Appunti presi nel corso della lettura di libri che hanno lasciato traccia e si segnalano, per ragioni fra loro diverse, fra le pubblicazioni recenti. Leggi di più
Massimo Tedeschi, La maledizione del numero 55. Un’indagine del commissario Sartori da Salò, La nave di Teseo 2019 (pp. 176, euro 16)
Da narratore seriale ormai
consumato – e approdato con questo romanzo a una casa editrice prestigiosa –
l’autore sa da subito mettere a suo agio il lettore, sia quello che per la
prima volta incontra il commissario Italico (Italo, più comunemente) Sartori e
nei cenni che lo inquadrano trova i riferimenti necessari per dargli un volto e
una personalità inconfondibile, sia quello che riconosce il personaggio
avendolo seguito nelle indagini precedenti e prova un’impressione di familiarità
nel ritrovare il caffè Impero dove lui fa sosta ogni mattina per bere il suo
latte macchiato, il cane Argo che lo accoglie affettuoso, la villa che si
intravede dall’altra parte del golfo, a Portese, e calamita lo sguardo del
commissario evocando in lui brividi di desiderio ma anche, in questo caso,
l’inquietudine che travaglia gli amanti tormentati da un disaccordo di cui non
sanno prevedere gli esiti. Già, perché la bella – e agiata, quanto generosa –
vedova Anna Arquati, altra vecchia conoscenza, intende partecipare alla Milla
Miglia che si sta per disputare, suscitando la preoccupazione, ma soprattutto
la gelosia di Sartori, che già se la immagina attorniata da una schiera di
ammiratori.
Ma Salò è solo uno dei luoghi
lacustri che fanno da cornice alla vicenda: sono l’intero Garda bresciano da
Sirmione a Limone – questa la giurisdizione del commissario –, il suo
paesaggio, le sue atmosfere diverse secondo la stagione ad accompagnarci nella
lettura, a darle un sapore che sembra fare dei romanzi di Tedeschi i capitoli
di un’unica storia che si snoda attorno a un lago ora radioso ora grigio e
nebbioso ma sempre capace di suggestioni inimitabili.
La velocità, mito dominante dell’epoca, non si concretizza questa volta negli idrovolanti del Reparto Alta velocità – come nell’Ultimo record – manelle rombanti automobili della Mille Miglia del 1936, di poco seguente alle esequie del poeta del Vittoriale, figura simbolo di quel mito e presenza ricorrente nelle avventure del nostro commissario, fin da Carta rossa, il primo romanzo. Sartori non ha tuttavia tempo di seguire i frenetici preparativi della gara. Ha altro da pensare: dalla morte apparentemente accidentale di uno dei piloti francesi iscritti alla corsa e del suo meccanico all’assassinio di una maga, la famosa Nefertari, al secolo Luigina Stroppa, alle cui capacità medianiche ricorrevano i più disparati personaggi dell’ambiente gardesano.
È a Brescia che
l’indagine conduce Sartori, nello studio del patron della corsa, Renzo
Castagneto, e proprio dal dialogo fra i due – vero pezzo di bravura per
realismo e vivacità, insieme alla descrizione
di Piazza Vittoria alla vigilia della gara: sembra oggi, non fosse per la presenza
del Bigio… – verrà il sospetto circa le cause effettive
dell’incidente mortale. Nelle miserie dell’ambiente borghese della Riviera si
dovrà invece cercare il movente dell’uccisione dell’indovina, un ambiente che
offre all’autore spunti in abbondanza per darci – come nei romanzi precedenti,
si pensi a Villa romana con delitto –
un quadro dettagliato e impietoso di un mondo le cui doppiezze e meschinità
trovavano alimento nel conformismo imposto dal regime.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Brescia nel libro di Pietro Gino Barbieri, ex medico del lavoro
Un libro che ha a tratti il sapore di una narrazione e in altri quello di un saggio: è di un ex operaio della Eternit il giudizio, Nicola Pondrano, autore della nota di prefazione. Un operaio divenuto in seguito dirigente sindacale della Cgil ma anche del fondo per le vittime dell’amianto e dell’associazione dei loro famigliari. Nel suo percorso si rappresenta la vicenda, il dramma anzi, raccontato dall’autore, Pietro Gino Barbieri, medico del lavoro dal 1980: «il dramma prevedibile di una strage prevenibile», come recita il sottotitolo di «Morire di amianto». E prevedibile era davvero, dal momento che fin dagli anni Cinquanta era dimostrata l’associazione causale tra amianto e cancro del polmone e dagli anni Sessanta quella con il mesotelioma maligno, un tumore della pleura e del peritoneo.
Jonathan Safran Foer, Possiamo salvare il mondo, prima di cena. Perché il clima siamo noi, Guanda 2019 (pp. 320, euro 18)
“La
parola è scritta al contrario sul cofano delle ambulanze perché chi guida le
possa leggere nello specchietto retrovisore. Si potrebbe dire che è scritta per
il futuro – per le macchine che stanno davanti all’ambulanza. Esattamente come
chi sta in un’ambulanza non può vedere la parola ambulanza, noi non possiamo
leggere la storia che stiamo creando: è scritta al contrario, per essere letta
in uno specchietto retrovisore da chi non è ancora nato”.
Sono
passaggi come questo a dirci la differenza fra uno dei molti saggi sul
cambiamento climatico e questo libro, in cui la voce che si leva a lanciare
l’allarme è quella di uno scrittore. Uno scrittore conscio del fatto che il
problema è crederci, alla catastrofe annunciata dal riscaldamento del pianeta,
e si tratta dunque di uscire dallo stato di negazione che – nella nostra
società, la società dell’informazione – si risolve in un non sapere sapendo, in
un sapere ma non fare: “Dobbiamo fare
qualcosa ci diciamo a vicenda, come se affermarlo fosse sufficiente. Dobbiamo fare qualcosa diciamo a noi
stessi, e poi aspettiamo istruzioni che non arrivano. Sappiamo che stiamo
scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, immersi
come siamo in una generale crisi della capacità di credere che trova alimento
in un’informazione strabordante di opinioni che offuscano i fatti, dominata da
un presentismo che mina l’idea di futuro.
E
allora? Allora occorre che la questione ambientale si carichi di emotività: non
si crede in quello che non ci scuote. Ma “Anche le nostre emozioni, come i
nostri corpi, hanno dei limiti. E se i nostri limiti emotivi non potessero
essere superati?”
Non
resta all’autore che riprendere il filo del discorso iniziato con il suo
precedente Se niente importa. Perché
mangiamo gli animali? (Guanda 2010), notando che anche nei discorsi più
appassionati e documentati sulla questione climatica – il nobel Al Gore non
escluso – viene taciuto un aspetto decisivo: “l’impatto dell’allevamento
sull’ambiente”. Perché “quando si parla di carne, latticini e uova la gente si
mette sulla difensiva. Si infastidisce. A parte i vegani, nessuno muore dalla
voglia di affrontare l’argomento, e il fatto che i vegani ne abbiano voglia
costituisce un ulteriore disincentivo”. Ma la questione sta proprio qui:
comprare un’auto ibrida non è inutile, ma serve soprattutto a “farci sentire
meglio. E può essere pericoloso sentirsi meglio quando le cose non vanno
meglio”. E dunque, non giriamo intorno al problema: pagine di dati e
rilevazioni scientifiche supportano la conclusione che “non possiamo salvare il
pianeta se non riduciamo in modo significativo il nostro consumo di prodotti di
origine animale”. Non si tratta di eliminarli dalla nostra dieta, si badi: si
tratta di ridurne “in modo significativo” il consumo.
È
questo il succo del discorso, e nonostante la letteratura ignori la crisi
climatica, pena l’esser dequalificata a fantascienza – come ha fatto rilevare
Amitav Ghosh con il suo La grande cecità (Neri Pozza 2017) – è il
libro di un autore di romanzi a imporlo alla nostra attenzione.
Alla nostra attenzione, appunto: basterà, questo, a farci credere, al punto da indurci a modificare i nostri comportamenti? E se anche fosse, servirebbe davvero, o la crisi è ormai irreversibile? (Come sembrano preconizzare storie come quella narrata da Bruno Arpaia in Qualcosa, là fuori, Guanda 2016). Quel che è certo è che vivere in quello stato di sapere e fare come non si sapesse e dunque non facendo non è vivere pienamente la propria vita. È adeguarsi alla “grande regressione” della nostra civiltà (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017). È rinunciare a cercare un bandolo nella generale involuzione che ci coinvolge, perché – lo notava Bruno Latour (Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina 2018) – “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Franco Ferrarotti, L’uomo di carta. Archeologia di un padre, Marietti 1820, 2019 (pp. 168, euro 14)
Passa
attraverso l’evocazione del rapporto con il proprio padre il bilancio che della
propria vita e del lavoro culturale più in generale l’autore ci propone in
questa archeologia di un padre. Un racconto che – come la Geologia di un padre di Valerio Magrelli – si staglia sullo sfondo della scomparsa che
questa figura ha registrato negli ultimi decenni, come sostenuto da più parti (nei
saggi di Massimo Recalcati in primo luogo).
“Non
sarai mai niente. Non diventerai niente. Sarai solo un uomo di carta”: il
pronostico, severo quanto sconfortato, del padre si direbbe contraddetto dalla
strada percorsa dal figlio, giunto – dopo gli anni di formazione, anni che
sembrano echeggiare lo “studio matto e disperatissimo” di altri grandi italiani
– ad essere riconosciuto come “il padre della sociologia italiana” (“Ma tutti
sanno – aggiunge con un tocco di autoironia Ferrarotti – che «mater semper certa est, pater numquam»).
E
invece no, quella previsione non era campata in aria: “Ora che la mia corsa è
finita e che mi capita, più spesso del previsto, di avvertire sulla nuca
l’alito freddo della morte (…) devo riconoscere, per quanto a malincuore, che mio
padre aveva ragione. Toglietemi di torno le carte, i libri, gli opuscoli, i
ritagli di giornale e non resta più nulla”. Ma non è solo un riconoscimento a
posteriori quello tributato al padre, bensì il frutto di una comprensione inevitabilmente
tardiva: “Mio padre credeva unicamente alla conoscenza attraverso l’esperienza personale,
diretta” ed era quindi, per il figlioletto, gracile e inadatto al lavoro dei
campi, un padre “lontano”. Un uomo la cui individualità solo adesso che non c’è
più si può mettere a fuoco: attento ai “valori
qualitativi” quanto la moglie a quelli “quantitativi” e “Io – sottolinea
l’autore – ero dalla parte di mia madre”, del suo “sovrano controllo
razionale”, senza avere “gli elementi per comprendere le “frustrazioni”, le
“sconfitte” del padre, uomo immerso nei tempi lenti delle stagioni, in quella
civiltà che Ferrarotti sa evocare in pochi tratti – in ciò richiamando i mémoires
di Enzo Bianchi –, uomo consapevole “di essere ormai alla fine, superato, obsoleto. Estraneo alla
società”. Ecco il punto: si comprende una persona quando se ne vede la
fragilità, e la si sa interpretare come un segno dei tempi che ha vissuto, e
questo vale tanto più quando è con i propri genitori che avviene il confronto. Un
confronto che si fa via via più lucido in queste pagine, approdando a sintesi
suggestive: “mio padre ha rappresentato per me la natura, mentre mia madre è
stata la cultura”.
