Appunti presi nel corso della lettura di libri che hanno lasciato traccia e si segnalano, per ragioni fra loro diverse, fra le pubblicazioni recenti. Leggi di più
Albrecht Goes, Notte inquieta, Marcos y Marcos 2018 (pp. 112, euro 15)
La guerra è la “guerra di Hitler”, una guerra che occorreva perdere
se si voleva avere ancora un futuro, “una vita degna di un uomo”. Non leggiamo
però di battaglie e bombardamenti in questo libro. La guerra è un’atmosfera,
che si è diffusa dovunque Hitler sia arrivato: una “miscela di odori, di olio
per i fucili, di panno militare, di gavette e soldati (…) era impossibile
respirarla senza capire immediatamente dove ci si trovava: nella galera
Europa”. Ed è una galera nella galera, dunque, una prigione vera, quella in cui
il protagonista, un cappellano militare – quale lo scrittore fu davvero nella
seconda guerra mondiale – è chiamato a dare assistenza a un disertore che sarà
giustiziato l’indomani all’alba. Un condannato di cui il cappellano vuole
conoscere la storia: non potrebbe, altrimenti, cercare di offrirgli “un’ultima
notte tranquilla su questa terra”.
È il sarcasmo delle guardie che il pastore deve innanzitutto affrontare, dileggiato come “clown del paradiso” da uomini che non fanno che manifestare in questo modo il disprezzo dello stesso Hitler per i cappellani militari (“un impaccio inutile”), e poi la crisi di coscienza del comandante del plotone di esecuzione (“quale ordine difendiamo con la nostra guerra? L’ordine dei cimiteri…”). Leggerà poi documenti che ricostruiscono i precedenti del condannato, o meglio “la cronaca (la storia esterna) di quella vita. Ma quale sarà stata la storia intima?” si chiede il pastore, e non ha dubbi: “certamente quella di un uomo che non è stato abbastanza amato.” Un uomo che oltre tutto “non si è mai occupato molto né di Chiesa né di religione”, e che tuttavia, a contatto con il cappellano “(riguadagna) in fretta un lungo tratto di vita”, finalmente un sentimento di fraternità solidale con la serenità che, dopo questa notte inquieta, ha invaso anche il protagonista: “Come servo del Vangelo dimostrai quale fosse il mio posto: dalla parte dei vinti”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Rachel Cusk, Onori, Einaudi 2020 (pp. 182, euro 16,50)
Anche questo romanzo, come i due che l’hanno preceduto (Resoconto e Transiti, in queste note il 12 dicembre 2018 e il 23 giugno 2019) è accompagnato dall’avvertenza dell’editore: quella di Cusk sarebbe una “trilogia che ha cambiatole regole del romanzo contemporaneo”. Perché? Perché anche in Onori all’autrice interessa il modo in cui la gente parla delle proprie vite, al punto da renderle possibile – assicurava nel primo romanzo – “Vedere nella vita degli altri una cronaca della mia”. Dell’esagerazione, se non dell’infondatezza, di pretendere che un tale atteggiamento scalzi la logica romanzesca si è detto nelle note già dedicate a questa scrittrice. Meglio chiedersi qui se il terzo romanzo si pone in una relazione di piena continuità con gli altri, e la risposta non sembra poter essere del tutto positiva.
Certo la protagonista
somiglia ancora all’autrice – scrittrice internazionalmente affermata, chiamata
all’estero appunto in questa veste – e la sua concezione del mondo non ha
cessato di oscillare fra un pacato disincanto e un pessimismo profondo: le
persone vivono in preda a un “ansia” che è “frutto della convinzione che la
vita sia governata dal mistero, quando in realtà il mistero non (è) che la
misura del nostro rifiuto di accettare la mortalità”, e intanto si cerca di
evitare di “passare attraverso lo specchio” cadendo “in quello stato di
dolorosa consapevolezza di sé dove le umane finzioni (perdono) credibilità”.
Finzioni – come, anche, gli onori,
ossia gli apprezzamenti, i riconoscimenti, che il titolo richiama – o zone
d’ombra comunque, che governano la relazione coniugale come quella genitoriale,
così come il fare degli adulti (anche qui paragonati a grandi, inconsapevoli
bambini) e il vivere comune. Perché “la condizione umana è così complessa che
ogni volta elude i nostri tentativi di dominarla”. Il che si traduce in destini
storici senza scampo: l’Europa, più di altre parti del pianeta, sta morendo, e
poiché singole parti vengono sostituite mentre muoiono diventa sempre più
difficile capire cosa è finto e cosa è vero, e forse lo capiremo solo quando
sarà tutto sparito” (negozi identici in tutti i luoghi del mondo e caffè
ridotti “inevitabilmente (a) versioni turistiche di se stessi”, in nome di un
“processo di rigenerazione che (comincia) a somigliare a una maschera di morte”).
Modi di vedere, come questo
sull’omologazione planetaria, raccolti dai discorsi di altri, incontrati più o
meno casualmente, al convegno di scrittori cui Faye – ne leggiamo il nome una
sola volta – partecipa. Il suo punto di vista emerge molto sporadicamente, in
modo molto più episodico – si ha l’impressione – che negli altri due romanzi,
ma soprattutto: la sua capacità di ascoltare sembra qui finire in quella di farsi
semplicemente eco della realtà con cui viene a contatto, la sua discrezione
risolversi in una sostanziale afasia. E non solo: più che originali, anche se
circoscritte, strutture narrative, i racconti degli altri sembrano a volte sconfinare
nella chiacchiera e andare ad alimentare una semplice galleria di tipi umani, mentre
la coesione della narrazione appare a volte affidata al ricorrere dei temi,
alle penetranti descrizioni dell’aspetto delle persone che avvicinano la
protagonista, assai meno dagli intermezzi descrittivi dei luoghi in cui si
muovono persone che sembrano le figure evanescenti e standardizzate dei rendering.
Neanche in Onori, del resto, lo scrivere, la letteratura, sono sinonimi di autenticità. Anzi, si può dire che tra le pagine più efficaci ci siano proprio quelle che ne denunciano l’irreversibile compromissione in una logica di intrattenimento, sia pure colto, che l’industria editoriale, il mercato impongono: “nei bassifondi di Internet”, “i lettori – spiega l’editore – (esprimono) le loro opinioni sui propri acquisti letterari più o meno come avrebbero potuto valutare i risultati di un detersivo”. È del resto “una posizione di debolezza vedere nella letteratura qualcosa di fragile che (va) difeso” come fanno molti scrittori contemporanei”. “Piuttosto ciniche” giudica simili affermazioni la nostra scrittrice, anche se non sembra estranea alla sentenza di uno dei suoi personaggi, sec convinto che proprio “ciò che non (si) sa descrivere sia la vera realtà”. La vera realtà: estranea a ciò di cui non si sa, non si può, non vale la pena di scrivere. Forse era questo l’approdo naturale, inevitabile, lucidamente perseguito, della trilogia di Rachel Cusk. E la scena con la quale il libro si chiude, tanto banale quanto desolante, ne appare il sigillo.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Adalbert Stifter, Uno scapolo, Elliot 2019 (pp. 120, euro 13)
Campione di una
“mitizzazione inconsapevole del mondo agreste”, esponente dello
“strapaese del mondo absburgico”, “poeta di un idillio campestre
che era essenzialmente una finzione” la quale “poteva trovare una sua
patetica misura soltanto nell’evasione e in una idealizzata e severa vita dei
campi e dei boschi, lontana dai fermenti cittadini”: il profilo di
Adalbert Stifter che Claudio Magris tracciava quasi sessant’anni fa nella sua opera
prima (Il
mito absburgico nella letteratura austriaca moderna), cozzava
consapevolmente con i giudizi espressi da Nietzsche e da scrittori come Thomas
Mann, secondo il quale Stifter (1805-1868) è da considerarsi “uno dei narratori
più strani, profondi, celatamente audaci e travolgenti della letteratura
universale”. Non a caso, infatti, destinato a ispirare autori della levatura di
Sebald e di Auden.
