In un piccolo libro, la grandezza di Leonardo

Leonardo, Amore ogni cosa vince. Segreti di vita e bellezza, Interlinea 2019 (pp. 64, euro 10)

Spesso, e con qualche ragione, ci si guarda dagli anniversari e dalle celebrazioni. Conoscendo per esperienza il valore del tutto effimero di gran parte di ciò che in queste occasioni si dice e si pubblica, si preferisce lasciarne decantare quel che non è mera ripetizione, luogo comune, agiografia.

Il cinquecentenario della morte di Leonardo non fa eccezione, ma è tuttavia possibile distinguere, nel mare di saggi e di romanzi usciti in questi ultimi mesi, alcune pubblicazioni che si sbaglierebbe a trascurare per le loro dimensioni contenute. Di queste, la raccolta di pensieri curata da Gino Ruozzi, massimo studioso italiano della letteratura aforistica, “una letteratura marginale perché poco attraente e ammiccante”, ha avuto occasione di scrivere lo stesso Ruozzi, ma che in realtà “ci invita non al sogno, ma al confronto con noi stessi e la società in cui viviamo”. E a questo confronto, appunto, le pagine di Amore ogni cosa vince invitano chi, come noi, è chiamato a misurarsi con la vecchiaia secondo prospettive diverse dal passato, imposte dall’invecchiamento della popolazione e dalla tendenziale rimozione non solo della fine ma ormai anche dell’inevitabile declino della vita nella sua ultima stagione. Senonché, leggiamo in uno dei primi pensieri che il libro riporta, “A torto si lamentan li omini della fuga del tempo, incolpando quello di troppa velocità, non s’accorgendo quello esser di bastevole transito”. A torto perché, a ben vedere, “molte cose passate di molti anni parranno propinque e vicine al presente”, e quel che conta è allora la qualità di quelle cose, una qualità “che ristori il danno della tua vecchiezza, overo che trastulli la tua vecchiezza”. È insomma il genere di vita che si è fatto a stabilire quello della propria morte: “Siccome una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire” e, in conclusione, “La vita bene spesa lunga è”.

Ma anche altri di questi pensieri rimandano all’oggi: il primato della “sperienzia” contro la semplice citazione, la superiorità degli “inventori” rispetto ai “recitatori” possono richiamare la sudditanza e la credulità oggi dilaganti di fronte all’invasività delle informazioni indiscriminate se non false di cui, grazie alla rete ma non solo, siamo vittima (ogni epoca ha quel che si merita: le autorità del passato, un tempo; i makers il più delle volte irrintracciabili di news e fake news, oggi). Così come all’attuale discredito da cui sono investite le competenze e alla disinvolta condotta di non pochi reggitori della cosa pubblica fan pensare le parole che Leonardo dedicava a “quelli che usano la pratica senza scienzia”, “come ’l nocchieri ch’entra in navilio senza timone o bussola”. Pensieri stimolanti, insomma, che aprono – sia pure sul filo della libera associazione –  percorsi diversi ma tutti convergenti nel mettere in luce la modernità del pensatore: dalla differenza di grado, più che da una radicale discontinuità e tantomeno da una conclamata superiorità, che intercorre fra uomini e animali (“L’uomo ha grande discorso, del quale la più parte è vano e falso. Li animali l’hanno piccolo, ma è utile e vero”) al riconoscimento, tutt’altro che scontato quando Leonardo scriveva, che “El sole non si move”. Verità scientifiche intuite con certezza, capacità anticipatrice di un pensiero che se da un lato esprime la convinzione che “Nessuna certezza delle scienzie è dove non si po’ applicare una delle scienzie matematiche”, dall’altro sostiene che “Ogni nostra cognizione principia da’ sentimenti”. Per cui lo sguardo indagatore che si rivolge al sole può tingersi di accenti ben diversi non appena si posa sulla luna: “La luna, densa e grave, densa e grave, come sta, la luna?”.

Un libro piccolo da leggere e rileggere, dunque, per avvicinarsi davvero, al di fuori di ogni logica monumentalizzante, a quest’uomo che, pienamente immerso nei suoi tempi di guerre e congiure – anche l’Ultima cena di Santa Maria della Grazie, nota il curatore, mette in scena una congiura, la congiura per eccellenza della cultura occidentale – si pone “all’inizio della modernità”, maestro di una pittura sempre innervata dalla conoscenza naturale e dalla riflessione  filosofica (il pensiero corre all’animale che compare in copertina, nella celebre Dama con l’ermellino, quando si legge che “Moderanza raffrena tutti i vizi: l’ermellino prima vol morire che ’mbrattarsi”).

Avvicinarsi all’uomo, in conclusione, senza per questo disconoscerne la grandezza, e insieme il suo essere “vario e instabile”, come gli rimproverava Vasari. “Una sostanziale incapacità caratteriale a concludere le cose – ammette Ruozzi –, distratto o attratto da troppi interessi contemporaneamente” ha senz’altro connotato Leonardo. Produttore di un’opera ricca di “lacune e frammenti” – quali sono questi stessi pensieri – interpretabili però “come mimetici dell’imperfezione e della fragilità intrinseca della nostra esistenza.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Passioni spente, biografie a pezzi

Tommy Wieringa, Una moglie giovane e bella, Iperborea 2019 (pp. 117, euro 14)

“Collezionista di prime volte” nella sua vita sentimentale, il virologo Edward, finché non incontra Ruth, di parecchi anni più giovane di lui. Al solo vederla prova “una nuova sensazione: la bruciante nostalgia di qualcuno che ancora non conosceva”. La sposa, la tradisce con una collega, hanno un bambino, che non smette di piangere, neanche la notte, e cui la moglie si dedica in modo esclusivo attribuendo al marito un’indefinita responsabilità: il piccolo, sostiene, percepisce che lui non lo desiderava. È meglio che non abiti con loro, dunque, e al virologo non resta che accamparsi, all’insaputa dei colleghi, nel suo laboratorio, fra le cavie. Senonché, la sensibilità animalista della moglie l’ha contagiato: “A volte guardava gli animali nelle loro gabbie con gi occhi di Ruth e vedeva che la prima forma di sofferenza a cui venivano sottoposti era la noia. Smettevano di prendersi cura di sé (…). Più spesso e a lungo li guardava, più si affievoliva dentro di lui la negazione della loro sofferenza”, sulla scorta delle idee non solo della moglie ma anche di Jeremy Bentham, secondo il quale la domanda da porsi se si vuole tracciare un confine tra uomini e animali «non è: “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”».

La riflessione sul dolore animale si intreccia sempre più strettamente con quella su di sé: la gallina bianca che trent’anni prima, ancora ragazzino, aveva salvato dall’allevamento intensivo è forse l’unico essere che ha davvero amato, o per il quale aveva provato “una sorta di compassione”, mentre col passare degli anni quella sensibilità è scomparsa e riesce difficile  ricordare “com’era… avere un cuore, un cuore che ti mette in condizione di lasciarti trasportare e sentirti parte della vita sulla terra…”. Ma il tempo è passato, e ormai “le singole parti della sua biografia non volevano saperne di amalgamarsi in un insieme, in un’unica vita che mostrasse significato e coerenza.”

Ecco il punto: Edward è uno di quegli uomini che, superati i quaranta, si rende conto di aver continuato “a salire e scendere la scala della (loro) vita” e faticano a cogliervi qualcosa che possa riconoscere come una biografia: come i depressi (si pensi all’io narrante di Emanuele Trevi, in questi Appunti lo scorso 26 maggio), così anche questi personaggi sembrano aggirarsi con assiduità nei romanzi che l’editoria oggi ci propone. Ne fa parte, per fare un esempio, anche lo psichiatra Kadoke di Terapie alternative per famiglie disperate di Arnon Grunberg (Bompiani 2019), afflitto da una pervasiva “stanchezza di vivere” che “bisogna scavalcare come si scavalcano le pozzanghere”, assorbito da un rapporto con la figura materna dai tratti patologici, eppure privo di passioni al punto che “talvolta va all’opera per vedere e ascoltare emozioni che non gli sono del tutto estranee, ma che non vive più in forma diretta.” Chi sono questi uomini? Hanno forse alle spalle l’esperienza dei giovani di cui spesso si parla: espropriati di futuro, più o meno apparentemente anaffettivi, incapaci di un progetto biografico?

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ascoltare gli altri per vivere il nostro tempo

Rachel Cusk, Transiti, Einaudi 2019 (pp. 196, euro 17)

Una scrittura, una narrazione all’altezza dell’epoca? Forse in questo modo si potrebbe definire l’obiettivo – e, a seconda dei giudizi, il risultato – del lavoro di Rachel Cusk, che fin dalle prime pagine ci propone giudizi precisi sul nostro tempo, appunto. “Quest’epoca di scienza e incredulità (in cui) abbiamo smarrito il senso del nostro significato”, e la vita scorre per molti “priva di storia”, in una sostanziale solitudine e nella assillante “paura di non essere desiderati”. Al punto che, a chi si aggira nel deserto della depressione, può accadere “di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari”. Ma nulla è più lontano dalle intenzioni dell’autrice del costruire una teoria circa il mondo in cui viviamo: quello che dice lo riporta, non lo presenta mai come l’esito del suo pensiero, ma sempre come il frutto della sua attitudine ad ascoltare gli altri, le persone fra loro diverse che la vita quotidiana le fa incontrare. In ciò proseguendo la strada intrapresa con Resoconto (in questi Appunti lo scorso 9 dicembre), ma dando ancora più spessore a un senso di irrealtà che permea l’esperienza, “come se vivessimo in una vetrina”, dove la vita “è una messa in scena, ma nello stesso tempo è reale”. Una realtà nella quale tuttavia molti degli adulti fra i quali ci muoviamo a mala pena riescono a nascondere la loro natura di bambini mai davvero del tutto cresciuti, e perfino gli studenti di un corso di scrittura creativa danno l’impressione di non “credere a sufficienza nella realtà umana per costruirci sopra delle fantasie”. Né maggiore consistenza paiono avere i matrimoni, che sembrano funzionare “come si dice che funzionino le storie, grazie alla sospensione dell’incredulità” e si reggono secondo uno dei “resoconti” raccolti, “non tanto sulla perfezione, quanto sull’elusione di determinate realtà”, come ad esempio i sentimenti del compagno. Ma non si tratta solo di esperienze coniugali: tutta la vita è dominata da una sorta di rimozione, dalla tendenza a “sottovalutare ciò che ci ha formato di più, e a replicarlo ciecamente”.