A conti fatti, conclude l’ormai ultra
novantenne sociologo, morirò in compagnia dei miei libri. Saranno la mia
estrema unzione” (e qui è un altro autore, per altro richiamato in queste stesse
pagine, Sartre, il Sartre delle Parole a
risuonare: “Ho cominciato la mia vita come senza
dubbio la terminerò: tra i libri”). I libri e insieme i ricordi, la cultura, la
memoria, perché “Siamo ciò che ricordiamo, e ricordiamo ciò che abbiamo vissuto
e ancor più vividamente ciò che abbiamo letto”.
Cees Noteboom, 533. Il libro dei giorni, Iperborea 2019
“Non
è nemmeno certo che questo sia un vero diario, forse è piuttosto un libro dei
giorni, uno strumento per trattenere qualcosa del flusso dei pensieri, delle
letture, di quel che si vede, di certo non è un libro di confessioni”.
Prendiamo sul serio il tentativo che l’autore fa, passata la metà del suo libro, per definirne la natura. Primo, i pensieri: un ininterrotto colloquio con se stesso che non offusca affatto l’attenzione per gli avvenimenti che la cronaca registra. “Provate – constata infatti Nooteboom – a tenervi lontani dal mondo e il mondo vi riagguanterà”. Anche se vi chiedete “Quando si può dire che un fatto sia un evento”. Lo è un incidente ferroviario, ma anche, per uno che si sente “ospite del (proprio) giardino” nella prediletta Minorca, l’upupa che improvvisamente un giorno gli si posa accanto. Ma, appunto, il mondo ti riagguanta: “si presenta sullo schermo: attentati, guerra, omicidi (…) tutto si disegna sul vetro, come se si guardasse lontano, attraverso un tunnel, e i panorami qua fuori e i libri dentro casa non esistessero più”. E non basta aver scritto, aver preso posizione pubblicamente, perché “non sai se sia servito a qualcosa”, forse “è tempo che ti chiuda nel tuo giardino mentre tutti gli altri procedono frenetici e inarrestabili in un mondo che è tutto un malinteso”. Senonché, “anche se personalmente sei al sicuro, sei imbrattato della merda della guerra che accompagnerà i tuoi giorni fino alla fine, che tu lo voglia o no”. La guerra e le migrazioni, di fronte alle quali “diventiamo persone diverse senza più rendercene conto. (…) Il faut cultiver notre jardin” – ha scritto Voltaire –. “Io faccio del mio meglio, ma il mio giardino si trova nel mondo, che lo voglia o no”.
Eppure.
Eppure – ecco le altre piste che percorrono queste pagine – i libri, che
restituiscono “il mio autoritratto di lettore”, gli innumerevoli riferimenti
letterari che sono parte dell’esperienza quanto gli incontri che si sono
ricercati sull’onda di una curiosità inestinguibile per le altre culture,
quella curiosità che aveva condotto Nooteboom in Giappone – come testimoniato
in Cerchi infiniti. Viaggi in
Giappone (Iperborea 2017) – e che qui si manifesta come consapevolezza del fatto che
il confronto – come già aveva sottolineato Montaigne – è la via per misurarsi
“con gli aspetti di se stesso che si imparano in un’altra cultura”. Confronto
con gli altri, ma anche con l’Altro, il non umano: dai cactus che aspettano
ogni stagione lo scrittore a Minorca all’asino e alle mucche in cui gli accade
di imbattersi, quella che emerge è una radicale alterità della natura, in cui
“le rose non possono disperarsi”, “semplicemente esistono, non hanno altro da
fare, soprattutto non devono preoccuparsi di noi e dei nostri sentimenti”. Così
come gli amati cactus che si è imparato a distinguere apprendendone i nomi “non
sanno come si chiamano, ma sembra che non gliene importi nulla”.
Se è allo sguardo del calviniano Palomar che a
volte sembra possibile accostare quello di Nooteboom, allo scrittore italiano
si avvicinano anche la curiosità scientifica dell’umanista e soprattutto la consapevolezza delle propria
limitatezza e della propria finitudine, circostanze in cui tuttavia risiede
quella del proprio essere nel mondo, del proprio esserci al di là delle
convenzioni sociali e dei condizionamenti storici, del proprio saper vedere
l’estrema varietà che connota il mondo senza l’illusione di conquistarne una
visione complessiva, obiettiva. Tutt’altro: occorre ammettere che tutto quel
che si vede lo si vede, inevitabilmente, in riferimento a se stessi. Ed è perciò
ineliminabile il mistero. Quello del tempo e della durata, innanzitutto, su cui
– annota lo scrittore – ho imparato che c’è ben poco da dire”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Andrea Tarabbia, Madrigale senza suono, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 384, euro 16,50)
La vita travagliata di Carlo Gesualdo da Venosa, autore di madrigali a cavallo fra il Cinque e il Seicento, la si conosceva e aveva già ispirato romanzi: uxoricida, afflitto dalla morte dei figli, per l’intera vita alle prese con una ricerca musicale mai in grado di sedare la sua inquietudine, fino alla morte prematura e sofferta. È la sua figura tragica ed enigmatica che si ripropone nella “Cronaca” scritta da uno dei suoi servi – il più fedele e infelice, un nano deforme, colto e sensibile – o forse apocrifa, che un altro musicista, tre secoli dopo, acquista in una libreria antiquaria di Napoli e legge appassionatamente, concependo l’idea di rivisitare tre dei madrigali di Gesualdo secondo canoni novecenteschi. Lo ha fatto davvero Igor Stravinsky, con il Monumentum pro Gesualdo da Venosa composto nel1960, ed è qui, nel dialogo a distanza che si sviluppa fra il musicista contemporaneo e quello secentesco la novità e la ragione di interesse principale del romanzo di Tarabbia. Un romanzo che si fa via via sempre più “gotico” – come l’autore stesso avverte – e tuttavia non riserva al lettore solo vicende cupe e scene di cruda violenza, ma anche la storia di un progressivo avvicinamento tra due artisti geniali, nel quale emerge una concezione della composizione musicale, e più in generale della creatività, aliena dal mito di una libertà assoluta e incline piuttosto a riconoscervi un lavoro teso a “catturare l’unica evoluzione musicale logica possibile”, perché “non si può costruire sul niente”. Occorre che la scrittura, anche quella di parole, trovi una “resistenza”, ben sapendo comunque che non sarà mai possibile realizzare “il vero scopo dello scrivere”, ossia “trovare parole definitive, oggettive”, “trovare una frase che racchiuda un sentimento, che lo incarceri una volta per tutte in una forma assoluta, che impedisca a chi legge di raccontare quello stesso sentimento con parole diverse da quelle che trova scritte”. È uno Stravinsky professionalmente ambientato negli Stati Uniti ma culturalmente, forse esistenzialmente, spaesato in una Hollywood che lo ha “sia celebrato che respinto” e nella quale pure abita agiatamente, quello che si misura con l’idea di Gesualdo che i suoni a disposizione non bastino e che gli uomini siano condannati a non poter attingere a quelli infiniti che abitano l’universo, infiniti come i mondi di Giordano Bruno: “È naturale – obietta il compositore russo – che la musica sia limitata, e che i suoni siano in fondo pochi. È la nostra fortuna e la nostra benedizione: se così non fosse, non ci sarebbe data la possibilità di organizzarla, perfino di immaginarla. Saremmo perduti”.
Eppure è un “padre” che Stravinsky sente in Gesualdo, un padre che sa comprendere nel profondo: non “un innovatore, un iconoclasta, “un originale senza dubbio, qualcuno che portò il genere del madrigale alla saturazione. Ma (che) proprio per questo non è un innovatore, non porta il nuovo: egli si appoggia alla tradizione e ne slabbra di un poco i confini (…) Fa il nuovo, per così dire, affastellando tutti gli elementi della tradizione”. Ecco il punto, e il riconoscimento che ne consegue: “In questo ci somigliamo: nel cercare qualcosa di mai udito attingendo a piene mani da ciò che è già stato udito”. È qui l’originalità, la grandezza di Stravinsky, per questo bollato come reazionario dall’Adorno che solo nella dodecafonia di Schönberg vedeva un progresso rivoluzionario. Parlando di musica, è della cultura del Novecento, del posto che l’eredità della tradizione in essa ha occupato – e della sua catastrofe, come vogliono alcuni – che questo romanzo, dalla trama fitta e densa di colpi di scena, parla: “bisogna dialogare coi padri, dar loro un linguaggio nuovo che li renda vicini”, proprio come ha fatto Tarabbia. E infatti – è la conclusione cui giunge il professore cui Stravinky ha sottoposto la Cronaca per avere un parere sulla sua autenticità – “Niente mi leva dalla testa che il Suo lavoro su questi tre madrigali sia la trasposizione di ciò che l’autore di questa cronaca, chiunque egli sia, ha fatto con la vita e l’opera di Carlo Gesualdo”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi, Bollati Boringhieri 2019 (pp. 192, euro 17)
C’è il sapore di una constatazione conclusiva nel nuovo libro di Antonio Prete su un poeta cui ha dedicato negli anni studi che hanno cambiato il modo di leggerlo – da Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (Feltrinelli 1980) a Finitudine e Infinito. Su Leopardi (Feltrinelli 1998) e Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (Donzelli 2004). Senza dimenticare il capitolo che nella nuova edizione di Nostalgia. Storia di un sentimento (Cortina 2018) si è aggiunto riservando uno spazio alla poesia e inevitabilmente richiamando Leopardi.
Sembra perciò l’esito di un consuntivo quello che si profila
già nel sottotitolo e si chiarisce fin dalla prima pagina: “Ci sono poeti che
continuano a stare con noi. Camminano con noi” e Leopardi è senz’altro uno di
questi, perché “Ci accompagna con le diverse forme della sua scrittura”,
“tessitura assidua di un pensiero poetante. Di un pensiero, cioè, che la poesia
anima dei suoi modi, e dunque salva dal compimento, dall’ambizione del sistema,
e trattiene nel campo aperto dell’interrogazione, dell’assillo della ricerca”.