Anche limitandoci a questo
racconto – minore rispetto a quelli
più spesso ristampati di Stifter – si deve ammettere il peso di un certo
tradizionalismo, che sembra circoscrivere l’orizzonte entro il quale si muovono
i personaggi, i quali si realizzano o sembra possano realizzarsi solo nel
matrimonio e nella famiglia e più in generale in un senso della misura che
sconfina in una sorta di eroismo della moderazione. Senonché, in quello stesso
orizzonte fa le sue prove un senso del limite, una accettazione della propria
finitudine che si traducono in una prosa limpida, in un periodare pacato, in
pagine che recano un’impronta inconfondibile.
La lucidità, e insieme la delicatezza, con la quale la gioventù del protagonista – semplice e generoso, alle soglie del passaggio al mondo adulto – si confronta con la vecchiaia dello zio misantropo – e, almeno apparentemente, avaro anche del poco tempo che sente rimanergli –, ma ancor più la relazione fra gli stati d’animo e i paesaggi diffusamente descritti, ma raccontati sarebbe meglio dire (non dimentichiamo che Stifter era anche pittore) testimoniano di uno sguardo per il quale vicenda e personaggi sono tramite di riflessioni il più delle volte solo implicite ma pazientemente suggerite al lettore: l’individuo, e la sua storia, non possono che misurarsi con un Tempo e una Natura sostanzialmente indifferenti, in cui tuttavia misteriosamente si riflettono, hanno uno spazio, indefinibile ma certo, le gioie e i dolori, le speranze e le disillusioni dei singoli. La misura, l’attesa, la pazienza, la pacatezza non sono allora virtù astratte, regole d’una morale pavida e rinunciataria, ma atteggiamenti all’altezza del destino che agli uomini è dato di vivere.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Maurizio Pagliassotti, Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina, Bollati Boringhieri (pp. 218, euro 16)
Articoli
saggi romanzi sulla tragedia dei migranti nel Mediterraneo; quasi nulla su
quelli che cercano di raggiungere Besançon da Bardonecchia, la Francia
dall’Italia: “in fuga sulla rotta alpina”. Solo l’episodio dello sconfinamento
dei gendarmi francesi nella caccia all’uomo cui si dedicano fra quei monti ha
fatto notizia, non così i frequenti ritrovamenti dei resti di coloro che senza
il minimo equipaggiamento tentano di superare il Colle della Scala in pieno
inverno. E intanto, cittadini attempati si sono improvvisati passeurs, un prete e un pastore valdese
si sono messi di mezzo, molti No Tav hanno dato un nuovo obiettivo alla loro
passione civile: “Ho visto con i miei occhi – riferisce l’autore – gli stessi
uomini e donne tagliare con le tronchesine delle protezioni di ferro e tenersi
in casa, per mesi, sconosciuti che poi se ne sono andati senza un saluto (…). Le
stesse mani che hanno gettato sassi contro lo Stato hanno salvato lo Stato
dalla vergogna di avere una distesa di cadaveri ripugnanti tra i suoi boschi”.
Il
racconto di episodi agghiaccianti si intreccia con giudizi che non lasciano
adito a distinguo: “Il ragazzo africano che attraversa le Alpi è la plastica
manifestazione del mondo che verrà, che ci piaccia o no. Solo un amore, una
passione incontenibile, che travalica ogni sorta di rischio può muovere un
essere umano ad affrontare un pericolo semplicemente non descrivibile.
Un’attrazione inesorabile verso un sistema che noi vogliamo chiuso ed
esclusivo, barricato e difeso da inutili eserciti, ma alla fine indifendibile
di fronte a questa determinazione. (…) La tragedia di questo incredibile
momento storico in Italia, ma vale per tutti gli altri mondi uniti dalla ferrea
volontà della decadenza che prende il nome di ‘sovranismo’, un mondo ormai
veramente senza confini, è data dalla fuga di questo ragazzo e dalla nostra
folle cecità che vede in lui (…) un nemico”.
“Soltanto quando questo Inferno – e quello che questo libro racconta lo è certamente – trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”: la constatazione di un critico letterario come Gian Luigi Beccaria (Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019) trova nel libro di Pagliassotti una conferma inequivocabile: “Quei morti in mare, centodiciassette annegati negli abissi e nella notte. Quando leggerete queste righe non li ricorderete nemmeno più, sostituiti da altri, più freschi, più numerosi. Ma oggi, io, li vedo: non c’è nessuna differenza tra quel mare di acqua e questo mare di neve”, in cui si muovono, e muoiono, “naufraghi a 2000 metri di quota”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Gian Luigi Beccaria, Il pozzo e l’ago. Intorno al mestiere di scrivere, Einaudi 2019 (pp. 160, euro 18)
Scrivere
è trovare il modo di “scavare un pozzo con l’ago”, secondo un modo di dire
turco riferito da Orhan Pamuk. Non è tanto il perché e il per chi si scrive,
infatti, ma il come a interessare gli scrittori, gli scrittori veri, quelli
cioè che sanno bene di dover fare i conti con innumerevoli “padri letterari”, nel
contempo consapevoli che ormai da tempo “è caduta quell’idea durata secoli
secondo la quale sembrava ci fossero più cose dentro ai libri che fuori”. Si
tratta di non ignorare la tradizione, quindi, ma neanche il fatto che il
consenso che circondava lo scrittore, frutto di un mandato sociale certo, è
tramontato.
Non
è un trattato sistematico né una ricostruzione storica, e tantomeno un manuale
di scrittura (“ce ne sono troppi e quasi tutti poco utili”) il libro di
Beccaria, linguista e critico letterario, ma un insieme di osservazioni su
pochi autori (“quelli che conosco”) e il loro modo di svolgere il mestiere
scelto. Il mestiere di scrivere. Un mestiere che diventa “una specie di vizio”:
“ti pare che il mondo non esista se tu non scrivi”, ammetteva Maria Corti, consapevole
come tanti altri autori “di esistere soltanto nella propria scrittura”. Perché
– non meno recisamente dichiara Pennac – “L’uomo costruisce case perché è vivo
ma scrive libri perché si sa mortale”. Sono, queste, solo alcune delle
citazioni che Beccaria cuce in un
discorso che prendendo a prestito la voce degli autori più disparati si fa via
via appassionante, per chi scrive, ma anche per chi – forse saggiamente – si
limita a leggere e rappresenta l’interlocutore essenziale dello scrittore.
Perché, anche se non si scrive più per i posteri – come faceva Petrarca – e
qualcuno, come Calvino, giungeva addirittura a riconoscere che “si scrive
perché non si sa fare niente di meglio”, di fatto “sullo sfondo della mente di
chi scrive restano sempre i lettori”. “Scrivo perché mi piace essere letto”,
confessa candidamente Pamuk, mentre Beccaria, da parte sua, si dichiara
“propenso a credere che sia la grande attrazione del fare ciò che lega un autore al suo mestiere, pari al gusto con cui
un artigiano trova la sua realizzazione di homo
faber applicandosi quotidianamente”. Lo stesso Calvino ne conveniva: “io
resto uno scrittore di impianto artigiano, mi piace fare delle costruzioni che
chiudono bene”. Sulla stessa linea Primo Levi, che concepiva “lavoro pratico e
scrittura come attività molto vicine”. Anche nel fatto di non chiedere
semplicemente estro e fantasia, ma piuttosto una “fatica controllata”, che si è
imparato ad affrontare, a gustare persino, leggendo i libri migliori degli
altri, perché “uno scrittore, quando legge, pensa anche alla sequenza delle
pagine a venire che scriverà in proprio”.
È un elogio dello scrivere quello che emerge dal testo, da una selezione attenta dei punti di vista che Beccaria conduce a conclusioni esemplari di autori come Varga Llosa, serenamente convinto che “lo scrittore sente profondamente che scrivere è la cosa migliore che gli sia capitata e possa capitargli, perché scrivere significa per lui il miglior modo possibile di vivere”.
