorrenti”. La precisazione non è superflua se si tiene conto dei malintesi che non tener conto di una circostanza simile può indurre: è il caso dei pensieri di Marco Aurelio – avvertiva Hadot –, spesso letti come una sorta di diario intimo e non per quel che sono, “parti del sistema stoico, che Marco Aurelio ripete a se stesso”.
Ciò detto, è il tema a imporsi per l’attualità perdurante e, possiamo dire, purtroppo rinverdita dagli effetti devastanti della pandemia in corso che sembra aver reso meno distanti i tempi nei quali si praticava il genere della “consolazione”. Un genere alimentato dalle “argomentazioni che il mondo classico seppe elaborare per consolare chi, provato da un dolore bruciante come quello della perdita di una persona cara, si interroga sul perché, spesso senza riuscire a darsi risposta”. Argomentazioni che erano sostanzialmente fissate già in Omero e poi in Erodoto e soprattutto nei tragici e si possono ricondurre a “quattro concetti chiave”, che vale la pena di considerare in dettaglio: “la morte e la perdita di una persona amata sono esperienze, per quanto dolorosissime, non peculiarmente riservate a un solo uomo, ma toccano l’intera umanità”, e – come ci ricordano Ovidio, Orazio e Lucrezio – tutti devono morire, anche i più nobili e insigni tra gli uomini; “morire, in fondo, è un bene, perché ci libera dai mali; meglio morire piuttosto che soffrire, giorno dopo giorno, pene indicibili”, posizione che sottintende con evidenza una visione radicalmente pessimistica della condizione umana; “alla lunga il tempo è il medico migliore, perché cancella, o almeno lenisce, tutti i mali”, e infine: “chi è morto, paradossalmente, è al riparo da ogni dolore; se ha perso il bene della luce del sole, ha perso, però, anche la possibilità di ammalarsi, di piangere, di patire, di essere infelice”.
È inevitabile notare che, con poche variazioni, sono gli stessi argomenti che ancora oggi si possono sentire quando si fa visita a una casa dove il defunto attende le esequie, o ci si trova in un obitorio o in un “Luogo del Commiato” (come le Funeral Homes sono state ribattezzate da noi), o si partecipa a un funerale. Ma che cosa, tuttavia, ci distanzia da queste considerazioni consolatorie? Forse la consapevolezza che chi si piange non è altro da noi e più che ricevere consolazione si tratta di imboccare la via dell’elaborazione, l’elaborazione del lutto, con tutte le resistenze che insorgono, le ambivalenze che affiorano nelle forme del rimpianto o del rimorso, le lacerazioni inevitabili che andare avanti comporta, nella sottile consapevolezza – come osservava Benedetto Croce – che “con la nostra vita ulteriore, seppelliamo per la seconda volta spiritualmente i nostri morti, che già una prima volta coprimmo di terra”.
Del resto, “affliggersi in un dolor supervacuus” oltre che, appunto, inutile – avvertiva Plutarco –, è anche sconveniente, illogico, poco decoroso: un’osservazione che – senza voler ignorare differenze sostanziali di epoche e di culture – non può in qualche modo non richiamare alla mente posizioni molto attuali. Si pensi al Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali nella sua ultima edizione (DSM-5), là dove include fra i disturbi mentali da sottoporre a cura quello “da lutto persistente e complicato”: un lutto che dura oltre i dodici mesi non è un lutto “normale”. È un lutto “patologico”.
Ma si sa: i classici – proprio in quanto classici – continuano ad aver qualcosa da dirci e, secondo gli auspici dell’autrice, ci fanno riflettere: come non collegare allora l’“inedita tematica consolatoria” di Seneca (che cos’è la disperazione di fronte alla morte rispetto al “pensiero della fine del mondo”?) all’angoscia sottotraccia determinata dalla crisi ecologica? E la preoccupazione eccessiva per la sorte del proprio corpo – contro la quale si scagliava Diogene il Cinico – non richiama alla mente il ricorso crescente alla pratica della cremazione, o addirittura – anche sulla scorta dell’ultimo libro di Marc Augé, Risuscitato!) a quella della criogenizzazione?
In conclusione, richiamando il titolo di questo libro e la conclusione della sua premessa, è bene comunque rileggere le parole di un lettore profondo e geniale degli antichi come Giacomo Leopardi, che in una delle sue Operette Morali, il Dialogo di Plotino e di Porfirio richiamava il valore di un incoraggiamento solidale: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabilita, dei mali della nostra specie. […] e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Serge Latouche, Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, Bollati Boringhieri 2020 (pp. 96, euro 10)
Interpretato riduttivamente come un programma immediatamente operativo – non senza qualche responsabilità del suo ideatore, c’è forse da dire –, o addirittura caricaturizzato in chiave regressiva o pauperista, il progetto di una “decrescita felice” di Latouche e dei suoi seguaci, gli “obiettori di crescita”, viene ancora una volta esposto dal caposcuola che, soprattutto in questa occasione, mette in particolare rilievo il carattere etico-politico del suo discorso. A partire dalla critica, serrata e brillante, del capitalismo come religione (per riprendere il titolo di un saggio che Walter Benjamin scrisse nel 1921), una “religione” che di fatto costituisce l’orizzonte dell’immaginario contemporaneo formatosi a partire dal calvinismo e dalla successiva emancipazione dell’economia come sapere oggettivo per trovare infine nella fede nel Progresso la sua principale forza promotrice, ancora attiva nonostante le sue evidenti, spesso tragiche, smentite. Quello di una crescita continua si è così fatto dogma incontestabile, e il punto di vista economico è divenuto la lente attraverso la quale si guarda il mondo: non è sempre stato così, né è questo – per il momento, almeno – l’immaginario ovunque dominante, anche se la globalizzazione ha ormai quasi ultimato “una colonizzazione profonda dell’immaginario da parte dell’economico sostenuto da una vera e propria teologia del Progresso. Come diceva Mark Twain, “Quando si ha un martello nella testa si tende a vedere tutti i problemi in forma di chiodi”. L’aveva del resto previsto Schopenhauer quando rivolgendosi ai suoi contemporanei affermava che “Il Progresso [la crescita, nella sua attuale versione economicista] è il sogno del XIX secolo come la resurrezione dei morti era quello del X, ogni età ha il suo”. La nostra è dunque quella in cui “Riducendo la vita alla quantità di PIL, la vecchia opposizione progresso materiale/progresso morale scompare. Ben-essere e Ben-avere si confondono e diventano praticamente identici”. Spianando in questo modo la strada alla “banalizzazione del male, ovvero alla strumentalizzazione degli uomini e della natura senza complessi da parte dei responsabili e spesso anche con il tacito consenso delle vittime”.
Dopo la parte critica, quella propositiva, che prende le mosse da due encicliche: senza appello il giudizio sulla Caritas in veritate di Benedetto XVI, dove invano si cercherebbe una condanna senza riserve al capitalismo nelle sue diverse e distruttive manifestazioni. Infatti, “Accanto agli eccessi e alle perversioni – pur richiamate – ci sarebbe un buon profitto, una buona divisione internazionale del lavoro, una buona globalizzazione, una buona finanza e un buon capitale”. Una fiera degli ossimori, insomma.
Tutt’altro il discorso della Laudato si’ di Francesco, anche se la lettura attenta e sotto molti aspetti condivisa che Latouche ne fa, non gli impedisce di vederci, più che la inequivocabilità del progetto della decrescita (per altro richiamato nell’enciclica), una sostanziale adesione alla filosofia del piccolo è bello, e dunque, alla fin fine, un “radicalismo a responsabilità limitata”.
Tuttavia – e qui sta la maggior novità del nuovo contributo di Latouche – il progetto della decrescita non può eludere la dimensione della spiritualità. Il che pone una domanda ineludibile: la religione del capitale e il culto feticistico del PIL possono dunque essere affrontati solo da una nuova religione? e sarebbe la decrescita questa religione?
La risposta richiede di mettere in campo il concetto di “disincanto”, frutto non tanto del prevalere della scienza sul pensiero magico e sul mito – come voleva Weber – quanto della “sovrabbondanza artificiale” messa a disposizione dall’“uso massiccio di un’energia fossile fornita gratuitamente – si fa per dire – dalla natura”: la conseguenza è la distruzione di “ogni capacità di meraviglia di fronte alla bellezza del mondo, ai doni del creatore e alle capacità artigianali dell’attività umana”.
Il “reincanto” a suo tempo prodotto dalla scienza e dai suoi successi è ormai “appassito”, banalizzato nelle pratiche quotidiane e contraddetto, inquinato per meglio dire, dalle disfunzioni provocate dai progressi della tecnica. Ma tutto questo non basta a incrinare la religione della crescita. E allora? La costruzione di una società della decrescita non può comunque prescindere da “un certo reincanto del mondo”, da perseguire non attraverso nuove (o vecchie) religioni né pratiche neopagane o in stile New Age o deep ecology. Quello che il movimento della decrescita – o dell’acrescita, come sarebbe più appropriato dire – si propone di promuovere è un “ateismo economico”: “Bisogna abolire la fede nell’economia, rinunciare al culto del denaro, al rituale del consumo e diventare degli agnostici del progresso”, aggiungendo “ingredienti di natura spirituale alle argomentazioni filosofiche e scientifiche”. “La via della decrescita non si propone né come una religione né come un’antireligione, ma piuttosto come una saggezza”.
E torniamo così al punto dal quale si era partiti: il progetto della decrescita non è un piano in attesa di road map, master plan, project management, cronoprogrammi e via sproloquiando: è un “utopia concreta”, ossia l’orizzonte entro il quale costruire “un futuro ideale ma possibile”, giocare “una scommessa rischiosa, ma talmente necessaria che vale la pena di essere tentata” in un’ottica di “trascendenza immanente”, che dà senso a una nuova “sacralizzazione della natura”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Hermann Broch, I sonnambuli. I.1888 – Pasenow o il romanticismo, Einaudi 2020 (pp. 230, euro 20)
I personaggi sono cinque: tre uomini – Joachim von Pasenow, suo padre, e Eduard von Brentand – e due donne – Ruzena e Elizabeth.
L’indecisione di Joachim, giovane aristocratico prussiano, fra la povera e sensualmente equivoca Ruzena e l’irreprensibile e ricca Elisabeth, è anche indecisione fra la norma paterna e la sua trasgressione, o superamento che sia, impersonata dall’amico Eduard: tutto qui, non fosse che la dolorosa oscillazione del protagonista è quella di chi vive il passaggio fra due mondi, quello dell’“onore” e dei valori della vecchia Europa ottocentesca e l’altro che sta implacabilmente subentrando, il mondo della borghesia che irride al romanticismo d’antan, ancora capace di riconoscersi nell’uniforme, che Joachim indossa, contrapposta all’abito del borghese, cui Eduard è invece passato abbandonando la carriera militare. E così Joachim si dibatte, fra il proprio conservatorismo, che l’altro definisce “pigrizia sentimentale”, e la consapevolezza di essere un ufficiale prussiano che non disdegna di essere “l’amante segreto di una donna pagata da altri uomini”. Anche lui un “senza patria” che ha perduto il “sentimento cristiano”, in definitiva.
Mentre il decadimento mentale di suo padre avanza – riproducendo su scala individuale il tramonto dei valori che il vecchio aveva creduto di trasmettere al figlio, dopo che il primogenito era caduto in guerra, “sul campo dell’onore” –, l’amletico, e nevrotico, Joachim si deciderà infine a sposare Elizabeth, saggiamente rassegnata a non seguire il vero amore che Eduard avrebbe potuto darle: l’immagine dei due sposi, che trascorrono la prima notte di nozze distesi l’uno accanto all’altra – lui senza essersi levato l’uniforme – guardando il soffitto della camera, chiude il romanzo. O meglio: il primo, da poco ripubblicato da Adelphi, dei tre romanzi che formano l’opera, essendo che dopo 1888 – Pasenow o il romanticismo, seguiranno 1903 – Esch o l’anarchia e 1918 – Huguenau o il realismo. Una duplice ambizione, infatti, quella di Broch: raccontare il decadere dei valori nell’Europa degli anni che si concludono con la Grande guerra, da un lato, e dall’altro costruire una struttura romanzesca la cui unità non può contare né sulla continuità della vicenda né su quella dei personaggi in scena.
Un Thomas Mann mancato, se si guarda al primo obiettivo: così almeno faceva notare Vanni Santoni in una recensione illuminante (comparsa su “La lettura” dello scorso 12 aprile), sottolineando come I sonnambuli esca all’inizio degli anni Trenta, quando il pubblico che aveva accolto cinque anni prima La montagna incantata stava scomparendo sotto i colpi dell’affermazione del nazismo.
Un innovatore destinato ad aprire una nuova strada se si guarda invece alla concezione letteraria: lo sostiene – nelle “Note” riportate dall’edizione Adelphi in coda al testo – Milan Kundera, che non esita a collocare I sonnambuli fra “gli altri grandi ‘affreschi’ del Novecento”, quelli di Proust, di Musil, e di Thomas Mann, appunto. E questo proprio in forza del fatto di voler individuare il filo rosso della narrazione non nell’azione o nella biografia, ma nel permanere dell’attenzione su “uno stesso tema (quello dell’uomo di fronte al processo di disgregazione dei valori)”.
Una postilla preziosa, quella di Kundera – da integrare, se se ne avesse interesse, con la sua prefazione all’edizione della trilogia dovuta a Mimesis nel 2010 – , senza la quale l’innegabile carattere datato del romanzo potrebbe finire per oscurarne il significato per altri versi ancora attuale: “Basta esaminare la nostra stessa vita – sulla scorta di quella di Pasenow – per vedere fino a che punto (un) sistema irrazionale influenzi i nostri comportamenti, vincendo la riflessione della ragione”. Rendendo per molti versi anche noi dei sonnambuli.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Luca Doninelli, L’imitazione di una foglia che cade, Aboca Edizioni 2020 (pp. 110, euro 14)
“Si esce di casa e per anni si prende sempre una certa direzione, sempre la stessa. Poi un nuovo lavoro o nuove amicizie inducono nuove abitudini, lasciando nuove impronte sulla nostra vecchia pigrizia e cancellando le precedenti. Succede così che, anche quando si esce a fare due passi, non viene più nemmeno in mente di imboccar le vie di una volta, di riguadagnare le vecchie direttrici; che in realtà non sono più vecchie ma, semplicemente, non esistono più. (…) In tutto questo non ci sarebbe nulla di strano se, quando camminiamo per le vie di una città, non si camminasse anche dentro noi stessi (…). Quando cambiamo abitudini è come se si accendessero nuove luci e altre si spegnessero, lasciando intere parti di città, vie e palazzi, stanze e corridoi della nostra vita nella più completa oscurità. Ciò avviene senza che nulla venga distrutto. (…) Così le parti dimenticate rimangono, dentro quel buio, e possono rimanerci per anni, o per sempre”.
Evidenti suggestioni calviniane percorrono il racconto di Luca Doninelli, ma non sono l’unico aspetto che sembra collegare i due scrittori. Anche intrecciare costantemente allo scrivere riflessioni sullo scrivere stesso richiama Calvino: “Non appena avevo messo il punto finale, tutto quello che avevo scritto mi appariva vecchio, banale, ingenuo, sgangherato. Scrivere era come il mangiare e il bere: dopo un po’ torna la fame, torna la sete, e quello che hai mangiato ieri non serve più”. Ma questo avveniva, precisa l’autore, al tempo in cui era stato scritto il primo romanzo, rimasto manoscritto e solo dopo una ventina d’anni ritrovato: nel frattempo il protagonista ha fatto della scrittura la sua professione e la lettura di quelle sue prima pagine lo riconduce “non soltanto a un mondo che avev(a) perduto ma anche a un certo modo – non meno perduto – di stare al mondo”. Perché nel frattempo è intervenuta, quale corrispettivo della scrittura, la pubblicazione, il “libro rilegato con titolo, copertina, casa editrice, prezzo, codice a barre”: cose che “formano un argine contro il Tempo e, insieme, ne istituiscono uno nuovo, È come se le parole varcassero i confini di un nuovo paese, nel quale vige una giurisdizione completamente diversa. (…) Una volta entrate nel meccanismo della pubblicazione, le mie parole sarebbero diventate prigioniere dell’aspetto economico del lavoro, del comprare e del vendere, e avrebbero perso la capacità di stabilire un rapporto fisico e mimetico con la geografia circostante: gli angoli delle vie, per esempio, o i cancelli, l’odore dei tigli e dei gelsomini, il piacere dei passi”. Queste lunghe citazioni intendono offrire al potenziale lettore un saggio della scrittura di Doninelli: piana, apparentemente colloquiale, e pure capace di evocare una pluralità di dimensioni e trasmettere risonanze che innervano il racconto della concreta esperienza del protagonista, portato a ripercorrere la propria vita – arricchita dall’incontro con personaggi unici, come il libraio Pineaut e, tramite quello, con un inedito Roland Barthes – sull’onda dei sentimenti in lui suscitati da quel quaderno manoscritto e dalla foglia d’acero che si era conservata fra le sue pagine, una foglia “screpolata e in più punti ridotta alla sola nervatura”, capace di dargli “una sensazione di gioia e, insieme, di panico”, segno del Tempo come sanno esserlo gli alberi, testimoni silenziosi – come l’ulivo del giardino condominiale – delle storie degli uomini, e di altri segreti avvenimenti se sono cresciuti in luoghi lontani dalle città, disabitati dagli umani: “l’incontro d’amore di due pettirossi, il lamento di un alce alla vista del proprio figlio ucciso e divorato da un orso (…). Oppure semplicemente il cielo, il suo mutare (…) il fiorire dei prati a primavera, la nascita di nuove gemme, il profumo di resina”. Ed ecco, nella conclusione, riaffiorare la scrittura, il suo senso: quasi potesse assumere lo sguardo attento e comprensivo degli alberi, infatti, “In ogni vero romanzo, per quanto parli di mare, esistono non dette anche le montagne, e nella scena più cruenta vibra il velo di una tenerezza immaginata, o perduta.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Francesco Guglieri, Leggere la terra e il cielo. Letteratura scientifica per non scienziati, Laterza 2020 (pp. 173, euro 17)
La passione dell’autore, ancora ragazzo, per l’origine dell’universo, i buchi neri, la relatività e la fisica quantistica: questo il punto di partenza. Il piacere di leggere tutto ciò che riguardasse l’origine dell’universo e la sua struttura, senonché “arrivava sempre un punto del libro in cui smettevo di raccapezzarmi (…) a un certo punto, immancabilmente, mi perdevo”. La curiosità da un lato, l’insufficienza dei propri strumenti dall’altro: un’esperienza nient’affatto ignota a molti, adulti compresi. Un’esperienza che non capita invece con questo libro. Perché? “Alla fine del liceo mi iscrissi a Lettere, e Shakespeare prese il posto di Hawking, il tempo perduto di Proust sostituì il tempo curvo di Einstein”. Ecco il punto: l’autore non è uno scienziato, e neanche un divulgatore, sul tipo di Gianfranco Pacchioni (L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, il Mulino 2019, in queste note lo scorso 15 settembre). Guglieri è un umanista – un professore di Letterature comparate – che ci racconta dei libri che lo hanno assistito nella sua volontà di sapere. 19 capitoli, 19 libri, sempre messi a confronto però con altri libri, Hawking – per dire – con Philip K. Dick, la scienza con la letteratura, con la fantascienza in particolare. E così inizia il viaggio fra gli scogli dell’astrofisica e i misteri della biologia per giungere alla possibile “fine della terra”, fra evoluzione delle pandemie, possibilità (imminenza?) di una sesta estinzione e difficoltà, parrebbe insormontabile, a pensare la realtà del cambiamento climatico. “Dopo aver dedicato praticamente la totalità della mia vita adulta allo studio della letteratura”, e aver sperimentato “quella particolare qualità dei romanzi, il potere di sciogliere la malinconia”, è nei “libri di scienza” che l’autore scopre la stessa qualità. Le culture non sono due: basta saper viaggiare dall’una all’altra con la stessa apertura mentale, con lo stesso desiderio di sapere per rendersi conto dell’imprescindibile unità della cultura.
Risulta ben chiaro a questo punto, al lettore, come mai in esergo fosse citato un letterato alieno dalla cultura scientifica e pure ad essa sempre più interessato fino a intesserne le proprie narrazioni: “Se non tengo presente l’universo – diceva Italo Calvino – perdo il senso delle proporzioni”. Che è come dire: se non rischio ad addentrarmi in un sapere che non è il mio, quello in cui mi sono formato e nel cui ambito continuo a lavorare, mi mancheranno le coordinate per inquadrare anche la realtà di cui parlo. Se poi qualcuno, non tanto diverso da te sotto il profilo culturale, si prende la briga di raccontarti i passi che ha fatto è senz’altro il caso di seguirlo. Ossia di entrare in un libro come questo che – secondo la sintesi di chi l’ha scritto – “parla dell’inevitabile impossibilità di capire del tutto quello che sta succedendo in torno a noi, l’inevitabile tentativo di farlo, e l’imprevisto piacere che ne deriva”. Perché “occorre prendersi cura” della propria “curiosità”, ascoltando “storie e idee apparentemente lontane da noi”. E accettando conclusioni autorevoli, come quella di Steven Weinberg, pioniere della teoria del Big Bang: “Quanto più l’universo ci appare comprensibile, tanto più ci appare senza scopo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Domenico Starnone, Spavento, Einaudi 2020 (pp. 290, euro 12)
Meglio se hai imboccato la via della vecchiaia (o ti pare di averlo fatto), meglio ancora se sei uomo (o, se donna, moglie di un uomo del genere): nel suo ultimo romanzo Starnone – l’avevamo lasciato allo Scherzetto del 2016, in queste note il 29 gennaio dell’anno seguente – si gode il piacere di raccontare una dettagliata, spiritosa, amara fenomenologia delle percezioni e dei sentimenti di un vecchio alle prime armi – 69 anni –, capace di notare l’ansia che lo prende a guidare di notte, per esempio, e a dedurne “che cos’è la vecchiaia: mancanza di fiducia; per il timore che il corpo perda colpi, ti abitui a sottoutilizzarlo; ma il corpo sottoutilizzato si abitua a perdere i colpi: un deprimente circolo vizioso”, che dà luogo a una ben precisa sindrome: “la sindrome del corpo sfiduciato”. Che se poi diventa un corpo assediato dai sintomi (uno per tutti: sangue nelle urine) ti trascina in un viaggio del tutto nuovo, nel quale sei portato a rievocazioni e bilanci. Il pensiero della morte, per esempio. Non che prima non ci fosse, ma era altro: “da bambino morivo spesso”, quando si giocava alla guerra, beninteso; da giovane, “la morte mi pareva solo una parola suggestiva”, almeno fino a quando era arrivata la morte della madre: “Quella morte mi aveva reso da un giorno all’altro il più mortale dei viventi e per una ventina d’anni avevo vigilato sulla mia salute ossessivamente”; poi però, attorno ai 40 anni, “un matrimonio abbastanza felice, figli senza problemi gravi, notorietà, agiatezza”…: la morte aveva perso consistenza. Ma adesso? Adesso il lavoro – scrittore, di sceneggiature ma non solo – non desta più l’interesse legato a tutto ciò che si è amato: “ne vedi la banalità, la frivolezza” e, sull’onda della prospettiva di una salute ormai incerta, al protagonista pare che “la vera malattia grave (sia) proprio lo sforzo inutile, ma che avevo compiuto per tutta la vita, di dar(s)i un ordine”, sicché il male sembra venire dalla radicata “pretesa di sbrogliare il garbuglio irredimibile del vissuto”: “avrei dovuto – ecco la spina del rimpianto – vivere tutta la vita senza affannarmi, e prendermi cura del mondo ma con disincanto (…) trovando la misura giusta tra svago e paura della fine”. E qui il discorso prende nuovo respiro: è La morte di Ivan Il’ič a tornare alla mente, il grande racconto tolstoiano che non a caso poche pagine dopo entra esplicitamente nella vicenda, quando il protagonista – in ospedale per accertamenti ed esami che lo angosciano – se ne fa portare dalla moglie una copia.
Attenzione però: il protagonista, si è detto. Ma quale? E qui sta un secondo piacere che Starnone coltiva (e il lettore segue, prima con qualche perplessità, poi stando piacevolmente al gioco): quello di intrecciare fino a confonderle la vicenda del personaggio e quella dello scrittore che l’ha messo in scena, complice la precarietà che affligge anche la salute di quest’ultimo. Ma, qui, di chi sta parlando? Ci si chiede a volte passando da un capitolo all’altro: lavoro superfluo. Avanti con la lettura, basta affidarsi al gioco e partecipare del gusto dell’autore di mescolare le carte.
E siamo arrivati così al terzo livello del discorso che percorre questo romanzo, quello attinente alla scrittura: “Cercai il notes sul comodino, ma era buio per scrivere (…). Non che sentissi una qualche particolare urgenza creativa, ma mi pareva necessario continuare a fare quello che facevo di solito: didascalia per qualsiasi cosa accadesse, nel mondo e a me”. La scrittura, vecchio, sperimentato espediente: “Questo reparto in cui mi hanno ricoverato può, volendo, entrare nel racconto”, occorre “mettere a frutto ciò che mi sta capitando”: “per calmarmi, per combattere la solitudine”. Per combattere il pensiero della morte: qualcuno ha detto che non per altra ragione si racconta, si scrive… Anche se il dubbio che la cosa funzioni non è di quelli che si lascino tacitare facilmente e da risorsa la scrittura può di colpo apparire lo “stupido inganno (di) credere di avere un dentro da riversare per tutta la vita su fogli bianchi, in forma di ghirigori di nero inchiostro”.
Se prima era venuto in mente Tolstoj, adesso a risuonare è il Calvino che nelle ultime righe di Collezione di sabbia si interroga “su cosa c’è scritto in quella sabbia di parole scritte che ho messo in fila nella mia vita”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Piergiorgio Bellocchio, Un seme di umanità. Note di letteratura, Quodlibet 2020 (pp. 263, euro 19)
Come può accadere, quando si alzano gli occhi sulla libreria di casa e si scorrono i dorsi dei volumi lentamente accumulati nel corso degli anni, la prima impressione è quella di una congerie stratificata a secondo delle epoche, o delle nazionalità degli autori o anche degli editori che hanno pubblicato quei libri. L’arte di disporre secondo un ordine i propri libri è varia, e anche il lasciarli accostati in una sequenza casuale è pur sempre una scelta. Tra tutti spiccano in ogni caso alcuni titoli, alcuni scrittori che sembrano rivelare tra loro un nesso, sia pure indefinibile. Qualcosa del genere capita all’autore di questa raccolta di Note di letteratura, in gioventù soprattutto divoratore di romanzi: fra le tante sue letture, in molti casi “caotiche”, deve prender atto che “la parzialità delle (sue) scelte non è stata del tutto casuale” ma “indica piuttosto “reali preferenze”, che hanno via via privilegiato “quegli autori e quei libri con cui sentiv(a) di avere una particolare sintonia”. La propria biblioteca come diario del proprio cammino culturale, per certi versi esistenziale, quindi. Un cammino che, nel caso di Bellocchio, ha portato a un’impostazione saggistica “sempre piuttosto didascalica”, “a me congeniale oltre che – sottolinea – doverosa”: notazione tanto più apprezzabile in tempi nei quali recensioni e schede librarie oscillano fra il prevalere esclusivo del gusto soggettivo, che di fatto non dà un’idea del contenuto del libro, e l’intento scopertamente promozionale, che puntualmente vi individua un capolavoro. Decisamente altro l’orientamento che preliminarmente Bellocchio dichiara – lui che nei suoi “Quaderni piacentini” aveva per un certo periodo tenuto una rubrica in cui segnalava i “libri da non leggere” (a costo di prendere cantonate di cui poi pentirsi, del tipo includere fra i libri da evitare Lolita di Nabokov).