Quell’interrogazione, quell’assillo che, appunto, non ci lasciano per tutto il
corso dell’esistenza, e che trovano – in modo diverso secondo le età della vita
in cui torniamo a rileggerlo – rispondenza nel poeta che “oppone a una civiltà
che ama le astrazioni – popolo, pubblico, massa – il corpo individuo: con il
suo affanno, con le sue ferite. (…) E nella terra, così come nel suo luminoso
satellite, scorge il ritmo di una comune appartenenza di tutti gli esseri a una
cosmologia sconfinata”, e insieme al “mondo snaturato della natura”, la cui
bellezza e integrità sono state piegate “alle ragioni della tecnica. O alla
frenesia del consumo”, e compromesse dalla rimozione della fragilità del
vivente, e della morte. Solo la poesia, allora, può “aiutare a conoscere ed
abitare la natura”, la poesia, che “come la ginestra è un fiore tra le rovine”,
capace tuttavia ancora di portare un “sorriso nella tela brevissima della nostra vita” – secondo la citazione di Sterne
che ritroviamo nello Zibaldone –, nella
vita di creature, quali sono gli uomini, costitutivamente desiderose di
felicità e bisognose di infinito anche se, allo stesso tempo, consapevoli del
loro destino di finitudine e infelicità.
Il rischio, volendo riferire di questo libro, è naufragare nel gusto della citazione,
fin dal primo momento, quando si legge la prefazione dell’autore, e questo
accade non solo per la qualità della scrittura, che sonda insieme aderisce alla
voce del poeta, ma anche perché la critica di Prete è – potremmo dire parafrasandolo
– una critica poetante. Una critica,
cioè, che “non può essere altro che il racconto della propria esperienza di
lettura”, della quale “si annotano passaggi per dir così interiori, cioè
momenti in cui la presenza del testo agisce nel proprio sentire”, con
“un’implicazione di sé nell’ascolto” tale che “il movimento dalla lettura verso
la scrittura appare necessario”. Una scrittura, comunque, che sempre “dal testo
muove e in sintonia con il testo e nello spazio del testo prende respiro”.
Da qui, da questa vicinanza del testo critico a quello
poetico deriva una vicinanza crescente del lettore di questo libro agli
argomenti e alle movenze del suo autore, sicché, volendo evitare il naufragio
di cui sopra, non resta che enunciare – con le parole dell’autore, certo –
alcuni dei temi che percorrono queste pagine, rinunciando a metterne in luce la
concatenazione, rigorosa e rivelatrice, via via riproposta come un invito
appassionato e convincente a misurarsi con le opere leopardiane.
Sono le costanti fondamentali della poesia di Leopardi che
così emergono. L’“assidua dislocazione del punto di osservazione”,
innanzitutto: “dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo
cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa”, i cui luoghi sono
gli antichi, i fanciulli, gli animali (cui sono dedicate alcune fra le pagine
più intense). Detentori di uno sguardo, di un modo di rapportarsi al mondo e
alla vita che indica il punto di vista necessario per una critica della
modernità aliena da ogni tentazione utopica (risultando sempre dominante “la
fascinazione del prima e dell’oltre, non quella dell’altrove e dell’altro tempo”). Una critica sostanziale e pure capace di riconoscere
che “La modernità è allo stesso tempo distanza dal corporeo e affinamento della
sensibilità (…) sottigliezza dello sguardo”: una dimensione entro la quale
nasce lo stesso pensiero poetante di Leopardi trovando nella ricordanza il suo movimento essenziale,
“dolce perché porta con sé immagini perdute, sottratte alla prigione
dell’oblio”, ma anche “amara perché l’immagine che porta con sé è una
parvenza”, la cui “essenza è l’impalpabile effimero sparire”. Sicché il “tempo
della poesia” è “un tempo che raccoglie quello che il tempo fisico, che è
irreversibile, ha bruciato” e la poesia si definisce “come ospitalità di quel
che è perduto”.
Il “romanzo familiare” con le sue figure e i suoi episodi, il
rapporto con le città via via divenute per Leopardi luoghi di soggiorni più o
meno duraturi, la sua complessa relazione con la traduzione, l’attualissima
riflessione sugli italiani e l’Italia, i motivi di vicinanza e di distanza da
Vico, l’abusata categoria del pessimismo a lungo pretesa quale chiave di
lettura della poesia leopardiana sono altri temi che il libro affronta,
commenta, integra in una visione complessiva e che qui si sono richiamati in
una sintetica rassegna che non può in ogni caso tralasciare di segnalare pagine
che spiccano per la loro capacità di mettere in pratica quello stile critico
prima descritto. Pagine come quelle che nell’Elogio degli uccelli individuano “un piccolo compendio della
filosofia leopardiana”, o come quelle dedicate all’Infinito, frutto di “un’immaginazione corporale” che detta una
lingua percorsa dai “riverberi” di un “infinito osservato nella sua umana e
comprensibile apparizione”, per questo in grado di “(mettere) in scena
l’essenza stessa della poesia”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Claudio Morandini, Gli oscillanti, Bompiani 2019 (pp. 272, euro 17)
La montagna, e i montanari, anche qui, e l’enigma che pervade i luoghi, le vite di chi sta lassù. Ma anche con questo romanzo, come con Neve cane piede, del 2015, non ci troviamo nella cornice ormai collaudata del giallo alpino. Anche in queste pagine ricorre l’alterità, vera o presunta, dei paesani d’alta quota, quel “Voialtri che state in città credete…” che ricorreva in Le pietre, pubblicato due anni fa, ma di nuovo il romanzo non si lascia ridurre a una metafora dell’estraneità, o dell’ostilità addirittura, della montagna rispetto alla città.
I romanzi di Morandini hanno questo carattere – e questa attrattiva – di fondo: la loro irriducibilità a interpretazioni che ne svelino significati sottesi. E, analogamente, la loro sostanziale inaccostabilità ad altri modelli letterari. Solo il nome di Dino Buzzati, forse, risulta in qualche modo pertinente, ma di quello non ritroviamo qui il fascino che, pur nella sua enigmaticità, la montagna conservava. Nelle pagine di Morandini, d’altra parte, è inutile cercare riferimenti tanto alla salubrità del clima montano quanto al permanere di un saper vivere irrimediabilmente perduto nella realtà urbana. Talmente inospitale, umido e freddo, è il paese di Crottarda quanto sferzato da un sole implacabile è il dirimpettaio Autelor. Tanto invidiosi e vendicativi sono gli abitanti del primo quanto esibizionisti e competitivi quelli del secondo.
È nel bel mezzo di questa faida annosa che si viene a trovare la protagonista: da bambina, villeggiante con i genitori; etnomusicologa ora. Ammaliata allora dai richiami inintelligibili e misteriosi dei pastori che udiva la notte; spinta adesso da una volontà di sapere, di capire, che ha saputo conservare la suggestione sperimentata nell’infanzia, aliena com’è dalla supponenza accademica della sua docente e dalle ambizioni che tengono il fidanzato prigioniero dei suoi impegni universitari. Ed eccola allora, munita di taccuino, fogli pentagrammati e registratore, a indagare quei richiami “Di solito espressi in un codice composto da trilli, fischi, brevi grida monosillabiche, al più bisillabiche” che “servono a richiamare il gregge, o a sollecitare l’intervento dei cani”, ma che a Crottarda – secondo l’ipotesi di lavoro che la ricercatrice si propone di verificare – risultano particolarmente “originali e degni di ulteriore studio” perché rivolti anche ad altri pastori, sostituendo di fatto “il codice verbale tra una malga e l’altra”. La curiosità degli abitanti, venata di un’incredulità che sconfina nel dileggio dell’“ingenuità” della colta cittadina, non disarma la giovane studiosa: non doveva essere diversa l’accoglienza di Béla Bartók nelle campagne ungheresi, come ci ricorda, in un esergo, l’autore (“Non scherzo affatto. Parlo sul serio. Sono venuto appositamente da lontano. Da Budapest, per cercare quelle vecchie canzoni che sono conosciute solo qui, da voi!”).
Senonché, a poco a poco emergono fra i
crottardesi aspetti inquietanti, discorsi difficilmente interpretabili,
comportamenti stravaganti e ambigui (in alcuni casi accostabili a quelli che
incontriamo in un libro per ragazzi dello stesso Morandini sempre ambientato in
montagna, Le maschere di Pocacosa,
pubblicato l’anno scorso: “Nel
piccolo abitato di Pocacosa settori per così dire deviati del corpo dei
figuranti di una sfilata in costumi storici di antica e nobile tradizione
imperversano ormai da molti anni e molti carnevali, perseguitando i loro
compaesani più civili e assennati con sciocchi, quando non sadici, dispetti e
sinistre mascherature”). Se Bernadetta – la ragazza
che, a suo modo, pretende di assumere il ruolo della guida per la forestiera –
mette in campo atteggiamenti contraddittori e ambivalenti, i pastori che
finalmente la protagonista incontra si rivelano “autori di imbrogli sonori, di
contraffazioni da guitti”. Col tempo, però, si fa chiaro che si tratta di un
modo di fare, di stare al mondo, che accomuna tutti “questi poveri abitanti di
Crottarda, in ogni gesto, in ogni giorno, e se li potessi osservare nel corso
della loro vita – questa la conclusione cui giunge l’etnomusicologa – li vedrei
oscillare da quando nascono a quando muoiono, tra la loro esistenza ufficiale e
il loro lato nascosto, tra il bisogno di luce, sempre troppo scarsa e precaria,
e l’attrazione per il buio che li insegue fin nelle case, fin nel sonno, tra lo
sfogo ilare e triviale delle burle e un’insofferenza che (…) riporta un senso tangibile di
malinconia”. “Gli oscillanti, mi viene di chiamarli. E a questo punto un po’
oscillante finisco per sentirmi anch’io”. Destabilizzata, incerta, divisa fra l’interesse
per quei richiami di pastori, che non sono forse che manifestazioni di una vena
di umorismo beffardo, e il mistero inquietante delle voci lamentose che
sembrano venire dalle doline, da un sottosuolo abitato da “omuncoli deformi”
capaci di comporre una polifonia assordante alle orecchie della musicologa.