Non
cambiano l’andamento del discorso né il metodo adottato quando l’autore passa a
considerare il “lavorio sul testo” una volta scritto e, in particolare, la
preziosissima e imprescindibile “arte del levare” (“Più facile scrivere che
cancellare”, avvertiva Camillo Sbarbaro: “il merito dello scrittore è in ciò
che riesce a tacere”); quando dedica pagine alla scrittura poetica, o alla non
pianificazione che presiede molto spesso alla scrittura, anche narrativa (“La
maggior parte degli scrittori non segue una mappa, ma procede con una bussola”);
al ruolo dell’invenzione e dell’immaginazione anche laddove sembrerebbe che
l’autore non faccia che ricordare, riferire.
Certo,
ogni discorso, non escluso questo sul mestiere di scrivere (e di leggere…),
deve fare i conti con l’epoca in cui si svolge: è innegabile che “di un’opera
narrativa il lettore medio oggi ama
più l’intrico, non le impalcature della costruzione e le raffinatezze dello
stile, ma – assicura l’autore – “le mie annotazioni non nascono dalla malinconia di chi guarda indietro”:
“anche la modernità (ha) saputo cogliere il respiro dell’universale, e lo ha
fatto esaltando il minimo”, come ha fatto Magris in Danubio, per esempio, ove risulta “manifesto che la pienezza del
vivere non si ritrova tanto nel maestoso e nell’eclatante, ma si annida nelle
piccole cose, nei gesti e nel dettaglio apparentemente insignificante”.
Ma anche di un’altra circostanza occorre tener conto: “Siamo totalmente immersi, come mai era accaduto prima, in un mare di racconti e riprese in tempo reale”, “valanghe di descrizioni e immagini” che “cadono su di noi già anestetizzati”. Si pensi alle tragedie nel Mediterraneo. Occorre allora una consapevolezza del tutto nuova per rendersi conto che “soltanto quando questo Inferno trova una narrazione, soltanto allora conquista un di più di realtà e di forza”. Perché “il realismo della cronaca svanisce troppo rapidamente. La letteratura ha maggiore durata”. La letteratura, ma non tutto ciò che viene pubblicato: “Occorre districarsi – infatti – tra una selva di prodotti spesso scadenti, nei quali prevale lo stile di non avere stile, pagine tirate via alla svelta, che mimano l’oralità del come viene viene”. Memori di quanto Leopardi scriveva nel suo Zibaldone: “Chi scrive senz’arte, non è semplice”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Fuani Marino, Svegliami a mezzanotte, Einaudi 2019 (pp. 168, euro 17)
“La paura di quanto poteva accadermi non superava quella di quanto mi era già accaduto. Allora ho preso coraggio e mi sono buttata. (…) sono caduta, ma non sono morta.”
È la cronaca di un tentato
suicidio ad aprire il libro. Il proprio suicidio. Ma raccontato come fosse
quello di un altro. E da un altro
riferito: “Come raccontano le oltre mille pagine della cartella clinica – due
grossi faldoni che ancora oggi conservo nella libreria di casa – per i
successivi mesi sarei rimasta inchiodata al letto.”
Dunque, una prima
osservazione sul romanzo non può che riguardare la scrittura. Asciutta,
precisa, distaccata: forse si deve scrivere così per raccontare la propria
morte… “Del reparto di rianimazione ricordo la sete, il bip delle macchine e
l’affanno dei respiratori. La sensazione che accanto a me qualcuno stesse per
morire, sempre.”
Poi, il ritorno alla coscienza: “Ero consapevole di quanto avevo fatto? Sì. Ma non me ne rammaricavo. (…) Ho tentato di uccidermi il 26 luglio 2012, avevo da poco compiuto trentadue anni e da neppure quattro mesi partorito la mia prima e unica figlia, Greta.” Ma non si è trattato di un gesto inatteso. La tragedia era annunciata: “qualcosa di terribile mi era accaduto, qualcosa di cui non avevo colpa e che avevo dovuto affrontare (…) cominciai a pensare che raccontare la mia storia fosse nello stesso tempo un dovere e un’opportunità.” Ma perché aveva voluto morire? La domanda obbliga a un nuovo punto di vista: si poteva parlare dell’atto come fosse stato compiuto da un altro, si può parlare delle sue ragioni solo calandosi nella propria storia. “Non un’unica causa ma una concatenazione di cause mi hanno fatto desiderare la morte. La mia testa, forse predisposta dalla nascita, ha incontrato situazioni sfavorevoli fino al punto di rottura, molto più avanti nel tempo”. È la “storia remota” a dover essere sondata, perché “è difficile liberarsi dal bambino che siamo stati. La nostra infanzia ci insegue e ci condiziona.”
Si coglie, in questa presa di posizione che ha mosso l’autrice e orienta il lettore fin dalle prime pagine, un modo di rapportarsi al problema vicino all’esperienza di altri scrittori che in tempi recenti hanno messo a tema la loro condizione. Emanuele Trevi per esempio (Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018), il quale non ha problemi ad ammettere che “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Per cui la depressione non appare semplicemente una questione con cui fare i conti, da risolvere in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, Einaudi 2018 –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue – in Trevi – alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”.
Se in Trevi
l’origine del proprio stato trova una definizione filosofica, esistenziale, in
Marino chiede di essere rintracciata nella vicenda personale, e dunque
familiare, innanzitutto. A partire da quel nome, Fuani, nel quale i genitori
vollero riunire i propri (Furio e Anita): “forse già chiamarmi così
rappresentava un destino (…) Ma in questo mio racconto a posteriori, ogni
dettaglio è destinato ad assumere le sembianze sinistre di un segno
premonitore.” Quel che è certo è che – tipicamente
– già nell’adolescenza la protagonista sperimenta “qualcosa di diverso dalla
comune tristezza: assomigliava più alla perdita di senso.” E non a caso, all’università, si
iscriverà a psicologia, senza per altro alcun interesse per la professione che
avrebbe potuto conseguirne.
Non seguiamo la vicenda di Fuani, da lei raccontata con una precisione pacata che può a tratti ricordare certe pagine di Annie Ernaux, salvo interrogarsi – quando il racconto arriva a dire del primo “esaurimento nervoso” – circa la necessità di “un codice linguistico diverso” quando si vuol scrivere della malattia. Ma ha senso porsi il problema quando la malattia è mentale? “Il mio tentativo – dichiara l’autrice – è questo libro”, la storia di una progressiva perdita dell’orizzonte che circoscrive la normalità, delle sofferenze di una “depressione post partum” che psichiatri freddi e protocollari, da un lato, e dall’altro familiari ben intenzionati ma incapaci di vedere quel che pure hanno sotto gli occhi, non sanno arginare. Poi, la cronaca degli interventi chirurgici, strettamente, volutamente aderente al linguaggio settoriale della medicina: protagonista sono il corpo e le operazioni che su di esso si svolgono; la storia e la soggettività sembrano messe al bando da quanto è accaduto. Ma sembra andar bene così: quello di cui Fuani può finalmente godere è il “sollievo nel non avere responsabilità, nell’essere presa in carico da qualcuno (…) Paradossalmente stavo meglio”. Senonché la pressione della domanda, più o meno esplicita, che gli altri inevitabilmente fanno gravare sulla convalescente – perché l’hai fatto? – va crescendo, si fa quesito interiore, ineludibile: “Mi ero diretta verso quanto la società si aspetta da una donna di trent’anni – cerca di mettere a fuoco Fuani –: la carriera e contemporaneamente la creazione di una famiglia. E questo mi aveva distrutta.” Ma “ci si abitua a tutto (…) e ci si rialza”, deve constatare nei mesi della riabilitazione, anche grazie al provvidenziale incontro con una dottoressa che la convince dell’essenziale: “Tu non sei quello che hai fatto.” Che è come dire: non c’è solo l’“etichetta psichiatrica” – “disturbo bipolare di tipo due” –, ma ci sono anche il proprio “temperamento” e la propria “visione delle cose”, e la necessità di accettare una “convivenza difficile”: quella con se stessi. Una necessità inaggirabile: “credere che questo libro migliorerà le cose significherebbe raccontarsi delle favole.” Ma la determinazione a fare lucidamente i conti con se stessi non impedisce di vedere che quello di essere felici, nei paesi occidentali almeno, da diritto si è fatto dovere e che “questa visione rende particolarmente difficile accettare condizioni come la malattia in generale e la depressione ancora di più.” E un romanzo, la letteratura più della saggistica, possono servire a anche a questo: a contrastare questa difficoltà, sempre più stridente in una società in cui la depressione sembra, a livelli e secondo declinazioni diverse, rappresentare un tratto costitutivo. Ne è consapevole l’autrice, fin dal momento in cui ha avuto l’idea del romanzo: “compresi che questo libro non era solo il racconto di una cosa terribile che mi era successa, ma anche un gesto politico, almeno nelle intenzioni. C’entrava qualcosa che aveva a che fare col concetto di pride (…): IO SONO COSĺ.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Lia Piano, Planimetria di una famiglia felice, Bompiani 2019 (euro 15, pp. 158)
Oltre al cognome, quel planimetria nel titolo mette sull’avviso: non si tratta di un’omonimia. L’Autrice è figlia di Renzo Piano, e fra i meriti del romanzo c’è anche quello di darci un suggestivo ritratto dell’architetto da giovane. Quanto al titolo, è ovviamente Tolstoj a venire in mente, e il famoso incipit di Anna Karenina: contraddetto, si direbbe, in questo caso. Anche le famiglie felici sono felici a loro modo, questa di sicuro. Anche se ad un’altra famiglia è inevitabile pensare: quella di Gerald Durrell. Anche nella famiglia Piano si muove infatti una donna tuttofare di estrazione popolana e saggezza nativa; l’ultimogenito è il narratore e deve fare i conti con i fratelli maggiori (“Essere la più piccola di una famiglia numerosa significa arrivare quando l’esperienza ha già operato la sua lenta erosione sulle certezze. Quando due più due non fa più quattro”); gli animali occupano un posto di tutto rispetto, che siano cani (quatto) o galline (cinquanta), come quelle per cui il geniale architetto, per altro quotidianamente assorbito dalla costruzione di una barca, concepisce l’idea di un pollaio la cui progettazione sarà partecipata, aperta al contributo di ciascuno dei familiari, nessuno escluso. Nel frattempo, la planimetria di questa casa – sulle cui porte, coerentemente con la comune ispirazione libertaria, campeggia la scritta “Vietato vietare” – evolve in conseguenza del delinearsi delle attitudini e degli hobby fra loro diversi che gli abitanti via via coltivano. Tanto intensamente da non aver tempo da perdere con quel che accade fuori dalla casa: “Maria – la bambinaia cuoca cameriera – fu incaricata di tenere i rapporti tra noi e il mondo, e farci un riassunto di cosa capitava là fuori”. Un romanzo divertente, scritto con spirito, con un finale esplosivo… di cui non è il caso di dire qui.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Goffredo Fofi, L’ oppio del popolo, Elèuthera 2019 (pp. 166, euro 16)
“Per
uno come me – conclude l’autopresentazione che è anche un rapida autobiografia
intellettuale ad apertura del libro – e magari più intelligente e meno
sconcertato di me, la cultura appare oggi come un campo di battaglia ancora
possibile, ma fuori da ogni illusione di vittoria e partendo dalla
constatazione, per cominciare, di quanto sia stato facile per il potere servirsi
della cultura (…) cambiando di segno alla sua storia e illudendo milioni di
persone che di cultura vivono di una sua forza ancora liberatoria, non evasiva
e perfino necessaria. Facendone facilmente dei complici della manipolazione,
del dominio”. È la sintesi del discorso, con un’appendice decisiva, su quel che
occorre fare ma non tutti possono: “È un lavoro, ancora una volta, di cui
devono farsi carico minoranze salde nelle loro persuasioni, convinte della
necessità e dell’urgenza dell’azione, nauseate dalle compromissioni
universitarie e affini, dalla lotofaga insipienza dei predicanti e
idealizzanti, degli accettanti”.
Il
bilancio pesantemente dello stato delle cose è infatti anche qui decisamente
negativo: “Scrivo queste pagine con apprensione, convinto della loro inutilità,
per dovere di testimonianza e nella speranza di convincere qualche giovane
lettore della gravità della situazione che stiamo attraversando e della
ignobiltà delle proposte che gli adulti vanno facendo, chiedendogli di
diffidare anche dei miei discorsi”.
Il
discorso che da questi presupposti si sviluppa dimostra come l’identificazione
di un nuovo oppio del popolo nella
cultura – intesa in tutte le forme assunte, a partire dagli anni Ottanta
soprattutto: dall’informazione, oggi detta comunicazione,
all’arte e alla letteratura, dal teatro al cinema, dall’editoria alle altre
branche dell’industria culturale (festival compresi), dalla scuola al
volontariato nelle variegate forme del terzo settore – non sia il frutto di
quell’ “esasperazione personale” che pure l’autore ammette, ma di un’analisi
dettagliata che non solo la vastità dei riferimenti ma anche lo stile adottato
– fatto di giudizi inappellabili e riprese frequenti ma sempre pertinenti e di
un tono che unisce l’invettiva alla considerazione scettica – non consentono di
rendere in una nota di lettura.
Ognuno può trovare in queste pagine argomenti che lo toccano da vicino. Chi si prova a scrivere, ad esempio, si troverà a riflettere sulla necessità di “guardare con perplessità o sconforto alle illusioni degli scriventi – altra cosa dagli scrittori, secondo la distinzione introdotta dalla Morante – e dei leggenti (spesso molto simili e vicini tra loro, a volte e sempre più spesso la stessa persona) e dunque sull’opportunità di “guardare alla scrittura e alla lettura come a ‘droghe’ non poi così secondarie, grazie alle quali si può diventare certamente più intelligenti ma anche, e pericolosamente, più acquiescenti all’andamento del mondo così come lo guidano i potenti, diventandone passivamente complici”. Perché “Se il verbo non si fa carne, cioè presenza e intervento nella storia per renderla migliore, per riscattarne la tragedia, è grande il rischio che rimanga inerte chiacchiera, ciarla, evasione. E, a ben guadare, colpa”. Ma più in generale, a trovare in questo libro motivi di inquietudine e ragioni di autoesame sono – siamo – tutti coloro che in tesi come quelle espresse da Fofi in varia misura si riconoscono senza per questo avvertire, tuttavia, la necessità indilazionabile di cercare un sbocco pratico, politico, collettivo alle loro convinzioni. A tutti costoro l’autore rivolge un invito preciso, anche se non certo declinabile in soluzioni specifiche: “diamoci scopi adeguati ai bisogni del tempo in cui viviamo, ai bisogni di questo tempo. Se non lo facciamo, siamo semplicemente dei complici e dei vili. Magari intelligenti, magari bravissimi, (…) teste che scrivono e dicono cose di grande interesse e perfino utili, ma indifferenti”, nella sostanza. Non distinguibili da coloro che “Non credono più in nessuna possibilità di contrastare la china, anche se sanno che è una china mortale. Si accontentano di quel che passa quel che chiamano Storia” e “Finché dura, riescono persino a trarre da questo una sorta di drogata felicità”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Marina Paino, Il Barone e il Viaggiatore e altri studi su Italo Calvino, Marsilio 2019 (pp. 199, euro 13)
