Rita di Leo, L’esperimento profano. Dal capitalismo al socialismo e viceversa, Ediesse 2012 (pp. 178, euro 10)
Se si è dell’idea che gli anniversari servono a riflettere sull’oggi, a cento anni dalla Rivoluzione d’ottobre non si può ignorare il libro che Rita di Leo ha pubblicato cinque anni fa.
Da decenni studiosa dell’Urss, autrice di libri fondamentali di analisi storico-politica nati dalla conoscenza continuamente aggiornata della letteratura internazionale sull’argomento, da viaggi in Unione Sovietica e dal racconto di testimoni diretti dell’evoluzione del paese, di Leo offre nell’Esperimento profano (dopo quelli “sacri” tentati da gesuiti e quaccheri nell’America del 6-700) gli strumenti essenziali per comprendere le tappe essenziali di una storia che continua a riguardarci. Una lettura che va al cuore della “guerra di classe sovietica” concentrandosi sul ruolo attribuito agli operai e agli intellettuali (non tanto i grandi dissidenti che conosciamo, quanto i professionisti, i tecnici, gli insegnanti). Un ruolo centrale con Lenin (nel ’24 “imbalsamato con le sue convinzioni”), ma da Stalin in poi di fatto subordinato, fino agli anni di Gorbachev, quando infine lo strato degli intellettuali (mai riconosciuti come classe, come gli operai e i contadini) prese “la propria vendetta sul «lavoro produttivo», che tornò al fondo della scala sociale”. Non solo l'”operaismo” di Stalin” e il “populismo” di Khrushchev, ma anche la svolta impressa dall’ultimo segretario del Pcus trova in queste pagine una messa a punto rigorosa, che toglie di mezzo giudizi contraddittori e ideologici nel rilevare quel che intanto s’era davvero affermato: la convinzione che il ruolo decisivo era ormai giocato dall’economia e non dalla politica, e dunque “l’obiettivo prioritario non stava tanto nel creare una società diversa quanto nel crescere più del capitalismo”. La crisi decisiva che si era consumata era quella della “politica-progetto”: screditata e battuta nella sua versione “estrema” in Urss ma parallelamente in quella “ridotta” della socialdemocrazie europee. E’ qui che la ricostruzione e l’analisi storica si fa discorso del presente: nel sottolineare come la “vittoria” dell’Occidente capitalistico sull'”esperimento” – sprofondato nelle proprie contraddizioni e imploso nello sdoppiamento fra un partito sempre più debole nel suo ruolo di pianificatore e una società ormai dominata dal mercato, sia pure sommerso – ha coinciso con “una grande vendetta nei confronti degli operai” perpetrata, ben oltre i confini dell’Urss, grazie alla globalizzazione del mercato del lavoro. E insieme agli operai sono gli intellettuali critici ad essere sostanzialmente scomparsi: la fine dell'”esperimento” sovietico ha screditato la cultura europea – dall’illuminismo alla socialdemocrazia otto-novecentesca – da cui aveva preso le mosse, e asservito gli intellettuali che ne erano stati rappresentanti e innovatori. “L’intellettuale europeo che nel passato studiava il potere per cambiare «lo stato presente delle cose», si è convinto del proprio ruolo di servizio e sembra non voglia avere idee altre da quelle per cui è ingaggiato e retribuito”.
Ne deriva che “L’antagonismo sopravvissuto è individuale, l’intellettuale [critico] si rifugia nei monasteri, come fossimo tornati all’anno 1000”.
“Politica e progetto – questa la conclusione, che il caso cinese di certo non corregge – sono diventati termini in disuso. Per chi vuole risalire la china c’è solo il principio speranza.”