Resta sulle sue il prete che, a corto di spiegazioni, richiama leggende come quelle che parlano di “pietre che rotolano in salita e ti volano fin dentro casa” – un richiamo esplicito al precedente romanzo – e non sa alla fine che attribuire a un perdurante paganesimo le sinistre manifestazioni del carattere locale. Ma a dover alla fine ammettere la propria incapacità di comprendere è anche la studiosa che, sospettata di collusione con quelli di Autelor, finirà per essere invitata dai crottardesi a tornare al piano, alla città, abbandonando questa “montagna magica” che non le ha rivelato i suoi segreti ma non ha spezzato il suo desiderio di penetrarne i misteri percepiti tanti anni prima e che la seguono dall’infanzia. Ci tornerà dunque, e “presto, senza pensarci troppo”, perché “C’è ancora parecchio da fare laggiù”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Gustavo Zagrebelsky, Mai più senza maestri, Il Mulino 2019 (pp. 154, euro 14)
“Mah! Chissà…”: le parole che chiudono il libro sembrano contrastare con la
perentorietà del titolo. In realtà, tutta l’argomentazione che vi si sviluppa è
condotta all’insegna della problematizzazione, a partire dall’”atto di
contrizione” che la apre riconoscendo l’esistenza di “un limite etico in chi sa
solo produrre parole” e la legittimità di una domanda antica e sempre attuale:
“Che cosa viene prima: l’azione o il pensiero?” Anche se, occorre pure tenerne
conto, “Oggi, siamo in un’epoca attivistica
e antintellettualistica”, in cui “Le cose si fanno perché sono possibili”. Un’epoca che solo apparentemente si potrebbe
ritenere trovi assonanza nella scritta comparsa nel maggio del ’68 sui muri
della Sorbona – “Jamais plus de maîtres” –, che, “per quanto ingenua e
semplicistica” aveva in realtà di mira “l’uso sopraffattorio della funzione
magistrale”. Senonché, “il magistero non è necessariamente oppressione, ma può
essere un aspetto della liberazione”. Basta intendersi su chi, che cosa sia un
maestro, e si convenga che “è solo quello che è più avanti provvisoriamente”. E del resto, quel più lo ritroviamo nella radice stessa di
magister, in quel magis che si contrappone al minus che non dobbiamo trascurare di
scorgere in minister anche se è ormai
una “lingua della politica disastrata” a contraddistinguere il nostro tempo,
nel quale “il ministro si considera colui che detta legge e crede di avere gli
altri al proprio servizio”, maestri compresi. I quali, per parte loro, hanno sempre
più lasciato il posto agli “influencers,
quelli che dettano e assecondano a milioni le inclinazioni di massa e le mode
attraverso strumenti di persuasione potenti e capillari”.
No, i maestri di cui questo libro rivendica la permanente e attualissima
necessità – e, deve ammettere, la penuria – sono quelli che hanno in comune “un
medesimo modo di concepire l’attività intellettuale come alimento della vita
sociale e politica, come interrogazione fondamentale sul senso della convivenza
degli esseri umani, come capacità di rivoltare il senso comune delle cose e
scuotere la routine che ci avvolge”.
Alimento, interrogazione, capacità di rivoltare il senso comune: sono
questi gli scopi che il maestro
Zagrebelsky persegue in queste pagine, in un discorso che si propone di
definire il significato della cultura; di prender atto di una generale crisi
della “funzione intellettuale” che non eclissa tuttavia la necessità di
ricordare la differenza che intercorre fra l’istruire e l’educare; fra il
conoscere e il comprendere; fra il comprendere, il giustificare e il giudicare.
Senza temere facili accuse di elitismo nel sostenere che “L’idea del maestro
porta in sé un germe aristocratico”, constatazione del tutto impopolare in anni
in cui “la maggioranza presume di avere sempre ragione”, sicché “la voce
ammonitrice del maestro è semplicemente un inutile fastidio”.
Attenzione però: “Vano è il lamentarsi degli
intellettuali che non si sentono ascoltati e vana è la deplorazione che viene
da chi li invita a mescolarsi col mondo.” Perché “il guasto di fuori è anche in
ciascuno di noi”. E cionondimeno, “La conoscenza è discernimento tra il guasto
e il sano”: “Il maestro tende verso l’alto. Ma, se non si propone di guardare
anche da giù in su, e non solo da su in giù, è vacuo. Il maestro è in mezzo e
se pretende d’essere giudice senza essere giudicato, cioè di non essere lui
stesso parte del problema, non è sincero”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Valérie Perrin, Cambiare l’acqua ai fiori, edizioni e/o 2019 (pp. 480, euro 11,99)
Una vita vissuta pienamente, non perché è capitata ma perché
così la si è voluta vivere: affidandosi a quel che via via accadeva, agli amori
e ai disamori, agli acquisti e alle perdite. Essere aperti agli altri, alle
nuove esperienze che la vita propone – ci dice questo romanzo – non vuol dire
cambiare rotta ad ogni incontro, non vuol dire annullarsi in ogni situazione
nella quale ci si venga a trovare. Ma neanche significa vivere sempre sulla
difensiva, opporre la volontà che nulla cambi ad ogni avvisaglia di mutamento.
Questa la filosofia di vita – mai dichiarata, ma praticata nei
fatti – di Violette Touissant. Quanto ai fatti, è presto detto: “Facevo la
guardiana di passaggio a livello, ora faccio la guardiana di cimitero. Assaporo
la vita a piccoli sorsi, come un tè al gelsomino con un po’ di miele”. Violette
sa quel che vuole, ma sa anche che non sono i progetti che si fanno a
portartelo; inutile illudersi di poterla pianificare la propria esistenza
perché scorra lineare, secondo regole stabilite. Meglio accettarla, anche
quando se ne devono combattere le asperità, anche quando sembra di dovervi
soccombere: “Sono stata molto infelice, addirittura annientata. Inesistente,
svuotata. (…) Le mie funzioni vitali continuavano, ma senza un dentro, senza a
mia anima (…). Ma siccome l’infelicità
non mi è mai piaciuta ho deciso che non sarebbe durata”. Quando arriva, comunque,
inutile chiudere gli occhi, che si tratti di ritrovarsi ad essere “vittime
collaterali del progresso – l’automatizzazione del passaggio a livello rende
lei e suo marito disoccupati – o a pagare per l’egoismo di un uomo grande e
grosso che hai amato, con “la sensazione di appartenergli corpo e anima” – ma
si è via via rivelato per il bambino mai cresciuto che sua madre ha voluto
rimanesse. Inutile chiuderli neanche quando arriva il dolore più grande di
tutti: l’incidente tragico e banale che ti toglie la bambina divenuta ragione
di stare al mondo, una figliolina compagna di giochi che non smetteva di
stupirti, e di tener viva la bambina che aveva continuato a vivere in te,
nonostante tutto.
Saranno gli altri a salvarti: la vicina che hai aiutato
quando era lei in difficoltà, il guardiano del cimitero in cui la piccola viene
sepolta e che ti insegnerà il suo lavoro per poi cedertelo, l’uomo che nello
stesso cimitero arriva per assolvere all’ultimo desiderio della madre e saprà
farti tornare a immaginare l’amore. Altri esseri, ai quali Violette non si
aggrappa, ma sa riconoscere per quanto “disadattata, spezzata” si senta, e
accogliere non come soccorritori attesi, ma come simili con i quali tornare a
realizzare lo scambio che è la vita, se è vita vera. Una vita che sa riprendere,
e indurti a “ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Come spesso capita, sintetizzare quel che un libro ti ha
lasciato rischia di offrirne una fisionomia parziale, tanto da poter risultare
falsata: la storia di Violette Touissant –
narrata con una certa linearità nella prima parte, calata in un andirivieni di flashback,
pagine di diario e lettere nella seconda – corre sul filo di un umorismo
leggero quanto indefettibile che si annuncia sin dai titoli dei capitoli,
parodie di epitaffi che grondano retorica funeraria in molti casi, capaci di
fermare per un attimo l’attenzione del lettore in altri (Non sei più dov’eri, ma sei ovunque sono io, Le
foglie morte si raccolgono a palate, i ricordi e i rimpianti anche). Ma è
la vita che – circondata dai suoi gatti e dai compagni di lavoro, tre necrofori
che a volte le sembrano i fratelli Marx – quotidianamente la protagonista conduce
nel suo cimitero a riservare momenti nei quali il sorriso non può non
affiorare: “La morte comincia quando nessuno può più sognare di te. È sulla
tomba di Marie Deschamps, una giovane infermiera deceduta nel 1917. Pare che
sia stato un soldato a deporre la targa nel 1919. Ogni volta che ci passo
davanti mi chiedo quanto a lungo l’abbia sognata”. Oppure. “Prendersi cura del
cimitero vuol dire prendersi cura dei morti che vi riposano e rispettarli. Nel
caso non siano stati rispettati da vivi, che almeno lo siano dopo morti. Sono
sicura che vi sono sepolti anche molti stronzi, ma la morte non fa distinzione
fra buoni e cattivi. E poi, chi non è stato un po’ stronzo almeno una volta
nella vita?”
A conti fatti, pare ci sia sempre una ragione per
“ricominciare a dare l’acqua ai fiori”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Alejandro Zambra, Storie
di alberi e bonsai, Sellerio 2918 (pp. 144, euro 14)
“Il
problema è proprio questo, che in questa storia non ci sono nemici”, avverte
già alla seconda pagina l’autore, ma questo non significa che non vi accada
nulla, perché “questa [che si racconta] non è una sera normale, almeno non
ancora. Lui non è completamente sicuro che ci sarà un giorno dopo, perché
Verónica non è tornata dalla lezione di disegno. Quando sarà tornata il romanzo
sarà finito.”
Ecco:
il gusto di guardare il proprio romanzo farsi, o meglio: la messa in scena del
piacere – che, anche se a volte un po’ lezioso, si trasmette al lettore – di
star a guardare quel che succede, ad ascoltare quel che i personaggi dicono.
Il
tono non del narratore, insomma, ma di uno che racconta, sorridendo, il
racconto di un altro. Facendone la sintesi tuttavia, perché non si vuol
annoiare, non sia mai. Non divertire ad ogni costo, non evitare quindi qualche
nota di riflessione, amara se occorre, ma non dilungarsi: “Alla fine lei muore
e lui resta solo, anche se in realtà era rimasto solo diversi anni prima della
morte di lei, Emilia. Supponiamo che lei si chiami o si chiamasse Emilia e lui
si chiami, si chiamasse e continui a chiamarsi Julio. Julio ed Emilia. Alla
fine Emilia muore e Julio non muore. Il resto è letteratura.”
E dunque, si può anche scrivere una “storia leggera che diventa pesante”: basta dirlo. Il lettore è avvertito e può comunque star tranquillo. Nessuna descrizione compiaciuta, nessun dialogo inconcludente. Solo l’essenziale: “Si ama per smettere di amare e si smette di amare per cominciare ad amare qualcun altro, o per rimanere soli per un po’ oppure per sempre. Questo è il dogma. L’unico dogma.”
Lina Bolzoni, Una meravigliosa solitudine. L’arte di leggere nell’Europa moderna, Einaudi 2019 (pp. XXX – 288, euro 30)
Uno scavo destinato agli studiosi
della storia culturale europea? ai cultori dell’Umanesimo e del Rinascimento?
Il libro di Lina Bolzoni è senz’altro anche questo, ma nello stesso tempo molto
di più, per due ragioni. Innanzitutto le pratiche della lettura, gli scopi e i
significati ad essa attribuiti “nei secoli in cui in Europa nasce il mondo
moderno” risultano
straordinariamente attuali; in secondo luogo, documentarsi, e interrogarsi, su
di essi risponde a una domanda che altrettanto ci riguarda da vicino: è “ormai inesorabilmente alle nostre spalle”
quel “mondo in cui la lettura è esperienza comune e insieme del tutto intima e
personale; una specie di viaggio in cui, incontrando l’altro, si riconosce e si
ridisegna il proprio io”?
È dunque la “velocità del cambiamento” che ha investito anche le nostre
consuetudini culturali a suscitare “l’idea (e il desiderio) di ripercorrere i
grandi miti che il Rinascimento ha costruito intorno alla lettura, di guardare
da vicino la rappresentazione di sé come lettori che troviamo” in quell’epoca.
A partire da Petrarca e Boccaccio, passando per Machiavelli, Erasmo, Montaigne
e arrivare a Tasso, il libro ci conduce a ripercorre “quel che ci dicono sulle
loro esperienze di lettori”, sul loro rapporto con i libri – che spesso
prefigura quello delineato da Benjamin, per il quale quello con i libri è “il
rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose” – e con
quell’“autoritratto segreto” che è la propria biblioteca, valenza che ad essa
continuano ad assegnare il capitano Nemo di Jules Verne come il Peter Kien di
Elias Canetti, che in Autodafèdiventa la sua biblioteca.
Attraversiamo così
le pagine in cui Petrarca dice della sua insaziabilità in fatto di libri, del
suo rapporto emotivo, fisico, con la lettura, un rapporto nel quale la lettura
si salda con la scrittura, ma soprattutto consente una necessaria e salutare
presa di distanza dalla città, dai suoi affanni, dallo spirito competitivo in
essa dominante, o addirittura dalla rozzezza del mondo contemporaneo. È il
tempo individuale, emancipato da quello sociale – potremmo dire – ad averla
vinta quando è la lettura a riempire i giorni; è un tornare a far centro su di
sé il beneficio ineguagliabile che ne può venire, con il vantaggio oltre tutto
di non ritrovarsi soli. Il tema non è nuovo, come tanti motivi umanistici ha
ascendenti nella tradizione del pensiero antico, ma è ripreso con convinzione, rivissuto in autori come Leon Battista
Alberti, per il quale “la compagnia dei libri è il vero rimedio alla
solitudine, ai mali che derivano dalla frequentazione degli uomini e dalla
decadenza morale e politica”. La biblioteca appare allora “il nuovo eremo”, un
rifugio popolato dei ritratti dei grandi autori con i quali si dialoga, un
“teatro della lettura” – come lo “studiolo” di Federico da Montefeltro – che
garantisce la trasmissione del sapere e dei valori fra le generazioni; come lo
“scrittoio” nel quale Machiavelli si ritira la sera, o la torre in cui
Montaigne compone i suoi Saggi.
Barriera contro la
moltitudine e le passioni sarà anche per il Tasso, capace tuttavia di
intravedere nella lettura anche pericoli come un’immedesimazione nei pensieri
dell’autore tale da esserne invasi e perdere ogni orientamento fra le opinioni
contrapposte con le quali i libri ci mettono in contatto. Ma è l’immagine del
riparo da un “mondo ingiusto” a prevalere fra i doni della lettura. Lo penserà
Ruskin, per il quale la lettura è “conversazione con libri-amici” e deve perciò
essere diffusa attraverso biblioteche pubbliche, ma non Marcel Proust – che
pure ne è l’ammirato traduttore – il quale “non accetta la concezione
utilitaristica” dell’inglese: “l’idea della conversazione è per lui in
conflitto con la condizione essenziale della lettura, che è la solitudine.” Una
meravigliosa solitudine, appunto.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Roland Barthes, Sul racconto, Marietti 1820, 2019 (pp. 88; euro 8)
Fra l’introduzione di Paolo Fabbri, intervistatore dello studioso francese più di cinquant’anni fa – e oggi sintetico commentatore di quel testo brillantemente sopravvissuto ad un periodo in cui “la problematica narrativa è passata da un iniziale negazionismo, all’accettazione decerebrata dello storytelling – e la postfazione di Gianfranco Marrone, che “in questo straordinario documento” individua i nuclei che lo rendono tanto più attuale e incisiva “in un’epoca di restaurazione positivista”, leggiamo la lezione di Roland Barthes. Perché di una lezione di chiarezza esemplare si tratta, che prende le mosse da una necessità innegabile: “milioni e milioni di racconti” sono stati elaborati “in tutte le società umane”, “Il racconto è dovunque: in tutte le epoche, in tutti i paesi, in tutte le culture; si serve di qualunque sostanza – la parola scritta, parlata, l’immagine mobile e immobile”. Di qui il tentativo di “scegliere un modello di descrizione”, illustrandone i “ragionevoli” presupposti. Fra rimandi culturali illuminanti ed esempi capaci di accompagnare anche il lettore poco addentro in queste tematiche, Barthes spiega di che cos’è davvero fatto un racconto, a partire dalle sue unità insopprimibili, funzionali dunque all’intelligibilità della storia, secondo un criterio diverso da quello che ci è consueto e si concentra su comportamenti, sentimenti, monologhi interiori. Diverso ma in grado di considerare comunque le “espansioni”, quelle “unità complementari o riempitive – cioè – che pure compongono il racconto. Anche un racconto come Goldfinger, che – né più né meno che l’Odissea – non sfugge alla possibilità di essere analizzato sulla base della logica che governa la successione e i reciproci “inscatolamenti” delle sequenze delle sue unità essenziali, dei “nuclei” che lo fanno essere quel racconto e non un altro.
E dopo l’individuazione dei nuclei e delle loro relazioni, i personaggi, non come “essenze psicologiche” ma “in quanto partecipano a certe azioni”, sull’esempio di quelli individuati da Vladimir Propp, familiare a insegnanti e genitori curiosi di comprendere le fiabe che raccontavano iniziando con quell’immancabile “c’era una volta”, ossia con quel segnale – ci fa notare Barthes – che avvertiva che un racconto iniziava. E il contesto del racconto? la sua “origine sociale”, i suoi risvolti ideologici? Non si tratta di ignorarli, quanto piuttosto di riconoscervi i luoghi nei quali “il sistema del racconto tocca il mondo” – e il “mondo scritto” incontra il “mondo non scritto”, avrebbe forse detto Calvino. Sarebbe necessario che l’analisi semiologica giungesse a quella ideologica, ammette Barthes, non senza ricordare tuttavia, in conclusione, che “solo se il sistema ideologico passa attraverso il relais d’un sistema simbolico diventa opera letteraria, opera d’arte”.
Majgull Axelsson, La tua vita e la mia, Iperborea 2019 (pp. 448, euro 18,50)
Per settant’anni, la protagonista di Io non mi chiamo Miriam – il romanzo della Axelsson pubblicato in
Italia tre anni fa – ha tenuto nascosta dentro di sé la verità, e cinquanta ne
sono passati prima che Märit torni là dove tutto era accaduto. Perché “certe
storie sono semi a cui serve molto tempo per germogliare”, come la scrittrice
svedese ammette nella nota finale.
Torna alla casa dei suoi, in occasione del settantesimo
proprio e del gemello Jonas, ormai sepolto nel linguaggio incomprensibile di un
uomo paralizzato dall’ictus. È con Kajsa, amica d’infanzia divenuta moglie del
fratello, che si compie il gioco terribile di rivangare un passato che non è
passato, che l’Altra non permette
scivoli nell’oblio. L’Altra, la sorella
morta durante il parto trigemellare da cui sono nati Jonas e Märit, ma che non
ha mai cessato di abitare quest’ultima, di farle sentire la sua voce
implacabile, sarcastica, ineludibile: “Infilata in un recesso profondo del mio
cervello, finge di non esistere”, ma ciononostante solo a momenti cessa di
“parassitare le mie capacità. E assillare, naturalmente: assillare, assillare,
assillare”. Impedire, in primo luogo, che si cancelli la memoria di Lars,
“Lars-lo-svitato”, il fratello che allora veniva definito “matto” e adesso si
direbbe “disabile intellettivo con evidenti tratti autistici”. Mal tollerato in
casa, dove solo la madre lo accudisce con amore, nasconde una grande
sensibilità artistica: disegna, fa ritratti somiglianti di persone incontrate
per caso, ma non sa avere rapporto con gli altri, e non è alieno da comportamenti
violenti, aggressivi. La morte della madre segna il suo destino. Märit è
l’unica a ritenerlo non un essere inferiore, ma diverso. Gli altri no: il suo
posto è un ospedale psichiatrico, in “un’epoca che non capiva o non vedeva la
propria malvagità”, un’epoca nella quale fra i medici “i più prestigiosi erano
i neurochirurghi, seguiti a ruota dai cardiologi, dopodiché, in scala
discendente, si arrivava al gradino più basso, quello degli sfortunati
psichiatri”, ma ancora più in basso stavano “quegli insignificanti figuri che
si occupavano dei dementi. E chi erano i dementi, allora? I poveri diavoli al
gradino più basso di tutte le gerarchie”, “considerati ancora più infimi e
indegni degli invalidi e degli alcolisti e dei lapponi e degli zingari”. Una Svezia
sconosciuta emerge da queste pagine, un paese che solo nei primi anni sessanta
scopre l’uso, accanto alle camicie di forza, di farmaci che permettono di
affrontare un “demente scatenato mettendolo al tappeto invece di chiuderlo in
una stanza vuota e poi sentirlo rimbalzare tra le pareti mentre ulula di
disperazione o terrore”. Sarà questo il destino di Lars, e sarà Märit a
scoprirne la condizione prima di ritrovarselo cadavere, segnato dalle botte
ricevute, sul tavolo di dissezione, lei allieva di medicina che lo stesso
giorno abbandonerà l’università, rinunciando a quello che fin dall’inizio i
suoi avevano giudicato un lavoro non da donne. Perché quella è anche l’epoca in
cui “non si può strillare e far chiasso e menar botte. Nemmeno quando se ne
avrebbe voglia. Nemmeno se se ne avrebbe tutte le ragioni del mondo. Non se si
nasce donne”.