Per i numerosi cultori dell’opera di Italo Calvino la pubblicazione di un libro sul loro autore prediletto è sempre un’occasione per tornare a scoprire punti di vista nuovi, da condividere o con i quali misurarsi comunque. In molti casi, il Calvino che in questi studi si ritrova risulta una figura stilizzata, se non ridotta allo scrittore più interessato ai meccanismi dello scrivere che al piacere del narrare, ed è appunto a riequilibrare questa tendenza critica che arriva questa rilettura del Barone rampante e di Se una notte d’inverno un viaggiatore, i due romanzi più lunghi di Calvino, tanto lontani per impostazione narrativa – tradizionale il primo, sperimentale il secondo – quanto accostabili per l’“impronta volutamente coinvolgente” e soprattutto per la scelta di raccontare “vite di personaggi in qualche modo sovrapponibili a quella dell’autore”: in due sensi. Innanzitutto perché vi si possono rintracciare riferimenti autobiografici, anche se non espliciti, ma connotati da un’indubbia importanza esistenziale per l’autore; in secondo luogo, perché vi traspare una “passionalità” che si rivela nelle “più riuscite rappresentazioni dell’amore e dell’eros che Calvino abbia mai affidato ai suoi libri”. Se è soprattutto nel Viaggiatore che si possono leggere i diversi aspetti dell’esperienza di scrittore, di “uomo di casa editrice” e, certamente, anche di “teorico della letteratura” – perennemente attratto da Le mille e una notte, luogo della “basilare e partecipata sovrapposizione tra l’esistenza e la fruizione di storie” –, è nel Barone che non solo è facile scorgere in Cosimo una “proiezione” dell’autore, ma è anche possibile ripercorrere allusioni alla propria vicenda personale e “velate riscritture del (suo) romanzo familiare”. È questa la traccia di ricerca che si segnala per un’originalità e un’acutezza di sguardo che raramente si riscontra in altri saggi sull’opera di Calvino. Senza nulla togliere alle “Tre letture per il Viaggiatore”, che costituiscono la seconda parte del libro, né ai tre studi raccolti nell’Appendice, infatti, è nella prima parte – dedicata al Barone rampante – che ritroviamo una rilettura per alcuni versi sorprendente. A partire da “un passo poi non confluito nell’edizione del libro, nel quale Biagio, il narratore, richiama un tratto della personalità del fratello: “una componente di rimorso per aver sottratto la sua vita all’immediata comunanza con gli uomini”, altra faccia del suo ininterrotto tentativo di “conquistare un equilibrio tra l’arbitrio ingiustificabile della sua volontà di star sugli alberi e una giustificazione sociale”. Al di là dell’eco della vicenda di Calvino, con il coinvolgimento diretto nell’attività di partito comunista – e più in generale in quella “lunga dialettica fra ‘militanza’ e ‘fantastico’” richiamata da un altro autorevole lettore: il Carlo Ossola di Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove (Vita e pensiero 2016), – è proprio in posizioni come questa, nella loro mai risolta complessità – o contraddittorietà, se si preferisce – che risiede uno dei motivi per cui lo scrittore resta attuale, testimone di un modo d’essere che non ha certo perduto le sue ragioni politiche e culturali e, più in generale, esistenziali. Ragioni riassumibili nella convinzione che “per essere con gli altri, la sola via (è) d’essere separato dagli altri”.
La sensibilità dell’autrice si evidenzia tuttavia soprattutto laddove ci accompagna a riconsiderare il rapporto di Cosimo con il padre da un lato e la madre dall’altro e, parallelamente, quello di Calvino con i propri genitori, e dunque la passione agronomica e botanica che li aveva contraddistinti, le loro scelte di vita: “eredità genitoriali che lo scrittore sembra abbracciare e da cui sembra allo stesso tempo prendere le distanze”, e che nel romanzo articola nella figura di un figlio che metaforicamente fa propria la passione per la natura del padre reale – nel mentre lascia su uno sfondo “inconcludente e macchiettistico” il genitore romanzesco – e rivela invece una vicinanza profonda e sostanziale con quella madre che, da Generalessa austera e distaccata, diventa fulcro di “una storia d’amore riscoperto”, lasciando emergere un’insospettata convergenza fra la determinazione del figlio a rispettare fino all’ultimo il suo stile di vita e il costume della madre reale, per la quale “il giardino, il volontario confino, la passione che si trasforma in dovere” erano state le costanti di una vita.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Viola Ardone, Il treno dei bambini, Einaudi 2019 (pp. 239, euro 17,50)
“Siamo i bimbi del Mezzogiorno. La solidarietà e l’amore degli emiliani dimostra che non esistono Nord e Sud, esiste l’Italia”: è la scritta che compare in una foto ricordo di un fatto poco noto. Nel 1946, il Partito Comunista organizza il trasferimento e il soggiorno di un anno di bambini del Sud presso famiglie emiliane per toglierli dalla miseria che appena dopo la guerra si è fatta laggiù ancora più drammatica.
Questo il fatto. Ma è innanzitutto il
linguaggio adottato a farne materia di romanzo. Il linguaggio e chi lo parla: è
di uno di quei bambini, Amerigo, il punto di vista da cui la storia viene
narrata, a partire dal tragitto che lui e la madre fanno per andare a sentire
dell’inaspettata opportunità: “Mia mamma avanti e io appresso. Per dentro ai
vicoli dei Quartieri spagnoli mia mamma cammina veloce: ogni passo, due miei.
Scarpa sana: un punto; scarpa bucata: perdo un punto. Senza scarpe: zero punti.
Scarpe nuove: stella premio. Io scarpe mie non ne ho avute mai…”.
La madre Antonietta, che vive di espedienti e
di scambi di favori con un malavitoso,
chiusa nel suo realismo disperato; Maddalena, l’attivista che organizza il
viaggio superando la diffidenza della donna; e poi altre donne, lassù in
Emilia: Derna, l’affidataria, un’altra attivista, e la cugina Rosa, nella cui
casa Amerigo passerà la maggior parte del tempo fra i figli di lei (Rivo, Luzio
e Nario): il romanzo mette in scena figure, di donne soprattutto, delineate con
pochi tratti, ma che nel corso della vicenda acquisiranno sostanza e fisionomie
inconfondibili, destinate a fissarsi nella memoria del lettore.
È là, lontano da casa, che Amerigo, oltre che poter calzare scarpe decenti, conoscerà la musica, e la vocazione che ne farà un musicista, un giorno, ma intanto, passato il periodo stabilito, deve tornare: superata la paura con cui era partito (indotta da voci come quella che li avrebbero portati in Russia, lui e gli altri) e lo spaesamento dei primi tempi, è poi il dover tornare a confrontarsi con lo squallore senza speranza del basso dove la madre ha continuato a vivere e della bottega di calzolaio – ancora le scarpe… – in cui il bambino sarà messo a lavorare a imporsi, a suscitare l’impressione di essere spezzati in due metà. Non più là, ma neanche qui, come un tempo. E allora la fuga, il ritorno al Nord, e una vita che andrà per la sua strada e solo molti anni dopo riporterà il protagonista a Napoli, dove la madre è appena morta, ma la città non lo accoglie, né come un “turista” né come “uno che appartiene alla città”: “Forse – conclude Amerigo – sarò sempre solo questo: uno che è andato via”.
Avevamo già conosciuto sentimenti simili di irrecuperabile lacerazione, nell’Arminuta di Donatella Di Pietrantonio, ma è il pathos de La storia di Elsa Morante a risuonare via via in queste pagine.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Janne Teller, È la mia storia, Feltrinelli 2019 (pp. 130, euro 14)
Il riferimento è esplicito: il Mann che fa
valere le sue ragioni a proposito dei Buddenbrook,
“un libro che viene sempre tirato in ballo in ogni processo scandalistico –
scriveva in Bilse e io, nel 1906 –,
per il motivo che i suoi personaggi s’ispirano in parte a persone reali”,
quando dev’essere chiaro che “La realtà che un poeta utilizza per i suoi fini
può ben essere il suo mondo quotidiano, le sue persone più vicine e care (…)
ciò nondimeno esiste per lui – e dovrebbe esistere per il mondo! – una differenza
abissale tra la realtà e la sua costruzione poetica: la differenza essenziale,
cioè, che separa il mondo della realtà da quello dell’arte”.
Non è un grande scrittore a porsi il problema,
in questo romanzo, bensì l’editore di un autore che grande non è, ma di sicuro
incontrerà il favore del pubblico in un mondo come quello di oggi in cui “i
media sono tutto, e l’assenza di scrupoli dello scrittore sembra fatta apposta
per la luce dei riflettori”.
Eppure il problema si pone, tanto più che è il
tema del discorso che il protagonista deve pronunciare l’indomani mattina: “Si
ha il diritto di rendere pubblica una storia che ci è stata raccontata in modo
confidenziale solo perché ci si è presi la briga di cambiare i nomi?