Sono queste le avvertenze che leggiamo nella breve Premessa e che ci avviano alla lettura di saggi capaci di delineare in pochi tratti il personaggio in questione: Giacomo Casanova, ad esempio, si riassume nella figura di un uomo il cui “talento teatrale” fu “esercitato nella vita anziché sulle scene”, a ciò portato, forse, anche dalla sua “origine bastarda” e dall’”abbandono dei genitori”, circostanze che contribuirono di certo a segnare il suo “destino di sradicato”, segnato da quelle “lacune” originarie che lui per altro “non sentì mai alcun bisogno di compensare, refrattario sempre a ogni legame stabile e legittimo”. Fino a ritrovarsi vecchio, solo e povero: “Unica proprietà il suo passato”, che gli dà l’opportunità di “rivivere la sua vita scrivendola”, nelle Memorie (a lungo lette con superficialità da molti, non escluso Fellini).
Analogamente, la figura di Flaubert emerge con nettezza dal ritratto che ne traccia Bellocchio: una “dedizione assoluta alla scrittura” come “suo peculiare modo di osservare la borghese religione del lavoro”, una religione tuttavia “eretica”, segnata sempre da un “odio del borghese” che non si trova neanche nella “coeva letteratura anarchica e socialista”. Diverso il modi di porsi di Dickens, tormentato dal “bisogno morboso di essere sempre a contatto con il suo pubblico”, un bisogno nel quale occorre d’altro canto riconoscere il segno del suo “rifiuto dell’integrazione”, e dunque la vicinanza ad un pubblico “affamato di libri che, dopo gli sconvolgimenti di un mondo pieno di fermenti rivoluzionari e di delusioni, cerca nel mondo fittizio dei romanzi un surrogato della realtà, una guida nel caos della vita, e un conforto per le illusioni perdute”.
E infine, per fare un altro esempio, più vicino ai giorni nostri, la breve notazione dedicata all’uomo, prima che allo scrittore, Fenoglio: una passione e una fermezza, le sue, che “richiamano il concetto di religione”, ma coerentemente rifiutano non solo il cattolicesimo ma anche “il carattere confessionale e chiesastico” del comunismo, in favore se mai di una “religione del dovere, dell’impegno, della fedeltà fino alla morte”.
In passaggi simili, ricorrenti in queste pagine, risulta evidente il carattere di una critica letteraria intesa, anche, come laboratorio di una cultura politica militante, che simpatizza naturalmente con autori come Čechov, alieno dalle “speranze in un avvenire migliore” e che dunque “non avrebbe mai approvato le teorie leniniste”, ma – con il suo Reparto n. 6 – non poteva trovare un lettore più intelligente e reattivo di Lenin”. O come Orwell, spesso travisato e mal interpretato, ma del quale non si può passare sotto silenzio l’errore decisivo ci credere “che occorresse un apparato di polizia mostruosamente esteso e perfezionato per mantenere il popolo nell’obbedienza”.
Non solo gli autori, tuttavia, vengono riletti criticamente, anche intere stagioni culturali come quella del ’68, quando “Alcuni dei più celebrati profeti del movimento, da Mao a Marcuse, furono in realtà pochissimo letti e men che meno meditati (la sinistra dei padri aveva letto molto di più, anche se in una sola direzione)”. Ma si badi – leggiamo in una nota di uno dei saggi dedicati a Böll – “bisogna affermare che il ’68 è stato un evento di eccezionale portata”, e nonostante “errori e equivoci” che l’hanno attraversato, occorre riconoscere che “Tutti i maggiori problemi che le lotte di quel periodo avevano posto all’ordine del giorno sono rimasti inevasi e anzi si sono aggravati”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Sara Loffredi, Fronte di scavo, Einaudi 2020 (pp. 154, euro 17,50)
Ci sono la montagna, e il camminare in montagna, in questo romanzo, e anche il rapporto con il padre: abbastanza per avvertire, a tratti, un’assonanza con le otto montagne di Cognetti. Ma qui la montagna è l’avversario contro cui si lotta, “una lotta ad armi pari”: “Lei ci allagava, minacciando di rovinare sulle nostre teste per seppellirci tutti”, ma “sapevo che alla fine ce l’avremmo fatta”. A parlare è il protagonista, Ettore, un giovane ingegnere impegnato alla grande opera, il traforo del Monte Bianco, nel 1961. “Questa è una storia vera – avverte l’autrice nella Nota finale – e insieme non lo è”. Ci sono personaggi storici e riferimenti documentati “alle modalità di scavo e all’avanzamento dei lavori”, al pericolo dei crolli e degli allagamenti, agli incidenti e alle otto morti che l’impresa costò, ma anche figure che sono frutto dell’immaginazione e portano nella vicenda le loro storie, segnate da dolori antichi e rimorsi indelebili, o impersonano la saggezza della cultura della montagna. come nel caso del malgaro guaritore capace di curare le sofferenze del corpo e di comprendere quelle dell’anima. Ci sono l’amore, l’amicizia, la stima reciproca che solo il lavoro fatto bene, insieme, sa far nascere, ma soprattutto Lei, la montagna, perturbante prima, e poi finalmente amica: “C’era troppa neve per andare a camminare, eppure ogni sera mi allontanavo qualche centinaio di metri dal cantiere per ritrovarmi faccia a faccia con le cime, invaso dalla loro presenza. La voce della Regina Bianca aveva smesso di farmi paura”.
Il fronte di scavo evocato nel titolo non è solo la parete di roccia con la quale il lavoro dei minatori si deve misurare, è anche un’insuperabile barriera interiore, che si manifesta nel sentimento radicato di una propria sostanziale “inadeguatezza”, nelle “scorie” che si sono accumulate e continuano a ingombrare la mente. Ed è proprio su questo fronte che il protagonista – accettando di vivere in pienezza la dimensione collettiva del lavoro, quella contraddittoria di un amore impossibile, e fin l’esperienza inattesa di un rapporto paterno con un bambino che non è suo figlio – riuscirà finalmente a sciogliere quel nodo che si portava dentro: “Ero dentro un vortice e non mi facevo domande. Il sonno mi aggrediva a tratti, ero esausto ma per la prima volta in vita mia completamente presente a me stesso”.
La “storia che volevo raccontare – conclude la scrittrice – (era) quella di uno scavo nel ventre della montagna e nell’animo di Ettore”. Riservandoci, alla fine della sua Nota, una notizia illuminante che risale agli anni dell’infanzia passati in Val d’Aosta: “Mio padre ha lavorato al tunnel, negli anni Settanta: un alpinista che amava la sua montagna si è trovato a contatto con il varco che la attraversava. Quello sguardo è anche il mio.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Paolo Giordano, Nel contagio, Einaudi 2020 (pp. 63, euro 10)
Massimo Tedeschi, Il grande flagello. Covid-19 a Bergamo e Brescia, Scholé – Editrice Morcelliana 2020 (pp. 328, euro 19,90)
Perché leggere oggi il piccolo libro di Giordano, perché scegliere, fra i molti nel frattempo usciti, proprio il più vecchio? Eh sì, è uscito solo quattro mesi fa, a marzo, ma era il marzo del nuovo tempo inaugurato dal contagio, e proprio qui sta una buona ragione per leggerlo, se non lo si è già fatto: perché ha preceduto la serie di instant book che ci ha inondato, rivelandosi spesso semplici aggiornamenti di libri usciti prima o che erano lì lì per uscire (e allora aggiungi “covid” nel sottotitolo e magari un ultimo improvvisato capitolo e il gioco è fatto). No, quello di Giordano registra davvero reazioni e ragionamenti in tempo reale: di fronte al primo diffondersi del virus (“Sars-Cov-2” o per brevità “Cov-2”, non “Covid-19”, che è la malattia) l’impressione è quella di una “sospensione dalla quotidianità”, di un “vuoto” che l’autore – come altri, chi c’è riuscito almeno – decide di colmare scrivendo, “per tenere a bada i presagi, e per trovare un modo migliore di pensare tutto questo”. Il che, per lui, significa occuparsi del lato matematico della faccenda, oggi come al tempo della scuola, perché “molto prima della scrittura, la matematica era il mio trucco per tenere a freno l’angoscia”. E difatti, prima che un romanziere, è un fisico, Giordano. Non un virologo o un epidemiologo o un infettivologo come quelli che abbiano ascoltato ogni giorno. Dunque il suo è un punto di vista diverso, e anche questa è una ragione per leggerlo. È lui stesso a sottolinearlo: “la matematica non è davvero la scienza dei numeri, è la scienza delle relazioni”, e “il contagio è un’infezione della nostra rete di relazioni”.
Attenzione però: quello che ci viene proposto è un discorso scientifico, con il suo apparato di concetti e il suo lessico, ma Giordano è uno scrittore, e dunque ci sa comunicare anche speranze e timori. Timori soprattutto, che purtroppo possiamo già veder confermati: “non voglio perdere ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi. Superata la paura, ogni consapevolezza volatile svanirà in un istante – succede sempre così con le malattie”. La paura: non tanto quella di ammalarsi, precisa l’autore, quanto quella “di scoprire che l’impalcatura della civiltà che conosco è un castello di carte. Ho paura dell’azzeramento, ma anche del suo contrario: che la paura passi senza lasciarsi dietro un cambiamento”.
Facile profeta, si dirà, passando oltre. Oppure ci si potrà fermare, meditare su sentimenti e presagi tanto precoci e confrontarli con quelli venuti dopo, e che non abbiamo ancora smesso di sperimentare: “se non abbiamo anticorpi contro Cov-2, ne abbiamo contro tutto ciò che ci sconcerta. Vogliamo sempre conoscere le date di inizio e di scadenza delle cose. Siamo abituati a imporre il nostro tempo alla natura, non viceversa. Quindi esigo che il contagio finisca fra una settimana, che si torni alla normalità. Lo esigo sperandolo”.
Ma andiamo più in là: speriamo, certo, speriamo che il timore di una seconda ondata sia contraddetto dai fatti. Non dimentichiamo però che la pandemia non è (stata?) “un accidente casuale né un flagello”. Non un fatto inedito e irripetibile: “è già accaduto e accadrà ancora”. Perché “i virus sono fra i tanti profughi della distruzione ambientale (…) non sono tanto i nuovi microbi a cercarci, ma noi stanare loro. (…) Il contagio è un sintomo. L’infezione è nell’ecologia”.
Difficile, o quantomeno riduttivo, definirlo un instant book – per quanto “costruito con la tempistica del giornale quotidiano”, come l’autore stesso premette –, perché questo libro è una cronaca dettagliata e documentatissima che diventa pagina dopo pagina storia, dando corpo a un bilancio ponderato, a una riflessione coinvolgente. “È la prima accurata, documentata, ricerca sulla pandemia di questo annus horribilis e indimenticabile”, ha scritto Tino Bino nelle pagine bresciane del Corriere della Sera lo scorso 18 giugno.
E dunque, dalle intuizioni di Giordano alle constatazioni di Tedeschi su questa “vicenda tragica e corale”, al suo riuscito tentativo di “mettere ordine al fiume di notizie che ci ha investito, a volte sovrastato, spesso frastornato dalle settimane iniziali dell’epidemia e fino al 4 maggio”. Questo il periodo esaminato; lo spazio è quello che include le due provincie da subito e con più violenza colpite, Bergamo e Brescia, terreno di straordinarie manifestazioni di “tenuta e coraggio” ma anche di “errori strategici e lacune organizzative, limiti strutturali e scelte sbagliate” che “richiedono – e qui il resoconto si fa proiezione sul futuro immediato che ci attende – risposte approfondite, dettagliate, coraggiose, sempre meglio documentate”.
“Memoriale” si intitola la prima parte, che si propone – per usare le parole del Camus della Peste, citato in esergo – di “dire semplicemente quel che si impara in mezzo ai flagelli”: inutile cercar di rendere la forza con cui si propongono le situazioni richiamate; le testimonianze raccolte – a partire da quella di un medico rianimatore –; la rapida successione delle notizie (documentata anche nel Diario proposto nella terza parte) e la mole imponente dei dati messi a confronto e che non restano mai numeri ma lasciano trasparire la realtà umana cui si riferiscono, quella della “generazione bruciata” degli anziani innanzitutto; i riferimenti a una dimensione, provinciale ma non periferica, in grado – nel caso delle due città lombarde su sui ci concentra l’analisi – di offrire “al mondo il racconto di cosa può rappresentare l’epidemia in terre moderne, dinamiche, tecnologicamente attrezzate, produttivamente all’avanguardia”; le immagini incancellabili che le parole evocano, dagli sguardi muti fra malati e medici ai camion militari carichi di bare il 18 marzo a Bergamo.
L’evocazione cede tuttavia il passo alla considerazione obiettiva, in un’alternanza che avvince e non cessa di alimentare l’attenzione: “cuore del cuore produttivo d’Italia e d’Europa”, Brescia e Bergamo rivelano anche criticità nodali, la qualità dell’aria in primo luogo. Sicché gli studi sulla correlazione fra epidemia e inquinamento atmosferico” sono “molti e controversi” fin dalle prime settimane: è anche questo, il libro di Tedeschi, una mappa, cronologicamente organizzata, dei discorsi che si sono susseguiti e degli argomenti via via balzati all’ordine del giorno a nutrire speranze e timori fin dentro le nostre case, nelle parole che ci siamo scambiati giorno dopo giorno, nelle telefonate, nei messaggi. Uno strumento, quindi, per far memoria di un tempo sospeso, di una durata che sembra eccedere il suo effettivo arco temporale, che ci appare già lontana e allo stesso tempo non ha abbandonato la nostra mente, il nostro umore, gli strati più profondi del nostro immaginario. Uno strumento che sa rispondere alla necessità da più parti avvertita di non dimenticare e al di là delle intenzioni rimuovere quanto accaduto: “Impossibile non pensare a come ricordarlo – scriveva del resto, già alla fine di aprile sul suo giornale, lo stesso Tedeschi – con un segno pubblico, solido ed eloquente”. Come il suo libro, appunto, espressione di una sensibilità individuale, di una capacità affinata nel lavoro di giornalista, di un impegno civile che non tralascia di individuare “il punto di domanda più sostanzioso, più radicale” nelle “sorti del Sistema Sanitario Nazionale e di quello lombardo in particolare”, allargando tuttavia lo sguardo a render conto anche di altri privilegiati punti di vista con le interviste, raccolte nella seconda parte, oltre che ai sindaci e ai vescovi delle due città, anche al medico, all’infermiere, all’infettivologo. Nulla di meglio delle parole dello stesso autore per sintetizzare, in conclusione, il senso del suo lavoro: “Dopo in evento così enorme l’esercizio del ricordo non può venir meno. A ciò si vorrebbe contribuisse questo libro. Questo diario. Questo memoriale”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Carlo Ossola, Trattato delle piccole virtù. Breviario di civiltà, Marsilio 2019 (pp. 120, euro 15)
“Dodici stazioni per divenire un po’ più uomini”. Così l’autore definisce, nella premessa, le “piccole virtù” cui gli uomini della sua generazione – quella dei nati nell’immediato secondo dopoguerra – venivano ancora educati. Prima che arrivassero “l’intemperanza e l’imprudenza del Sessantotto che trasferì all’energia del collettivo quello che al singolo restava troppo arduo da conseguire”. Questo versante della mentalità di quegli anni – a volte ammesso anche da chi ha continuato a ravvisarvi una decisiva carica di rinnovamento – venivano comunque dopo la pervasiva “tecnicizzazione” di ogni ambito della vita che aveva reso “brutali e precise” le movenze quotidiane, eliminando “dai gesti ogni esitazione, ogni prudenza, ogni garbo”: lo rilevava già Adorno, nel suoi Minima moralia, tradotto in Italia alla fine degli anni Cinquanta.
Non sono la buona educazione o il galateo che l’autore rimpiange, ma un ben più sottile e pervasivo atteggiamento quotidiano, fatto di “discrezione del non apparire”, di capacità di ascoltare, di “contegno pieno di riguardo” per gli altri. Tutto il contrario della “competizione, emulazione, valutazione comparativa” che “ci privano della prima tornitura, quella del sé”, allenandoci invece “alla vanità dell’orgoglio”. Eppure, si erano susseguiti nei secoli i “Maestri delle piccole virtù”: da Castiglione e Guicciardini a quel meno noto Giovan Battista Roberti da Bassano del quale si riporta in appendice il settecentesco Trattatello sulle virtù piccole. Sino a giungere alla Ginzburg e alle sue undici brevi prose della raccolta titolata, appunto, Le piccole virtù: “Virtù comuni – chiosa l’autore – che occorre esercitare ogni giorno nella fatica dell’essere in società, che non sono piccole se non perché come tali sono percepite, ma che richiedono un costante esercizio di sé, una vigile coscienza del limite, proprio e altrui”. Modi d’essere e di fare essenziali “nel lavoro, feriale e collettivo, di essere uomini”.
Si passano così in rassegna – in un rimando continuo ad autori di ogni epoca – queste dodici “impercettibili” e ordinarie virtù, partendo sempre però da un preciso quesito, da una breve riflessione o da un episodio vissuto. Uno per tutti, ad aprire il discorsetto sull’“affabilità”: “Il volo Air France è pieno; solita coda nel corridoio di cabina: arrivo al mio posto in fondo ma è occupato da una hostess, elegante e impassibile: Madame, quello sarebbe il mio posto!; Monsieur, per questo stavo ad attenderla! Come l’affabilità moderi con garbo una vana impazienza”.
Affabilità, dunque: una virtù esercitabile persino nei confronti dell’avversario. Lontanissima, inutile dirlo, dal “rottamare” come dall’“asfaltare”.
Junichirō Tanizaki, La gatta, Shozo e le due donne, Neri Pozza 2020 (pp. 128, euro 17)
Lui, anche se ormai adulto, è soggetto alla madre, e del resto è fatto così: si adegua a quello che gli altri decidono per lui. La madre, preoccupata della pigrizia e della mancanza di iniziativa del figlio, si dà da fare perché lui scacci la moglie e si metta con un’altra, dotata di una buona dote e dunque in grado di assicurargli un futuro quando lei non ci sarà più. Non ci sono cuori spezzati in questa storia di ordinaria cattiveria familiare. In gioco non ci sono l’amore e il dolore dell’abbandono, ma l’orgoglio e l’umiliazione. La prima moglie non accetta di esser stata scartata come una cosa e vuole rivalersi riprendendosi il marito; l’altra donna sorveglia come una carceriera l’uomo con cui si è messa perché non sopporterebbe l’offesa di vederlo tornare dalla prima.
Una comune storia borghese. Non fosse che sulla scena agisce – o meglio: osserva in silenzio, senza giudicare si direbbe – un altro personaggio: una gatta. C’è lei al centro del triangolo: amata dall’uomo e mal tollerata o addirittura odiata dalle donne, che ne sono o ne sono state gelose.
Questo è un romanzo che soprattutto chi vive con un gatto saprà apprezzare. Tanizaki aveva di sicuro questa esperienza. Non avrebbe altrimenti saputo scrivere pagine come quelle dedicate alla relazione che si instaura fra l’animale e il suo padrone, che osservando la sua gatta camminare col capo chino, smagrita dall’età ormai avanzata, sente di “avere sotto gli occhi una lezione sulla fugacità della vita” e non sa confrontare il dolore che proverebbe nel caso lei morisse con quello che gli provocherebbe la scomparsa di una persona vicina. Ma anche la moglie – che non aveva amato l’animale e, una volta scacciata dal marito, l’aveva rivoluto con sé solo allo scopo di indurre l’uomo a tornare da lei – sente ad un certo punto di saper “comprendere con chiarezza i pensieri della gatta dallo sguardo triste, vecchia e silenziosa” e “di tanto in tanto avvicina la bocca all’orecchio della gatta e le sussurra: Non sapevo che tu fossi tanto più ricca di me di sentimenti umani”. Sarà sempre lei, la gatta, a guardare con saggia indifferenza il precipitare della situazione.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Sandro Campani,I passi nel bosco, Einaudi 2020 (pp. 248, euro 19,50)
Siamo ancora là, nell’Appennino tosco-emiliano, come nel romanzo che avevamo letto quasi tre anni fa (Il giro del miele, Einaudi 2017, in queste note il 16 luglio di quell’anno): anche in questi Passi nel bosco troviamo una storia di famiglie, di amori e disamori, speranze e fallimenti, di destini che si credeva di aver scongiurato e invece negli anni l’hanno avuta vinta; vite che avrebbero potuto essere diverse, e non si sa cessare di interrogare per sapere perché sono andate come sono andate. E intorno il bosco, che circonda il mondo degli uomini e custodisce i loro segreti, sempre altro da loro anche se a loro soggetto. Anche se i tempi sono i nostri infatti, e si vive soprattutto di turismo e c’è chi sta recuperando uno dei tanti borghi disabitati da allestire ad “albergo diffuso” per accogliere i cittadini votati a velleitari ritorni alla natura, – di fare il periodico taglio del bosco si tratta, ed è questa operazione che ha riunito i diversi personaggi, modulati entro una gamma che si dispone fra un estremo e l’altro, e va dal vincente – si fa per dire – Luchino al perdente Daniele.
L’autore è uno di quelli che in Appennino è nato e continua a vivere, sia pure essendo passato dall’originaria montagna modenese a quella reggiana. Il bosco lo conosce bene: “I faggi sono quel che ti protegge dagli spiriti maligni: lo capisci già dalla corteccia, liscia, di quel grigio pieno d’occhi”. Così come da una lunga consuetudine nasce il personaggio attorno al quale in diverso modo gravitano tutti gli altri: Luchino, che prima di comparire in questo romanzo è stato protagonista di una canzone, E dove andrai, Luchino, perché Campani è anche cantante e chitarrista e scrive musica e testo di molte delle canzoni della sua band, gli Ismael. E i temi sono quelli: l’abbandono di una montagna che non si lascia abbandonare facilmente, che resta dentro.
Luchino era, nelle parole della canzone, quello che se ne va – “con la moto di tuo padre, dove noi non abbiamo il coraggio” – e qui, nel romanzo, che a un certo punto cita letteralmente il testo della canzone, è quello che torna e come sempre quando riappare scompiglia la vita della piccola comunità: “Arriva come il sole, come quelli a cui non importa niente. Per questo ce l’hanno con lui; eppure lo cercano al bar, quando torna, non possono ancora farne a meno, appesi a lui come all’unica vita che sarebbe valsa la pena di vivere”. Perché lui è uno che cade sempre in piedi, che gli altri amano, o odiano, o comunque invidiano. Un beniamino della vita, anche se in versione vagamente maudit: lui è “il filibustiere (che) arriva e incanta, i bimbi lo attorniano, i gatti lo seguono, tutto gli è sempre perdonato”. Anche da Daniele, il più fedele dei suoi seguaci: “Luchino era il furbo, Daniele l’entusiasta. Uno ha lanciato il sasso, l’altro non ha ritirato la mano”. E adesso Daniele – o Danielone, come lo chiamano, dopo che si è lasciato ingrassare a forza di birre, con il gusto di ostentare la propria bulimia disperata –, è uno sbandato, irascibile e aggressivo, dipendente dai soldi che chiede al padre, e al fratello. Tutto diverso da lui, Antonello: notaio come il padre Francesco, pragmatista e privo di scrupoli, “se lui ha deciso di fare una cosa, sicuramente c’è una strategia”, e “non potrà mai fare nulla di buono senza che gli venga attribuito un doppio fine”. Anche se in passato ha spesso garantito per il fratello, regolarmente licenziato da chi era stato persuaso ad assumerlo perché inaffidabile sul lavoro, ladro di portafogli dei compagni di lavoro, e dunque è Francesco, il padre, a cercar di farlo ragionare, a rincorrerlo, a cercarlo quando sparisce.
Ma i personaggi sono di più, e ciascuno – tutti tranne Luchino, significativamente – prende la scena a turno, raccontando i fatti dal suo punto di vista, come in uno spettacolo teatrale (di cui a inizio libro compare appunto il cartellone, ossia l’elenco dei nomi e dei ruoli).
Romanzo corale in cui le voci non si fondono in un coro, e le questioni del passato come le tensioni del presente restano in sospeso, filtrate da un linguaggio irto di espressioni e vocaboli ricalcati sul dialetto locale. Inutile cercare una sia pur malinconica soluzione in questa storia: non è il taglio del bosco di Cassola, questo. Qui non è con il dolore di una perdita, con un lutto che si ha a che fare. È con il disordine delle vite. Non c’è un senso da ritrovare in esistenze residuali, in bilico fra rimpianti e delusioni, rancori e rimorsi.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Io, Pierre Rivière, avendo sgozzato mia madre, mia sorella e mio fratello… Un caso di parricidio nel XIX secolo, a cura di Michel Foucault, Einaudi 2020 (pp. 352, euro 24)
Nel 1976, quando per la prima volta Einaudi lo pubblicò, questo libro si collocava in un clima di critica della psichiatria e più in generale delle istituzioni totali: L’istituzione negata di Franco Basaglia era uscito nel ’68, e Basaglia era lettore attento di Foucault e delle sue ricerche sul “disciplinamento” imposto da carceri e manicomi, prima che da un potere diffuso, microfisico e biopolitico: la Storia della follia in età classica si è leggeva in Italia fin dal ’61 e Nascita della clinica dall’anno successivo.
La ricostruzione della vicenda del contadino bretone Pierre Rivière forniva dunque un concreto, inedito riferimento a un interesse che andava oltre l’ambito specialistico, ma suggeriva anche, soprattutto per chi viveva dalle nostre parti, la possibilità di stabilire analogie con un fatto accaduto una quindicina di anni prima: il “mostro di Tremosine” era una figura ancora viva nella memoria dei bresciani, colpiti dal gesto di quel Giuseppe Rossi, diciottenne gardesano che aveva ucciso padre, madre e sorella sparandogli a bruciapelo con una doppietta, un comune fucile da caccia. Un massacro suscitato da un motivo futile – il padre si era rifiutato di prestare 30mila lire al figlio che doveva ripianare un debito –, maturato comunque entro la rete dei rapporti familiari e in questo simile, dunque, a quello perpetrato dal ventenne francese a colpi di roncola.
Foucault e altri studiosi suoi collaboratori (che nel libro compaiono quali autori dei saggi della seconda parte), nel corso delle loro ricerche archivistiche tese a chiarire l’evoluzione dei rapporti fra psichiatria e giustizia penale, si erano imbattuti in un documento sorprendente: la Memoria scritta da un parricida nel 1836. Scritta su sollecitazione dei medici, che in questo modo ritenevano di poter stabilire il grado di salute mentale del soggetto e la sua eventuale simulazione di follia; accolta dai magistrati fra le prove in base alle quali formulare il giudizio; ampiamente citata dai fogli di informazione che all’epoca diedero ampio spazio al fatto: a fermare l’équipe per più di un anno sulla vicenda fu proprio “la bellezza della memoria di Rivière”, ammette Foucault in apertura. “Tutto è iniziato dalla nostra stupefazione” di fronte a un discorso, come quello del giovane capace appena di leggere e di scrivere, in grado di introdurre un sostanziale elemento di “disturbo” nella “battaglia di discorsi” che cercavano di stabilire se il suo era il “discorso d’un pazzo o d’un criminale”.
Il primo impulso, in chi legge, è di saltare dall’introduzione di Foucault direttamente a questa Memoria, tralasciando i documenti che la precedono. Ma non conviene, e la ragione sta nel loro montaggio: non tipologico, in base cioè alla loro natura – medica, giudiziaria, cronachistica – , ma cronologico. E dunque si legge innanzitutto del crimine, poi di quel che avviene tra il fatto e l’arresto, si passa quindi all’istruttoria per giungere alla commutazione della pena dall’esecuzione capitale al carcere a vita (cui metterà fine il suicidio del recluso). Quello che ne esce è qualcosa di simile a un romanzo, a una non-fiction si direbbe oggi (A sangue freddo di Truman Capote, riferimento obbligato di questo genere, era stato scritto solo una decina d’anni prima, a metà anni ’60): i verbali redatti quando i corpi sono ancora lì dove sono caduti sotto i colpi di Pierre si intrecciano al racconto dei testimoni, le relazioni del procuratore del re agli articoli di giornale, mentre l’interrogatorio dell’omicida e la sentenza istruttoria forniscono le coordinate per comprendere la Memoria, uno “scritto di circa cinquanta pagine – spiega l’Istruttoria – al quale Riviére aveva lavorato dal momento del suo ingresso nella prigione” ma, lo sapremo da lui stesso, concepito già prima dell’assassinio, in un rapporto stretto fra il discorso sull’atto e l’atto stesso. E a questo punto si arriva finalmente al testo cruciale, una ricostruzione puntigliosa e angosciante dei litigi familiari, del coinvolgimento in essi dei figli, delle vessazioni della moglie sul marito: è per riscattare quel buon uomo del padre dalla prepotenza e dalle offese della madre che Pierre decide di intervenire, nel modo che sappiamo. Uccidendo la colpevole, la madre, ma anche la sorella che stava dalla sua parte, e il fratellino. Perché anche quest’ultimo, cui il padre era tanto affezionato? Per apparire crudele ai suoi occhi, agli occhi del padre che così non avrebbe sofferto per la sorte del primogenito: una giustificazione che rivela per alcuni la follia dell’assassino, per altri la sua volontà di confondere le acque, tanto da fornire una testimonianza che sfugge alla logica di chi l’aveva sollecitata e di fatto “paralizza” la volontà del magistrato quanto quella del medico affermando l’autonomia dell’autore, del fatto e del testo insieme. Un’autonomia che rimanda ad altro che sta fuori degli ospedali e dei tribunali riallacciandosi alla protesta muta che atti per nulla isolati come quello di Riviére rivelano: una ribellione senza parole contro la povertà delle campagne, che la Rivoluzione dell’89 non aveva risolto, e il nuovo potere borghese ad essa seguito aveva acuito.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Lorenzo Marone, Inventario di un cuore un allarme, Einaudi 2020 (pp. 284, euro 18)
“Penso che condividere le paure possa servire a destabilizzarle”, “fare gruppo aiuta: vedere che c’è un altro che soffre delle tue stesse ansie ti fa stare meglio, c’è poco da fare. (…) Sempre più ricerche dicono che avere buone amicizie alza il livello di Qr, il quoziente di resilienza; biologi, nutrizionisti, psicologi sono d’accordo nel ritenere che l’amicizia sia uno dei principali fattori per combattere virus e germi, incidendo sul funzionamento del sistema immunitario. (…) Cioè, perlomeno si tira avanti, che è una forma di vittoria, giusto?”. Giusto, a patto però che si tenga conto del fatto che queste considerazioni fiduciose risalgono a parecchi mesi prima, cioè sono state scritte a.C. (ante Coronovirus), il quale coronavirus non era dunque contemplato fra i “virus” sopracitati. Non è stata l’esperienza del lockdown a suggerire queste parole, ma quella di un ipocondriaco. Di un ipocondriaco che ha deciso di scrivere senza remore delle proprie angosce perché crede “che la condivisione sia un modo per venirne fuori”. “Parliamone quindi – esorta gli ipocondriaci che non ha dubbi si trovino fra i suoi lettori, dato che “Siamo tutti, chi più chi meno, ipocondriaci, ahimè, bombardati ogni giorno da infauste notizie” –, confidiamoci, raccontiamo, svisceriamo, non abbiamo timore di sembrare deboli”.
Ma la convinzione del messaggio si squaglia appena espressa: “tutto questo può valere per le persone normali, per chi cioè attraversa un momento difficile”. Non è questa la situazione dell’ipocondriaco: “Il periodo difficile per un ipocondriaco è la sua stessa vita, nella quale la paura è una costante”, “una sorta di acufene. Sapete cos’è, vero? Se la riposta fosse negativa, buon per voi, sareste persone normali impegnate a vivere”. Avvertenze come questa chiariscono subito che questo libro non è una “storia lamentosa”, ma neanche un manuale di sopravvivenza, tanto meno di guarigione, per malinconici e ansiosi in apprensione continua per il proprio stato di salute e che della paura della malattia sono arrivati a fare “una ragione di vita”. È bene, anzi, che chi si trova in questa condizione si convinca che non deve “rompere i coglioni di continuo a chi (gli) è accanto”. Se lo fa, del resto, si rende conto, come il protagonista, che né moglie né amici lo prendono più sul serio. Né lo farebbero i lettori, a meno che già le prime pagine garantiscano che se ne parlerà così, un po’ alla Woody Allen per intenderci, non a caso ricorrentemente citato. E allora lo seguiamo sorridendo, il nostro ipocondriaco, nelle sue elucubrazioni amletiche, nei suoi incontri con medici preti psicoterapeuti e santoni, nelle sue relazioni (moglie, figlio, parenti, amici, colleghi) pesantemente condizionate dallo stato d’animo d’un individuo che “ha un terrore fottuto di qualsiasi morbo, ma allo stesso tempo ha una paura fottuta di accorgersene”. Lo seguiamo in un lungo monologo denso di divagazioni scientifico-filosofiche che spesso assumono – anche con risultati apprezzabili – il tono della divulgazione. E così, paura dopo paura, catastrofe incombente dopo catastrofe imminente, ci arriviamo: alla pandemia. Una pandemia solo possibile, per l’autore, che infatti per darne un’idea prende quello che ha a disposizione, la peste del Trecento e quella del Seicento, e la Spagnola – “Mi chiedo spesso cosa avrei fatto se mi fossi trovato a vivere a quei tempi” –, ma sa anche andare al di là, con accenti che suonano, ahimè, vagamente profetici: che cosa succede “quando l’enorme giostra che abbiamo costruito per non pensare al nostro essere mortale viene d’un tratto meno”? “Se si fermasse quest’ultima, resteremmo scoperti, e mi domando chi saremmo davvero, io chi sarei: quello che scappa, quello che attende l’aiuto di un medico vestito da menagramo, colui che si dà alla fede, chi si dispera, o chi infine decide di godersela? Almeno nella fantasia, senza paura di essere smentito, mi piace pensare che farei parte di quelli che si danno all’alcol e al sesso. Non in questo ordine.”
C’è ragione di credere che il nostro sia stato smentito, contrariamente alle sue previsioni. Qualche ipotesi si può forse fare se si tiene presente che, a quanto pare, non solo l’ipocondria, ma anche altre nevrosi, e persino la paranoia nelle sue forme e gradi diversi, conoscano una fase di remissione in epoche di calamità (in parole povere, si allineino al proverbio secondo il quale il mal comune ha fra i suoi effetti collaterali un mezzo gaudio). Quel che sappiamo per certo è comunque che l’autore ha in queste settimane scritto un nuovo racconto destinato a essere diffuso in formato e-book con l’invito a fare una donazione all’ospedale Cotugno di Napoli per l’emergenza Coronavirus. Titolo: La primavera torna sempre.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Lenz Koppelstätter, Omicidio sul ghiacciaio, Corbaccio 2020 (p. 319, euro 16,90)
Portachiavi, calendari, palle di vetro con la neve e la figura di Ötzi, ma anche ombrelli, bastoni da passeggio, flaconi di shampoo, accendini: tutti con l’immagine dell’uomo di Similaun rinvenuto sul confine tra Italia e Austria nel 1991. Mancava solo un giallo a fregiarsi del sicuro appeal della mummia alpina. E ce lo si poteva aspettare, vista la fortuna del filone giallo-montagna (da Faggiani a D’Andrea, da Tuti a Manzini), che prima o poi anche Bolzano e le Alpi Venoste diventassero teatro di un intrigo. A scioglierlo, un commissario locale e a un ispettore immigrato napoletano (anche questa del poliziotto spaesato è ormai una costante).
Senonché a impedire che il racconto scivoli nella scontatezza, ci sono pagine dedicate al contesto da un autore che l’Alto Adige di oggi, da giornalista qual è, lo conosce bene e ci offre quindi motivi di confronto con le immagini che della regione ognuno di noi serba. Ne sa richiamare “la cultura tirolese e il tocco mediterraneo”, fra canederli e pizza; l’internazionalità e insieme un plurilinguismo fatto non solo di tedesco e italiano, ma di dialetti che variano da valle a valle e da paese a paese, ognuno geloso della sua specificità al punto che “un commissario di Bolzano (è) nient’altro che il braccio di Roma”, anche se da sempre residente nella Valle Isarco. Se basta tanto poco a far sentire forestiero il commissario figuriamoci l’ispettore, che non si orienta in un posto dove sembrano “esistere molti più punti cardinali dei quattro che aveva imparato”, per cui “da Bolzano a Merano si va aui (su), nella Val Senales invece eini (dentro) e in Svizzera ummi (di là)”. Ma, quel che più conta, basta cambiare di bar e dall’Alto Adige dei turisti si passa a quello della gente del posto, che esclude diffidente chi viene da fuori.
E Ötzi che cosa c’entra? C’entra eccome: è a lui che conducono gli indizi raccolti sul ghiacciaio dove un uomo è stata assassinato, con una freccia. Come Ötzi appunto. L’arma del delitto risale infatti ad allora, è stata trafugata dal Museo di Bolzano in cui la mummia è conservata, e a questo si aggiunga che la vittima era un misantropo ridottosi vivere più o meno come il progenitore neolitico. Ma, analogie a parte, è un’altra la domanda cui occorre rispondere: Ötzi era solo un cacciatore oppure era un capotribù, o uno sciamano? Un quesito di natura culturale, si direbbe. E invece no: la sua soluzione porterà il commissario Grauner a seguire la traccia giusta.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Giorgio Fontana, Prima di noi, Sellerio 2020 (pp. 891, euro 22)
La “famiglia singolare” è “la mediazione fra l’universalità e l’individuo”. La famiglia singolare, la mia famiglia, che non si esaurisce nei componenti che tuttora la compongono ma comprende le generazioni che hanno preceduto l’attuale; l’universalità: tutti gli altri che alla mia famiglia non appartengono, la società, ma anche il divenire della società, la sua storia.
Le parole di Sartre, sulle quali il filosofo ha fondato – nelle sue Questioni di metodo – la ricerca confluita nella monumentale opera su Flaubert (L’idiota della famiglia, Il Saggiatore 2019) possono fornire la cornice entro la quale collocare il grande romanzo di Giorgio Fontana. Perché c’è l’Italia del Novecento, e della prima decade del nuovo millennio, in Prima di noi, ed è sicuramente, questa, una pista di lettura dell’opera, feconda, ma non unica, a meno che la si complichi di quella “mediazione” fra il singolare e l’universale, il particolare e il generale, e allora a trasparire come filo essenziale, che tiene insieme la storia, è il confronto fra le figure che via via prendono la scena e quelle che a lungo vi compaiono e vi conservano comunque un posto anche quando di scena sono uscite.
Continuità sotterranee e rotture eclatanti costellano il divenire della famiglia Sartori, dalla prima guerra mondiale ad oggi, nella forma di somiglianze di carattere, di affinità di comportamento e dì comunanza di aspirazioni, ma anche di drastiche ridefinizioni di questi elementi esposti all’influenza irresistibile dei tempi, all’evoluzione dei costumi, all’irrompere di mentalità nuove.
Torniamo a Sartre: “Il dato che superiamo ad ogni istante, per il semplice fatto di viverlo, non si riduce alle condizioni materiali della nostra esistenza, ma in esso va compresa la nostra stessa infanzia. Questa, che fu insieme un’apprensione oscura della nostra classe, del nostro condizionamento sociale attraverso il gruppo familiare, e un superamento cieco, uno sforzo maldestro per sradicarcene, finisce per iscriversi in noi sotto forma di carattere”. Lo stampo che la famiglia imprime sui diversi personaggi è subito messo in questione dagli stessi: reinterpretato, fatto proprio, o ancora più spesso combattuto nel proprio intimo, giocato anche aggressivamente nelle relazioni familiari, contestato sulla base della propria esperienza pubblica. Maurizio è ormai altro, è fatto di una pasta diversa rispetto al padre, intriso della pazienza cupa dei contadini; i suoi figli sono a loro volta diversi da lui ma anche, si badi, diversi fra loro, perché i singoli processi di individuazione, di distacco dalle figure genitoriali, da quella paterna in ispecie, divergono: se Gabriele, cattolico, coltiva, e coltiverà per tutta la vita, le proprie aspirazioni letterarie, suo fratello Renzo, comunista, è nella fabbrica e nelle lotte sindacali che cercherà la sua verità, nella propria rabbiosa tenacia rivelando un tratto profondo di continuità con il padre. Così come la madre, nella sua ferma dirittura, nel suo quieto e coraggioso bastare a se stessa, sembra non aver perso radici antiche, che la riporteranno alla campagna che la famiglia aveva lasciato. E questa dialettica fra continuità e discontinuità, somiglianza e differenza rispetto sia a chi li ha preceduti sia ai coetanei, connoterà i figli di Gabriele così come quelli di Renzo, ormai calati nei “tempi miseri” che ai giovani gli ultimi decenni hanno offerto, minando ogni sentimento di appartenenza, non esclusa quella familiare: “Un cognome non vuol dire nulla”, dichiara Dario, “l’ultimo della stirpe, l’ultimo dei Sartori”: “I Sartori non esistono”, giunge a dire. Non è tuttavia su questa constatazione, che sembra voler destituire di senso la lunga storia che abbiamo letto, che il romanzo si chiude, ma sul gesto di Letizia che si reca alla tomba del nonno Maurizio da cui tutto è partito. Maurizio, disertore nella Grande guerra, traditore della fiducia della ragazza che gli aveva creduto e dalla quale solo perché costretto era tornato, eppure a lei legato poi per una vita: Letizia “mise una mano sulla lapide e la sentì calda e ruvida. Una sorta di frenesia la colmò. Ora non c’erano più segreti né condanne, non esisteva ragione di vergognarsi o avere paura. Il cognome su quella pietra era pronto a sbiadire (…). Pietà dunque” per ciascuno dei Sartori, e soprattutto “per un ragazzo e una ragazza che si amano in un bosco, mentre intorno la guerra incendia la terra e loro ancora non sanno che lei verrà abbandonata – e ancora non sanno che lui ritornerà”. Quel ragazzo e quella ragazza che sono stati i bisnonni dell’autore: “cos’ho voluto raccontare con queste quasi novecento pagine? – si è chiesto Fontana, raccontando il suo libro sul blog Letteratitudine. Forse innanzitutto un’inquietudine di fondo che anima i Sartori, diciamo una difficoltà radicale di stare al mondo: ognuno reagisce alla diserzione del capostipite inseguendo un sogno preciso che comunque non porta quiete – la rivoluzione, la religione, la poesia, la conoscenza, l’arte… Tutto è un modo per combattere la stortura ricevuta in eredità: ma tutto resterebbe inerte se ad esso non si aggiungesse una forma di pietas, una luce compassionevole, forse persino una preghiera rivolta al passato – alle vite inventate sepolte laggiù, negli abissi del tempo, prima di noi, e che irradiano il loro mistero”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Jean-Luc Bannalec, Intrigo Bretone. Omicidio a Pont-Aven, Superbeat 2020 (pp. 233, euro 18)
“Spostati, Maigret. È arrivato il commissario Dupin”: esagera la fascetta di cui il libro si fregia, ma un che di Simenon lo ritroviamo in questo romanzo, non fosse che per l’atmosfera tutta francese che lo pervade. Dupin infatti, dalla sua Parigi, ha dovuto spostarsi in Bretagna, a Concarneau e, contro ogni sua previsione, se ne innamora, di un amore che dura anche dopo che ha risolto il caso: l’omicidio di un albergatore novantunenne seguito da quello dell’erede, nella vicina Pont-Aven. Un luogo leggendario, sede della mitica Scuola artistica dominata dalla figura di Gauguin, meta di pittori che cercavano “il primitivo, il semplice, l’incontaminato e lì trovavano il mondo rurale”, la tradizione: “In fin dei conti, la Bretagna – sostengono i suoi quattro milioni di orgogliosi abitanti – apparteneva alla Francia solo dal 1522, ‘da cinquecento ridicoli anni’.”
Paesaggio e contesto culturale sono dunque assicurati ed è su questo sfondo – qualcosa di più di un sfondo, in vero – si muove il nostro commissario, che quell’ambiente assimila, sì, come un Maigret, che arriva a conclusioni decisive presentando un’attenzione ai dettagli che non saprebbe giustificare, e prende nota anche dei “rituali che la gente s’(inventa) per il corso della giornata” essendo che “in nient’altro – ne era convinto – si (rivela) più chiaramente l’essenza di una persona”. Un Maigret tuttavia che pur amando cibo e vini buoni si scorda a volta di mangiare e s’ingozza di caffè, un uomo nervoso, spigoloso e reticente con i suoi sottoposti, che reprime a fatica reazioni o addirittura espressioni offensive come quelle che a Parigi l’avevano messo in cattiva luce presso i superiori. Non è però un ruvido e trasgressivo Rocco Schiavone, tutt’altro: “gli mancavano quegli eccessi che sembravano essere un requisito, o quanto meno una costante, della sua categoria professionale: consumo di alcol o droga, nevrosi o depressione a livelli clinici, qualche eclatante passato criminale, corruzione di alto livello, o un paio di matrimoni drammaticamente falliti. Lui non vantava nulla di tutto ciò”. E con brevi digressioni come questa, l’autore ci dà la misura di quanto sia consapevole che nei polizieschi quel che si cerca, più dell’intreccio, è ormai una figura originale di investigatore. Quante siano le varianti ancora a disposizione è problema degli scrittori che si provano nel genere.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
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