Ma se avesse potuto, si sarebbe occupata, lei, del fratello “matto”? L’Altra la mette alle strette, la obbliga a riconoscere che no, non se ne sarebbe occupata annullandosi in lui come faceva la madre: non l’avrebbe fatto perché voleva una vita sua. Se non di medico, di giornalista. Ed è quella che imboccherà, senza tuttavia poter sfuggire al ricordo della vita sua e della propria famiglia, “una delle tante storie silenziose, importantissime e inservibili che dobbiamo portarci dentro fino al giorno in cui moriremo”. Ed è appunto una serie ininterrotta di flash back, non di rado lunghi tanto da far dimenticare al lettore di esser stato trasportato nel passato, a fare questo romanzo: “Smettila, dice l’Altra nella mia testa. Dimentica, per il tuo stesso bene. Quella ormai è storia, storia antica! È passato più di mezzo secolo. Ma io non intendo dimenticare – afferma la protagonista, in un continuo gioco delle parti con il suo doppio –. E lei, la grande amministratrice di ricordi, non deve impicciarsi.” Vuole arrivare fino in fondo, Märit, non lasciare che si dissolva nessuno dei fili di cui è intessuta la storia tragica della sua famiglia. Solo allora, sarà possibile andarsene, senza più voltarsi indietro.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Antonio Gramsci, Sherlock
Holmes & Padre Brown. Note sul romanzo
poliziesco,
Marietti 1820, 2019 (pp. 80, euro 8)
“(…)
tu avevi una felice disposizione a ricevere le impressioni più immediate e meno
complicate dai sedimenti culturali. Non eri neanche riuscita ad accorgerti che
il Chesterton ha scritto una delicatissima caricatura delle novelle poliziesche
più che delle novelle poliziesche propriamente dette”. Potrebbe sembrare ma non
è: Antonio Gramsci, dal carcere di Turi, nell’ottobre del 1930 scrive alla cognata
Tatiana Schucht – “Carissima Tania” – non per rimproverarle un’ingenuità di
lettrice, ma al contrario per esprimerle “invidia” per la sua “capacità di
fresco e schietto impressionismo”. Antonio legge diversamente, e la stessa lettera lo dimostra: “Il padre
Brown è un cattolico che prende in giro
il modo di pensare meccanico dei protestanti”, di cui lo Sherlock Holmes di
Conan Doyle è l’esempio lampante, l’investigatore che trova il bandolo di una
matassa criminale partendo dal’esterno, basandosi (…) sull’induzione”, mentre
il sacerdote detective di Chesterton si basa “sulla deduzione e
sull’introspezione” e, pur così apparentemente dimesso e alieno da ogni
carattere di eccezionalità, fa apparire Holmes “un ragazzetto pretenzioso”. Ma, nella sostanza, i racconti di Padre Brown
sono “fondamentalmente un’apologia della Chiesa Romana contro la Chiesa Anglicana”;
la sfida lanciata, con successo, dal detective cattolico contro quello
protestante.
Senonché, i libri che Gramsci poteva leggere in carcere – fa notare Jean-Louis Ska in uno dei saggi che compaiono nel libro, accanto a quelli di Chiara Daniele e Alessandro Zaccuri – non erano una biblioteca fornita cui lui potesse accedere liberamente, e così non può che trascurare il fatto che mentre Conan Doyle usciva da una famiglia cattolica, Chesterton si era formato in ambiente anglicano e solo a quarantotto anni si sarebbe convertito al cattolicesimo. L’opposizione fra i due non è dunque di carattere religioso, ma culturale: “fra una cultura mediterranea più sensibile alle motivazioni morali e psicologiche e una cultura anglosassone più induttiva, pratica ed empirica”. Una divaricazione che ogni lettore di polizieschi conosce bene, sulla quale ha scritto parole inequivocabili Sciascia definendo Simenon, non lo scrittore che ama il puro gioco intellettuale ma quello che “vede” e che “ama” (Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018), capace quindi di superare l’alternativa che pure all’inizio gli si era posta, fra un dotto Jean incline al freddo ragionamento (Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018) e il ben più fortunato Maigret, fatto di tutt’altra pasta, che inaugura un profilo di poliziotto destinato a un successo tanto solido da arrivare al nostro Montalbano.
Ci torna comunque sulla faccenda, Gramsci, nei suoi Quaderni, e a diverse riprese, andando tuttavia al di là del confronto fra le due figure di investigatore e ponendosi un problema di fondo: “perché è diffusa la letteratura poliziesca”, e più in generale “la letteratura non-artistica”, la letteratura spesso definita “popolare”? E la riposta è di quelle che fanno dei Quaderni dal carcere un’opera che non si è mai finito di consultare: la diffusione “sarebbe una manifestazione di rivolta contro la meccanicità e la standardizzazione della vita moderna, un modo di evadere dal tritume quotidiano”, ma sulla distanza è il valore artistico di un testo a farsi valere, quel valore rinvenibile in Chesterton e assai meno in Conan Doyle. In quest’ultimo “c’è un equilibrio razionale (troppo) tra l’intelligenza e la scienza. Oggi interessa di più l’apporto individuale dell’eroe, la tecnica ‘psichica’ in sé”. Un giudizio del tutto sottoscrivibile anche a distanza di decenni, ma che rivela la sua sorprendente attualità in una successiva annotazione che lo sviluppa, e che vale la pena di rileggere attentamente: “Il taylorismo è una bella cosa e l’uomo è un animale adattabile, però forse ci sono dei limiti alla sua meccanizzazione. (…) Vincerà il taylorismo o vinceranno i Moschettieri? (…) Se l’attuale civiltà non precipita, assisteremo forse a interessanti miscugli dei due”: 007 per tutti, dunque? Detective sempre più dotati di mentalità e bagaglio tecnologici ma pur sempre avventurieri? Attenzione però, raccomanda l’autore: “accanto a Don Chisciotte esiste Sancho Panza, che non vuole ‘avventure’, ma certezza di vita”: “il gran numero degli uomini è tormentato proprio dall’ossessione della non ‘prevedibilità’ del domani, dalla precarietà della propria vita, cioè da un eccesso di ‘avventure’ probabili”. Avventure sì, allora, anche delle più torbide, truculente o catastrofiste che siano, purché… rassicurino.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Georges
Simenon, Le persiane verdi, Adelphi
2018 (pp. 208, euro 19)
Alto,
grosso, a suo modo carismatico: venuto dal nulla, Émile Maugin è diventato un
grande attore, popolare al punto da essere riconosciuto per strada, nei
ristoranti, nei caffè. La sera a recitare in palcoscenico, la mattina sul set
cinematografico.
Simenon
ce lo fa seguire in tutti i suoi movimenti, ma anche nei suoi pensieri, nelle
sue idiosincrasie, nelle manifestazioni del suo caratteraccio: prepotente,
insofferente, violento, quasi compiaciuto della propria protervia egocentrica.
E al fondo di tutto: un’insoddisfazione corrosiva, che vino e cognac non
riescono a sopire.
Non
suscitano empatia il piacere della cattiveria, la brutalità dei comportamenti
sessuali, l’instabilità esasperante di questo personaggio. Fino a che,
ritiratosi da un giorno all’altro dalle scene, abbandonata Parigi e
trasferitosi con la giovane moglie e la figlia (non sua) nel sud della Francia,
cominciano ad affiorare in lui i segni di una debolezza che sempre più si
rivela essere sempre stata il contraltare della sua mancanza di scrupoli: ha
paura di morire, Maugin. Il medico gli ha detto che il suo cuore è quello di un
settantacinquenne, non del sessantenne che è. Ma più che la morte in sé è una
morte in solitudine che lo terrorizza. La moglie, la villa affittata dalle
parti di Nizza, la bambina rappresentano una garanzia in questo senso, ma lui non
sa realizzare il sogno di una casa in cui vivere in pace, una casa serena come
quelle che si vedono, con le persiane verdi… Il suo destino è segnato: una
banale ferita, superficiale ma non curata a dovere, sarà la causa della sua
fine.
L’intero
racconto appare allora una preparazione della scena finale: l’infezione si è
diffusa, la morte è vicina, e tutto è filtrato dal punto di vista del
protagonista, ormai perso nelle nebbie di uno stato quasi comatoso e
ciononostante attraversato da un ossessivo arrovellarsi attorno alla propria
vita, ai torti fatti, alle donne lasciate. Tutti, i genitori, i compagni
d’infanzia, il maestro di scuola, le mogli e le amanti, i colleghi e gli amici,
il prete e il dottore, tutti sono lì, al suo capezzale: se li vede intorno e
sente di dovere a tutti loro, e a se stesso, una riposta, una giustificazione
delle sue colpe, ma il bandolo di tutta l’ingarbugliata, confusa faccenda che è
stata la sua vita non si lascia trovare. Finché un tratto capace di spiegare le
sue scelte, il suo modo di stare al mondo, gli appare chiaro, inequivocabile:
“Aveva passato tutta la vita a scappare. Scappare da cosa?” “Aveva fame e
scappava dalla fame, Viveva in mezzo al tanfo degli alberghi malfamati e
scappava dal senso di nausea. Era scappato dal letto delle donne che aveva
posseduto, perché erano solo donne e niente di più, e quando si ritrovava di
nuovo solo beveva per scappare da se stesso.”
La
ripetizione è la colpa di Maugin, la ripetizione di un gesto di fuga che
nell’imminenza della morte non può essere più rimesso in campo.
Le
ultime pagine di questo romanzo risignificano le precedenti, e non possono non
richiamare quelle, insuperate, dedicate da Tolstoj alla morte di Ivan Il’ic.
“Su
questo sasso non succede niente di definitivo; qui la vita procede come in
brutta copia, tracciata a casaccio, eliminando ogni giorno quella precedente, a
pezzi e bocconi, fino alla fine. Sulla terraferma se uno persevera arriva da
qualche parte. Ma su quest’isola che cosa si può fare, a parte girare a vuoto?”
Un’isola.