Trasformare la realtà in narrativa dà carta bianca?”, si chiede, e la riposta
che trova sembra quietarlo: “L’arte non è la realtà – sosterrà –. L’artista
attinge dalla realtà per creare una riflessione narrativa sulla realtà”.
Ma la questione si complica: il passato non passa, perché possiamo sopravvivere a quello che ci fanno gli altri, non a quello che noi facciamo a loro. Non solo non passa per la donna che è stata da lui poche ore prima, diffidandolo dal pubblicare il romanzo che ha sul tavolo essendo che quella è la sua storia, ma coinvolge di fatto anche l’editore. Nel suo studio, alle prese con la stesura del discorso di cui leggiamo via via le argomentazioni, il problema di coscienza rappresentato dalla decisione se pubblicare o no quel romanzo deborda in un riesame complessivo della sua vita, della sua carriera, del suo matrimonio e delle sue molte relazioni parallele. La sua esistenza ha finito col trovare, di fatto, un termine di confronto ineludibile nella certezza morale di quella donna che si ritiene illegittimamente chiamata in causa dal romanzo. La scrittura di Teller restituisce il ritmo spezzato di un flusso di coscienza che torna continuamente su un dilemma inestricabile, si contraddice, rettifica, crede di aver trovato la soluzione per poi vederla sfarinarsi e tornare quindi ad arrovellarsi daccapo: “I Buddenbrook sarebbe un romanzo peggiore se la famiglia protagonista non fosse riconoscibile? Se i fatti narrati non si svolgessero a Lubecca, ma ad Amburgo?”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Patrik Svensson, Nel segno dell’anguilla, Guanda 2019 (pp. 275, euro 18)
L’esistenza misteriosa, e per certi versi ascetica, dell’anguilla è al centro del discorso, ma si intreccia, a capitoli alterni, dall’inizio alla fine, con un altro enigma, naturale quanto insondabile: quello del rapporto fra un padre e un figlio. È anche un romanzo di formazione, questo romanzo-saggio che sa incrociare la storia degli anni in cui i due hanno pescato insieme anguille e la progressiva comprensione – ad opera di filosofi, naturalisti, scienziati – dell’esistenza di questi animali longevi e ostinati, solitari e impavidi, che continuano attraverso i secoli, i millenni, il loro peregrinare fra il Mar dei Sargassi e i fiumi europei, fra l’acqua salata e l’acqua dolce per poi tornare a riprodursi, e morire – ma la faccenda non è tuttora chiara – nella prima. Un viaggio che questi pesci – a lungo non considerati tali – hanno continuato imperturbabili di fronte alle guerre che hanno scosso il mondo come alla curiosità umana. Un tempo lento, circolare, che sembra in qualche modo imporsi a chi con le anguille ha a che fare, perché pescarle non tollera la fretta: “La pazienza era il primo requisito che bisognava avere. Dovevi donare all’anguilla il tuo tempo”. E stare zitti: “Quando eravamo giù al torrente, non mi ricordo che parlassimo d’altro se non di anguille e del modo migliore per catturarle. O meglio, non mi ricordo proprio che parlassimo. Forse perché in effetti non lo facevamo mai. Forse perché ci trovavamo in un luogo dove il bisogno di parlare era limitato, un luogo che per sua natura poteva essere meglio apprezzato in silenzio. (…)
Bisognava stare zitti per diventare una parte del tutto”. Anche se lei, l’anguilla, restava sempre al di là: “Ogni volta che pescavamo un’anguilla, la guardavo negli occhi, cercando di cogliere un frammento di quello che aveva visto. Ma nessuna ricambiò mai il mio sguardo.” Ma neanche quello indagatore degli studiosi. “Gli uomini che nel corso dei secoli hanno considerato il dilemma dell’anguilla un problema da risolvere – passando da una domanda all’altra: è un pesce? è sessuata? perché quel lunghissimo ritorno al luogo d’origine per riprodursi? – sono sempre stati fedeli, in modo quasi amorevole, anche all’enigma stesso”. Il che non significa che “l’uomo, prima o poi, troverà una risposta. Basta dargli tempo”. Non fosse che “il problema è che per l’anguilla il tempo sta per scadere”, e “l’ultimo interrogativo, il più urgente, che riguarda l’anguilla” è ormai un altro: “perché sta morendo?”. Diversi, e fra loro intrecciati, i fattori – tutti umani – di un’estinzione imminente, “che trascende il normale progresso dell’evoluzione e della vita”, e non si lascia contrastare da misure risolutive: l’anguilla, a differenza del salmone, non si è mai riusciti ad allevarla, a farla riprodurre in cattività. Mentre “Il processo in atto corre incredibilmente veloce” e la sua portata è ormai riconosciuta: “se per le precedenti estinzioni di massa – cinque – si parlava di eventi che avvennero in milioni di anni, adesso si parla di secoli, ma ciò che rende l’odierne estinzione di massa davvero unica è che per la prima volta nella storia c’è un responsabile vivente”. Che pure ha convissuto a lungo con l’anguilla pur pescandola e cibandosene, come per anni hanno fatto quel padre e il figlio che “nel segno dell’anguilla” ha costruito il suo rapporto con il mondo, il suo incanto, i suoi misteri.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Fabio Geda, Una domenica, Einaudi 2019 (pp. 192, euro 16)
“Aveva sessantasette anni ed era vedovo da otto mesi,
durante i quali aveva scoperto di aver prestato nel corso della vita più
attenzione alle cose urgenti che a quelle importanti; ma a tale proposito, oramai,
non c’era molto che potesse fare, se non dimostrare a se stesso e ai figli di
saper attraversare il resto del tempo distinguendo con maggiore consapevolezza
le une dalle altre”: nel ritratto del pensionato ex ingegnere di ponti per
lunghi periodi lontano dalla famiglia ci sono già la storia e il suo
significato. Riempire la casa vuota invitando a pranzo, una domenica, la figlia
maggiore con la sua famiglia, cucinando lui come aveva sempre fatto la moglie.
La figlia che sta più vicino – Biella, non troppo distante da Torino. Il figlio
è lontano, l’altra figlia sta a Roma: Giulia, la voce narrante. Figli lontani,
vedovi soli: il protagonista ma anche la donna che incontra ai giardini a
sorvegliare il figlio, skater spericolato, dopo che il pranzo è andato a monte,
per un piccolo incidente di una delle nipoti. E allora, tutte quelle buone cose
preparate come a rievocare la tradizione familiare ravvivando una tavola ormai
deserta? Di qui l’invito a Elena e al figlio Gaston. Un gesto gratuito, e a suo
modo necessario.
Come in tutti i romanzi migliori, fra i personaggi se ne
aggira uno senza volto, muto, pervasivo: il Tempo. Il tempo passato che emana
dall’agenda di ricette compilata dalla moglie morta, il tempo di quando i figli
erano bambini, il tempo che si porta via la vita e ci mette di fronte al fatto
che “invecchiando si perdono molte cose. Soprattutto cose che non sapevamo di
avere.” Ma c’è il tempo presente a far valere i suoi diritti, e ad offrire
opportunità, sempre che le si sappia cogliere. Con l’umiltà che il vecchio
ingegnere sa mostrare: ascoltando Elena, giocando con Gaston, recuperando –
senza mea culpa, ma con una lucida consapevolezza di quel che è stato – il
rapporto con Giulia che, come accade in ogni famiglia, era stata quella che aveva
subito il peso maggiore della distanza del padre, avvertita anche dai fratelli,
e dalla madre forse, ma fattasi in lei motivo di allontanamento dal genitore.
Un allontanamento che cederà tuttavia a “una nuova complicità” con il padre,
che “nulla (toglie) alle incomprensioni del passato”, ma le rende più
“gestibili”. Perché – e l’osservazione si fa qui messaggio che, per il lettore,
ben si accorda con il Natale imminente – “Non si (tratta) di cancellare o
dimenticare: ma di perdonare”, godendo di quello che occorre saper riconoscere:
“un tempo nuovo”.
