Fabio Geda, Una domenica, Einaudi 2019 (pp. 192, euro 16)
“Aveva sessantasette anni ed era vedovo da otto mesi, durante i quali aveva scoperto di aver prestato nel corso della vita più attenzione alle cose urgenti che a quelle importanti; ma a tale proposito, oramai, non c’era molto che potesse fare, se non dimostrare a se stesso e ai figli di saper attraversare il resto del tempo distinguendo con maggiore consapevolezza le une dalle altre”: nel ritratto del pensionato ex ingegnere di ponti per lunghi periodi lontano dalla famiglia ci sono già la storia e il suo significato. Riempire la casa vuota invitando a pranzo, una domenica, la figlia maggiore con la sua famiglia, cucinando lui come aveva sempre fatto la moglie. La figlia che sta più vicino – Biella, non troppo distante da Torino. Il figlio è lontano, l’altra figlia sta a Roma: Giulia, la voce narrante. Figli lontani, vedovi soli: il protagonista ma anche la donna che incontra ai giardini a sorvegliare il figlio, skater spericolato, dopo che il pranzo è andato a monte, per un piccolo incidente di una delle nipoti. E allora, tutte quelle buone cose preparate come a rievocare la tradizione familiare ravvivando una tavola ormai deserta? Di qui l’invito a Elena e al figlio Gaston. Un gesto gratuito, e a suo modo necessario.
Come in tutti i romanzi migliori, fra i personaggi se ne aggira uno senza volto, muto, pervasivo: il Tempo. Il tempo passato che emana dall’agenda di ricette compilata dalla moglie morta, il tempo di quando i figli erano bambini, il tempo che si porta via la vita e ci mette di fronte al fatto che “invecchiando si perdono molte cose. Soprattutto cose che non sapevamo di avere.” Ma c’è il tempo presente a far valere i suoi diritti, e ad offrire opportunità, sempre che le si sappia cogliere. Con l’umiltà che il vecchio ingegnere sa mostrare: ascoltando Elena, giocando con Gaston, recuperando – senza mea culpa, ma con una lucida consapevolezza di quel che è stato – il rapporto con Giulia che, come accade in ogni famiglia, era stata quella che aveva subito il peso maggiore della distanza del padre, avvertita anche dai fratelli, e dalla madre forse, ma fattasi in lei motivo di allontanamento dal genitore. Un allontanamento che cederà tuttavia a “una nuova complicità” con il padre, che “nulla (toglie) alle incomprensioni del passato”, ma le rende più “gestibili”. Perché – e l’osservazione si fa qui messaggio che, per il lettore, ben si accorda con il Natale imminente – “Non si (tratta) di cancellare o dimenticare: ma di perdonare”, godendo di quello che occorre saper riconoscere: “un tempo nuovo”.
E dunque tutto si risolverà, perché i personaggi sanno rispondere a una “comune voglia di racconto”, di condivisione delle vicende vissute e del tempo nel quale si sono svolte e rivivono. Nel racconto, appunto. Un racconto, questo di Geda, nel quale – ha notato Ida Bozzi su La lettura dello scorso 15 settembre – l’autore “non si limita a mettere in campo la classica struttura con l’intreccio principale e i flashback”, ma lascia emergere “un terzo tempo, successivo al pranzo raccontato e a quello dei ricordi evocati, un tempo nuovo che può esistere perché l’invito a pranzo c’è stato” e in seguito Giulia ha potuto conoscere Elena che gliene ha raccontato. È nel tempo della narrazione che tensioni e distanze trovano composizione e insieme un luogo nel quale consistere: la casa, che dopo la morte del padre i figli non si sentono di vendere perché è “Un luogo in cui tornare di tanto in tanto. Per dialogare con il tempo che passa e cercare di farci pace.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.