Luogo che la letteratura privilegia quando – non importa quanto consapevolmente
– intende analizzare, e dimostrare, la realtà del vivere collettivo ridotta al
suo scheletro, ai suoi meccanismi elementari. E alla sua fragilità: è questo il
carattere che la comunità lascia venire alla luce quando un tarlo inizia a
divorala dall’interno. Cartoline, nient’altro che cartoline anonime che
svelano, denunciano, alludono: le magagne che ogni famiglia, ogni abitante,
aveva fino allora dissimulato, non possono più nascondersi sotto il velo delle
chiacchiere quotidiane. Prima a uno poi all’altro e all’altro ancora – a tutti,
c’è da temere – porterà la fatidica cartolina il vecchio postino Gabriel,
addolorato per quel male di cui è contro la sua volontà latore. Ma lui deve.
Deve continuare “a consegnare cartoline il cui autore non si è ancora palesato.
Il male è fatto, il male è in atto, e nessuno ha modo di fermarlo”. Neanche la
polizia, perché a ben vedere “non c’è materiale di indagine ma, piuttosto, per
un trattatello: criminologia delle intenzioni, sociologia della noia”.
Nessuno sfugge, se non – momentaneamente – alla cartolina, al senso di colpa: la situazione ricorda quella di un altro romanzo recente, le Case di vetro di Louise Penny (Einaudi 2019, in questi Note lo scorso 16 giugno). Dove però il mistero, svelandosi, innesca una nuova fase della storia. Non così nel romanzo di Carlier: anche quando sapremo chi è il personaggio che con le sue cartoline affligge il paese come fosse il suo “piccolo gregge inquieto”, la vicenda non si risolve. La “crudeltà quasi materna” del “corvo”, l’ignoto autore dei messaggi malevoli e inquietanti, fa precipitare la situazione secondo una logica implacabile, quella stessa per cui “nella vita, non si fa altro che andare verso se stessi”.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Gianfranco Pacchioni, L’ultimo sapiens. Viaggio al termine della nostra specie, il Mulino 2019 (pp. 214, euro 15)
Uno scienziato, ma uno di quelli che tiene a farsi fa capire
da tutti. L’idea che l’alta divulgazione sia appannaggio degli anglosassoni è
smentita da un libro come questo: evoluzione, intelligenza artificiale,
genetica, nanotecnlogie, neuroimmagini non restano terreno di enunciazioni che
danno per scontato conoscenze che mediamente non abbiamo.
Una seconda premessa: a dispetto del titolo, non è un pessimismo radicale a connotare il discorso, ma non è neanche il facile (e obbligatorio) ottimismo dei nostri tempi. “Passi da gigante” è un’espressione ricorrente, a proposito della velocizzazione dell’innovazione registratasi negli ultimi decenni nei campi più diversi”, ma non si dà per scontato che l’innovazione sia di per sé progresso: può risolversi in uno “sviluppo forsennato delle tecnologie” e portare a risultati imprevisti e, a dir poco, inquietanti. Come quando due macchine intelligenti, Bob e Alice, programmate per sostenere trattative commerciali, a un certo punto si sono messe parlare fra loro in un linguaggio incomprensibile, fatto di parole, sì, ma disposte in sequenze senza senso. Sennonché – questo il fatto allarmante – il linguaggio inventato dai due dispositivi, e trasparente a loro soltanto, ha permesso di concludere la trattativa con successo! Macchine capaci di “auto apprendere più velocemente degli scienziati informatici, con risultati devastanti per la nostra specie. Forse – avverte l’autore – sono scenari eccessivamente catastrofisti, magari la superintelligenza non arriverà mai. Ma non ci conterei troppo.” Anche in altre occasioni la conclusione resta volutamente aperta, come a dire al lettore che sta a lui, sulla base di altre sue conoscenze, delle sue esperienze, della scala di valori che riconosce, trarre un giudizio. Un equilibrio di fondo, condito di ironia, è il tono che ci viene proposto, e non potrebbe essere diversamente dal momento che ogni capitolo è introdotto da un racconto in cui si è previsto con largo anticipo quanto avviene oggi: un racconto di Primo Levi, il Levi chimico, l’uomo di scienza fantasioso e lo scrittore lucido delle Storie naturali, di Vizio di forma e del Sistema periodico. Un atteggiamento non demonizzante ma capace di prender atto delle possibili derive – tendenzialmente in atto o comunque possibili – dell’innovazione tecnologica si direbbe possibile, insomma, solo là dove le “due culture” sappiano dialogare. Come in Levi, e in Pacchioni, appunto. Capaci di metterci di fronte alla prospettiva di “scenari del tutto imprevedibili”, abitati da “esseri, non necessariamente integralmente biologici, in parte umani e in parte artificiali, più intelligenti di noi sapiens.” Ci arriveremo fra venti o trent’anni, secondo alcuni, convinti che sarà “uno dei momenti più promettenti per la storia dell’umanità”. Ma ci sono altri per i quali “potrebbe essere uno dei più pericolosi”. Ai posteri l’ardua sentenza, si sarebbe detto in passato, ma non oggi, perché – si chiedeva Primo Levi – “ci saranno storici futuri, diciamo nel prossimo secolo [questo, n.d.r.]? Non è del tutto certo: l’umanità potrebbe aver perduto ogni interesse per il passato, occupata come sarà a dipanare il gomitolo del futuro; o perduto il gusto per le opere dello spirito in generale, essendo intesa unicamente a sopravvivere; o cessato di esistere.”
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Federico Pennestrì, Eppur si muore. Vivere di più o vivere meglio?, Mursia 2019 (pp. 148, euro 14)
Un
filosofo che parla ai medici, ma che i medici – e i loro pazienti – li conosce
bene: è un punto di vista privilegiato quello da cui l’autore guarda alla cura
della salute nel mondo contemporaneo. “Vivere costantemente a contatto con la
medicina senza praticarla in prima persona – dichiara infatti – mi permette di
conoscerla e valutarla con obiettività, cercando fuori le soluzioni che essa
non può trovare al proprio interno”, e tenendo sempre presente un presupposto
di fondo: “la medicina è qualcosa di più delle conoscenze e delle tecniche che
la sottendono”.
Presupposto
di cui i pazienti sembrano consapevoli quando lamentano il ridursi del numero
dei “medici che ci conoscono di persona”, di quei medici di famiglia – dei
quali un politico di primo piano ha recentemente decretato l’inevitabile, se
non auspicabile, scomparsa – che non hanno dimenticato quel che Ippocrate
sosteneva, ossia che “per effettuare una diagnosi è più utile conoscere il
paziente che la sua malattia”, ma non per questo si collocano in
contrapposizione polemica con i colleghi specialisti, essendo “il medico di
famiglia il miglior portinaio possibile (gatekeeper)
per aprire le porte degli edifici della specializzazione”. Edifici nei quali tuttavia i medici appaiono
spesso – agli occhi dei pazienti – inaccessibili, a livello sia comunicativo,
sia logistico, sia economico”.
E
i medici? Anche loro frustrati: dall’insufficienza delle risorse, dai ritmi
lavorativi – e dalla collocazione professionale, possiamo aggiungere, che nelle
cliniche private ne fanno, come in molti altri settori, partite Iva per alcuni
aspetti fra loro in competizione? –, ma anche dall’intolleranza di pazienti “pretenziosi
e aggressivi”, “pronti a denunciare il medico”, “informatissimi sui propri
diritti e disinformatissimi sui propri doveri”, pazienti che – in un clima di
generale sottovalutazione, se non di disprezzo, delle competenze – “pretendono di conoscere la
materia meglio di chi la esercita”.
Senonché,
su questo come a proposito di altri nodi cruciali, l’autore sa esercitare il
suo sguardo esterno, obiettivo: “Il disagio del medico – precisa – e quello del
paziente non sono espressione di due realtà che configgono, ma sono due aspetti
dello stesso disagio.” Perché occorre comprendere come la medicina “sia nata ed
evolva attraverso lo scambio reciproco con la stessa cultura in cui si radica”,
e quando questa cultura esalta, anziché problematizzare, un tratto –
probabilmente ineliminabile – dell’animo umano consistente nel rifiuto del
limite, della fine, della morte, accade che si chieda alla medicina quel che
non può dare e che la medicina per parte sua si faccia “soluzione, seduzione,
promessa e illusione”. Ecco allora che nonostante gli indubbi – e qui ricorrentemente
e documentatamente richiamati – progressi della medicina, i malati aumentano.
Com’è
possibile? Per diverse ragioni: in primo
luogo perché “nuove malattie – croniche, soprattutto – si sono affermate per il
solo fatto che viviamo di più”, in secondo per via della medicalizzazione di
stati come l’infelicità e la tristezza – e la vecchiaia stessa? – senza
dimenticare la tendenza crescente a un consumismo di nuovo stampo, quello di
“prestazioni diagnostiche, farmacologiche e di controllo”.
Delineato
così il quadro, non corre il rischio di suonare moraleggiante la domanda di
fondo: “Ha senso posticipare la morte al prezzo di aumentare gli anni in cui ci
sentiamo sotto tiro?” Ha senso negare la verità sostanziale che il titolo
evidenzia richiamando l’affermazione attribuita a Galileo, “simbolo della
resistenza della scienza contro la superstizione”?
Passando
attraverso approfondimenti essenziali (medicina e follia, ruolo esercitato
dalle condizioni economiche e dalle disuguaglianze, fenomeni come la
“resistenza vaccinale”), si giunge alle conclusioni.
È un cambio culturale quello che appare
indispensabile: più della ricerca della soluzione “per morire dopo”, è quella
“per vivere meglio prima” che occorre mettere in primo piano, e
conseguentemente aver di mira “un utilizzo appropriato della medicina, rivolto
non alla negazione ostinata della morte fisica, ma ad agire per preservare il
più possibile” il senso, e la qualità, della vita. E quando la vecchiaia
arriva, non può essere solo la famiglia a provvedere. Occorrono “politiche di
presa in carico organiche, personalizzate, multidisciplinari e continuative, a
prevenire la situazione in cui “l’anziano è tecnicamente assistito ma
moralmente parcheggiato”. Politiche che non renderanno comunque mai superflua
la necessità che il sistema sanitario si ponga delle priorità, stabilendo “chi
curare, che cosa curare e fino a che punto”. Necessità che trova il suo
corrispettivo in quella, pure inderogabile, di “educare non solo alla salute”,
ma anche “al consumo di prestazioni sanitarie”.
Paolo Pagani, I luoghi del pensiero. Dove sono nate le idee che hanno cambiato il mondo, Neri Pozza (pp. 368, euro 13,50)
“Non è possibile separare l’esposizione del pensiero di
Wittgenstein dal racconto della sua esistenza”, e questo vale anche per gli
altri autori presi in considerazione da questo “itinerario geografico e mentale
insieme”. Una ricognizione storica, topografica e passionale” che non si limita
tuttavia a schierarsi conto chi – con buona pace di Proust – sottovaluta o nega
addirittura il nesso fra opera e biografia: un nesso altrettanto decisivo è
quello che lega il pensiero e il luogo, “l’ambiente in cui le idee prendono
forma”. Per cui non è un semplice frutto della curiosità “Sapere che cosa si
vede da certe finestre” delle case abitate dall’autore del Tractatus, “capire tutte le case spoglie di Ludwig, i suoi alloggi
di fortuna, le scelte di eremitaggio”; oppure “girovagare tra gli ambienti che
hanno fatto da quinta allo scrivere e al leggere” di Thomas Mann, “per cercare
tracce, in quei luoghi, del suo pensare laico; della storia del suo tempo;
delle sue idee sul futuro; della sua etica e della sua estetica”. “Perché c’è
un’aura in ogni luogo, un linguaggio non detto che si impara ad ascoltare”,
“una forza gravitazionale silenziosa e prepotente” cui non si deve resistere.
Così avviene se si raggiunge la Hütte, la baita nella quale
Heidegger amò abitare per lunghi periodi, e ci si ferma a guardare silenziosi “La
radura placida e gli alberi immobili, lo stesso panorama che Heidegger
osservava scrivendo, che trattengono l’identica energia evocativa, conservata
intatta in una ieratica semplicità per quasi un secolo”: quel rifugio, quelle
“mura domestiche”, “sono parte integrante dell’opera di chi ci ha vissuto”. È
un “legame ontologico” quello che lega il luogo all’opera: “geografia che
mostra a se stessa un pensiero e pensiero allacciato a una zolla geografica;
sfondo materiale di un filosofare che sa custodire e dire un misterioso
sapere”.
Non diversamente, la laboriosa elaborazione della teoria
evoluzionistica sembra rappresentarsi nel “sentiero sabbioso che il re dei
naturalisti usava da mezzogiorno in punto come thinking pad, o percorso personale di meditazione”. “Pensava
camminando”, Charles Darwin, lungo quel “sentiero che correva intorno a un
boschetto che aveva piantato con le sue mani; e sembrava fosse sempre un
percorso lunghissimo, partendo da casa”.
Persino quando il luogo è mutato vale la pena visitarlo: la
casa natale di Spinoza, ad Amsterdam, non c’è più, ma quell’assenza sembra dire
delle peregrinazioni cui la sua famiglia fu costretta come della proscrizione
che colpì lui stesso, che ci appare nel monumento che sorge non distante, “lo
Spinoza di bronzo (che) luccica come un simbolo indiscusso”.
Non solo di luoghi parla tuttavia questo libro: oltre che trattare di “Dove hanno speso le loro esistenze e come”, l’autore si diffonde su che “cosa ci hanno detto, dove giacciono, perché ricordarli”: Spinoza e Cartesio, Leibniz e Newton, Darwin e Marx, Wittgenstein, Heidegger e Arendt, Keynes e Mann. E di molti ci resta memoria, oltre che di un luogo privilegiato, di una cosa che sembra far corpo con il personaggio, dal celebre melo di Newton alla scrivania su cui Mann scrisse, sempre, in tutte e dieci le case che abitò.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
Paola Baratto, Lascio che l’ombra, Manni 2019 (pp. 125, euro 14)
Dopo aver letto,
a poche pagine dall’inizio, il corsivo che sembra far da controcanto alla
narrazione, corri avanti a verificare se nel testo ne compaiono altri, e vedi
che parecchi dei capitoli sono conclusi da altri, analoghi brani. Scacci la
tentazione di leggerli di seguito, anche se è lì che senti che il libro ti
tocca più da vicino. Non salti dunque da corsivo a corsivo scavalcando le
pagine in tondo, e la tua rinuncia è presto compensata dalla presa che
l’intreccio via via fa su di te. Anche la vicenda di Aris ti riguarda, in
qualche modo: il suo scrivere appartato, il suo non adeguarsi alle logiche del
pensiero unico che governano la comunicazione, senza per questo trincerarsi
nell’identità dello studioso accademicamente affermato ma mantenendo invece la
disponibilità a misurarsi con l’indifferenza e l’incomprensione, la
superficialità sbrigativa della fiera del libro che si anima solo per l’ospite
di sicuro richiamo, la pantomima straniante del talk show spacciato per
dibattito.
La cultura di
Aristide Dal Pozzo, di antropologo del contemporaneo, di sociologo che non
s’accontenta di statistiche, non può bastare a preservarlo dalla frustrazione,
non gli offre strumenti in grado di smontare l’imperativo alla semplificazione
volgare cui ogni discorso sembra ormai doversi ridurre per avere una sia pur
effimera cittadinanza. Ma lui non è uno di quegli scrittori che se la
raccontano – come del resto la narratrice, che si è messa sulle sue tracce dopo
che, tre anni prima, è scomparso all’improvviso senza lasciare traccia. Anche
lei, Giulia Malavasi, testardamente, appassionatamente dedita a quel «mestiere,
già di per sé così vago» che è lo scrivere, e intollerante dei consigli di conoscenti
ben intenzionati: «scrivi, ma per te stessa», oppure «fatti un blog». Il fatto
è che si scrive sempre per gli altri, per «trovare la
propria umanità e il proprio legame con gli altri esseri umani», stando a Paul Auster (e non diversamente si
esprimeva Umberto Eco: «Io non sono uno di quei
cattivi scrittori che dicono di scrivere solo per se stessi. C’è una sola cosa
che si scrive per se stessi, ed è la lista della spesa. E quando hai comperato
le cose che dovevi, puoi distruggerla. (…) Ogni altra cosa che scrivi, la
scrivi per dire qualcosa a qualcuno»). Aris non era certo di diverso parere, e così Giulia.
Ma dove sono finiti, gli altri? Non solo
quelli che amano esclusivamente intrattenere
ed essere intrattenuti, ma anche
coloro che sembrano voler tenere alta la bandiera dell’impegno e dunque nobilmente, sdegnosamente si pongono il
fatidico quesito: «Verrebbe da chiedersi dove sono finiti gli intellettuali». Il
ritaglio di giornale che riportava queste parole, proferite da un ex ministro
della Cultura, è stato, chissà quando, sottolineato da Aris e costellato di
punti esclamativi tracciati con tanta rabbia da aver rotto la carta. Rabbia
contro la protervia di un establishment politico e culturale che gli
intellettuali non li sente e non li vuol sentire, che li dimentica ancor prima
che scompaiano, che ipocritamente rovescia su di loro la propria cattiva – e
ormai esilissima – coscienza, salvo denunciare la voglia di visibilità degli
intellettuali che prendono la parola, o il loro esser costituzionalmente bastian
contrari, anime più o meno belle e comunque fuori dal mondo nel momento in cui non
rinunciano ad assumere pubblicamente le movenze di quello che si chiamava, e
non si può chiamare altrimenti, che pensiero
critico, come quello praticato da Aris. Un pensiero sempre teso,
indipendentemente dal suo oggetto, «a delineare con spiazzante lucidità gli
scenari presenti».
Un intellettuale
del genere, se scompare, lascia un vuoto al quale non ci si può rassegnare,
tanto più se la propria aspirazione è quella di continuare a scrivere, come fa
Giulia, o a studiare per comprendere un passato che, per il fatto di essere
locale, non necessariamente è già in partenza terreno di inevitabili quanto facili
mitologie localiste, il passato che ha appunto coltivato per tutta la vita
l’ormai attempato professor Console.
Sono loro due a
cercarlo ancora, Aris, a spiarne tracce labili, al limite dell’inconsistenza,
nelle pagine da lui frequentate nel periodo precedente la propria sparizione. Tracce
dalle quali sembra emergere un filo di speranza, per quanto paradossale, sostanzialmente
inconciliabile con il solido razionalismo del professore così come con il laico
disincanto della scrittrice, e pure capace non semplicemente di incuriosire, ma
di affascinare. Senonché, ancor prima
dello sguardo pensoso della figura che campeggia nell’incisione di Dürer riportata
sulla copertina di un noto saggio sulla melanconia – l’ultimo libro, forse, nel
quale Aris ha cercato risposte – sono quei corsivi a dire l’irrimediabilità
della situazione nella quale lui si è sentito sprofondare, e insieme la progressiva,
lucida, autodistruttiva adesione alla domanda non detta, ma di fatto rivolta con
perentorietà sprezzante agli intellettuali, di farsi da parte, di tacere.
Meglio: di sparire.
«Giorno dopo
giorno, mi sto perdendo…», lo si è sentito dire dopo la deludente presentazione
di un suo libro. Perché lui, lo scopriamo alla fine – senza sorprendercene,
perché lo sentivamo, in qualche modo – è l’autore di quelle pagine brevi e dense
dalle quali fin dall’inizio ci siamo sentiti raggiunti. Pagine che non
riguardano solo l’intellettuale, si badi, ma chiunque non si rassegni alla
cancellazione tendenziale dell’individualità, della specificità che fa di
ognuno un essere unico, uguale e diverso dagli altri, e come tale capace di
opporre resistenza all’omologazione, di negarsi al «minuetto di banalità» nel
quale siamo immersi, alla chiacchiera assordante dei media come a quella ubiquitaria e pervasiva dei social; di
conservare quel quid che non accetta di
sciogliersi nella dilagante, acefala schiera di figuranti della spettacolare
messinscena planetaria del consumo. Per cui «si preferisce scappare, non
esserci. (…) E ci si nasconde, iniziando così a scomparire», da un presente che
appare sempre più «un luogo inospitale», inevitabilmente fonte di «disarmonie
con chi ci circonda». Del resto, «Non parlare di sé rende invisibili». È così
che «Arriva il momento in cui si fatica a riconoscersi (…) E a poco a poco si
scompare anche ai propri occhi».
Un pamphlet, dunque, sia pure in forma narrativa, quello di Paola Baratto, un generoso, rinnovato Plaidoyer pour les intellectuels di sartriana memoria? No, un romanzo. Un romanzo, che fonda certamente la sua capacità di coinvolgere il lettore sull’originalità della vicenda e la radicalità del giudizio, ma deriva la sua forza persuasiva dalla qualità di una scrittura ricca dell’esperienza dei romanzi pubblicati (otto, prima di questo) e passata negli ultimi anni attraverso il filtro dei brevi, essenziali racconti di Giardini d’inverno e Tra nevi ingenue.
Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.
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