E dunque tutto si risolverà, perché i personaggi sanno rispondere a una “comune voglia di racconto”, di condivisione delle vicende vissute e del tempo nel quale si sono svolte e rivivono. Nel racconto, appunto. Un racconto, questo di Geda, nel quale – ha notato Ida Bozzi su La lettura dello scorso 15 settembre – l’autore “non si limita a mettere in campo la classica struttura con l’intreccio principale e i flashback”, ma lascia emergere “un terzo tempo, successivo al pranzo raccontato e a quello dei ricordi evocati, un tempo nuovo che può esistere perché l’invito a pranzo c’è stato” e in seguito Giulia ha potuto conoscere Elena che gliene ha raccontato. È nel tempo della narrazione che tensioni e distanze trovano composizione e insieme un luogo nel quale consistere: la casa, che dopo la morte del padre i figli non si sentono di vendere perché è “Un luogo in cui tornare di tanto in tanto. Per dialogare con il tempo che passa e cercare di farci pace.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Alan Pauls, Trance. Autobiografia di un lettore, Sur 2019 (pp. 136, euro 12)
Il
protagonista è un lettore molto
forte, ma è un po’ tutti coloro che leggono molto.
La
trance del titolo è quella cui la lettura può dar luogo quando sembra che “il
mondo sia sparito con tutto dentro, compreso tutto ciò che (si) ama tranne
quello che (si) sta leggendo”: anche il proprio corpo passa in secondo piano ed
è questa “la prova più irrefutabile dell’intensità della trance in cui cade chi
legge (…): solo ripiegamento e oblio, l’indifferenza quasi zen in cui la
lettura avvolge chi legge, disattivando tutte le funzioni che potrebbero
cospirare contro l’esclusività dell’esperienza”.
L’autobiografia
del sottotitolo – organizzata in brani disposti in ordine alfabetico – parte
proprio da qui: dal fastidio, dall’incubo anzi che l’interruzione rappresentava
già per il lettore bambino, lettore precoce tanto da imitare l’atto del leggere
ancor prima di saperlo fare, e arriva alle riflessioni del lettore attempato
sulle pagine da lui variamente chiosate e sottolineate, prova di una dedizione
durata l’intera vita. “Quando torna ai libri più vecchi che ha – infatti –,
quelli più segnati dalla sua mania di sottolineare, ha l’impressione di
trovarsi fra le mani non un libro ma due: uno, il libro in sé, originale,
intatto; l’altro (…) (che) narra la sua storia di lettore”.
Tra
uno e l’altro capo, osservazioni su che cos’è leggere tanto penetranti e
originali – spesso assonanti con quelle lette in Una meravigliosa
solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna di Lina
Bolzoni (Einaudi 2019) – che vale la pena di seguirle pur attraverso
riferimenti culturali che sfuggono spesso al lettore medio italiano.
Osservazioni
che ci vengono proposte fin dalla esplicitazione iniziale dello scopo del libro
(o “glossario”, come Pauls preferisce chiamarlo): “Dichiarare il debito
incommensurabile che lo scrivere (compulsione strategica) ha con il leggere
(quel vizio gratuito, benefico, generoso)”. Sempre che la lettura sia vera
lettura, consapevole che “in tutto ciò che è scritto c’è sempre qualcosa di non
scritto”, che cogliere il senso di un testo non è come centrare un bersaglio
perché il senso è “qualcosa che non esiste prima”, ma è “qualcosa che nasce e
si fa e si disfa nell’incontro fra un testo e un desiderio di leggere”. È
allora che nasce una reciprocità che dà sostanza alla lettura e le conferisce
la sua “ingenuità provocatoria”, la tranquilla rivendicazione del proprio
anacronismo di attività che impone continuità e concatenamento “in uno stato di
cose in cui moneta corrente sono la simultaneità e il montaggio”, che chiede
una dedizione esclusiva che contrasta radicalmente il multitasking imperante.
Un
elogio del leggere, dunque, che non ignora tuttavia la nota obiezione: leggere
finisce con l’essere uno stratagemma per non vivere, una pratica di fuga dal
mondo. Un argomento con cui Pauls si misura ripetutamente, per arrivare a una
conclusione difficilmente contestabile: “Si legge per vivere quanto per evitare
di vivere; si legge per sapere che cos’è vivere e come vivere; si legge per
fuggire dalla vita e immaginare una vita possibile”. Si legge dovunque e
comunque, come i lettori “rilassati” di Steve McCurry, colti in quel loro
“raccoglimento laico” che sa resistere a guerre, miseria, catastrofi naturali.
Loro, e tutti quanti leggono davvero, fedeli al “modello di ciò che ogni
lettura dovrebbe essere: una pratica (un’etica) della fiducia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Massimo Tedeschi, La maledizione del numero 55. Un’indagine del commissario Sartori da Salò, La nave di Teseo 2019 (pp. 176, euro 16)
Da narratore seriale ormai
consumato – e approdato con questo romanzo a una casa editrice prestigiosa –
l’autore sa da subito mettere a suo agio il lettore, sia quello che per la
prima volta incontra il commissario Italico (Italo, più comunemente) Sartori e
nei cenni che lo inquadrano trova i riferimenti necessari per dargli un volto e
una personalità inconfondibile, sia quello che riconosce il personaggio
avendolo seguito nelle indagini precedenti e prova un’impressione di familiarità
nel ritrovare il caffè Impero dove lui fa sosta ogni mattina per bere il suo
latte macchiato, il cane Argo che lo accoglie affettuoso, la villa che si
intravede dall’altra parte del golfo, a Portese, e calamita lo sguardo del
commissario evocando in lui brividi di desiderio ma anche, in questo caso,
l’inquietudine che travaglia gli amanti tormentati da un disaccordo di cui non
sanno prevedere gli esiti. Già, perché la bella – e agiata, quanto generosa –
vedova Anna Arquati, altra vecchia conoscenza, intende partecipare alla Milla
Miglia che si sta per disputare, suscitando la preoccupazione, ma soprattutto
la gelosia di Sartori, che già se la immagina attorniata da una schiera di
ammiratori.
Ma Salò è solo uno dei luoghi
lacustri che fanno da cornice alla vicenda: sono l’intero Garda bresciano da
Sirmione a Limone – questa la giurisdizione del commissario –, il suo
paesaggio, le sue atmosfere diverse secondo la stagione ad accompagnarci nella
lettura, a darle un sapore che sembra fare dei romanzi di Tedeschi i capitoli
di un’unica storia che si snoda attorno a un lago ora radioso ora grigio e
nebbioso ma sempre capace di suggestioni inimitabili.
La velocità, mito dominante dell’epoca, non si concretizza questa volta negli idrovolanti del Reparto Alta velocità – come nell’Ultimo record – manelle rombanti automobili della Mille Miglia del 1936, di poco seguente alle esequie del poeta del Vittoriale, figura simbolo di quel mito e presenza ricorrente nelle avventure del nostro commissario, fin da Carta rossa, il primo romanzo. Sartori non ha tuttavia tempo di seguire i frenetici preparativi della gara. Ha altro da pensare: dalla morte apparentemente accidentale di uno dei piloti francesi iscritti alla corsa e del suo meccanico all’assassinio di una maga, la famosa Nefertari, al secolo Luigina Stroppa, alle cui capacità medianiche ricorrevano i più disparati personaggi dell’ambiente gardesano.
È a Brescia che
l’indagine conduce Sartori, nello studio del patron della corsa, Renzo
Castagneto, e proprio dal dialogo fra i due – vero pezzo di bravura per
realismo e vivacità, insieme alla descrizione
di Piazza Vittoria alla vigilia della gara: sembra oggi, non fosse per la presenza
del Bigio… – verrà il sospetto circa le cause effettive
dell’incidente mortale. Nelle miserie dell’ambiente borghese della Riviera si
dovrà invece cercare il movente dell’uccisione dell’indovina, un ambiente che
offre all’autore spunti in abbondanza per darci – come nei romanzi precedenti,
si pensi a Villa romana con delitto –
un quadro dettagliato e impietoso di un mondo le cui doppiezze e meschinità
trovavano alimento nel conformismo imposto dal regime.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Brescia nel libro di Pietro Gino Barbieri, ex medico del lavoro
Un libro che ha a tratti il sapore di una narrazione e in altri quello di un saggio: è di un ex operaio della Eternit il giudizio, Nicola Pondrano, autore della nota di prefazione. Un operaio divenuto in seguito dirigente sindacale della Cgil ma anche del fondo per le vittime dell’amianto e dell’associazione dei loro famigliari. Nel suo percorso si rappresenta la vicenda, il dramma anzi, raccontato dall’autore, Pietro Gino Barbieri, medico del lavoro dal 1980: «il dramma prevedibile di una strage prevenibile», come recita il sottotitolo di «Morire di amianto». E prevedibile era davvero, dal momento che fin dagli anni Cinquanta era dimostrata l’associazione causale tra amianto e cancro del polmone e dagli anni Sessanta quella con il mesotelioma maligno, un tumore della pleura e del peritoneo.
Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019 (pp. 320, euro 18)
“La
parola è scritta al contrario sul cofano delle ambulanze perché chi guida le
possa leggere nello specchietto retrovisore. Si potrebbe dire che è scritta per
il futuro – per le macchine che stanno davanti all’ambulanza. Esattamente come
chi sta in un’ambulanza non può vedere la parola ambulanza, noi non possiamo
leggere la storia che stiamo creando: è scritta al contrario, per essere letta
in uno specchietto retrovisore da chi non è ancora nato”.
Sono
passaggi come questo a dirci la differenza fra uno dei molti saggi sul
cambiamento climatico e questo libro, in cui la voce che si leva a lanciare
l’allarme è quella di uno scrittore. Uno scrittore conscio del fatto che il
problema è crederci, alla catastrofe annunciata dal riscaldamento del pianeta,
e si tratta dunque di uscire dallo stato di negazione che – nella nostra
società, la società dell’informazione – si risolve in un non sapere sapendo, in
un sapere ma non fare: “Dobbiamo fare
qualcosa ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi
stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo
scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, immersi
come siamo in una generale crisi della capacità di credere che trova alimento
in un’informazione strabordante di opinioni che offuscano i fatti, dominata da
un presentismo che mina l’idea di futuro.
E
allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non
si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i
nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero
essere superati?”
Non
resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo
precedente Se niente importa. Perché
mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più
appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non
escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento
sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si
mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla
voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia
costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui:
comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire
meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno
meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e
rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il
pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di
origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si
tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.
È
questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi
climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare
Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il
libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.
Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016). Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)
Passa
attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della
propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in
questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli – si staglia sullo sfondo della scomparsa che
questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei
saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).
“Non
sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il
pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla
strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che
sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani
– ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti
sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).
E
invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è
finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca
l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio
padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i
ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a
posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente
tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale,
diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei
campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è
più si può mettere a fuoco: attento ai “valori
qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea
l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo
razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le
“sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella
civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires
di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla
società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la
fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e
questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un
confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi
suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è
stata la cultura”.
A conti fatti, conclude l’ormai ultra
novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia
estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse
pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a
risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza
dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la
memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto
e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.
Cees Noteboom, 533. Il libro dei giorni, Iperborea 2019
“Non
è nemmeno certo che questo sia un vero diario, forse è piuttosto un libro dei
giorni, uno strumento per trattenere qualcosa del flusso dei pensieri, delle
letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”.
Prendiamo sul serio il tentativo che l’autore fa, passata la metà del suo libro, per definirne la natura. Primo, i pensieri: un ininterrotto colloquio con se stesso che non offusca affatto l’attenzione per gli avvenimenti che la cronaca registra. “Provate – constata infatti Nooteboom – a tenervi lontani dal mondo e il mondo vi riagguanterà”. Anche se vi chiedete “Quando si può dire che un fatto sia un evento”. Lo è un incidente ferroviario, ma anche, per uno che si sente “ospite del (proprio) giardino” nella prediletta Minorca, l’upupa che improvvisamente un giorno gli si posa accanto. Ma, appunto, il mondo ti riagguanta: “si presenta sullo schermo: attentati, guerra, omicidi (…) tutto si disegna sul vetro, come se si guardasse lontano, attraverso un tunnel, e i panorami qua fuori e i libri dentro casa non esistessero più”. E non basta aver scritto, aver preso posizione pubblicamente, perché “non sai se sia servito a qualcosa”, forse “è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso”. Senonché, “anche se personalmente sei al sicuro, sei imbrattato della merda della guerra che accompagnerà i tuoi giorni fino alla fine, che tu lo voglia o no”. La guerra e le migrazioni, di fronte alle quali “diventiamo persone diverse senza più rendercene conto. (…) Il faut cultiver notre jardin” – ha scritto Voltaire –. “Io faccio del mio meglio, ma il mio giardino si trova nel mondo, che lo voglia o no”.
Eppure.
Eppure – ecco le altre piste che percorrono queste pagine – i libri, che
restituiscono “il mio autoritratto di lettore”, gli innumerevoli riferimenti
letterari che sono parte dell’esperienza quanto gli incontri che si sono
ricercati sull’onda di una curiosità inestinguibile per le altre culture,
quella curiosità che aveva condotto Nooteboom in Giappone – come testimoniato
in Cerchi infiniti. Viaggi in
Giappone (Iperborea 2017) – e che qui si manifesta come consapevolezza del fatto che
il confronto – come già aveva sottolineato Montaigne – è la via per misurarsi
“con gli aspetti di se stesso che si imparano in un’altra cultura”. Confronto
con gli altri, ma anche con l’Altro, il non umano: dai cactus che aspettano
ogni stagione lo scrittore a Minorca all’asino e alle mucche in cui gli accade
di imbattersi, quella che emerge è una radicale alterità della natura, in cui
“le rose non possono disperarsi”, “semplicemente esistono, non hanno altro da
fare, soprattutto non devono preoccuparsi di noi e dei nostri sentimenti”. Così
come gli amati cactus che si è imparato a distinguere apprendendone i nomi “non
sanno come si chiamano, ma sembra che non gliene importi nulla”.
Se è allo sguardo del calviniano Palomar che a
volte sembra possibile accostare quello di Nooteboom, allo scrittore italiano
si avvicinano anche la curiosità scientifica dell’umanista e soprattutto la consapevolezza delle propria
limitatezza e della propria finitudine, circostanze in cui tuttavia risiede
quella del proprio essere nel mondo, del proprio esserci al di là delle
convenzioni sociali e dei condizionamenti storici, del proprio saper vedere
l’estrema varietà che connota il mondo senza l’illusione di conquistarne una
visione complessiva, obiettiva. Tutt’altro: occorre ammettere che tutto quel
che si vede lo si vede, inevitabilmente, in riferimento a se stessi. Ed è perciò
ineliminabile il mistero. Quello del tempo e della durata, innanzitutto, su cui
– annota lo scrittore – ho imparato che c’è ben poco da dire”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)
La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico” – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.
Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)
C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.
Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila
già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che
continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di
questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”,
“tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia
anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema,
e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”.
Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il
corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita
in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà
che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il
suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso
satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una
cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui
bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla
frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del
vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed
abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”,
capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne
che ritroviamo nello Zibaldone –, nella
vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di
felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del
loro destino di finitudine e infelicità.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione,
fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo
accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla
voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo
– una critica poetante. Una critica,
cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di
lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè
momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con
“un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso
la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo
muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.
Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello
poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli
argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio
di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo –
alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la
concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito
appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.
Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che
così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”,
innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo
cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono
gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine
più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e
alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della
modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la
fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere
che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della
sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale
nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale,
“dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione
dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una
parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo
della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è
irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel
che è perduto”.
Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il
rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o
meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima
riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da
Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di
lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta,
commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in
una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine
che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico
prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della
filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una
lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e
comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena
l’essenza stessa della poesia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
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