E lo scrivere? è forse il segno di un destino diverso, più consapevole, più responsabile? Pare di no: “Tutti gli scrittori sono in cerca di attenzione (…) Il fatto è che nessuno – sostiene un collega nel corso di un incontro pubblico – si è preso cura di noi quando eravamo piccoli e adesso gliela facciamo pagare. Se uno scrittore nega, per quanto lo riguarda, una componente di vendetta infantile in ciò che fa, è un bugiardo. Scrivere è solo un modo di farsi giustizia con le proprie mani”.

Ma lei, l’autrice, in proposito come la pensa? O meglio: come la pensa la protagonista, voce narrante del romanzo (del tutto somigliante all’autrice stessa, si giurerebbe comunque)? Lo dice, con chiarezza: ritiene un bene “il fatto che ogni lettore si avvicina al tuo libro come un estraneo che devi convincere a restare”, persuasa com’è della necessità di un “fondamentale anonimato del lavoro di scrittura”. Ed è un impegno mantenuto, questo: il personaggio di cui meno sappiamo, alla fine, è proprio lei, la narratrice, anche se il suo sguardo è pagina dopo pagina divenuto il nostro. Uno sguardo distaccato abbastanza per riportare con scrupolo le storie udite, ma partecipe in misura tale da permetterle di far di quelle storie l’occasione di riflessioni, di interventi in prima persona sommessi quanto penetranti, che solo il contatto stabilito con l’estraneo del momento pare aver reso possibili.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un giallo a passo d’uomo

Louise Penny, Case di vetro. Le indagini del commissario Armand Gamache, Einaudi 2019 (pp. 552, euro 15)

Dopo cinquanta pagine non è ancora successo niente: si può reagire così alla lettura del primo dei romanzi dedicati dall’autrice canadese al commissario Gamache. Il primo pubblicato in Italia di ben quattordici. Sì, la lentezza: è come guardare un film in bianco e nero di qualche decennio fa, uno di quei romanzi che si permettono di lasciare che i personaggi si costruiscano per minime pennellate successive. Così avviene per il protagonista, e proprio il processo che a poco a poco ci rende familiare questo personaggio è al centro della narrazione. Armand Gamache “credeva fermamente alla legge, aveva lavorato tutta la vita a servizio della giustizia, ma l’unica a cui sentiva di rendere conto era la propria coscienza.” E la storia si può leggere, infatti, anche come l’assommarsi delle circostanze che portano questo integerrimo poliziotto a far sua senza esitazioni o mezze misure la massima di Gandhi – secondo la quale “Esiste un tribunale più alto di quello degli uomini, ed è quello della coscienza. Il primo tra tutti i tribunali” – e a metterla in pratica correndo sul limite di quella che potrebbe apparire assenza di scrupoli. Quella stessa che qualcuno imputò a Churchill quando lasciò che i nazisti bombardassero Coventry per impedire che potessero rendersi conto che loro, gli inglesi, avevano decifrato il loro codice segreto: non opporsi alla morte di centinaia di persone per scongiurare quella di un numero molto maggiore di innocenti. Lasciare che un carico ingente di droga passi il confine fra il Canada e gli Stati Uniti pur avendone avuto notizia non è diverso: servirà al commissario a decapitare i due potenti cartelli, americano e canadese, dei trafficanti di morte.

Senonché, questo è solo un ramo della vicenda, l’altro si svolge in un tranquillo, minuscolo villaggio fuori da Montreal, lo stesso i cui abitanti – non numerosi, cui si aggiungono qualche turista e anche  Gamache e la sua famiglia – sono sconvolti dalla comparsa di una figura misteriosa, addobbata come la Morte nell’iconografia tradizionale: un cobrador, un misterioso personaggio la cui presenza, muta e di per sé innocua, suscita in ciascuno dei residenti il rimorso per un atto che avrebbe potuto evitare e invece ha compiuto, o si è colpevolmente astenuto dal fare. Tutti colpevoli, ma qualcuno – uno in particolare – più degli altri.

Il rapporto fra la ricerca dell’identità del personaggio mascherato e, poi, di quella che viene ritenuta dal paese come la sua vittima, da un lato, e dall’altro la lenta, paziente lotta ai padroni del mercato della droga, resta in sospeso per gran parte delle oltre cinquecento pagine del romanzo, persino agli occhi di personaggi decisivi come la giudice che, a fatti avvenuti, sta conducendo un processo nel quale, inspiegabilmente, il procuratore e il commissario chiamato a testimoniare, contrariamente a quanto sarebbe naturale, sembrano schierati su fronti opposti. L’andirivieni fra la cronaca del processo e quanto avviene al villaggio è frutto di una tecnica narrativa consumata, che permette di tener ferma l’attenzione del lettore, oltre che su quanto avviene, sui risvolti inaspettati del carattere di Gamache, uomo ironico, gentile, disincantato, ma al tempo stesso determinato, capace della pazienza lungimirante di uno stratega come dell’intervento tempestivo e se necessario violento del soldato: lo si scoprirà verso la fine, quando l’autrice dimostrerà di saper accelerare il ritmo narrativo fino alla tensione di un film d’azione. A colori.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un libro serio che si legge sorridendo

Michele Serra, Le cose che bruciano, Feltrinelli 2019 (pp. 174, euro 15)

Politico del “fronte progressista”, non sa accettare che non sia accolta la sua proposta di legge – avanzata in tempi non sospetti, e dal fronte progressista, appunto – per la “reintroduzione dell’uniforme obbligatoria” nelle scuole (una proposta volta a “rimediare a quella forma subdola di banalità che è l’anticonformismo”, l’ossessione di distinguersi cercando, velleitariamente, di vestirsi in modo diverso dagli altri). E dunque se ne va. Se ne va proprio, in montagna, a fare (anzi, a imparare a fare) il contadino, sicuro della sua scelta ma non della propria condizione: “fuggiasco vittorioso” o “dimissionario soccombente”? Di certo, convinto da tempo che “La politica è commovente, e commovente è chi fa politica”. Perché la politica, oggi, oltre che disarmante è disarmata: “con le sue presuntuose divinazioni sul destino degli uomini” si è ridotta ad essere una “branca della metafisica”, superata dai fatti, affogata nelle mene di potere, svuotata di senso da notiziari che sgranano il loro “rosario quotidiano di catastrofi” dicendo del disordine del mondo e nel contempo riordinandolo “nella struttura a rullo delle news”.

E intanto, “abbiamo troppe cose tutti quanti”, ne riempiamo le nostre case, ne accumuliamo continuamente e in aggiunta ne ereditiamo: “siamo cresciuti in una religione antropomorfa, che crede nella resurrezione della carne e colleziona reliquie con entusiasmo feticista. Le penne sono dita, le scarpe piedi, i cappelli scalpi, gli occhiali lo sguardo che hanno contenuto”. E si tratta invece solo di “scorie delle vite altrui che rimiriamo impotenti (…). Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro. Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da nostra memoria.” Una memoria che coincide con un “micidiale ricatto”: “quello che, per onorare il passato, ostruisce il presente.” E allora, ecco l’idea che fin dal titolo si annuncia: “Libertà è un rogo ben congegnato”. Bruciare, disfarsi di vecchi mobili e soprammobili, di carte e soprattutto di fotografie di famiglia, “volti di morti e di vivi che l’eternità irrisoria dello scatto fa sembrare comunque morti anche quando siano sopravvissuti”.

Trovata la soluzione, dunque, perché l’abbandono della città non si tiri dietro zavorre ingombranti? No, purtroppo: come il viaggiatore socratico che, per quanto si allontani, porta sempre con sé le proprie ossessioni, così il nostro ex politico non può fingere di aver reciso legami che lo gravano: “Mi rendo conto, con un certo fastidio  – deve ammettere –, che rischio di sentirmi legato a quel vecchio strumento di misura – l’opinione pubblica – che qui a Roccapane [il paese dove si è ritirato] vale quanto un peto di capra, ma giù nel mondo, dove tutti vivono addosso a tutti, ci rende oppressi.” Tanto più in questi ultimi anni, perché è “Incalcolabile quanto sia ingigantita, la sensazione di essere osservati, da quando hanno inventato la rete, la ragnatela a forma di mondo dove siamo impigliati a miliardi”.

Un libro serio che si legge sorridendo: potenza della scrittura di Serra, e del suo sguardo disincantato a ancora divertito sul mondo. E sul tempo, nonostante si sia costretti a constatare che “il passaggio del tempo non è uno spettacolo del quale si può essere semplici spettatori”, perché “Tornare indietro è impossibile, recriminare inutile. Bisogna inchinarsi al tempo che passa. Passiamo insieme a lui, e prima ce ne facciamo una ragione, meno doloroso sarà quando qualcun, tra una manciata d’anni, brucerà con pieno diritto le nostre vecchio cose.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il mondo di oggi, dalla propria finestra

Halldóra Thoroddsen, Doppio vetro, Iperborea 2019 (pp. 128, euro 15)

Il lavoro “è regredito all’automazione e ormai si occupa esclusivamente della propria crescita esponenziale”, “Il mercato divora con una forza finora sconosciuta, è diventato un predatore globale e nessuno riesce a contenerlo. Non è solo l’ambiente a soffrirne, siamo tutti a rischio di estinzione. Noi e tutto ciò che abbiamo di più bello, l’immaginazione e la solidarietà”: chi è l’autore di diagnosi critiche tanto radicali?

Non un sociologo o un filosofo. È una donna di settantotto anni, che da tempo vive ritirata nella sua casa, osserva il mondo ma, “In fondo è una donna da soglia di casa”. Alla quale comunque “importa di come va il mondo” e che “ha a cuore che i giovani se la cavino e possano godersela un po’”. Perché il mondo non è dei vecchi come lei, è delle “nuove generazioni”, che della “saggezza stantia di una vecchia come lei non sanno che farsene”. È così: “ogni generazione si rintana nel proprio settore, infanzia e vecchiaia sono destinate all’isolamento. Urliamo nella nostra caverna e sentiamo solo la nostra eco”.

Cionondimeno, questa donna “Non vuole morire proprio adesso che sono in corso tanti cambiamenti. Vuole poter continuare a seguirne gli sviluppi. (…) Invece di scuotere la testa come una garbata vecchietta e lasciare che al futuro ci pensino gli altri, è avida di capire.”

Di capire, ma anche di sentire, di provare sentimenti. E qui la storia richiama l’Haruf di Le nostre anime di notte*, perché il tema è quello dell’amore fra vecchi, come quello che sboccia fra la protagonista e un vicino settantacinquenne. Titubante lei, all’inizio (“non può certo esporsi a una pena d’amore alla sua età”), ma poi poco a poco persuasa – da una voce interiore – che “i desideri non si avverano in un animo pavido”: “Gli telefona e gli dice sì”. Una storia intensa, felice, la loro, proprio perché calibrata sulla loro età (“non fingono di essere diversi da quello che sono, di serbare ancora il vigore di un tempo”) e forte di una precisa consapevolezza, riassumibile nel fatto che “L’amore tra persone anziane non è un amore coniugale sano, che ambisce a riempire la terra”.

Una storia intensa, dunque, ma breve: lui muore prima che sia stato loro assegnato l’appartamento in una residenza per anziani dove volevano vivere, insieme. E lei? Dopo il dolore della perdita, “La sofferenza non la travolge più a ondate. Ormai la conosce, ci si è abituata. Ora riesce a osservarla dall’esterno, a salutarla con un cenno del capo. Certo che soffriamo, dal momento che ci troviamo in questa tragedia greca sappiamo che la fine è inevitabile.”

E allora non resta che prenderne atto, aderendo alla propria condizione, tornando ad osservarli, gli altri: “Là fuori tutti stanno cambiando il mondo. Lei resta in disparte, seduta alla finestra”. Il che non significa affatto chiudersi in se stessa, prova ne sia che quando i cittadini islandesi protestano contro il governo nel periodo della crisi economica che non ha risparmiato l’Islanda, anche lei va in piazza con mestolo e tegame a manifestare sonoramente il proprio disappunto, partecipe al punto da chiedersi se “finalmente sia diventata parte della collettività, anche se per un brevissimo momento”. Per poi tornare tuttavia dietro la sua finestra, dietro il doppio vetro da cui guarda il bambino che gioca con la sabbia, e sentire che la sua esperienza “non le arriva più di riverbero”, ma che “lei è l’esperienza”; sentire che “Si fonde con il mondo che sta fuori”, e dunque “È compiuta”.

Scrivere di vecchiaia in un Occidente sempre più vecchio testimonia dell’apertura del romanzo agli avvenimenti davvero epocali che viviamo, ma Thoroddsen fa di più. Ci racconta di un cammino umano compiuto senza infingimenti, e senza indulgenze né accanimenti verso di sé, fino alla fine.

* K. Haruf, Le nostre anime di notte, NNE 2017, in questi Appunti di lettura il 19 marzo dello stesso anno

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una versione narrativa di noi stessi

Emanuele Trevi, Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018 (pp. 224, euro 16)

Il senso della caducità della perdita, innanzitutto: “Quando consideriamo il passato, l’estinzione di tante cose che ci apparivano ovvie e addirittura necessarie al nostro stesso esistere non stupisce affatto. Perché le vediamo fragili…”. Ma non solo le cose. Anche “il tempo degli artisti” ancora verificabile sul finire del Novecento, quando “erano esseri umani investiti di una vocazione”, o lo stile di vita, la dimensione dell’esistenza, che “godeva di larghi margini di lentezza” perché “era fondamentalmente sconnessa – ossia: disconnessa –, in una maniera che per chi ha oggi venti o trent’anni è difficilissima da immaginare. (…) Era normalissimo assentarsi, non dare notizie di sé per giorni o per settimane. E dunque, com’è logico supporre, le persone si pensavano con maggiore intensità…”. Un vissuto diverso del tempo, nella sostanza, che in certi luoghi, come il “cineclub” frequentato a diciott’anni conservava una “qualità speciale”.

È proprio così, o dipende dalla postura psicologica? L’autore non ha problemi, in ogni caso, ad ammetterlo (e siamo così a un secondo tema decisivo): “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Tema non casualmente ricorrente, la depressione, nella  letteratura recente, ma in Trevi non appare questione con cui fare i conti, da risolvere, in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, in questi Appunti lo scorso 18 novembre –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”. Per tutti, anche per chi crede di trovare nello scrivere una ragione per attribuirsi una personalità irripetibile: “la condizione dell’«autore» può rivelarsi un ostacolo, un ulteriore gabbia”, e uno stato di connivenza, forse, con il “gioco” imperante di “tener buona la gente a colpi di consenso narrativo e identificazione emotiva”. Lo sapeva già Metastasio, del resto, che pure ne faceva oggetto di un sonetto grazioso, quanto sia assurdo, per lo scrittore, commuoversi di fronte ai sogni e alle favole che inventa. Assurdo ma necessario, perché “solo nel riparo delle nostre finzioni l’esistenza è tollerabile se non sempre felice e “costruire una versione narrativa di noi stessi” è l’unico modo di preservarci “dalla follia e dalla disperazione sempre in agguato”: “il vero fondo è quando non ti racconti più nulla in cui puoi credere, quando per qualche motivo finisce il carburante, la possibilità di collocarti in una storia anche minima, anche misera, e di collocare a sua volta quella storia nel mondo che altrimenti ti apparirà per quello che è…”.

Eppure. Eppure ci sono autori incontrare i quali apre spiragli nella “cortina di buone maniere in cui consiste la vita sociale”. Si può trattare di un fotografo ritrattista come Arturo Patten, di una poetessa disperata come Amelia Rosselli, o di un letterato originale quanto spigoloso come Cesare Garboli. La capacità di guardare del primo, di vedere oltre la maschera che “l’alveare sociale” ci ha assegnato e alla quale abbiamo finito per credere; la “sovrabbondanza di destino” che gravava sulla seconda; la lucidità – rispecchiata nel logorarsi delle cose, nella “senescente dignità” che si coglieva nella sua casa – con cui il terzo sapeva individuare “l’oggetto della scrittura, inseguito durante i giorni passati a raccogliere, selezionare, interpretare tracce”, ossia “la vita, e il suo segreto di Pulcinella”, “l’assoluta mancanza di significato”, “l’illusorietà di ogni singola esistenza trascorsa in questo mondo.” E con questo il cerchio sembra chiudersi: la ricerca, sulla scorta dei maestri incontrati, ha se mai reso ancor più chiara la consapevolezza che “tutti noi, vivendo tra gli altri, desiderandoli e temendoli, sviluppando infinite forme di aggressività e dipendenza, orgoglio e sottomissione, finiamo per smarrire, in maniera più o meno grave, la strada della somiglianza a noi stessi. Come cani che a forza di fiutare tracce non sono più in grado di tornare a casa.”

Perché non si esce prostrati dalla lettura di un testo che non lascia margine alla speranza, se non a quella ravvisabile nel fatto che “noi sopravviviamo” non nelle “cose che abbiamo portato a termine”, ma “in tutto quello che non siamo riusciti a fare, nel tempo che non ci è bastato, nei rimpianti, nelle imprese interrotte”?

Perché non è un lamento, né una deprecazione, quello che l’autore ci consegna. La sua non è la voce di un uomo disperato, ma di chi s’è a lungo sforzato di vedere un senso nel non senso, ossia di smetterla di cercare un senso. Di qui uno sguardo inesorabile, e tragico, certo, ma limpido, pacato: un po’ come quello di Annie Ernaux, di cui non a caso Trevi cita un incipit indimenticabile, l’incipt de Gli anni: “Tutte le immagini scompariranno”.

Anche quello, di Ernaux, un romanzo sui generis, per certi aspetti avvicinabile a questo, che pure porta in copertina la dicitura “Romanzo” ma si potrebbe, come qualcuno ha fatto, definire saggio autobiografico. Non certo un saggio concluso, necessariamente riferendo – come non è possibile fare altrimenti parlando della vita – di “un apprendistato”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La nostalgia, un sentimento necessario

Antonio Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento (Nuova edizione ampliata), Cortina 2018 (pp. 203, euro 14)

Eugenio Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi 2018 (pp. 114, euro12)

Tra gli scritti sul concetto di nostalgia raccolti dal curatore già nella prima edizione di questo libro, nel 2004, continua a meritare di essere (ri)letto soprattutto quello di Jean Starobinski, inequivocabile nel mettere in luce come il termine abbia “assunto poco a poco una connotazione spregiativa”, passando “a designare il vano rimpianto di un mondo sociale o di un tipo di vita ormai svanito, di cui è inutile deplorare la scomparsa”.

Sarebbe un rapporto di sinonimia quello che corre fra la nostalgia e il rimpianto, dunque? Nient’affatto, spiega Borgna: “nel rimpianto ci si sente dolorosamente colpevoli e responsabili delle cose perdute, e non ci sono mai le increspature talora elegiache della nostalgia che ci fa guardare alle esperienze del passato come a esperienze che continuano a vivere nel cuore e nella memoria, e che rimarginano le ferite del presente, aiutandoci a resistere all’assenza di persone e di luoghi che abbiamo amato.”

Ma prima di meritare questi distinguo essenziali, il concetto di nostalgia ha accumulato una lunga storia, a partire dall’invenzione del suo nome, fatto di ritorno e di dolore. Prete ci accompagna nel cammino che dal neologismo coniato da Johannes Hofer nel 1668 per designare quella che si considerava una malattia, anche mortale, ha portato ad acquisizioni successive che ne hanno fatto un sentimento: un percorso inverso, sotto certi aspetti a quello della melanconia, passata da presenza naturale e inevitabile nella vita degli uomini ad un’affezione senz’altro da curare, la depressione, non a caso contemplata nel DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).

Sono molti i nomi che segnano l’evoluzione del concetto di nostalgia. Uno per tutti, Kant, secondo il quale “il nostalgico desidera ritrovare non tanto lo spettacolo del luogo natio quanto le sensazioni della sua infanzia”. Un desiderio impossibile da realizzare, se non si vogliano considerare i doni miracolosi della memoria involontaria di Proust: per i più, un ritorno che non si può non desiderare ma è destinato a restare un desiderio. E più del filosofo è allora il poeta a soccorrerci: in Caproni, ad esempio, “il ritorno accade, ma accade senza che ci sia stata partenza”, la sensazione è quella “del perduto senza poter nominare la cosa perduta”; la nostalgia, “una nostalgia senza nostos”.

E insieme a Caproni, nel nuovo denso capitolo che Prete ha aggiunto nella nuova edizione, troviamo il “disio” di Dante, la “ricordanza” di Leopardi, la melanconica critica del moderno di Baudelaire, le diverse declinazioni di una sostanziale ridefinizione del rapporto fra passato e presente – attraverso la lingua poetica, appunto – oltre che dello stesso Caproni, di Ungaretti, Montale, Luzi. Perché “la poesia ha contribuito – in una misura decisiva – a trasformare la nostalgia da malattia a sentimento”.

Un sentimento per nulla regressivo. È lo psichiatra ad assicurarcelo, sulla base della propria esperienza così come della sua vasta e appassionata frequentazione letteraria: “non c’è solo la nostalgia che fa male, la nostalgia che si fa talora malattia, ma c’è (anche) la nostalgia che sollecita a vivere, e fa nascere in noi un passato che sarebbe altrimenti perduto per sempre.” Nella sua prosa ricca di immagini e straboccante di aggettivi che richiamano la complessità e l’ineffabilità dello spazio interiore, la nostalgia viene indagata “nelle sue dimensioni arcane e segrete, umbratili e luminose, fragili e strazianti” per giungere alla constatazione conclusiva: “Così noi viviamo, e ogni volta diamo l’addio a qualcosa di noi che la nostalgia misteriosamente ci consente di ritrovare”.

Un tema da non smettere di sondare, due libri (oltre quelli cui sia Prete che Borgna rimandano) da leggere e rileggere. Tanto più in tempi di rotture col passato spavaldamente invocate e palingenesi disinvoltamente annunciate.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Te non ti puoi ricordare

Paolo Teobaldi, Arenaria, edizioni e/o 2019 (pp. 160, euro 16)

“Te non ti puoi ricordare, non eri ancora nata”, “e poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai…”: è un lungo racconto alla nipotina questo libro, un racconto fatto di divagazioni (di cui l’autore rivendica la legittimità “Melville, in Billy Budd, dice che le divagazioni in un racconto sono un po’ come dei peccati: ma, come quelli, altrettanto gustosi”); un racconto del, sul Tempo, letto nei cambiamenti, e nelle perdite. In quelle subite dalla lingua in primo luogo: è anche un grande repertorio di parole andate, questo libro. Di parole della parlata locale, lì nel Pesarese come dovunque: fuori dalla città non si trovavano solo campi o incolti, ma anche “gerbidi, cannicce, rimorte, orti, pozzi, guazzi, mazzacavalli a stufo”, così come giù sulla spiaggia, “sotto l’acqua di questa nostra bassura adriatica”, “nuotavano zanchette, raschia terra, aguglie, raguselli, branchetti di papalina e di baldigare”. Non viene neanche alla mente di cercare il significato preciso di ciascuno di questo termini: non è discorso quello che producono, ma musica, che resta nelle orecchie terminata la lettura, quando si guarda quella bambina che pedala vicino al vecchio in bicicletta, tabarro sciarpa e cappello, e una fisionomia che inevitabilmente richiama quella del nostro Franco Piavoli, un volto che ben si accorda con queste pagine. Dense non di rimpianto e recriminazione, ma se mai del rilievo puntuale, e sornione, di perdite non necessarie, che proprio non viene in mente di chiamare Progresso. Ma del resto, niente rimane identico a se stesso, né le cose né gli uomini. Neanche l’arenaria che forma l’altura che digrada verso il mare alle Rive del San Bartolo e che una volta non si lasciava “lambire e sgrottare” dalle onde come avviene oggi: “dove oggi vedi il mare lì c’era tutta terra, ma terra buona, ampi coltivati, filoni di grano, vigne maritate coi mori (…) una terra benedetta che una volta, favoleggiava mio padre (…) era propriamente, né più né meno, il Paradiso terrestre, quello della Genesi, dove Adamo ed Eva, tenendosi per mano, tra le ginestre in fiore, ciascuno col rispettivo umanissimo ballonzolio.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La lezione della misura

Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio, Einaudi 2019 (pp. 170, euro 16,50)

“Il fatto è che quando discutiamo con qualcuno, se l’argomento ci sembra importante e se i toni si accendono, vorremmo sempre stravincere. Vorremmo inchiodare l’altro, vorremmo che riconoscesse che noi abbiamo ragione e lui, o lei torto. (…) è una pura questione di ego. Mentre l’ego dovrebbe essere escluso dall’orizzonte di qualunque transazione con gli altri, di qualsiasi tipo, sia professionale sia personale”. Sono constatazioni, frutto di quell’esperienza vera che è riflessione mai conclusa sulle esperienze vissute, quelle del maresciallo Pietro Fenoglio, non insegnamenti. Ormai alla vigilia della pensione, è con un giovane casualmente incontrato nella palestra in cui entrambi fanno esercizi di riabilitazione (per conseguenze dovute ai raggiunti limiti di età uno, per quelle di un incidente l’altro), che il vecchio carabiniere si intrattiene: la vita sembra colorarsi di maggiore significato se, sia pure indistintamente, si individua un erede cui trasmetterne episodi e situazioni che non si sono lasciati dimenticare. Non necessariamente il proprio figlio – come in Alle tre del mattino -, ma un giovane comunque. In ogni caso, un interlocutore del quale prendersi cura, una cura che è socraticamente incoraggiamento all’altro perché prenda cura di se stesso. E difatti il ventenne Giulio prenderà via via coscienza della propria confusione esistenziale, della pigrizia con cui si rapporta a un possibile progetto biografico. Perché sono solo apparentemente regole dell’investigazione quelle che gli illustra il maresciallo – detective della stessa pasta di Maigret, per intendersi (”Bisogna sapersi adattare all’interlocutore per riuscire a convincerlo. In qualsiasi campo credo, ma di sicuro nelle indagini. E un’altra cosa importante è offrire, o prospettare, una via d’uscita dignitosa, non umiliante.”) In realtà, ben si adatta alla vita in generale la fiducia in una ragione che non è mai soltanto esercizio di razionalità, ma sempre virtù della ragionevolezza, senso della misura, consapevolezza dei limiti propri e altrui, disincantato ed empatico sguardo sui propri simili: “tutti in qualche modo mentono. Mentono agli altri e mentono a sé stessi. Mentono sulle loro azioni e mentono sui veri motivi di quelle azioni”, e “le testimonianze vanno trattate con cautela perché sono tutte, almeno in parte, false testimonianze; anche se il soggetto è sincero, in buona fede.” Perché “la nostra percezione è come uno specchio deformante”.

Insieme a considerazioni del genere, a intervallare gli “arancini” (direbbe Camilleri) di Fenoglio, che sempre parte da sintetici racconti delle proprie indagini, sono anche riferimenti letterari, che risaltano spesso per la loro attualità – “Dumas diceva: preferisco i mascalzoni agli imbecilli, perché a volte si concedono una pausa”. Il maresciallo è infatti un uomo contraddistinto da un interesse di lunga data per la letteratura: “Non si può scrivere senza aver letto molto. Non ricordo chi ha detto che ogni vero scrittore è seduto su una catasta di libri altrui. Diciamo che la lettura è un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per scrivere qualsiasi cosa.” Ma, del resto, il mestiere dello scrittore e quello dell’investigatore non sono poi così lontani: “Credo che la chiave sia: porsi domande su quello che si sta guardando e, più in generale, su quello che si sta percependo. Solo così smetti di dare le cose per scontate e cominci a vedere davvero ciò che ti circonda. Immagino sia una qualità richiesta anche a un bravo scrittore: registrare cose che hanno visto tutti e mostrarle come se fosse la prima volta, come se prima non le avesse mai notate nessuno.” Il che non è affatto facile, assicura lo stesso Carofiglio in una recente intervista (“Tuttolibri” del 2 marzo) richiamando una testimonianza autorevole: “«Scrittore è colui al quale scrivere riesce più difficile che a qualunque altra persona» ha detto Thomas Mann.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un trascinante caos narrativo

Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza, Guanda 2018 (pp. 409, euro 19)

Perché si racconta dei propri genitori? ci si chiedeva dopo aver letto Tra loro, di Richard Ford (in questi Appunti il 30 luglio 2017). Per capire chi erano, dice Ford: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i genitori  creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero”.  Perché, sostiene Vilas, “Tutto scompare tranne quel mistero, che è il mistero della volontà di essere, della volontà che ci sia un altro diverso da me; su quel mistero si basano la paternità e la maternità”. Parole simili, ma per Ford i genitori sono quello che loro hanno fatto, le loro scelte, la loro vita; per Vilas sono la ragione nascosta del proprio fare, o non fare, e continuano a segnare la trama della propria vita: “Tutto quanto successe a mio padre si ripercuote sulla mia vita con una precisione millimetrica. Stiamo vivendo la stessa vita in contesti diversi, però è la stessa vita.” “Il suo ‘cosa parto a fare?’ – era commesso viaggiatore, il padre – arriva a me in un ‘cosa scrivo a fare?’”. Ma non meno tenace è l’identificazione con la madre: “Tutto il mio passato sprofondò quando mia madre fece la stessa cosa di mio padre: morire. (…) Ciò che mi univa a mia madre era e continua a essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte. (…) Chiamo madre il mistero generale della vita.”

E’ attraverso la lente fornita dal legame insuperabile con i genitori che si articola un’autobiografia discontinua, ricorsiva, fitta di cortocircuiti verbali che mimano il percorso solo apparentemente casuale delle associazioni libere (“Quando il cadavere di mio padre è bruciato, si è fuso il dente d’oro? (…) Si è tenuto il dente d’oro il medico legale che ha fatto l’autopsia a mio padre togliendogli il pacemaker? Ha fatto un pacchetto, dente d’oro e pacemaker? L’oro e il cuore? Mio padre ha avuto un cuore d’oro.”). “Mia madre era una narratrice caotica – ammette del resto l’autore. Anch’io lo sono. Da mia madre ho ereditato il caos narrativo”.

Studente, poi insegnante, l’alcolismo poi superato, il matrimonio, il divorzio, due figli che si rivelano ben presto due sconosciuti: finisce solo, il protagonista, e scrive, di sé, di loro, consapevole che “Il passato di qualunque uomo o donna di più di cinquant’anni si trasforma in un enigma. È impossibile risolverlo. Non resta che innamorarsi dell’enigma”. L’enigma di una famiglia che non si può annoverare fra quelle felici: “Eravamo una famiglia catastrofica, e allo stesso tempo avevamo la nostra originalità”, sintetizza l’autore, e sembra confermare l’aforisma di Tolstoj. Se il padre, uomo dinamico e volitivo per altro, era soggetto a ricorrenti “crolli della volontà”, la madre è stata “una donna-dramma”, i cui mali “erano enumerativi. Enumerava dolori, alcuni di un’originalità immensa.” Afflitta da ipocondria e malinconia, come chiunque del resto quando ha oltrepassato la metà della vita e “dedica il proprio tempo a favoleggiare sul tipo di malattia che lo strapperà al mondo. Simula e ordisce storie sulla propria morte che vanno dal cancro all’infarto, dalla morte improvvisa all’anzianità interminabile.”

La morte, la caducità, la “vanità” di tutto e tutti (anche delle idee e della politica, nella Spagna postfranchista) è l’altro filo conduttore (l’altra faccia?) del legame inestinguibile con chi ci ha messo al mondo, e giunge puntuale a svuotare di senso il presente: “Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo” e per constatare “l’inutilità di tutte le conversazioni umane che sono state e che saranno”, leggiamo già nella prima pagina. La “transitorietà di tutto” è uno “scandalo” insopportabile, ed è un “transito scriteriato” quello che va dal movimento vitale al rigor mortis”.

Eppure, in questo fiume che non risparmia nulla e nessuno, in cui “Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero e un televisore duravano trent’anni”, e “la gente non seppellisce elettrodomestici vecchi” anche se c’è chi “ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano”, ebbene: anche in questo fiume rapinoso c’è stata bellezza. “In tutto c’è stata bellezza”: che cosa nasconde quest’affermazione ricorrente, inattesa, intempestiva? Lo sforzo di abbandonare un punto di vista centrato su se stessi? di venire a patti con il senso tragico del passato e della morte? di accettare la vita, sia pure paradossalmente? Lo farebbe pensare quella che si può considerare una conclusione, anche se precede di parecchie pagine la fine del romanzo. Un romanzo che sa conservare fino all’ultimo la sua carica di ironia sofferta: “Può darsi che alla fine un uomo si innamori della propria vita. È questo che mi sta succedendo. (…) quello che non potevo immaginare è questa riconciliazione con me stesso. (…) Può darsi che alla fine a essere sconfitta sia la solitudine. E può darsi che alla fine tu scopra che l’unico essere umano che non è un’assoluta rottura di palle sei tu.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una storia bizzarra che dà speranza

Abraham B. Yehoshua, Il tunnel, Einaudi 2018 (pp. 340, euro 20)

Quel che resta, dopo la lettura dell’ultimo romanzo di Yehoshua, è l’autoironia benevola del protagonista, e insieme il senso profondo, la pratica sperimentata dell’amore che da decenni lo lega alla moglie. Due facce della stessa medaglia, due coordinate senza le quali Zvi Luria, ingegnere in pensione, non potrebbe affrontare con realismo e serenità l’avanzare di un’incipiente atrofia cerebrale e la conseguente perdita di memoria, dei nomi innanzitutto. Eppure, proprio questi sintomi, riconosciuti senza mezzi termini come spie di una irrecuperabile “demenza”, sono lo stimolo a reagire: tornare a collaborare, sia pure a titolo gratuito, a progetti stradali come ha fatto tutta la vita può rappresentare la terapia occupazionale migliore. E’ la moglie a suggerirgliela, e a darle possibilità concreta un giovane ingegnere che è andato a occupare quello che era stato il suo ufficio nell’ente pubblico “Percorsi di Israele”, un nome che evoca l’altro filone che attraversa questa come tutte le storie di Yehoshua: la sorte del conflitto fra palestinesi e israeliani, qui attraversato tuttavia da sotterranee correnti di solidarietà fra le due parti che ispirano idee come quella di non spianare la collina che ostacolerebbe la costruzione di una nuova strada militare, ma di attraversarla con un tunnel in grado di consentire la conservazione delle rovine archeologiche che coronano l’altura offrendo rifugio a un nucleo familiare di clandestini arabi. La scrittura piana di Yehoshua sembra echeggiare “lo spirito positivo di calma professionale” che ha sempre connotato l’impegno di Luria e continua a guidare il lavoro di pediatra svolto dalla moglie. L’uno e l’altra personaggi emblematici di un superiore spirito di civiltà non intaccato dalla guerra e capace di indicare una via in un paese dilaniato dalla violenza eppure così piccolo che neanche un demente smemorato potrebbe perdercisi. Un paese in cui del resto tutti sono un po’ “confusi”, ma nel quale sarebbe bello tornare a pensare – come facevano da giovani il protagonista e il suo amico Ben Gurion, il fondatore di Israele – che i contadini arabi e i beduini non fossero altro che “discendenti di ebrei che non se n’erano mai andati da qui, anche se, col tempo, erano stati costretti a convertirsi a un’altra religione”. Una “storia bizzarra”, certo, ma di quelle che “almeno danno speranza”. Proprio come il progetto del tunnel, altrettanto bizzarro, e costoso per di più, e proprio per questo realizzabile – nonostante la prevedibile opposizione dei burocrati del ministero della Difesa – solo in forza di una “demenza creativa” come quella di un “ingegnere senescente”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo

Anne Cathrine Bomann, L’ora di Agathe, Iperborea 2019 (pp. 156, euro 15)

Un pacato, sommesso Ebenezer Scrooge nei panni di un vecchio psicanalista. Non siamo alla vigilia di Natale ma una data importante è ormai vicina: sei mesi, e sarà la pensione. Fa il conto alla rovescia delle ore di colloquio che deve fare: il suo lavoro gli si è rivelato sempre più come una “farsa”, noia e fastidio accompagnano le sedute, e l’età si fa sentire: “invecchiare – pensavo, sentendomi invadere dall’amarezza – significa soprattutto veder crescere la differenza tra il proprio io e il proprio corpo, finché un giorno si diventa completamente estranei a se stessi.”

Ma qualcosa accade: la sua fedele segretaria, contravvenendo agli ordini del professionista che assiste da anni, accetta una nuova paziente, anche se è chiaro che la cura richiederà più tempo di quello che resta prima della pensione. Si tratta di una signora, di Agathe appunto, con ricoveri psichiatrici alle spalle, difficilmente classificabile secondo le categorie della malattia mentale. Sennonché, l’inquietudine di Agathe non appare allo psicanalista estranea quanto le sofferenze degli altri pazienti, forse perché lui stesso sente ormai incrinata la sicurezza nella quale ha rinchiuso la propria vita: “Mi resi conto di aver coltivato per tutto quel tempo l’idea che la vita vera, la ricompensa di tutte le fatiche, sarebbe arrivata il giorno in cui fossi andato in pensione. Ma ora, guardando al futuro, non riuscivo proprio a immaginare che la vita contenesse ancora qualcosa di cui rallegrarmi. Non erano l’angoscia e la desolazione le uniche certezze?” Non arretra di fronte a questa rivelazione, il dottore, costretto ad un’ammissione che non avrebbe mai sospettato di poter fare: “Sono esattamente come loro, pensai, mentre uscivo per andare incontro al primo paziente.”

Sia pure in un modo diverso dal personaggio di Dickens, anche lui è stato un avaro, che ha scambiato la freddezza per professionalità, che non ha mai amato nessuno, come confessa al marito moribondo della sua segretaria. Si ritroverà così a piangere al funerale, a confezionare – la prima volta in vita sua – una torta per il vicino con cui fino allora non aveva scambiato che un saluto sbrigativo, e soprattutto a cedere all’attrazione che sente per Agathe: l’invito di lei ad entrare insieme in un caffè chiude il racconto di una vicenda che nessun avvenimento di rilievo ha segnato, se non – come in molti romanzi giapponesi – un mutare di sentimenti, silenzioso, decisivo.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La Resistenza dalla storia alla letteratura

Angelo Bendotti, Nel segno di Fenoglio. Lo straordinario e il vero, Istituto bergamasco per la storia della Resistenza e dell’età contemporanea-Associazione editoriale Il filo di Arianna 2919

La distanza fra storici e narratori della Resistenza – portatori i primi di uno sguardo dall’alto, privo di complicazioni emotive, e i secondi attenti invece a restituire il vissuto di una lotta condotta giorno per giorno – aveva trovato un correttivo a inizio anni Novanta nell’opera di Claudio Pavone. Una guerra civile, in cui lo storico attingeva a testimonianze capaci di render conto della concreta esperienza di quei giorni. Ora, questo libro sembra “annunciare una terza fase nei rapporti fra storici e narratori”: questo il parere autorevole di Gabriele Pedullà, scrittore e critico letterario secondo il quale “Bendotti compie il percorso di Pavone nella direzione opposta: dalla storia alla letteratura”.

A motivare un simile percorso è la convinzione che la letteratura non sia “accessoria”, non si riduca a “un divertissement a fianco della ricerca storica, e che quindi “per studiare la storia della lotta partigiana bisogna innanzitutto partire dai grandi scrittori”: quanto rileva nella sua introduzione Elisabetta Ruffini, attuale direttrice dell’Istituto bergamasco, è subito confermato dall’autore stesso, che nella sua nota d’apertura esprime la sua “gratitudine nei confronti di Beppe Fenoglio (…) perché mai nessuno ha scritto meglio di Resistenza”. Sicché i suoi romanzi possono essere assunti come “una guida dentro la ricerca storica”, nella “consapevolezza che la storia è anche racconto della storia”. E sono appunto racconti quelli che si leggono nei dodici capitoli che si dispongono attorno ai due centrali, in cui si raccolgono le riflessioni di carattere più teorico sul rapporto fra storia e letteratura. Dodici capitoli che – mettendo in risalto momenti e situazioni, ruoli e figure – propongono altrettanti temi, “spesso scomodi e/o poco sviluppati”, che sono le “storie” raccolte dall’autore a mettere in luce: “storie che potrebbero ridare un significato alla parola antifascismo”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Volti della città e percorsi delle esistenze

Patrick Modiano, Ricordi dormienti, Einaudi 2018 (pp. 83, euro 15)

“Mi è capitato più volte di imbattermi nelle stesse persone per le vie di Parigi, persone che non conoscevo. A forza di incrociarle per strada, i loro visi mi diventavano familiari. Credo che mi ignorassero e che solo io notassi quegli incontri fortuiti. Altrimenti ci saremmo salutati o avremmo scambiato due parole. (…) Per consolarmi annotavo scrupolosamente il luogo esatto e l’aspetto fisico di questi sconosciuti.” Del resto, lui, il protagonista, annota anche le parole che ascolta per caso in un bar, per la strada: perché non vadano perdute.

Volti, parole, ma soprattutto ricordi, disseminati in una città di cui si offrono in quantità riferimenti topografici e toponomastici precisi, ma che rimane evanescente, quanto gli amori che ai luoghi restano legati, gli uni e gli altri immersi nella fluidità del sogno.

Ricordi che s’era creduto d’aver smarrito ed erano invece dormienti, e la scrittura sa risvegliare. Una scrittura apparentemente svagata, digressiva, ma in realtà capace di aderire alle pieghe di un’immaginazione sempre al lavoro, sempre all’erta, nell’attesa di incontri che potrebbero risolversi in rivelazioni capaci di far luce sui “misteri di Parigi”, di cui il protagonista è da sempre curioso. Non collezionista, non storico, ma appassionato cultore degli insondabili rimandi fra i volti della città e i percorsi delle esistenze, perché “Parigi è così, disseminata di punti nevralgici e delle forme molteplici che le nostre vite avrebbero potuto assumere”, e di tracce preziose, ancorché enigmatiche, che riportano a momenti della propria vita, a persone che ci si era sforzati di dimenticare, e che invece “ritornano a galla come corpi annegati all’angolo di una strada, dopo decine di anni, a certe ore del giorno”. In una Parigi dove può accadere di trovarsi in “luoghi incerti, specchi di una stagione in cui il tempo sembra essersi fermato – luoghi che spariscono non appena la vita riprende il suo corso e la città il suo aspetto consueto.”

Gli interminabili esercizi di memoria di Modiano sembrano aver trovato il loro più felice approdo in questo paesaggio fluttuante, che lascia a tratti intravedere le strade che la vita non ha preso.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Una nuova avventura del biblioterapeuta

Fabio Stassi, Ogni coincidenza ha un’anima, Sellerio 2018 (pp. 282, euro 14)

Il protagonista del romanzo è la memoria, quella biografica, individuale, e quella letteraria, collettiva, perché, incerto e appassionato insieme del mestiere che si è inventato, il protagonista è un “biblioterapeuta”, lo stesso che abbiamo conosciuto in La lettrice scomparsa (Sellerio 2016). E non si direbbe guarito dal “mal di letteratura che l’aveva colpito”: “La mia memoria è alluvionata da indici, frontespizi, quarte di copertina. (…) Ogni libro che leggo è un metro di terra che sottraggo alla realtà. Eppure continuo ad amare la letteratura di un amore sconsiderato, a ricevere i miei pazienti, a dare, per quel poco che conta, un ricovero passeggero ai loro dispiaceri, convinto che non ci sia gesto più umano che leggere (…). Ma le parole degli altri non possono salvare nessuno se non diventano tue.”

E se il paziente ha perso la memoria (il dottor Alzheimer aleggia anche in questo come su innumerevoli altro romanzi di questi anni)? Non resta che cercar di ricostruire dalle poche frasi sconnesse che ha scritto o dice, nella clinica dove si trova, il libro che le conteneva e nel quale avevano senso. Più del malato è allora la sua straordinaria biblioteca a guidare il biblioterapeuta detective e qui, esplicitamente richiamato dall’autore, è quella borgesiana di Babele ad esser chiamata in causa, perché il tempo della biblioteca è “l’eternità”: “La memoria degli uomini era fragile, ma quella della biblioteca perenne. (…) Quel luogo aveva l’età di tutti i libri che conteneva, dal più antico a quello che non era ancora stato scritto.”

Borges, Canetti, ma anche Kafka (alla rilettura della Metamorfosi sono dedicate alcune pagine che valgono l’intero libro) e tanti altri: le digressioni sono all’ordine del giorno, tanto da creare un senso di leggera vertigine di storie nella storia. È forse questa sensazione la musica che attraversa il romanzo: già, perché per giudicarne uno non si tratta di chiedersi di che cosa parla, di com’è costruito, secondo quale stile, ma di porsi solo una domanda, essenziale: “Come suona? Ecco: l’unico interrogativo ragionevole che un lettore dovrebbe porsi di fronte a quello che legge è chiedersi sempre come suona.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La compassione: un sentimento riparatore, una pratica necessaria

Erminio Gius, Compassione, EDB-Edizioni Dehoniane Bologna 2019

La Bibbia e le parabole del Vangelo, da un lato; dall’altro, le argomentazioni provenienti dalla psicologia sperimentale come dalla psichiatria fenomenologico-esistenziale, dalla psicoanalisi come dalle neuroscienze: i due discorsi si confrontano in questo libro, l’uno lascia intravedere l’altro, si direbbe, secondo la relazione tra figura e sfondo messa in risalto dalle immagini che la psicologia della Gestalt ci ha reso familiari. La sicurezza affettiva offerta dal ventre materno sfuma nella serenità onnipotente vissuta nel giardino dell’Eden, ed entrambe sono inevitabilmente esposte al senso del vuoto, al fantasma dell’angoscia, alla presenza luttuosa della morte.

Le acquisizioni della “scienza psicologica” – sondata con l’ampiezza e la profondità che Eugenio Borgna sottolinea nella sua introduzione – sono il veicolo di un “approccio ermeneutico alla Bibbia”, intesa come “un’antropologia esistenziale piena, corposa, appagante e affascinante”. Tra un Prologo e un Epilogo, esplicitamente rivolti a orientare il lettore, si dipana una riflessione densa di riferimenti, ricca di digressioni, attorno al concetto di compassione, dimensione della misericordia – prerogativa divina – cui la persona umana può attingere, nonostante sia “biologicamente progettata per la sua autoconservazione”, facendone il “fondamento della vita sociale e della stessa democrazia”. Perché, e come, gli uomini possano rendersi compassionevoli è il tema della prima parte del saggio; a quale fine, della seconda. La parabola del figlio prodigo e quella del buon samaritano, soprattutto, offrono il “materiale letterario” sul quale si sviluppa “il pensiero sull’uomo compassionevole e sulla possibilità che la compassione diventi un’etica universale per la pace nel mondo”. Una continuità sostanziale lega i due versanti del discorso: la “riparazione del dolore” che la compassione rende possibile attiene sia “all’anelito di raggiungere la pienezza totalizzante rimembrata nella condizione di vita dell’utero materno” sia alle “sacche di dolore innocente” che travagliano l’attuale società globale, una “società smarrita sia nella sua opulenza sia nella sua povertà”, nella sua indifferenza come nella sua sofferenza. Sul fronte individuale e intrafamiliare così come su quello sociale e politico il “destino degli uomini” è comunque segnato dall’irraggiungibilità e dall’impraticabilità di una felicità che – sosteneva Kafka – rimane comunque scopo fondamentale sul cammino di un quotidiano e mai risolto confronto fra la “tentazione antica di inseguire l’onnipotenza narcisistica e l’impegno a vincere il male oscuro della depressione del ripiegamento difensivo”. Ed è qui che la compassione – espressione di “bontà intrinseca” ma anche di “aspetti oscuri” che non si possono ignorare – rivela la sua capacità di offrire “quell’abbraccio di contenimento benedicente che il dolore di vivere impone all’uomo come aiuto ripartivo.”

In questo percorso, la lettura della parabola del figlio prodigo, illuminata da quella della rappresentazione dovuta a Rembrandt, propone alcune tra le pagine più originali e penetranti del libro, capaci di legare in successione l’analisi della posizione e del ruolo del padre con quella delle figure del figlio minore, che ritorna, e del maggiore, che non se n’è mai andato – figura quest’ultima a torto trascurata e in grado invece  di rivelare risvolti complessi e inquietanti: quelle che emergono – dilatando e attualizzando il significato della parabola – sono le “motivazioni psicologiche” di fondo, i tre ambiti del bisogno di affiliazione, di potere e di successo.

È poi il personaggio dell’out sider, del reietto – quale è considerato il samaritano dalla casta della religione istituzionalizzata – a offrire il terreno di riflessione necessario a “comprendere che cosa significhi per l’uomo praticare la compassione, intesa come giustizia, che restituisca dignità piena all’uomo offeso”. Fino a giungere all’”ipotesi affascinante, se pure ideale, di una «carta etica mondiale»”, espressione di “una comune resistenza contro le cause del dolore ingiusto e innocente” e riferimento di “un’écumene della compassione” finalizzata ad assicurare “il primato di una coscienziosa e democratica politica mondiale/universale nell’era della globalizzazione.”

Una distopia sorridente e inquietante

Giacomo Papi, Il censimento dei radical chic, Feltrinelli 2019 (pp. 141, euro 13)

Siamo dalle parti del “Bispensiero” del George Orwell di 1984, per cui “la menzogna diventa verità e passa alla storia”, e soprattutto della sua  “Neolingua”, che lascia spazio solo ai concetti più elementari vietando l’uso di molte parole; ma anche “la milizia del fuoco” di Fahrenheit 451 sembra far capolino in queste pagine, anche se qui di incendi di libri, ad opera dei detentori del potere almeno, non se ne vedono. Forse perché non sono tempi di tragedia i nostri, ma di commedia, e dunque per parlare della catastrofe culturale e politica è più appropriato un romanzo leggero, percorso da un umorismo che cattura fin dalla prima pagina (nonostante il fattaccio da cui si parte). Se infatti è vero che il buon racconto si vede dall’incipit – e lo deve credere certamente Papi, il cui primo romanzo non lasciava dubbi: Era una notte buia e tempestosa. 1430 modi per iniziare un romanzo (Baldini&Castoldi 1993) – ci siamo: “Il primo lo ammazzarono a bastonate perché aveva citato Spinoza durante un talk show”. “Nel mio programma – aveva precisato il conduttore – non permetto a nessuno di usare parole difficili. Le pose da intellettuale sono vietate”, e non era stato da meno il ministro degli Interni: “Si vergogni! Lei fa citazioni mentre il popolo muore di fame”. Ovvio che anche i social facciano la loro parte: “Muori tu e quel culattone di Spinozza!”

Una distopia dunque, di quelle però che ti dicono che il futuro è adesso, non solo perché il “primo ministro degli Interni” (si dice così, essendo che nel nuovo sistema le due figure coincidono…) ha curriculum, modi e fattezze che ricordano da vicino Lui – l’attuale primo ministro degli Interni, appunto – ma anche perché il timbro riprodotto in quarta di copertina ci assicura che “Questo libro non contiene parole difficili”. Lo assicura l’“Autorità Garante per la Semplificazione della lingua Italiana”, e lo dimostrano le cancellature di parole da intellettuali che costellano il testo.

La prima vittima è un attempato professore, esemplare in via di estinzione di quanti hanno “assistito allo sbriciolarsi del loro posto nel mondo senza intuirne le ragioni”: gente ostinatamente legata a modi di pensare novecenteschi – direbbe Baricco –, “parassiti” dicono i più nella Milano in cui la storia si svolge. E chi li guarda con simpatia, se non con rispetto, inutile dirlo: è un buonista, così come – ci viene opportunamente ricordato – quelli che si opposero alle leggi razziali nel 1938 i fascisti li chiamavano ‘pietisti’”.

I buonisti, comunque, sono pochi, sempre meno: il Popolo è unito nell’odio contro gli intellettuali, o meglio: i radical chic, riconoscibili dai maglioni di cachemire che portano ma soprattutto da tutti i libri che si tengono in casa. Nessun pogrom però: l’abbiamo detto, qui siamo alla commedia. Meglio un censimento del radical chic, che li protegga dal giusto furore popolare (sempre che versino la dovuta quota per risultare iscritti: come ad un albo professionale, insomma).

Di qui in poi al lettore resta solo di aspettarsi ad ogni pagina la trovata che tiene in vita fino alla fine il gioco del cosa succederebbe se davvero si arrivasse a questo punto. Si sorride quindi, ma sempre più amaro: il cosa succederebbe si confonde spesso con un inquietante cosa succederà, se non con un cosa sta succedendo. Come quando si arriva al “decalogo” contro la complessità, ad esempio: la complessità “umilia il popolo”, “è noiosa, quindi inutile”, ma soprattutto “è un’arma delle élite per ingannare il popolo”. Dunque, semplificazione della lingua, epurazione di centinaia di lemmi dal Devoto Oli (non dallo Zingarelli, “scartato a causa del nome imbarazzante, tanto più nella versione con Cd-Rom”), nuova grammatica (57 pagine in tutto: al primo posto, l’abolizione del congiuntivo). E intanto, le vittime? gli intellettuali, i radical chic? Be’, c’è da dire che, se si attengono a un comportamento ironicamente prudente non se la passano male. Parlano di politica e letteratura come gli altri di macchine e di sport: niente di più che “una differenza di argomento, non di sostanza”. Ma non tutti sono così: una minoranza continua ad esistere. Quella di chi è convinto che “non è vero che gli intellettuali non servono a niente”: servono a “sentirsi meno soli”, perché “le cose dentro i libri dimostrano che le cose dentro le persone si assomigliano”, e la cultura, più in generale, “è una scommessa sul fatto che alla fine ci si possa capire.” Una scommessa che vale la pena di continuare a giocare anche se “hanno vinto loro, per un po’”. Nel frattempo, conviene non dimenticare le parole incriminate, e dunque abolite. Per “custodirle”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Quanto è diverso il diverso?

Angelo Villa, L’origine negata. La soggettività e il Corano, Mimesis 2018 (pp. 142, euro 14)

Sapersi confrontare con il diverso, accoglierlo nella sua diversità sono disposizioni che, più o meno implicitamente, implicano l’esigenza di sapere quanto il diverso è tale, come e in che cosa, sapendo bene che è proprio in questa esigenza, in sé legittima ma bisognosa di essere portata alla luce senza ambiguità, che trovano terreno fertile pregiudizi, fantasmi identitari, notizie nella maggior parte dei casi approssimative e parziali.

Nella nostra cultura, la cultura occidentale, il tema della soggettività occupa un posto centrale, e questo tema è ormai inscindibile dalle concezioni introdotte da Freud e dalle elaborazioni successivamente fornite dalla psicoanalisi.

Confrontarsi con la diversità – psicologica, culturale, religiosa, antropologica – significa innanzitutto, per noi, considerare la differenza di atteggiamenti rispetto alla soggettività intesa come rivendicazione della soggettività stessa, di quella realtà “intimamente connessa con quello che un singolo individuo umano è o ritiene di essere”. Una soggettività frutto di interpretazione, quindi, ma di un’interpretazione che non può dimenticare di essere sempre condizionata dal fatto che l’“Io non è padrone in casa propria” e la sua intenzionalità è in buona parte rimossa: è piuttosto l’inconscio ad esprimere, nei modi che gli sono propri, “una tensione che anela alla ricerca di una verità, non appagandosi delle menzogne – difese, coperture, ideologizzazioni – che l’Io subdolamente gli propina” e smascherando impietosamente l’illusione dell’esistenza di un “soggetto consistente, presente e identico a sé”.

Concentrando l’attenzione sulla cultura – sulle culture – “di matrice islamica”, l’autore segnala due circostanze decisive: in primo luogo, la soggettività appare in quest’ambito “un tema poco frequentato”, soprattutto – occorre aggiungere – se a prevalere è, come in effetti pare sia oggi, una lettura dogmatica, ostile a un atteggiamento di interpretazione del Corano. Testo che, comunque, risulta caratterizzato da aporie e contraddizioni che lasciano adito alla visione di un dio che non ammette dialogo con l’uomo, e ad una realtà in cui questioni come quelle della paternità, della femminilità e più in generale della sessualità risultano rigidamente definite, una volta per tutte normate, e per molti aspetti non univocamente tematizzate. Senza che, sull’onda di simili constatazioni, si debba disconoscere la presenza, in questo testo “polisemico”, di passaggi che sembrano aprire a concezioni diverse e porsi con esse in un rapporto di compatibilità.

In secondo luogo, l’inconscio, luogo delle storie che hanno accolto e accompagnato il soggetto dall’inizio della sua esistenza nel mondo, è attraversato dai discorsi, dai desideri, dalle storie degli altri, dei familiari innanzitutto, e più in generale dalla cultura e dalla lingua che definiscono il contesto in cui il soggetto si è venuto a trovare. E il religioso, il tradizionale – nella loro accezione islamica non diversamente che in altre – possono risultare ostacoli al lavoro di analisi e di comprensione della realtà dell’individuo quanto “lo scientismo o la superficialità contemporanea”.

Non si tratta di postulare un’astorica e immutabile realtà umana, indifferente ai caratteri culturali e religiosi nei quali si declina, ma di riconoscere come sia proprio dell’umano interrogarsi circa gli “enigmi che assillano la vita di [ogni] individuo nel suo impatto con l’esistenza, con il trauma rappresentato dalla sessualità”: “ciascun essere umano è erede della propria storia, la quale è inevitabilmente marcata dalla cultura d’appartenenza. La questione riguarda meno la suddetta cultura che non la relazione che il singolo realizza o permette sussista tra la stessa e il prender forma di un percorso di rilettura della medesima.”

Attorno a queste assunzioni di fondo si dipanano analisi e considerazioni storiche e filosofiche che mettono in relazione la religione musulmana con quelle ebraica e cristiana, oltre che ampie digressioni in ambito psicoanalitico che spaziano dal pensiero di Freud a quello di Lacan. Nella consapevolezza che, se sono “semplificazioni” quelle degli islamisti che piegano la loro religione a un’“idéologie de combat”, altrettanto lo sono i “pregiudizi occidentali rispetto all’Islam”: tutti, nel tempo della mondializzazione, siamo “colti di sorpresa ed egualmente impreparati” davanti ai fenomeni inediti e spesso traumatici che, in misura e secondo prospettive diverse, viviamo, ma a tutti si offre la possibilità, anch’essa inedita, della “concretezza di uno scambio” nel quale si fanno “più permeabili le barriere” fra culture diverse e, nello specifico, fra “il sapere freudiano” e la religione musulmana. “Può essere – si domanda in conclusione l’autore – questa crisi, storicamente in atto, l’occasione propizia affinché anche per chi non ha avuto modo, per ragioni cosiddette culturali, di confrontarsi con la realtà del proprio inconscio si materializzi la possibilità di saperne qualcosa?”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Per un’ecologia filosoficamente intesa

Natan Feltrin-Federica Lovato, Umani, prede e predatori, Graphe.it edizioni 2018

Daniele Palmieri-Nicola Zengiato, Il mondo dell’animalità: dalla biologia alla metafisica, Graphe.it edizioni 2018

Ci sono ambiti di discorso che chiedono un pensiero radicale, che esigono di essere prodotti e animati da un pensiero critico alieno da prudenze e distinguo. Quello attinente al rapporto che intercorre tra noi e gli animali, e più in generale all’ecologia e alla crisi dell’ambiente, è uno di questi. E quello quelloquellquellad un’”ecologia filosoficamente intesa” – di cui i primi due volumi della collana “Semi per il futuro” offrono prove illuminanti – appare allora un passaggio obbligato. Non si tratta tanto di ripercorre la storia del pensiero filosofico per rintracciarvi assonanze significative e ascendenti autorevoli – un approccio per altro ineludibile, lo dimostrano studi come Filosofia della crisi ecologica, di Vittorio Hösle (Einaudi 1992) –, quanto di confrontarsi  con espressioni disinvoltamente adottate dal linguaggio giornalistico e con concezioni che, come quella antropocentrica, nonostante siano state da tempo sottoposte a critiche circostanziate, risultano nei fatti largamente egemoni.

“Antropocene” è una di quelle espressioni, e non a caso Natan Feltrin si concentra su di essa, depurandola, in primo luogo, di ogni possibile ambiguità: se alla collisone della Terra con un asteroide è generalmente fatta risalire l’estinzione di più del settanta per cento delle specie, sessantacinque milioni di anni fa, oggi, “i Sapiens, e in particolar modo i più ricchi e oltracotanti tra essi, incarnano il micidiale asteroide”, e occorre dunque mettere a fuoco il senso profondo del termine, e correggerlo: l’era “in cui il pianeta esisterà quasi esclusivamente grazie  noi e per noi” merita piuttosto di essere definita “Eremocene, l’Era della Solitudine”. Della solitudine di uomini che avranno totalmente sottomesso il wilderness.

Ne deriva la necessità di andare “oltre gli ideali di preservazione e conservazione” imboccando una strada inedita: quella del rewilding, “un processo antropologico in cui Homo sapiens riscopre il suo essere Animale co-partecipe e co-responsabile del proprio ambiente. Un percorso, dunque, di liberazione. Liberazione dell’animale uomo dalle catene che si è autoimposto nel momento in cui domesticando il mondo domesticava, in prima istanza, se stesso”. Vittima del proprio “orgoglio di specie”; in realtà, mai davvero emancipato dalla paura atavica della natura, dell’alterità animale, una paura, e un odio vendicativo, maturati  quando gli uomini, lungi dall’essere “predatori alfa” erano al tempo stesso prede e predatori. Uscire finalmente da questo non detto, sotterraneo e pure potente nel forgiare i comportamenti – quello alimentare innanzitutto – è condizione imprescindibile per non “sprofondare nel nichilismo di cui la civiltà globale non è che la maschera”, per segnare una discontinuità netta nel “processo d’estraneazione del genere umano dalla natura”, come sottolinea Federica Lovato a conclusione del suo breve densissimo saggio sulla storia della caccia “Dalla predazione dell’animale alla distruzione dell’ecosistema”: un processo sfociato in “un vero e proprio antagonismo”, dal momento che “l’uomo, oggi, sembra aver assunto che lo sviluppo sociale possa avvenire solo a spese dello sviluppo naturale”.

Mettere in luce un termine come Antropocene porta inevitabilmente all’esame di concezioni radicate, come si diceva: l’antropocentrismo, da questo punto di vista, merita di essere indagato – avendo presente l’insegnamento decisivo di Jacob von Uexküll, sul quale offre un utile contributo Daniele Palmieri – a partire dai due dogmi che sembrano renderlo inattaccabile, ritenendosi impossibile uscirne, obiettivo del resto velleitario in quanto ispirato e conformato comunque entro un quadro di riferimento ineludibilmente antropocentrico. Non si tratta di aggiungere alle molte formulate nuove perorazioni avverse all’antropocentrismo. Occorre invece – spiega Nicola Zengiaro – riuscire ad assumere che “lo stesso mondo – di cui ci pretendiamo più o meno implicitamente al centro – è vissuto da esseri aventi schemi concettuali propri e perciò differenti punti di vista che determinano diverse realtà”: è “attraverso la comparazione percettiva (che) usciamo dal primo dogma”, così come ci liberiano del secondo passando “da strumenti differenti da quelli che comunemente sono accettati come distintivi e specifici di Homo sapiens”, ossia “il ragionamento logico e il linguaggio”. Il discorso va seguito nel suo dipanarsi serrato, e in certi punti senz’altro impegnativo, per arrivare comunque a un’immagine risolutiva – e non estranea all’esperienza di molti – a cui proposito Zengiaro richiama Filosofia dell’animalità di Felice Cimatti: “«Accettare di farsi guardare dall’animale significa aprire la porta a questa molteplicità di viventi”». E’ questo il vero movimento che dev’essere attuato dall’essere umano per uscire dall’antropocentrismo. Significa aprirsi all’evento dell’incontro tra il proprio corpo e l’alterità”, alla possibilità di “comprendere noi stessi attraverso la sensazione di essere guardati dal mondo.”

Lo diceva anche John Berger, quando si chiedeva Perché guardiamo gli animali (Il Saggiatore 2016): “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiare lo sguardo degli animali”, somiglianza e diversità convivono nell’attimo in cui vive, sospesa, questa muta reciprocità. Si tratta di accettarla, di non sfuggirla, e allora si comprenderà che “l’animale ha segreti che, a differenza dei segreti delle caverne, delle montagne, dei mari, si rivolgono specificamente all’uomo”.

Una seconda verità

Claudio Coletta, Prima della neve, Sellerio 2019 (pp. 182, euro 13)

Andare per boschi per non doversi un giorno accorgere che non si è vissuto – così Thoreau – o lasciare la città e raggiungere la montagna, per schiarirsi le idee, alla Cognetti: per cercare una verità che giù, fra i rumori e le chiacchiere, si può solo sospettare esista. Ma nel romanzo di Coletta la montagna è un passo obbligato, e non è ospitale. È lavoro duro dietro alle mucche, è freddo, nebbia. Ma è comunque là che occorre andare. Solo là si potrà chiarire il “mistero” di “come certe cose accadano in un preciso momento e non in un altro” e scoprire che “esiste una seconda verità” fra “le pieghe di questa storia, sotterranea e sfuggente”: la storia di due amici, legati da un’amicizia tanto stretta da sconfinare nel patologico, e di due donne, una sorella e una moglie, protagonisti di un romanzo che alterna alla loro vicenda l’evocazione degli anni di piombo, ricordo bruciante per chi li ha vissuti da protagonista e adesso, passati gli anni, non sa spiegare il senso delle proprie scelte se non in negativo: “non c’era altro, se non l’eroina. Metà dei compagni morti di overdose, gli altri in giro come tanti lazzari, a vendersi per una dose tagliata chissà come, le braccia massacrate dai buchi. Hanno invaso l’Italia con quella merda, hanno distrutto un’intera generazione. Non abbiamo avuto scelta, la verità è questa”. E invece no, non era destino che le cose andassero come sono andate: “Come sarebbe bello se davvero esistesse il destino, invece della caotica sequenza di coincidenze, decisioni, azioni, che se ne fregano della nostra volontà e delle nostre speranze.” Solo i sentimenti restano nella casualità insensata cui sembra ridursi la storia di ognuno, sono forse solo quelli a darle una direzione, o a cercare di farlo. Anche quando non se ne sa, o non se ne vuole comprendere il messaggio. Una storia drammatica, e triste, immersa in un disincanto pensoso, raccontata con la leggerezza delle parole di tutti i giorni.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora