Esperienza e povertà

Castelvecchi ha pubblicato quest’estate il saggio che Benjamin scrisse a Ibiza, nel 1933, e che costituisce un riferimento essenziale nel romanzo di Carlo Simoni, Il miserabile: “Era incredibile – dice la protagonista del romanzo – come la depressione che lo attanagliava non gli impedisse di lavorare. Scrisse in quei giorni Esperienza e povertà. Pagine che restano per me fra le sue più toccanti, e profonde, certamente anche perché un giorno ne volle discutere con me. Il venir meno della capacità di narrare non era che la spia di una crisi più generale e profonda, quella della possibilità di vivere accumulando davvero esperienza.”

Walter Benjamin, Esperienza e povertà, a cura di Massimo palma, Castelvecchi 2018)

Più citato che letto: lo si può dire di molti autori, ma certamente l’osservazione si attaglia in modo particolare a pensatori come Walter Benjamin, la cui opera, oltretutto, è spesso ridotta a un titolo, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, così come la sua fisionomia appare fissata nei ritratti fotografici di Gisèle Freund, nei quali il suo volto si fa icona del filosofo contemporaneo, tormentosamente concentrato, un po’ com’è avvenuto ad Einstein, nell’immagine che ne ritrae l’espressione bonaria e i capelli ribelli. Un analogo processo di riduzione sembra del resto aver pesato in molte delle biografie di Benjamin, nelle quali la sua vita sembra fatalmente precipitare, e riassumersi, nella fine tragica incontrata nel 1940 a Port Bou, il paese ai piedi dei Pirenei dal quale Benjamin contava di passare in Spagna e raggiungere il porto dal quale imbarcarsi per gli Stati Uniti.
Ebreo per stirpe, comunista a suo modo, intellettuale emarginato – dall’accademia nella quale aveva cercato invano di accreditarsi, dai giornali con i quali non disdegnò di collaborare –, esule per necessità, innanzitutto, e quindi “migrante economico” (secondo la calzante definizione di Massimo Palma, il curatore di questo libro): nel personaggio si sommano le condizioni ideali per la sua “santificazione”, la santificazione del genio incompreso prima e della vittima poi.
Libri come questo servono, riproponendo scritti poco frequentati o che meritano comunque di essere riletti, a mettere in guardia contro quella che – al di là delle intenzioni – per il tramite di una facile e tutto sommato comprensibile empatia si rivela per una neutralizzazione, di fatto, della carica critica e per alcuni aspetti provocatoria del pensiero di Benjamin.
La selezione che ci viene proposta assume, alla lettura, il significato di una sequenza ragionata, dallo scopo ben preciso: Il carattere distruttivo e Scavare e ricordare, rispettivamente risalenti al 1931  e all’anno successivo, risultano premessa in qualche modo necessaria a Esperienza e povertà, del 1933, che a sua volta suona come una sintetica prova di quello che si può considerare un classico, un’opera che torna a distanza di tempo, ad ogni rilettura, a dire cose sorprendentemente attuali: è inevitabile pensare alla proliferazione di messaggi determinata dal web e alle sue conseguenze leggendo Il narratore. Considerazioni sull’opera di Nikolaj Leskov, scritto tre anni dopo.
La perentorietà, il tono che potrebbe suonare vagamente superomistico del primo scritto, così come l’icasticità e la concisione del secondo, si sciolgono in una prosa colloquiale in Esperienza e povertà, non a caso assunto come titolo dell’intera raccolta: la riflessione sul destino dell’esperienza, della crescente difficoltà di farne anche nel mondo attuale, trova alimento nel confronto con la povertà, un confronto obbligato per l’autore nella seconda estate passata a Ibiza, dove appunto il saggio venne composto. Ma la povertà di cui Benjamin parla non è tanto quella materiale, quanto piuttosto la povertà di esperienza. È l’esperienza stessa, infatti, ad essere oggi “in ribasso”, e questa svalutazione, che è insieme perdita di una risorsa essenziale per la vita, ha preso le mosse dalla Grande Guerra, dai cui campi di battaglia “la gente (tornava) ammutolita”, “non più ricca, più povera di esperienza comunicabile”. L’“impetuoso dispiegamento della tecnica” nel corso dei combattimenti aveva avviato un processo irreversibile: “un’indigenza di nuova specie”, da quei giorni, “si è abbattuta sugli uomini”, perché la povertà di esperienza è solo un aspetto di una più sostanziale e pervasiva povertà, “non solo di esperienze private, ma di esperienze umane in genere.” Non ne mancano i sintomi rivelatori: il tramonto dell’arte di narrare, in primo luogo. È questo il nesso fra questo saggio e l’altro che segue, Il narratore, ma prima di passare a quello occorre considerare lo sviluppo che questa constatazione trova in Esperienza e povertà: la perdita della capacità di far davvero esperienza si rivela “una nuova forma di barbarie”. Sennonché – ecco il Benjamin che non si lascia costringere entro le formule della deprecazione dei tempi – è possibile “introdurre un nuovo, positivo concetto di barbarie” se si sa interpretare quella stessa perdita come opportunità di “cominciare daccapo”, di “cominciare dal nuovo”, come hanno fatto del resto i grandi creatori, animati da un carattere distruttivo senza il quale non avrebbero potuto divenire “costruttori”. Così Descartes, Klee; o Brecht e Loos, il cui “segno distintivo è la totale mancanza di illusioni sull’epoca e tuttavia una professione di fede priva di scrupoli a suo favore”.
C’è qualcosa di più, in affermazioni del genere, di quanto espresso nel pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà che Gramsci poco più di un decennio prima riprendeva da Romain Rolland. Quello che entra in gioco è il significato stesso della cultura, la sua funzione: gli uomini, poveri di esperienza come ormai sono, si sono stancati della “cultura”; “l’umanità si prepara a sopravvivere alla cultura, se così deve essere.” E non si tratta di una prospettiva apocalittica, perché “quel che è importante è che lo fa ridendo”.
È questo che stava avvenendo negli anni Trenta? E sta avvenendo ancora oggi? o è già avvenuto? Le parole che concludono il saggio suscitano domande di questo genere, inquietanti, e non facilmente eludibili. Si possono ravvedere corrispondenze in esperienze come quella del Sessantotto, che innegabilmente è stato animato, anche, dalla pulsione a “far piazza pulita” – per usare ancora un’espressione di Benjamin – di una cultura oppressiva e obsoleta? Ha senso cercare analogie con il “nichilismo attivo” che secondo Umberto Galimberti serpeggia fra i giovani di oggi? o fra alcuni di loro almeno, quelli che “cercano di trasformare la crisi del mondo vitale, nel quale siamo tutti immersi, in una nuova opportunità di ridisegnare i rapporti umani, rimettendo in discussione le mappe – fisiche, mentali e sociali – trasmesse dalle precedenti generazioni”?

È dopo aver attraversato riflessioni simili che leggiamo l’ultimo saggio, il più denso e insieme il più accessibile nella sua scrittura piana ed evocativa di sensazioni che ci appartengono: chi non ha sperimentato il fatto che “Diventa sempre più raro incontrare persone che possano raccontare davvero qualcosa”? Non chiacchierare, non intrattenere, non riempire ad ogni costo un silenzio altrimenti imbarazzante o avvertito addirittura come minaccioso, ma raccontare.
Non si tratta di una superficiale evoluzione dei costumi, è ben di più: “È come se una facoltà che ci sembrava inalienabile, la più sicura tra le cose sicure, ci venisse sottratta. La facoltà di scambiarsi esperienze”, venuta meno per una ragione sostanziale: “l’esperienza è deprezzata.” E sappiamo a partire da quale catastrofico evento. Fin qui, Il narratore riprende il saggio che abbiamo letto prima, ma per andare oltre: chi sapeva narrare – contadino, marinaio o artigiano che fosse – era “un uomo che dispensa(va) consigli all’ascoltatore”, e a suo modo diffondeva “saggezza”. Ora, “l’arte della narrazione tende al termine perché l’epica della verità, la saggezza, sta morendo”, e – si badi – “nulla sarebbe più fatuo di voler ravvisare [in questo processo] unicamente un fenomeno di decadenza”. Si tratta piuttosto di rintracciarne le cause: l’“emergere del romanzo all’inizio della modernità”, in primo luogo (Don Chisciotte è la personificazione del fatto che la saggezza ha disertato la grandezza d’animo); in secondo, il dominio dell’informazione, “inconciliabile con lo spirito della narrazione”: “Ogni mattina [l’apparto dell’informazione] ci aggiorna sulle novità del globo terrestre. Eppure siamo poveri di storie degne di nota.” Il che significa: poveri di narrazioni che, a differenza delle “notizie”, durino nel tempo, mantengano la loro efficacia senza consumarsi subito. Come accade ai comunicati dei giornali e dei mass media, appunto, che – volendo parafrasare un passaggio di Scavare e ricordare – ci trasmettano soprattutto o solamente “fatti”, incapaci di restituirci il senso della nostra volontà di sapere, inevitabilmente conculcata dall’ossessione di essere informati.
Ma c’è di più, molto di più in queste pagine. Conviene limitarsi, qui, a segnalare un passaggio nodale: la morte, il morire, un tempo evento che faceva parte della vita comune – non si spiegherebbero altrimenti le scritte che si leggono sotto le meridiane, come quell’“Ultima multis” visto a Ibiza – “nel corso della modernità (è stato) espulso dall’ambiente percettivo dei viventi”. Il fatto è che proprio nelle espressioni e negli sguardi del morente, rivelatori di una “vita vissuta”, il narratore traeva la propria autorità, condividendola con quella che anche “il più povero dei diavoli” possiede nel morire; perpetuandola poi nei suoi racconti e così coltivando un’“arte” utile alla vita (come le tante ciance sullo storytelling a loro modo – un modo distorto e ambiguo, spesso maldestro – forse stanno, nonostante tutto, a testimoniare).

Il bisogno disperato di credere in qualcosa

Paolo Giordano, Divorare il cielo, Einaudi 2018 (pp. 433, euro 22)

Storia di un amore che dura una vita, breve, perché di giovani si tratta: Teresa, Bern e gli altri ragazzi protagonisti del romanzo.

Un amore difficile, tragico alla fine, quello di Teresa, segnato fin dall’inizio da un’ombra, dall’inseparabilità della tristezza dall’affetto. Del resto, Bern – eroe solitario e introverso della storia – finirà per essere uno che “aveva creduto in tutto e smesso di credere in tutto”.
E di credere, di credere davvero in qualcosa questi ragazzi hanno un bisogno disperato, che si tratti d’una fede religiosa totalizzante che affratella gli spiriti, della fusione dei corpi nell’amore e nel sesso vissuti all’insegna della libertà più trasgressiva, della pacificazione con la natura perseguita attraverso un’“agricoltura del non fare” o con i mezzi dell’ecologismo più estremo.
In ogni caso, sentimenti ambivalenti, gelosie e rivalità attraversano la comune, e la vita non sembra rivelare il senso che si cercava: non si può non constatare che “sceglie senza scegliere – la vita –, germoglia in un posto piuttosto che altrove, a caso.” Forse, allora, tanto vale “smettere di pensare” e “affidarsi alla sequenza dei gesti”, per il resto della vita, ogni giorno…

Ci si affeziona ai personaggi di questa storia, alla loro verità, senza tuttavia essere abbandonati dalla sensazione che quella che si racconta sia una vicenda in qualche modo datata, che avremmo potuto leggere una ventina d’anni fa, e non aiuta il fatto che proceda faticosamente, a tratti, con ritorni e riprese di cui non sempre si coglie la logica, e la necessità…

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Siamo tutti quietisti climatici

Bruno Latour, Tracciare la rotta. Come orientarsi in politica, Raffaello Cortina Editore 2018 (pp. 142, euro 13)

“Dopo gli anni Ottanta, le classi dirigenti non aspirano più a dirigere ma si mettono al riparo, al di fuori del mondo”: questo il primo dato di fatto.

Aspetto decisivo di quella “grande regressione” di cui voci diverse cercavano di definire i contorni in un libro di cui ci si è occupati lo scorso 10 settembre (La grande regressione. Quindici intellettuali da tutto il mondo spiegano la crisi del nostro tempo  a cura di Heinrich Geiselberger, Feltrinelli 2017).
Secondo dato imprescindibile:  “non si possono comprendere le posizioni politiche assunte da cinquant’anni a questa parte se non si assegna un posto centrale alla questione del clima e della sua negazione”. Esplosione delle diseguaglianze, deregulation, nazionalismi e populismi è di qui che prendono le mosse: il negazionismo della crisi ambientale da parte di coloro che potrebbero farne il perno di scelte politiche all’altezza dei tempi, così come la rimozione di essa, o lo stato di negazione in cui la maggioranza vive, sono il fulcro dell’attuale inedita involuzione. Lo stesso convincimento che abbiamo trovato in uno scrittore come Amitav Ghosh (La grande cecità. Il cambiamento climatico e l’impensabile, Neri Pozza 2017, segnalato lo scorso 17 settembre).
Trump non è un irresponsabile sfuggito di mano ai poteri forti: il suo ritiro dall’accordo sulla limitazione dei gas serra è la conseguenza di scelte precise e l’espressione di una cultura diffusa.
E vincente, a quanto pare. Destra e Sinistra, di fronte al “Nuovo Regime Climatico” – così lo definisce Latour a sottolinearne la portata epocale – hanno al fondo condiviso l’idea di un progresso che nella globalizzazione, al di là delle posizioni assunte nei suoi confronti, individuava il proprio orizzonte:  “siamo tutti quietisti climatici dal momento che speriamo che, senza far nulla, tutto alla fine si aggiusterà”, ed evitiamo di interrogarci “quale sia l’effetto, sul nostro stato mentale, delle notizie relative alle condizioni del pianeta che ascoltiamo tutti i giorni.” Di fatto, e al di là delle intenzioni, mescolandoci a “coloro che si nascondono dietro Trump” e “hanno deciso di far sognare ancora qualche anno l’America ritardando l’impatto con il suolo – con la reale situazione del pianeta – e trascinando così gli altri paesi nel’abisso, forse definitivamente”.

Occorre aprire gli occhi: “il pianeta è troppo piccolo e limitato per il globo della globalizzazione; ed è troppo grande, troppo dinamico e complesso per essere contenuto nelle frontiere ristrette e limitate di qualsivoglia località”.
Come spesso accade in discorsi del genere, la pars destruens appare fatalmente più convincente della construens, cui l’autore  si dedica soprattutto nella seconda parte del suo saggio (ricorrendo a formalizzazioni che non giovano alla chiarezza).

Quel che resta dalla lettura, comunque, è certamente un’indicazione sostanziale:  inutile parlare di rifondazioni della sfera politica, della mentalità e dell’agire collettivi, restando entro i limiti angusti entro i quali la politica stessa – o quel che generalmente si intende con questo termine – si è ridotta.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Dickens e Stevenson fra horror e pulp

Ian McGuire, Le acque del Nord, Einaudi 2018 (pp. 278, euro 19,50)

“Azzanna il mondo come un cane morde l’osso. Niente gli è oscuro, niente è alieno ai suoi foschi e feroci appetiti”: è Henry Drax, il personaggio che irrompe nelle prime pagine di questo romanzo, che da subito attirano il lettore in un mondo dai colori lividi e dagli odori sgradevoli fino alla nausea.

Qualcuno ha evocato Dickens, Conrad, e naturalmente Melville (essendo quello della caccia alle balene l’ambiente in cui la storia si svolge): richiami pertinenti, a patto che ciascuno di questi autori sia rivisitato secondo un gusto pulp che sconfina spesso nell’horror. Eppure, la storia non è priva di elementi letterari e di riferimenti psicologici di spessore, così come la scrittura è precisa, efficace, ricca di immagini e capace di sintesi folgoranti. Anche perché a Drax, personificazione del Male e di una disumanità che non conosce sensi di colpa o tentennamenti dettati dalla compassione, subentra dal secondo capitolo e tiene a lungo la scena Patrick Sumner. Non il buono contrapposto al cattivo: anche in Sumner – medico con un passato in India che nell’imbarco su una baleniera diretta nel mare artico cerca di cancellare la sua vita precedente – si annidano ombre e s’è ormai radicato un pessimismo senza ritorno: “contano solo le azioni, solo gli eventi. (…) Pensare troppo è un grave errore. La vita non è decifrabile, non si può assoggettarla a forza di chiacchiere, occorre viverla, sopravviverle, in tutti i modi possibili”. Il che non toglie che lui tenga nella sua cuccetta una copia dell’Iliade, e – quando non è sotto l’effetto del laudano, al quale da oppiomane incallito è uso ricorrere – legga attentamente quel libro, lasciando credere agli altri di essere intento a pregare.

La navigazione si svolge in un ambiente via via più ostile, e gli avvistamenti sono rari. I tempi sono critici per i balenieri, soprattutto per quelli che non dispongono di una nave a vapore e lanciarpioni moderni, e del resto – siamo all’inizio della seconda metà dell’800 –   “l’olio di balena non lo vuole più nessuno. Sono tutti pazzi per il petrolio e per il gas illuminante”. Questo non impedisce che la caccia si svolga, dando adito ad alcune fra le scene più feroci: dalla strage di foche, i cui piccoli vengono uccisi a bastonate, a quella di una balena che, morendo dopo una lunga lotta, crivellata dagli arpioni, “spruzza in aria un alto pennacchio di sangue cardiaco e poi si inclina su un fianco, la grande pinna sollevata come una bandiera di resa.”
A lungo mimetizzato fra i marinai dell’equipaggio, Drax riappare, e il suo ritorno coincide con la fine di un giovane mozzo, violentato, strangolato, cacciato a forza in fondo a un barile: uno Stevenson alla rovescia, in cui  il ragazzo (viene alla mente il Jim dell’Isola del tesoro), non trova in quel nascondiglio l’occasione per smascherare gli ammutinati e divenir protagonista della storia, ma la propria tomba, misera e puzzolente. Proprio il dottore, Sumner, riesce a dimostrare che Drax e non altri è il perverso assassino del povero Joseph, ma a questo punto è l’imprigionamento della nave fra i ghiacci a balzare in primo piano, e qui il racconto sembra prendere a prestito più di un elemento da un altro romanzo, La scomparsa dell’ Erebus di Dan Simmons, del 2007, la cui vicenda ha guadagnato notorietà soprattutto grazie alla serie televisiva che ne è stata tratta e diffusa pochi mesi fa: The Terror.

E’ questo riferimento a rendere ancor più evidente come lo stile della narrazione sia assimilabile a quello di una sceneggiatura, condotta com’è sempre al presente, per frasi brevi, secondo un modulo descrittivo che richiama la distanza imperturbabile dell’occhio della cinepresa.

Un romanzo che si direbbe prefiguri la propria mise en scène, dunque; fedele alle regole della narrazione per immagini anche nel riproporne puntualmente di forti e coinvolgenti, fino alla fine, quando la storia sembrava ormai conclusa e trova invece un ulteriore imprevisto, intrigante sviluppo.

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Il lavoro dell’accordatore e il mestiere di vivere

Miyashita Natsu, Un bosco di pecore e acciaio, Mondadori 2018 (pp. 209, euro 19,50)

 E’ la storia di formazione di Tomura, giovane di montagna che scende alla città per studiare e poi trovar lavoro. Ma è un ragazzo particolare: sente l’odore a lui ben noto del bosco quando si avvicina a un pianoforte, ed è per questo che di pianoforti si occuperà diventando un accordatore.

Un mestiere che lo terrà a contatto con “l’oggetto prodigioso che riesce a scovare la bellezza diffusa nel creato e a darle una forma che giunga alle orecchie”: pur essendo “uno strumento indipendente, con una sua propria personalità” ogni pianoforte capta la musica che è diffusa nel mondo, a patto che sia passato per le mani di un accordatore provetto. Solo allora potrà emettere “un suono di una limpidità luminosa e quieta, carico di nostalgia”, “dolce, fino a un certo punto” ma anche “pieno di severità e profondità”, “bello come il sogno, ma certo come la realtà”. Il buon accordatore si accosta al pianoforte come a una creatura viva, e quindi unica, ma deve anche tener conto del carattere di chi lo suonerà.

Ecco il punto: non si tratta solo di tecnica. Che si tratti di fabbricare dolci o di accordare pianoforti conoscere i segreti del mestiere non è tutto: Natsu come Sukegawa, l’autore di cui in questi appunti si è parlato lo scorso aprile (Le ricette della signora Tokue). Al pasticcere occorre il “sentimento” che lo porta a considerare i fagioli che cucina uno ad uno, ad ascoltarli; non diversamente  l’accordatore non può non sentire “respirare” lo strumento di cui si prende cura. Si tratta in ogni caso di una vicinanza, di una pietas per le cose inanimate che appare condizione di una compassione più vasta, di una capacità di stare nei panni degli altri e di comprenderli. Pianoforte, pianista e accordatore sono tutt’uno: chi prepara lo strumento cerca “il suono che più mette in risalto l’abilità del pianista.

Nessuno pensa all’abilità dell’accordatore. E va bene così”, perché “anche se è il pianista a ricevere gli elogi, non è nemmeno merito suo: il merito è della musica.”

Tomura osserva i suoi colleghi più esperti, si mette alla prova, apprensivo e appassionato. E capisce: che lo si suoni, il piano, o lo si accordi, occorre “sforzarsi ma senza sentire lo sforzo, con pazienza ma senza sentire di doverla esercitare. Quando si è consapevoli dello sforzo che si compie, esso finisce per essere solo un investimento che si vorrebbe veder ripagato.” Occorre andare oltre: “Se si riesce a non vedere lo sforzo come investimento, allora le possibilità aumentano oltre l’immaginabile.” E’ la sapienza che occorre a chi tira con l’arco, a chi medita, a chi semplicemente vuole vivere davvero la propria vita: “ L’uomo è un essere pensante, ma le sue grandi opere vengono compiute quando non calcola e non pensa”, diceva Eugen Herrigel (Lo zen e il tiro con l’arco, Adelphi 1987). Ma non è tutto: è necessario anche, perseguendo la perfezione, esser consapevoli che non la si raggiungerà, e dunque è “rassegnazione” che occorre, senso del limite.

Quando attraverso la sua esperienza Tomura capirà anche questo, potrà camminare sereno nel bosco di cui aveva sentito il profumo avvicinandosi a un pianoforte, bosco di pecore e acciaio, strumento che racchiude lana di pecora nella copertura dei suoi martelletti e acciaio nelle corde che attendono la mano dell’accordatore per raggiungere la giusta tensione e quella del pianista per connettersi alla musica che permea il mondo.

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La malattia contagiosa della singletudine

Cristina Comencini, Da soli, Einaudi 2018 (pp. 168, euro 18)

 Dopo una trentina d’anni di convivenza si separano: tra Laura e Piero ad andarsene è lui; tra Marta e Andrea è lei.

Niente di strano: “Il nostro mondo è fatto di separazioni, di individui liberi e soli. Lo sarà sempre di più.” Ma perché? Le voci dei quattro personaggi si alternano nei capitoli, e mentre raccontano, più o meno consapevolmente propongono una risposta.

Può essere la paura della morte a suscitare il desiderio di andarsene: “una storia dall’inizio alla fine è la morte”. Ma anche la solitudine può scatenare la stessa paura: “La nostra vita mi pareva una costruzione invincibile, e la fine della nostra vita individuale una cosa semplice e naturale. Ora invece ho paura di morire. E’ la mancanza di felicità che mi fa venire paura della morte.” E se si trattasse invece di paura di vivere? se fosse una sorta di precauzione quella che induce a “non legarsi, a non vivere emozioni troppo intense”?

O forse non si tratta né dell’una né dell’altra cosa: al fondo della crisi della coppia c’è la coppia stessa, anche se sembra che a minare la sua unione possa essere l’usura della vita a due, fino al suo svuotamento, o all’opposto l’eccesso di condivisione…

Sta di fatto che la singletudine sembra diffondersi come una “malattia  contagiosa”: “le ditte ora fabbricano confezioni singole, uno di tutto”, gli arredatori studiano le condizioni che garantiranno il benessere a un singolo abitante della casa. Del resto, “la famiglia oggi è questo: genitori single con figli”. Ma, appunto, perché? che cosa ci è successo? Il fatto è che “forse non esiste proprio più la possibilità di essere un noi. C’è un io che incontra un altri io e restano sempre solo due io, punto e basta, anche se fanno figli e vivono un po’ insieme.” Poi… Poi ognuno per la sua strada, anche se, a ben vedere, non ci si lascia mai del tutto, mai davvero, e nessuno è vincitore, neanche quello che ha deciso lo strappo. Forse perché una donna lo sa, “si è la moglie di un solo uomo”. E lui, l’uomo? scoprirà di essere, anche lui, marito di una sola donna?

Domande che restano aperte, in un mondo nel quale “non c’è niente di più incongruo e antimoderno che amare una sola persona per tutta la vita”. E allora “L’essenziale è non avere una sola vita, non chiudere gli occhi con l’idea di una linea continua”…

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Le parole, e le cose, che contano

Maurizio Maggiani, Luigi Verdi, Sempre, Chiarelettere 2018 (pp. 176, euro 15)

Maurizio, lo scrittore non è credente (è un “anarco-mazziniano, se proprio deve darsi una definizione): “sono senza Dio – ribadisce -. Io non ce l’ho Dio. Ho due biciclette, non ho Dio”.

Ma fa lo stesso: “non sono cattolico, ma non per questo non ho diritto di accedere al sacro.” O ancora: “Io sono senza Dio, però sono cristiano”.
Luigi, il prete, è di quelli che non amano il catechismo: “non sopporto l’atteggiamento per cui a ogni domanda deve seguire una risposta. Sono convinto invece che in molte situazioni della vita sia importante abitare le domande, stare nella domanda”.
Aggiungi che lo scrittore, a detta del prete, “in quest’epoca di comunicazioni virtuali e frettolose, è un maestro del raccontare e l’incontro fra i due è assicurato. Di lì nasce un libro come questo, che “ha un precedente nella voce e nel racconto orale”. Un dialogo insomma. Il dialogo di due uomini che hanno fatto cammini diversi ma hanno una provenienza comune: la terra, le campagne e la loro miseria, ma anche l’attitudine che sapevano ispirare: la passione per la bellezza, la capacità di vederla ovunque, sempre. E sempre è la parola scritta su un muro che compare in copertina, a far da titolo al libro, perché “sempre è una culla, se ti metti lì dentro sei al sicuro. La parola scritta su quel muro rappresenta la materia dell’impossibile, la materia dall’assoluto, la materia dell’incommensurabile, la materia del sacro.” E’ così che procede questo libro, per illuminazioni, cui subentrano ragionamenti da cui germogliano altre illuminazioni, senza troppe preoccupazioni di coerenza: “Se hai fiducia in quello che dici, non è che devi spiegarlo troppo”, e dunque, “lettore, prendi tutto quello che abbiamo detto e dagli aria, fallo respirare, segui il suo respiro.” Segui i due amici come fossi seduto lì con loro – alla pieve di Romena, nel Casentino – convinto, come loro, che “un amico non ingabbia. Ti mette le ali”. Basta andargli dietro, e dire la tua: ne può venire un dialogo che è inventario delle parole che contano perché nominano le cose che contano, nella vita. Parole da trattare con rispetto, quale che sia il tuo mestiere: “Sarò sacrilego ma io quando la mattina mi metto al computer segno lo schermo [ci faccio il segno della croce] perché voglio avere coscienza che non sto scrivendo per me che magari ho l’ansia, io sto prendendo la parola che non è una mia proprietà. Io non sono padrone delle parole, sono ministro delle parole. Questa è la prima cosa. Un romanziere e un sacerdote devono segnarsi prima di cominciare la liturgia della parola, che sia un romanzo o che sia la lettura dei testi sacri.”

Non si può dar conto del divagare continuo di queste pagine. Solo pescare qualcuno dei passaggi che restano in mente a lettura conclusa: “Impara a lasciare le cose prima che le cose lascino te” (e viene in mente il Bianchi che abbiamo letto di recente, quello che parla di vecchiaia in La vita e i giorni, Il Mulino 2018). Oppure: “Preparare il cibo per offrirlo è un gesto da funzionario del sacro”, perché “il cibo è intimità, è qualcosa che diventa parte di te” e “Cristo – con l’Ultima cena – ha scelto proprio l’occasione migliore per chiudere.” L’Ultima cena, e tanti altri momenti del Vangelo: è anche una rilettura del Vangelo questo libro, una riappropriazione  dei suo momenti, dei suoi significati più umani.
E la morte? Non poteva certo mancare questa nel catalogo delle parole di Maggiani, che naturalmente ne trae una specie di racconto: “I malvagi spariscono, si disintegrano, si annullano nella spazzatura. I giusti vivranno per sempre. Guarda, Gigi, è morta la mamma di mia moglie, donna di carattere che te la raccomando, però evidentemente era una giusta perché dopo la sua morte io ho visto che cos’è la vita eterna. Ho visto la figlia appropriarsi della madre, si mette gli stessi vestiti, la ricorda nelle frasi, e lo fa in un  modo talmente familiare, in un modo talmente naturale che non è vero che non c’è più, c’è in mille cose, in mille occasioni della giornata.”
Non parlano, Maggiani e Verdi, di idee, ma di esperienze fatte. Esperienze vere però, perché occorre distinguere: “oggi in nome dell’esperienza hai mano libera per fare quello che vuoi. Sai, ho fatto un’esperienza del deserto, ho fatto un’esperienza con gli extracomunitari… tutta un’esperienza.” Come se la realtà fosse una “scena che attende il tuo ingresso”. Non è così: “tanto per cominciare chiedi permesso, prima di fare un’esperienza fermati un attimo e chiedi: permesso, posso?” Altrimenti “prendi e butti via, tocchi e non approfondisci mai niente…”.
Qualche mese fa Maggiani annunciava l’interruzione di Vivario, la sua rubrica sul Sole 24ore della domenica, dicendo che aveva da fare, doveva scrivere un libro: se è questo, ne valeva la pena.

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Fratelli di sballo

Leonard Michaels, Il club degli uomini, Einaudi 2018 (pp. 144, euro 17)

 “Club maschili. Gruppi femministi. (…) Mi venne in mente Socrate: il fatto che erano i suoi discepoli ad adorarlo, non la moglie. E Karl Marx, sempre in giro con Engels mentre Jenny stava a casa coi bambini.”

Sembra che le cose non siano cambiate. Non sono riunioni di donne quelle di cui si parla in questo libro (pubblicato per la prima volta quarant’anni fa, e non li dimostra), ma della serata di un gruppo di uomini che vorrebbero costituirsi in club per “raccontarsi tutto”. E ci provano. Raccontano storie della loro vita – senza registrarle, sapendo che le cose che si registrano va a finire che non si ricordano – e finiscono a parlare solo di donne, secondo uno schema che sembra imprescindibile: storie di ciascuno di loro, della moglie e dell’“altra donna”. E così, di storia in storia, alla fine non trovano di meglio che saccheggiare il frigorifero della casa, la casa dell’ospitante, e far fuori le provviste che sua moglie aveva preparato per il giorno dopo (in vista della riunione del suo gruppo femminista, guarda caso). Sembra che gli uomini, quando si trovano e, soprattutto, quando cercano di parlare di sé,  non sappiano alla fine che ricreare l’atmosfera spaccona, e – almeno nelle aspirazioni – trasgressiva, di quando erano adolescenti: “fratelli di sballo” dunque, anche se qui lo sballo è fatto più di cibo e di alcol che di canne. “Mi chiedevo se fosse davvero necessario parlare”, confessa il narratore, uno dei partecipanti: “pieno di cibo com’ero, ero anche pieno di spirito conciliatorio”. Immerso come gli altri in un raggiunto “spirito di fratellanza” che non è tuttavia per  nulla universale: “La fratellanza è esclusiva”. E’, tendenzialmente, branco. Sicché del clima di confidenza che circola si avverte la transitorietà, l’arbitrarietà, una fragilità che la rende sempre sull’orlo di trasformarsi nel suo opposto, nel sarcasmo reciproco, nell’aggressività gratuita. Si continua a parlar di donne, girando attorno al senso di una loro sostanziale alterità che si tende però a eludere, per riconoscere se mai la loro indispensabilità: “Quando c’è lei, non devo sforzarmi di vivere”…

E torna, lei. In una casa resa inabitabile dagli (allegri?) amici che per una lunga serata ne hanno fatto il terreno della prima sgangherata riunione di quello che immaginavano potesse diventare il loro club.
All’inizio degli anni Ottanta questo libro doveva lasciare l’amaro in bocca. E non è che oggi lasci un altro sapore. E’ che  ci si è abituati, almeno un po’, a storie nelle quali gli uomini, rispetto alle donne, non fanno bella figura.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il droghiere, la giornalista e il mandante sconosciuto

Britta Röstlund, Aspettando Monsieur Bellivier, Marsilio 2018 (pp. 363, euro 18.50)

Una Parigi poco turistica, abitata da personaggi che ne fanno un po’ una Belleville alla Pennac, quella di boulevard des Batignolles.

È lì che vive e lavora Mancebo, con la sua drogheria (ma siamo a Parigi, un negozio come il suo da noi – che delle drogherie abbiamo solo un ricordo, se abbiamo una certa età – si chiamerebbe minimarket).
Una Parigi del terziario avanzato invece, la Parigi della Défense e dei palazzi della finanza, quella dove si muove Helena, donna in carriera, giornalista impegnata. Ma la città è in ogni caso la Parigi di oggi, barricata contro i fanatismi, con i cimiteri ebraici sorvegliati a vista in previsione di possibili atti di vandalismo, e i militari per le vie a prevenire azioni terroristiche.
Che cos’hanno in comune, i due protagonisti? Niente, tranne il fatto che entrambi ricevono un incarico misterioso: Mancebo deve farsi detective, e spiare il dirimpettaio per conto della moglie; Helena, trasformarsi nella segretaria del Monsieur del titolo, che resta invisibile, ma tramite intermediari le ha assegnato il compito di rinviare le mail indecifrabili che le giungeranno.

Non solo Pennac, anche Auster aleggia su queste pagine: il droghiere, ogni giorno affacciato al suo negozio a osservare la strada, e la casa di fronte, ricorda Auggie Wren, il tabaccaio di Smoke (gran film, ma c’è anche il racconto: Esperimento di verità. Il racconto di Natale, Einaudi 2005), e quando poi gli viene il dubbio di essere lui a venir spiato da quello che doveva sorvegliare è la Trilogia di New York (stesso editore, stesso anno) a venire in mente. Non bastasse, l’identità di Bellivier e le motivazioni del suo comportamento è ancora a Smoke che rimandano, ma è meglio non dire il perché: quello di Britta Röstlund non è solo un romanzo piacevole e riposante, è anche una di quelle storie di cui è meglio non rivelare il finale. Finale nel quale, inutile dirlo, le storie del droghiere e della giornalista confluiranno e il misterioso mandante – Beckett e il suo Godot no, non c’entrano – arriverà.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Aggiungere vita ai giorni

Enzo Bianchi, La vita e i giorni. Sulla vecchiaia, Il Mulino 2018 (pp. 138, euro 13)

“Per chi crede…”: l’avvertenza ricorre nel discorso, sommessa, come un distinguo doveroso ma che non suona mai come consiglio a conversioni tardive né come segnalazione di un vantaggio acquisito.

Il credente la vede certo in modo un po’ diverso, ma sa anche che i dubbi, con l’età, crescono, e dunque…
La vecchiaia è vecchiaia anche per chi crede che la fine non sia fine del tutto. O meglio: tutti hanno la loro vecchiaia, tutti – quelli che ci arrivano – si trovano ad “addentrarsi in un paese straniero, in una terra di cui conosciamo solo poche cose”. E dunque, più che della vecchiaia, “occorrerebbe parlare di invecchiamenti, di processi molteplici e diversi nei quali le vecchiaie sono vissute”, ricordando sempre che “a ogni tappa della vita l’uomo giunge come un novizio”. E che cos’ha da imparare allora, giunto ai suoi ultimi anni? Che “è tempo di trovare tempo”. Lo dice il Qohelet, ma anche la saggezza orientale che Jullien ci ricordava in Una seconda vita (Feltrinelli 2017, in questi Appunti lo scorso 31 dicembre). E trovare il modo di darsi tempo fa tutt’uno con l’imparare “l’arte di lasciare la presa”, con la capacità di smettere di pensare di dover fare ancora qualcosa di decisivo nonostante le energie, e le motivazioni stesse, non siano più quelle del passato: “non sono libera di progettare, sono libera dal progettare”, constata Rossana Rossanda (Questo corpo che mi abita, Bollati Boringhieri 2018).

Ma un conto è dirla, dirsela, questa verità, un altro metterla in pratica: ad ogni passo sorgono resistenze a farlo, il passo indietro. Perché? Perché non si è capito e ci si ostina a non capire che si è, si è stati, di più di quel che si fa e si è fatto. E’ questo il passaggio vero che l’invecchiare impone: farsi persuasi che “si può diventare vecchi e vivere trovando senso senza restare fino all’ultimo aggrappati a quel che si faceva”. Il che non implica affatto cancellare il passato, ma anzi tornarci sopra, rivisitarlo dal punto di vista nuovo che l’età può offrire, perché “la vita – sosteneva García Márquez – non è quella che si è vissuta, ma quella che si ricorda e come la si ricorda per raccontarla”.
Detto tutto ciò, occorre riconoscerlo: diventare vecchi oggi è più difficile di quel che era ieri, nelle campagne in cui Bianchi è stato giovane per esempio, se non altro perché allora era a disposizione di tutti un metodo per prepararsi alla vecchiaia, un metodo molto semplice: stare vicino ai vecchi, misurare di persona l’esperienza della vita nella sua ultima stagione. Il contrario di quanto avviene oggi, non occorre dirlo: “grama la vita per i vecchi, comincio a sperimentarlo – conclude Bianchi – anche se resisto e lotto perché voglio vivere la vecchiaia; non aggiungere giorni alla mia vita, ma aggiungere vita ai miei giorni.”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Fra Dostojevskij e Čechov

Leonardo Sciascia, Il metodo di Maigret e altri scritti sul giallo, Adelphi 2018 (pp. 191, euro 13)

Georges Simenon, Il fiuto del dottor Jean e altri racconti, Adelphi 2018 (pp. 163, euro 12)

Georges Simenon, Il fondo della bottiglia, Adelphi 2018 (pp. 176, euro 18)

A fine anni Trenta Simenon aveva già firmato col proprio nome le sue prime storie di Maigret,  abbandonando lo pseudonimo che aveva usato per qualche tempo.

Il commissario aveva ormai iniziato la sua carriera, e dunque perché inventarsi questo dottor Jean? Solo perché lo scrittore si stava facendo una nuova casa nella Charente Maritime, sopra Bordeaux, e non sapeva starsene con le mani in mano e perciò non trovò di meglio da fare che scrivere del giovane medico in servizio, appunto, in quella regione? Probabile, vista la sua prolificità irrequieta, ma doveva esserci dell’altro. Forse il bisogno di mettere al mondo il dottore detective – non come esperimento preparatorio, ma come figura parallela – rispecchia un momento in cui Simenon non ha ancora del tutto deciso se il suo personaggio sarà quello dell’investigatore che pensa e deduce, come Jean appunto, interessato al proprio gioco  intellettuale più che agli uomini protagonisti della vicenda su cui indaga, o invece un altro: un uomo che non pensa, e però “vede, soltanto vede”. Ma questo è Maigret: “Io non penso mai”, confessa a volte il commissario. Ma allora cosa fa? Cerca di ragionare come i sospetti; cerca di capirli nella loro umanità, prima che nei loro moventi. A ben vedere, questo modo di fare non si può dire sia del tutto estraneo al dottor Jean, un po’ Sherlock Holmes, o forse meglio: Hercule Poirot, ma un po’ anche Maigret: “Gli altri, il sostituto, il commissario, brancolavano nel buio, e – pensava il dottore – non poteva essere altrimenti, perché era così che funzionava in una inchiesta poliziesca. Perché sbagliavano metodo! Lui, invece… Che metodo aveva usato in realtà? Non avrebbe saputo precisarlo, ma lo sentiva. Si metteva nei panni di…”.

Il percorso di uno scrittore è fatto anche di questi momenti di indecisione, o di messa a punto del carattere del suo personaggio, soprattutto quando di un grande scrittore si tratta, come Sciascia sostiene, sulla scorta di Alberto Savinio che riteneva Simenon un “Dostojevskij mancato”. Salvo poi precisare, Sciascia, che Simenon non tanto in Dostojevskij si riconosceva, ma in Gogol e in Čecov, vale a dire, secondo lo scrittore siciliano, nello “scrittore che vede”  e nello “scrittore che ama”. “E il vedere gli uomini e l’amarli si possono considerare come qualità peculiari di Simenon: qualità che permettono allo scrittore di giungere alla verità dell’uomo così come a Maigret permettono di giungere alla soluzione del caso.” Il metodo di Maigret e la tecnica narrativa di Simenon sono quindi le due facce di una stessa medaglia: “Non c’è personaggio, nella letteratura contemporanea, che ami la vita e gli uomini quanto Maigret. Non c’è, dopo Čecov, scrittore che ami così profondamente, così minutamente, così religiosamente la vita e gli uomini quanto Maigret.”

Eppure, nella famiglia che incontriamo in Il fondo della bottiglia – un romanzo di Simenon di quelli senza Maigret, i “romanzi duri” come diceva lui stesso – e nel gioco aspro che si è instaurato fra i fratelli e alla fine esplode, un po’ di Dostojevskij c’è. Un Dostojevskij della borghesia ha detto qualcuno, non ricordo quale dei suoi lettori eccellenti (Gide, Montale, Benjamin…).

Il ricordo di quando erano bambini si mescola dolorosamente a una rivalità mai sopita nel rapporto fra Patrick Martin e Donald, ripiombato nella vita  del fratello, agiato possidente  in Arizona, senza esser mai uscito da quella travagliata della sorella. E’ il groviglio lacerante quanto insolubile in cui la relazione tra fratelli può tradursi al centro della narrazione, è l’odio più funesto, l’“odio fra consanguinei”, ad emergere nei loro dialoghi tesi e irrisolti, nei quali a prevalere alla fine, per entrambi, è un senso di umiliazione.

Si direbbe che in questo ancor più che in altri romanzi Simenon abbia dato fondo alla sua capacità di introspezione psicologica, con una partecipazione  ancor più viva che in altri casi: qualcuno ha intravisto una trama autobiografica nella storia di Patrick e Donald, la storia di Georges e di Christian, suo fratello minore, collaborazionista nel ’45, poi militare nella Legione straniera da cui non sarebbe più tornato a turbare la vita di lui, Simenon, nel frattempo trasferitosi, guarda caso, in Arizona.

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Riconciliarsi col passato, raccontandolo

Daniel Mendelshon, Un’Odissea. Un padre, un figlio e un’epopea, Einaudi 2018 (pp. 312, euro 20)

 “La nostra Odissea l’avevamo vissuta – per la durata di un semestre avevamo navigato insieme, per così dire attraverso quel testo, un testo che a me, seduto lì a osservare la figura di mio padre, sembrava sempre più relativo al presente che al passato”.

L’incontro tra un figlio e un padre, un incontro a lungo rimandato, che poi si realizza in circostanze imprevedibili per entrambi. Un corso universitario e poi una crociera.
Quanti romanzi sono usciti su questo tema in questi ultimi tempi, tempi di “evaporazione” del padre? (Giusto la scorsa settimana si parlava in questi Appunti di quello di Lewis). Qui però non sono state solo le inevitabili complicazione che attraversano ogni famiglia a dividere il genitore dal figlio, ma anche il fatto di essersi entrambi arroccati in punti di vista sul mondo molto diversi, ricercatore scientifico uno, scrittore e professore di letteratura l’altro. Ma è proprio un’opera letteraria il luogo dell’incontro. Jay Mendelshon, ormai ottantunenne, decide di frequentare il seminario che Daniel terrà sull’Odissea. Se l’autore avesse voluto far filtrare per allusioni e metafore l’analogia fra la loro vicenda e quella di Telemaco con Odisseo, e di quest’ultimo con il vecchio padre Laerte, il risultato non sarebbe probabilmente stato così convincente, e coinvolgente. Mendelshon sottolinea invece, esplicitamente, il parallelismo tra la vita sua e della sua famiglia e quella raccontata nel poema omerico, ci torna sopra ad ogni passo della narrazione, stimolato dalle osservazioni degli studenti e da quelle, spesso beffarde, del padre (poco propenso a vedere in Odisseo il grande eroe che si dice), in un andirivieni che mima la circolarità che governa l’esistenza umana ma anche il racconto. Entrambi dominati da un “andamento ad anello” che si realizza nei ritorni che le età della vita comportano e la memoria ordinariamente impone così come nei flashback e nei flashforward, nelle riprese di fatti passati e nell’anticipazione di altri non ancora avvenuti che l’arte del racconto contempla: “giunta esattamente a metà, l’Odissea compie un maestoso giro di trecentosessanta gradi su se stessa e, dopo tutto quel viaggiare, torna al suo punto di partenza”; da poco superati i cinquant’anni, l’autore recupera l’infanzia propria e insieme la giovinezza del padre.

Ma non solo: è l’intero romanzo – uno di quei romanzi che sono anche saggio –a seguire lo stesso modo di procedere offrendo un esempio concreto di “quella straordinaria tecnica narrativa capace di intrecciare presente e passato dilatando un episodio specifico nella vita di un personaggio fino ad abbracciare la sua intera esistenza”. Tecnica narrativa, ma anche arte del vivere: quel che l’Odissea ci dice è che “per poter avanzare nel futuro, bisogna prima riconciliarsi col passato”, ed è utile allora ricorrere alle storie, al racconto, perché “abbiamo tutti bisogno della narrazione per dare un senso al mondo.”

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Scrivere contro il tempo

Phillip Lewis, La montagna del padre, Bompiani 2018 (pp. 384, euro 19)

Una passione divorante di scrivere, in una famiglia in cui si pensa che non è quello il modo per guadagnarsi da vivere, in una cittadina in cui il pastore e i suoi parrocchiani bruciano i romanzi di Faulkner.

Eppure scrivere, di sé, della propria famiglia, cercando l’approvazione della madre, morta la quale scrivere non ha più senso. E’ la depressione, l’alcoolismo: lo spettacolo di “un’esistenza mancata offerto alla moglie e ai due figli soprattutto. Henry – lo stesso nome del padre – e la minore, Threnody, che ricevono dal genitore un’eredità fatta di centinaia di libri, che amano e leggono insieme, ma anche un sentimento angoscioso della caducità: “guardi all’indietro – scriveva il padre – e ti rendi conto all’istante di tutto quello che hai perso e non è altro che tempo e il tempo è vita. Ci sono ancora dei giorni che ti aspettano. Ti riprometti di fare un miglior uso di quelli che restano. E’ una bugia.”

Il racconto non segue linearmente lo scorrere del tempo: anche dopo che ha abbandonato la lugubre casa sulla montagna fuori dall’abitato, l’immagine del padre si ripresenta, le sue parole continuano a risuonare. Il tempo fugge e “ti ruba l’anima”, ma non impedisce al passato che si è vissuto di non passare più: la volontà di Henry di riscattarsi e vivere la propria vita, lontano, con la donna che ha incontrato, è l’altra faccia del lancinante senso di abbandono in cui la sorella passa dall’infanzia alla giovinezza. Torna, il protagonista, a rassicurare Threnody con la sua presenza, con le sue promesse di portarla via, dove vuole. Non fosse che lei – lo  riconosce – non ha mai saputo dove andare. Rimettere in sesto quella casa maledetta piena di ricordi brucianti allora, e poi venderla, ossia: far ordine nel passato familiare, e poi disfarsene. Henry ci prova, e non sappiamo se ci riuscirà.

Non sappiamo se il suo destino sarà lo stesso di alcuni che “vivono la loro vita morendo poco a poco, a volte così piano che quasi nessuno se ne accorge a parte loro”, o se invece sarà fra coloro che “cadono in quell’oscurità impossibile che è la morte senza neanche il beneficio di una fioritura”. In ogni caso – e sono le parole che chiudono il romanzo – “tutti viviamo le nostre vite come se fossimo sicuri del domani”. Tutti eccetto lui, il padre del protagonista, autore, se non di libri fortunati, delle parole che ha voluto sulla propria tomba: “Straniero a questo mondo, il tempo non se ne accorse. Non omnis moriar.”

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Il prima e il dopo che segna le vite

Roberto Alajmo, L’estate del ’78, Sellerio 2018 (pp. 173, euro 15)

In tutte le vite c’è un prima e un dopo. Un giorno, una stagione, un anno che hanno fatto da spartiacque. Ma devono essere passati perché la loro crucialità risulti evidente.

L’estate attorno alla quale gravita il racconto di Alajmo è quella in cui ha visto per l’ultima volta la  madre, e che fosse l’ultima non lo sapeva. Sarebbe stata diversa, si sarebbe comportato in un altro modo… Ma non affoga nel rimpianto o, peggio, nel rimorso, Roberto: racconta, invece, il prima e il dopo di quell’estate. E non ci sono né colpe da espiare né risarcimenti possibili; né buoni né cattivi, e il disamore arriva com’era arrivato l’amore, “la felicità non si cerca né si trova: la si incrocia”. Tutti hanno fatto quel che han saputo fare. Nella sua come in tutte le famiglie. Avrebbero potuto fare diversamente? Certo, se non fossero stati dentro il momento che stavano vivendo, se avessero potuto vedere il loro presente come fosse già passato e fosse stato loro possibile riconoscere in un gesto quotidiano l’evento che segnava irreversibilmente il cambiamento.
Era e continua ad essere così. Ora che è adulto e ha un figlio, Roberto lo confessa: non si è reso conto del “lungo smottamento impercettibile durate il quale lui cresceva e io invecchiavo”,  una trasformazione silenziosa – direbbe François Jullien –  di cui l’evento non è che lo sbocco. C’è stata l’ultima sera in cui ha accompagnato in camera sua il figlio, ma non ha saputo accorgersi che quel momento portava “ognuno su un binario diverso”.

E’ una riflessione dolente sulla vita, sul tempo che la attraversa e travolge quadri famigliari che erano sembrati destinati a durare in eterno, ma il tono non è quello del lamento, tantomeno dell’angoscia: non pacificato ma neanche assillato dalla caducità delle persone e dei loro affetti, il racconto richiama la schietta, empatica curiosità per la vita dei genitori che avevamo trovato nel Ford di Tra loro, ma ancor più  l’atmosfera di Lessico famigliare, in cui lo sguardo bonariamente ironico che sottolinea le idiosincrasie dei personaggi ne restituisce l’ irripetibile unicità.Che cosa avrebbe “pensato –  lei , la madre, finita tragicamente nel gorgo della depressione e della dipendenza dai farmaci – della mia vita, delle scelte che ho fatto, delle donne che ho amato, dei libri che ho scritto”, si chiede l’autore nelle ultime pagine: che cosa avrebbe pensato “di questo libro. Le sarebbe sembrato troppo duro?”

Domande senza risposta: scrivere dei morti serve a noi, non a loro.
“Il tempo dei posteri prosegue, scavalcando ogni dolore”.

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Il ’68 e la sua eredità ambigua, e necessaria

Paolo Pombeni, Che cosa resta del ’68, Il Mulino 2018 (pp. 128, euro 12)

Paolo Pombeni, storico, politologo, tenta un bilancio del’68: vent’anni in quell’anno; settanta oggi che ne scrive.

“Per la mia generazione – riconosce – quell’anno è stato una specie di battesimo collettivo, il rito di passaggio da un mondo a un altro.” Fra i tanti libri usciti per l’anniversario, che spesso raccolgono i “ricordi proposti dai reduci, a volte celebrativi, altre volte dominati da un desiderio di autoflagellazione”, questo vuole offrire “una modesta riflessione che viene da chi partecipò sia pure in quinta fila, a quegli eventi, ma nei cinquant’anni seguenti per varie vicende ha dovuto misurarsi con l’eredità di quella fase.”
Prima di tutto, che cosa è stato il ’68? “Molte cose, ma senz’altro in gran parte un’operazione intellettuale”, compiuta, e vissuta, da studenti universitari, cresciuti in un paese  che si era rapidamente modernizzato ma nondimeno propensi a sentirsi “defraudati della speranza di entrare con coraggio in quella che appariva la modernità”. Destinati comunque a subire – spesso cedendovi – le lusinghe di “alleati subdoli”, dall’industria culturale al mercato, così come il fascino di “cattivi maestri”. Risultato: l’abbandono del prosaico, “faticoso e impegnativo riformismo di cui aveva bisogno l’Italia”, e il prevalere della critica dell’esistente, della pars destruens, senza che venissero riservati pari entusiasmo e intelligenza alla pars costruens.

Non ci sono motivi per essere trionfalisti ma neanche per sentirsi sconsolati nel ripensare quel “momento storico”, perché tale è stato il ’68, non si può non ammetterlo: “Ci fu allora un impegno alla riflessione che, pur con tante ingenuità, non fu più rinnovato”.
Detto ciò, l’autore passa in rassegna i campi su cui questa riflessione si concentrò, le argomentazioni che elaborò, le speranze che concepì, ma analizza, anche, l’eredità non di rado “ambigua” che da quel fermento ci è giunta: la critico al sistema educativo, pur non misconoscendo il valore del patrimonio culturale in esso sedimentato, si è di fatto risolta nella “trappola del soggettivismo” in cui oggi ci dibattiamo, fra genitori avvocati dei loro fogli e insegnanti di nuovo autoritari, gli uni e gli altri – ma si tratta di atteggiamenti che vanno ben oltre la scuola – arroccati sulle loro posizioni e ostili ad ogni coinvolgimento dialettico.
Dall’operaismo, altro tratto decisivo della cultura del ’68, e dall’incontro operai-studenti – più episodico e transitorio di quel che apparve in quegli anni – si è giunti alla “chiusura dei sindacati verso le esigenze delle nuove generazioni”; la critica radicale al capitalismo e al consumismo non ha impedito che molti dei protagonisti delle lotte di quei giorni si siano acclimatati nel mondo accademico, economico, politico-parlamentare, così come il rinnovamento del mondo cattolico ha lasciato il campo a una religione intesa come “scelta personale”.
Come da tempo e da più parti riconosciuto, sono il femminismo, la ridefinizione del ruolo della donna con le sue conseguenze su quella del ruolo maschile, ad aver registrato un “successo duraturo”, mentre la contrapposizione al mondo della politica dei partiti non ha costituito un baluardo, a partire dai primi anni ’80, contro il venir meno di una “cultura riformista e riformatrice”, sfociando in alcuni casi in una critica radicale priva di orizzonti che non fossero millenaristici. E involuzione non dissimile ha subito il “comunitarismo”, la logica accogliente dei “gruppi spontanei”, altro aspetto che ha marcato il ’68, molto presto inquinati dallo spirito settario.
Eppure: il comunitarismo stesso, come il femminismo di cui si diceva, e l’idea di un’Italia “paese sbagliato” perché privo di una rivoluzione che abbia segnato una cesura nella sua storia, ma anche la distanza critica dal consumismo o l’attenzione alla dimensione internazionale sono tutti aspetti che hanno lasciato “ un’impronta profonda nella psicologia sociale”, nell’immaginario collettivo degli italiani  “per lunghi decenni”. Decenni che si sono conclusi? è lecito chiedersi, perché a questo servono gli anniversari: a cercar di capire a che punto si è riflettendo dove si era, o si credeva di essere. Nel caso concreto, a riconoscere che quella del ’68 è “un’eredità in cui sopravvivono più gli elementi utopici nell’immaginare il nostro futuro, che le componenti razionali utili a circoscrivere i problemi per provare a risolverli”. Si può essere d’accordo, a patto di ammettere anche che di “elementi utopici” abbiamo bisogno. Oggi, in Italia, più che mai.
E’ alle giovani generazioni – conclude Pombeni – che spetta il compito di raccoglierli, e calarli nel mondo globalizzato dei nostri giorni. Così dando conferma – chissà… – che quello del ’68 “non era che l’inizio”.

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L’avventura colta e avvincente di un linguista

Andrea Moro, Il segreto di Pietramala, La nave di Teseo 2018 (pp. 380, euro 18)

Vivo e vegeto nonostante tutto, il romanzo non ha smesso di assumere forme diverse.

Uno storico della letteratura, Stefano Ercolino, ci ha spiegato che esiste ad esempio, nel panorama intricato della letteratura postmoderna,  il romanzo massimalista (Bompiani 2015), tipo  Infinite Jest di Wallace, Underworld di DeLillo, Le correzioni di Franzen: tutti poderosi (e ponderosi) tentativi di disciplinare la complessità del mondo attraverso la narrazione.
Ma prima, tra fine ’800 e prima metà del ’900 c’è stato il romanzo saggio (Bompiani 2017), quello del Doktor Faustus di Thomas Mann e dell’ Uomo senza qualità di Robert Musil, che cercava di far fronte alla crisi che da tempo minava l’apparato simbolico della modernità e si era fatta cataclisma con le due guerre mondiali, e dunque un romanzo in cui la narrazione si contaminava con l’argomentazione, l’intreccio con il ragionamento, le vicende con le nozioni.

Ecco, se lo si dovesse collocare, quello di Moro lo potremmo considerare un “romanzo saggio”, racconto di una vicenda condita di avventura e di suspense ma infarcita di considerazioni scientifiche che solo un linguista, qual è l’autore, avrebbe potuto seminare di pagina in pagina. Sino a farci arrivare, alla fine, alla incontestabile verità che, se mai avessimo pensato il contrario, “le lingue umane sono oggetti naturali e non convenzioni culturali di natura arbitraria, progettabili a tavolino” come vorrebbe l’avversario del protagonista, Elia Rameau (un linguista, ovviamente). Ma per arrivarci occorre – a Elia, e al lettore – aggirarsi prima fra le case abbandonate del paese fantasma di Pietramala, in Corsica, e le vie trafficate di New York, inseguendo e poi cercando di sfuggire al professor Shannon, velleitario e maniacale ideatore di lingue e leader di un’organizzazione misteriosa – il Giardino degli Equivalenti – che ricorda un po’ la Spectre.

Trama e teoria dunque. Dalle parti del Pendolo di Foucault di Eco, per intenderci. Con la linguistica al posto delle teorie del complotto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Emilia, elefante spaesato e gentile

Arto Paasilinna, Emilia l’elefante, Iperborea 2018 (pp. 252, euro 17)

“L’elefante è un miracolo di intelligenza e un mostro di materia”, ma non solo. A sorprendere, in questo essere contraddittorio, è anche la sensibilità:

“Il suo odorato è squisito e ama con passione i profumi di tutti i tipi e soprattutto i fiori fragranti; li raccoglie, li coglie uno ad uno, ne fa mazzetti e dopo averne assaporato il profumo li porta alla bocca e sembra godere del loro gusto”.
La simpatia che Buffon mostra nei confronti di questo bestione, a prima vista temibile quando non sovranamente  indifferente a ciò che gli sta intorno, si ritrova nel romanzo di Paasilinna: Emilia non perde occasione di manifestare la sua “animale amicizia” cingendo con la proboscide e sollevando a un paio di metri da terra chi le si è dimostrato amico, e il suo sguardo, con quelle morbide e lunghe ciglia, ha un’“aria dolce e commovente”.

Ma quello di Paasilinna richiama anche altri pachidermi costretti a viaggi interminabili, in terre a loro estranee: sono spaesati i protagonisti dei testi raccolti in i Morte di un elefante a Venezia (Canova 2004), dell’Elefante di Napoleone di Paolo Mazzarello (Bompiani 2017), e soprattutto quello che incontriamo nel Viaggio dell’elefante di José Saramago (Einaudi 2010). Il peregrinare di Emilia non  si deve tuttavia al fatto di essere stata spedita in dono da un sovrano all’altro, come avveniva in passato: lei è un’elefantina da circo che si esibisce lungo la Transiberiana prima di finire in Finlandia, esule ma sempre accudita con amore da Lucia, sollecita e affettuosa con il suo animale anche più del cornac dell’elefante di Saramago. Non solo custode del suo benessere ma anche mediatrice tra il suo buonsenso animale e la follia, l’ipocrisia, l’avidità degli uomini. Mai condannati però, dall’autore, che come sa restituirci la saggezza intelligente dell’elefante così guarda agli umani con l’ironia bonaria e lo humor che gli sono propri, segno di un piacere di raccontare – senza fretta, indugiando su particolari e cedendo a digressioni – che comunica quel senso di leggerezza, scherzosa ma non del tutto, che con i suoi romanzi ci regala da più di vent’anni (risale al 1994 la pubblicazione in Italia dell’Anno della lepre, con Iperborea).
Attenzione però: bonario sì, ma anche pungente, e apertamente critico, quando se la prende con il formalismo protocollare della UE che non sa tener conto della specificità locale dei problemi, o con il gruppo di verdi che col “Movimento di difesa dell’elefante” si rivelano più interessati alla loro visibilità mediatica che alla difesa della salute di Emilia, senza riuscire tuttavia a impedirle di raggiungere alla fine un parco nazionale del Sud Africa dove “gli elefanti e gli altri animali selvatici possono muoversi liberi, mentre i turisti sono sprangati nei loro campi base da cui possono uscire a vedere la fauna solo in macchina, accompagnati da guide professioniste”.

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Nati per guardare e ascoltare il mondo

Durian Sukegawa, Le ricette della signora Tokue, Einaudi 2018 (pp. 184, euro 18)

Per fare i dorayaki, dolci tradizionali giapponesi a base di pandispagna e marmellata di fagioli, occorre sentimento: a Sentarō, il pasticcere,  sembra una stravaganza della vecchia Tokue – aiutante che da subito si rivela maestra –  quello stare a guardare i fagioli da vicino; a osservarli uno ad uno, come se volesse sentirne la voce, o sperasse comunque di sentirla.

Ma capirà: il libro è tutto qui. Nel percorso di un uomo che si lasciava vivere, oppresso dai dolori del  passato e dai debiti nel presente, e che poco a poco comprende che la via per imparare a vivere sta lì: nel cercar di “sentire la voce di ciò che non ha voce”, nell’imparare ad “essere all’ascolto”. Non è una cosa facile: Tokue è sessant’anni che si esercita, ma si può cominciare a qualsiasi età, anche se si è adolescenti come la studentessa golosa di dorayaki.  Perché la differenza di età non impedisce che l’esperienza, fatta di una ricerca ininterrotta, si possa trasmettere: il tempo della vita non è poi tanto importante rispetto a quello delle stagioni che donano aspetti differenti al ciliegio che sta davanti al negozio di Sentarō e fiorisce, mette foglie, le perde, resta spoglio, rigermoglia, torna a rifiorire.

In questo, come in molta letteratura giapponese, la vicenda è tramite di un messaggio che, proprio perché originato dai fatti e aderente alla vita dei personaggi, non suona teorico, ed è quindi tanto più in grado di raggiungerci: nulla di ciò che facciamo – che cuciniamo dolci o scriviamo libri – si esaurisce nella sua strumentalità, nell’efficacia del procedimento, nella bontà del risultato, ma può esprimere – se si è all’ascolto – un irripetibile modo di rapportarsi a se stessi, e al mondo, e dunque essere la traccia che ognuno lascia del proprio passaggio sulla terra. Perché “siamo nati per guardare e ascoltare il mondo. E il mondo non desidera altro. Perciò – conclude Tokue, non con l’aria di chi sostiene una tesi ma di chi fa una semplice constatazione – il mio essere venuta al mondo ha un senso”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

La Storia e le storie, le vite e il romanzo

Marco Balzano, Resto qui, Einaudi 2018 (pp. 192, euro 18)

La “marcia su Bolzano” nel ’22, con incendi di edifici pubblici, pestaggi, e i carabinieri che restano a guardare. La città ne esce cambiata: “ancora oggi camminare per Bolzano mi scombussola.

Tutto mi sembra ostile. I segni del ventennio sono tanti”. E dalla città alle valli, ai paesi: “Mussolini ha fatto ribattezzare strade, ruscelli, montagne”, “hanno italianizzato i nostri nomi, sostituito le insegne dei negozi. Ci hanno proibito di indossare i nostri vestiti”. E l’italiano, “una lingua esotica” per chi viveva in “Alto Adige”, è l’unica lingua ammessa: la protagonista, se vuole insegnare, deve farlo nelle “catacombe”, fare la “maestra clandestina”, sotto la minaccia dell’olio di ricino o, peggio, del confino.
Qualcosa sapevamo (i cartelli bilingui, con quelle italianizzazioni spesso fantasiose, a volte grottesche…), ma non altrettanto si sa di quel che il fascismo ha seminato fra i monti del Sud Tirolo: “Sperare in Adolf  Hitler era la ribellione più vera”. Essere antifascisti e filonazisti. E quando, nell’estate del ’39, “i tedeschi di Hitler vennero ad annunciare che, se lo volevamo, potevamo entrare nel Reich e lasciare l’Italia”, dividersi: fra “optanti” e “restanti”, fra chi accetta l’opzione e se ne va in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi decide di restare perché il posto in cui è nato ha un significato, le strade e le montagne gli appartengono come lui appartiene ad esse.
Ma oltre al fascismo e all’opzione offerta dai nazisti, oltre alla guerra e alla vita alla macchia, alla fuga continua e alle morti di chi ci si era trovati vicino, oltre a tutto questo c’è il progetto della diga, i lavori che si era sperato la guerra fermasse e che riprenderanno invece, costringendo di nuovo alla scelta. Erich, protagonista del romanzo, insieme alla moglie Trina, la voce narrante, non ha dubbi: lui resta. “Perché qui ci sono nato, ci sei nata tu, ci sono nati i miei figli. Se ce ne andremo avranno vinto loro.”

“Le industrie – scrive Trina: per nessuno, per se stessa – stavano trattando Curon e la valle come fossero un posto senza storia. Invece noi avevamo un’agricoltura e allevamenti e prima che arrivasse quell’esercito di cafoni e quella marmaglia di ingegneri regnava l’armonia tra i masi e il bosco, tra i prati e i sentieri. Era una terra ricca e piena di pace, la nostra. Sacrificare tutto questo per una diga era semplicemente selvaggio. Una diga si può costruire altrove, un paesaggio una volta devastato non può rinascere più. Non si può rimediare né replicare, un paesaggio”.
Ma paesaggio è anche quello della Val Venosta di oggi per i turisti che si fermano e si fotografano davanti a quel campanile che spunta dalle acque del lago artificiale, che nel 1950 ha sommerso il paese, “come se sotto l’acqua non ci fossero le radici dei vecchi larici, le fondamenta delle nostre case, la piazza dove ci radunavamo. Come se la storia non fosse esistita.”
La storia è esistita invece, ma se si è fatta romanzo e proprio per questo è riuscita a raggiungerci è perché l’autore ha saputo intravederci le vite, irripetibili come sono le vite, di donne e uomini in carne ed ossa: “Se la storia di quella terra e della diga non mi fossero parse capaci di ospitare una storia più intima e
personale – scrive infatti in una  “nota” conclusiva – attraverso cui filtrare la storia con la s maiuscola, se non mi fossero immediatamente sembrate di valore generale per parlare di incuria, di confini, di violenza del potere, dell’importanza e dell’impotenza della parola, non avrei, nonostante il fascino che questa realtà esercita su di me, trovato interesse sufficiente per studiare quelle vicende e scrivere un romanzo».

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il suicida riluttante

Auður Ava Ólafsdóttir, Hotel silence, Einaudi 2018 (pp. 188, euro 18,50)

“Devo spararmi in sala o impiccarmi in camera da letto, il gancio del lampadario della cucina oppure quello del bagno? Cosa sarebbe più appropriato, il pigiama, un vestito elegante o i vestiti di tutti i giorni, con le scarpe o solo coi calzini?”

Il tono è questo: dire che questo romanzo tratta, dall’inizio alla fine, di un proposito di suicidio potrebbe fuorviare se non ci fossero questi incisi, queste perplessità irrisolvibili che possono a volte richiamare i tratti dello Zeno Cosini di Svevo.
Certo, ragioni ne ha: la madre non si sa quando c’è con la testa; la moglie se n’è andata; la figlia non è davvero figlia sua. Ed è anche lucidamente realista : “Mi rimpiangerà il mondo? No. Il mondo sarà più povero, senza di me? No. Il mondo se la caverà senza di me? Sì.”
E dunque, perché continuare a vivere, a sopportare una solitudine inattaccabile? Persino il vicino, che pure  cerca la sua compagnia “non dialoga, monologa”, e non c’è da far conto – come i padroni di cani, forse, o gli appassionati di whalewatching – neanche su una possibile un’empatia tra uomo e animale, tra lui e una foca ad esempio: “I loro sguardi si sono incrociati, uomo e animale, nient’altro da dire, nessun significato più profondo”. Quanto a conforti che possano venire dall’Alto, non c’è da farci conto: “non credo più in Dio e ho paura che Lui non creda più in me” – (potrebbe essere una battuta di Woody Allen).
No: l’unica cosa di cui si può esser certi è la morte, la propria morte. Lo sapeva già quando trent’anni prima, quando nei suoi diari di ventenne scriveva che  “La gente muore. Gli altri. Si muore. Con «si» intendo me stesso – (altro che Woody Allen: qui siamo a Heidegger) – . Io muoio. Se avrò dei figli anche loro moriranno. Quando succederà, io non sarò con i miei figli…”.

Senonché: se proprio lo si è deciso, meglio morire lontano, non lasciare a nessuno – tanto meno alla figlia – il compito di occuparsi di quel che lasci… E dunque via: biglietto di sola andata. Per dove? “Navigo in rete alla ricerca della meta più adatta e focalizzo l’attenzione a latitudini di guerra.” E difatti è in un luogo devastato da eccidi e bombardamenti che va – per suicidarsi, naturalmente – nella cornice di  un paesaggio speculare a quello interiore: “la devastazione è ovunque”.
Senonché: all’Hotel silence scopre che qualcuno, di cui non sospettava l’esistenza, qualcuno che per lui era nessuno, ha bisogno di lui.
E’ là che la voce della madre lo raggiunge, in sogno. Lui non se ne rende conto, al momento, ma quella che ha ricevuto è una specie di rivelazione: “Anziché smettere di esistere, non puoi smettere di essere tu, e diventare un altro?”
Grandi domande sulle cose essenziali della vita, e poche risposte, e se non quelle racchiuse nelle vicende che la vita stessa propone e il racconto sembra limitarsi a riferire. Si direbbe, questo, l’orizzonte in  cui si muovono i personaggi di molti scrittori islandesi di oggi.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora

Il popolo nella rete

Alessandro Dal Lago, Populismo digitale. La crisi, la rete e la nuova destra, Cortina 2018 (pp. 169, euro 14)

Populismo perché i leader pretendono di agire in base al mandato diretto del popolo; digitale perché la nuova relazione tra leader e popolo avviene soprattutto nell’acquario del web.”

Tutto qui. E non è poco: il popolo “nella realtà materiale non esiste – lo dimostra la rapida ricostruzione che l’autore fa dei significati via via attribuiti al termine – se non nelle convenzioni o nelle finzioni della democrazia rappresentativa”. Ma ecco la novità: quello stesso popolo “si è ora ricostituito in rete”. Le promesse di democrazia diretta che la rete – o meglio, i suoi più o meno consapevoli e interessati cantori – ha diffuso, hanno creato il terreno entro cui è rigermogliata l’idea, o la pretesa, di “un popolo che sopprima le differenze di ceto, religione, educazione”. Idea suggestiva ma equivoca: “oggi, dopo l’esaurimento dei grandi movimenti sociali del XX secolo”, ristrette élite sono tornate ad attribuirsi “il compito di guidare il popolo verso la realizzazione della sua natura più profonda” (quella appunto in cui non esisterebbero né differenze di classe  né appartenenze  religiose diverse e dislivelli di natura culturale). Senonché, data la crisi delle istituzioni democratiche, “ora si suppone che il popolo parli e decida direttamente per sé”. E qui sta il punto: la rete e i social oscurano il dato reale, ossia che l’essenza del populismo continua ad essere rappresentata dal fatto che qualcuno parla per conto di “un popolo che non c’è”.
Analisi convincenti del dilagare di questo populismo condotto con altri mezzi dagli Stati Uniti alla Russia si accompagnano a quelle rivolte a casa nostra: Berlusconi, certo, ma il M5S soprattutto. Non tanto perché sia il nemico principale (qui non si gioca, come prima del 4 marzo, al gioco del peggio Berlusconi o peggio Grillo, anzi: Di Maio), ma perché rappresenta “un esperimento politico che non ha precedenti al mondo”, configurandosi come “un sistema multi-aziendale capace di integrare attivismo di base, azione parlamentare e uso sapiente di Internet”; governato, nella sostanza, da un blog controllato da una società di consulenza aziendale.

Demonizzazione della rete, dunque, vista come origine della degenerazione politica attuale? No. L’incapacità della Sinistra – finiti i tempi in cui si poteva ancora parlare di “ritardo”… – di comprendere il carattere epocale dei cambiamenti economici e sociali degli ultimi decenni è un fatto, così come è lì da vedere la maggiore abilità della Destra di sfruttare le potenzialità della rete. Ci sono responsabilità più definite tuttavia, nell’affermazione del M5S: “L’elettorato tradizionalmente progressista e radicale si è sentito senz’altro abbandonato a se stesso sia dal decisionismo presuntuoso di Renzi – cui del resto pulsioni populiste sono tutt’altro che estranee –  sia dalla scomparsa di qualsiasi opzione di sinistra”. Ma c’è stato dell’altro: l’iniziale “illusione di tanti intellettuali e artisti – ma anche politici: D’Alema e Bersani, ad esempio – e cioè delle élite per lo più di sinistra, delle virtù taumaturgiche di Grillo”.
E comunque: non è un pamphlet, un esercizio pur legittimo di indignazione, il libro di Dal Lago. Piuttosto l’offerta di spunti per una considerazione pacata del cambiamento profondo in atto, che non si misura solo nella politica e nell’informazione, ma nella rivoluzione del vissuto dello spazio e del tempo che il digitale determina, e nella connessa perdita di terreno del pubblico rispetto al privato. Un privato esibito continuamente ma non per questo paragonabile al confronto, allo scambio che solo il contatto faccia a faccia permette.
Una considerazione pacata perché “non ha senso esecrare questi sviluppi. Ma è necessario comprenderli”. Consolatorio forse, ma inutile – si potrebbe concludere – cimentarsi in critiche sempre più dettagliate e risentite degli errori e delle derive culturali della Sinistra o della malafede cinica della Destra: occorre capire che cosa è successo e soprattutto che cosa succederà, consci tuttavia del fatto che “la prevalenza della politica digitale su quella reale – una prevalenza che fa rima con quella osservabile nell’economia… – non permette di fare previsioni a lungo termine.” Neanche a breve: leggere questo libro prima del voto del 4 marzo poteva essere utile. Ancor più utile è tornarci a riflettere adesso, guadagnando  la pratica di un’analisi attenta, sempre aggiornata. Perché “la crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”: Gramsci – non a caso citato in esergo – l’aveva capito.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora