Appunti presi nel corso della lettura di libri che hanno lasciato traccia e si segnalano, per ragioni fra loro diverse, fra le pubblicazioni recenti. Leggi di più
Donatella Di Pietrantonio, L’arminuta, Einaudi 2017 (pp. 163, euro 17,50)
L’arminuta, la ritornata. Nel senso di restituita: dalla famiglia che l’aveva adottata a quella vera, dalla cugina abbiente ma che non poteva avere figli alla madre.
Ma perché questa restituzione, questo ritorno forzato quando ormai è una ragazzina? Lei – che non può ricordare il passaggio da una famiglia all’altra: aveva pochi mesi quando è avvenuto – non lo sa, ed è il suo rovello. Lo capisce che la sua famiglia non l’aveva richiesta, e dunque: perché? La malattia della signora cui era stata affidata (la mamma, per lei): per molto tempo pensa che di questo si tratti. Non la potevano più tenere – la mamma sofferente, il papà taciturno e sfuggente – perché una malattia grave, forse mortale, era arrivata a sconvolgere la vita. Quella che credeva fosse la sua vita. E invece la realtà si rivelerà diversa, meno drammatica, e più crudele. Ma non sta tanto nella vicenda il potere di coinvolgimento di questo libro, quanto nella scrittura, nel tono della voce che la narra. Un tono che dice di una sensibilità mortificata, ma che resiste con dignità alla lacerazione inflittale, in questo ricordando molte pagine della Morante, non per caso citata in esergo. Una scrittura che si impone l’essenzialità del parlato e sa accoglierne le icastiche espressioni dialettali, frutto di un’arcaicità che non ha abbandonato il costume e la mentalità, di un’esperienza della vita fatta di sopportazione, del sapere maturato in esistenze dominate dalla miseria, e consapevoli che “la miseria è più della fame”. Una scrittura tanto più convincente perché sa aprirsi in squarci che lasciano intravvedere la ricchezza di immagini e di soluzioni linguistiche che cova sotto il distacco che sembra ispirare la voce narrante: i fuochi d’artificio, sul lungomare, “si spegnevano dopo un attimo di gloria universi di stelle appena esplose, sullo sfondo freddo degli astri fissi. Sott’acqua, lontano dai nostri pensieri, lo spavento muto dei pesci”. Oppure, passando dal registro della meraviglia a quello dell’orrore e della pietà: Vincenzo, il fratello da poco ritrovato e già perduto: caduto dalla moto in corsa, “era volato sopra l’erba autunnale, fino al recinto delle mucche. Chissà se aveva visto, in quei minimi istanti staccato da terra, su cosa andava a impigliarsi. Era caduto con il collo sul filo spinato, come un angelo troppo stanco per battere le ali un’ultima volta, oltre la linea fatale. Le punte di ferro erano penetrate nella pelle, avevano aperto la trachea e reciso le arterie. Era rimasto appeso con la testa verso gli animali al pascolo (…). Le mucche si erano voltate a guardarlo, poi avevano abbassato i musi e si erano rimesse a brucare.”
Il bisogno di capire dell’arminuta non si scioglie neanche quando nella famiglia cui è stata restituita comincia a trovare rispondenze profonde, se pur laconiche, nella sorella Adriana, nella madre. Figure di donne che da comparse in una scarna vicenda di fatti si fanno via via protagoniste di una storia di sentimenti, dei sentimenti fondamentali che abitano la vita, ogni vita, e non svaniscono, a lettura finita.
Kjell Westö, Miraggio 1938, Iperborea 2017 (pp. 448, euro 18,50)
“I protagonisti nascondono le cicatrici del passato come meglio possono, e hanno solo vaghi sospetti e premonizioni di quanto il futuro ha in serbo per loro”.
È l’autore stesso a definire la condizione nella quale si muovono l’avvocato Claes Thune e la sua segretaria, Matilda Wiik, diversi per esperienze ed estrazione sociale, ma entrambi sospesi entro un orizzonte stretto fra la memoria – bruciante in lei – delle violenze della guerra civile che ha sconvolto la Finlandia appena dopo la prima guerra mondiale e la minaccia incombente della seconda, avvertita nel “tanfo” che il nazismo – siamo nel 1938 – diffonde: “il tanfo del sacrificio imminente”. La speranza che aveva percorso l’Europa dopo la “grande mattanza umana”, che “le persone fino allora rimaste meri sudditi stessero per diventare cittadini a pieno diritto”, che l’essere umano potesse cambiare, è ormai tramontata. Lo stesso circolo che da anni raccoglieva con cadenza regolare l’avvocato e i suoi amici, professionisti della buona borghesia formatasi nel periodo fra le due guerre, si dissolve: l’aggressività politica e militare di Hitler, e l’antisemitismo montante, travolgono ideali e appartenenze. La giustizia, dopo una breve, illusoria parentesi, è tornata ad essere privilegio di pochi.
In questo quadro, si fanno via via più sensibili fra i due protagonisti assonanze che loro stessi avvertono con circospezione, come non potessero cedervi, educati dalla vita a una prudenza diffidente, e pure animati ancora da un desiderio sotterraneo ma inestinguibile di incontro con l’altro. La sommessa fedeltà di lui alle proprie idee antinazionaliste, a un senso della propria dignità non sbandierato ma intimamente irrinunciabile; la determinazione di lei nel perseguire la vendetta riparatrice che si è prefissa, e che pure non sembra guastare la sua umanità, la sua capacità di “accorgersi delle solitudini”: una medesima condizione di infelicità nutre l’interesse reciproco, senza tuttavia poter contrastare un destino che intreccia saldamente le vicende individuali con quelle collettive, le vite con la storia. Ed è nella prosa distesa, nella narrazione che sa governare l’andirivieni della memoria e i diversi piani sui quali dispone avvenimenti e sensazioni, che questo intreccio, ancor più dei fatti che alimentano la trama, dà sostanza al romanzo e ne rende avvincente la lettura.
Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi 2017 (pp. 155, euro 12)
Populismo, parola pigliatutto che nasconde due circostanze essenziali: non è un fenomeno nuovo, e ci sono populismi diversi fra loro.
Fra riferimenti puntuali ad emergenze populiste del passato e a tipologie del fenomeno ravvisabili nel presente (l’America di Trump, la Brexit, il lepenismo), Revelli rintraccia comunque un’origine comune ad atteggiamenti politici nati, nel fuoco della globalizzazione, dalla torsione oligarchica della democrazia , dalla sconfitta storica del lavoro e dallo sbando culturale e politico delle forze che lo rappresentavano, dal declassamento del ceto medio e dalla crisi irreversibile dei meccanismi dell'”ascensore sociale”. E’ questo l’humus dal quale sono germogliate convinzioni diffuse e atteggiamenti trasversali: la figura di un popolo come entità coesa e “prepolitica”; una dialettica verticale (popolo contro élite, caste, usurpatori vari) al posto di quella orizzontale che aveva regolato il confronto politico fra partiti nel secolo scorso riassumendosi nella contrapposizione fra destra e sinistra; l’idea, vaga ma mobilitante, di un tradimento avvenuto da parte di un soggetto, variamente definibile, estraneo al “popolo”, e perciò la richiesta di una restituzione del potere non ottenibile attraverso le istituzioni rappresentative ma soltanto grazie a leader più o meno carismatici. Un mosaico di immagini e rivendicazioni in cui non compare mai la richiesta di ridefinire gli assetti proprietari e gli equilibri sociali, ma solo quella di sostituire il personale di governo. Tutte cose già viste: persino il termine “antipolitica” non rappresenta una novità (lo si trova niente meno nel Thomas Mann della Considerazioni di un impolitico).
La novità va se mai rintracciata nella collusione fra populismi e neoliberismo: è questa la chiave che il saggio ci offre per analizzare, ad esempio, la “rivoluzione conservatrice renziana”, la sua volontà di rafforzare l’esecutivo e, rovescio della medaglia, l’insofferenza nei confronti dei corpi intermedi, nella logica di un “populismo dall’alto”, un “populismo di governo” che fa del nostro Paese un “laboratorio privilegiato” di un neopopulismo precoce e polimorfo, in cui il renzismo è stato preceduto dal berlusconismo ed è affiancato dal grillismo, l’uno e l’altro populismi “tecnologicamente modificati”, dalla tv e dal web. Non per questo assimilabili fra loro e pure, innegabilmente, accomunati, tutt’e tre, dalla tendenza alla personalizzazione del potere, alla “dis-intermediazione”, alle promesse irrealizzabili che fanno sperare inun'”immediatezza” delle soluzioni puntualmente smentita dalla concreta situazione politica, economica e sociale, nazionale e sovranazionale. Così analizzata, la situazione italiana appare la peggiore, gravata com’è da un declino economico che non ha confronti e dalla rabbia di una massa di “homeless della politica”, una rabbia che sale dal basso ma – priva com’è dell’orientamento che le permetterebbe di riconoscere come la lotta di classe non sia finita ma sia piuttosto stata vinta dal capitale (finanziario) contro il lavoro – si lascia usare dall’alto. Tutto è perduto dunque? No: “basterebbero forse dei segnali chiari per disinnescare almeno in parte quelle mine vaganti nella post-deomocarzia incombente”, provvedimenti raggruppabili in quello che un tempo si chiamava «riformismo» e che oggi appare «rivoluzionario»…”.
Andrea Cisi, La piena, minimum fax 2017 (pp. 421, euro 16)
“Sono una persona mediamente equilibrata”, dichiarava Andrea Cisi in apertura al romanzo scritto una quindicina d’anni fa, per ammettere subito, però, che “c’è solo una cosa che esula dal mio medio equilibrio, un aspetto confuso della mia permanenza su questo pianeta. Il lavoro.”
E non poteva essere diversamente, visto che il lavoro era per lui, a quell’epoca, fatto di occupazioni precarie, disparate, ma accomunate da un tratto unificante: nonostante la domanda che il giovane si sentiva rivolgere all’inizio di ciascuno di questi lavori – hai esperienza? AYE. Are you experienced? era appunto il titolo del romanzo (Bevivino editore 2003) – l’impressione che ne ricavava era che “sul luogo di lavoro la gente non abbia più la pazienza di insegnarti le cose, di aspettare che tu capisca, di aspettare che impari”. Dal precariato al lavoro in fabbrica, la piccola fabbrica, ma con regolare assunzione: è un altro mondo quello che ci presenta Cronache dalla ditta (Mondadori 2008), ma il dato di fondo rimane: il lavoro è comunque svuotato di contenuti professionali, e dunque lo si impara in fretta e poi non resta da far altro che farlo nell’identico modo per anni. La sua dequalificazione ha marciato di pari passo con l’automazione. Non resta, al protagonista, che opporre un’ostinata resistenza, sforzandosi di “mettere in pratica quella disciplina interiore che permette, con il solo ausilio dell’annullamento forzato della mente, di mascherare il grigio della vita operaia di ogni giorni, con un bel ‘rosa ottimismo’ fittizio e irreale”. Nessun riferimento a esercizi di meditazione o a pratiche zen: la salvezza lui la trova nella cura degli affetti, nel rispetto dei gesti quotidiani, nelle abitudini che occorre coltivare con pazienza per dare un colore ai propri giorni e al paesaggio desolato in cui si vive, e, oltre a questo, non occorre dirlo, una risorsa decisiva si rivela la scrittura. Una scrittura intessuta di ironia, venata di un umorismo imprevedibile, spesso surreale, e ad un tempo circostanziato e concreto nel riportare i modi della parlata cremonese. Li ritroviamo tutti, questi elementi, nell’ultimo romanzo. Sia pure aggiornati: il paesaggio è quello dei capannoni abbandonati, segni desolati e desolanti della desertificazione industriale degli ultimi anni; la fabbrica è la stessa, e il clima non è sostanzialmente cambiato (nessuno ha tessera sindacale lì dentro: “se qualcuno ha la tessera punti dell’Agip è già tanto”); il lavoro è quello, povero e monotono, così come ricorrono le figure conosciute nel romanzo precedente, sia pure con qualche nuova presenza (le ucraine della cooperativa pulizie, qualche giovane lavorante assunto temporaneamente). Anche il tempo libero non ha trovato di meglio che le partite di calcetto, la cui cronaca si alterna a quella delle ore in fabbrica con una regolarità che comunica come la ripetitività abbia invaso anche i momenti che della ripetitività del lavoro dovrebbero risarcire. E’ sul fronte privato, familiare, che si registrano novità, prima fra tutte l’avvenuto matrimonio del protagonista: la fidanzata di Cronache dalla ditta è ora moglie, e madre di un bambino (il “nano”). Ma è proprio qui che qualcosa è silenziosamente andato storto, e minaccia di peggiorare: il grigiore della vita di fabbrica sembra essersi infiltrato anche nella vita della coppia: in lei si fa evidente “la stanchezza di rimandare la vita”; in lui la sensazione di “attraversare questa vita come un’onda nel mare, senza lasciare tracce, senza bagnare niente che non sia già acqua”, e fra i due si insinua sempre più spesso “la tensione di chi non ha più nulla da dirsi”.
Non a caso, stando dietro a questa strisciante perdita di senso delle relazioni, la scrittura alterna registri diversi, la lingua si fa a tratti più letteraria, come per riuscire a rendere lo scolorirsi progressivo della vita, l’affiorare del pericolo d’una disfatta esistenziale che trova nella minaccia della piena del grande fiume un corrispettivo metaforico: “piove di giugno, piove e fa male all’uva e al mio umore che si muove in un labirinto e sente la piena arrivare. Presto diventerà travolgente”, e tutto quello che si è opposto all’insensatezza dell’esistenza cederà al “vuoto che ci sta ingoiando”, alla solitudine della casa lasciata da Lisa, che se n’è andata, incinta del secondo figlio, a vivere da sua madre col primo. Eppure qualcosa resta, ed è molto: il sorriso del “nano”. “Quel sorriso che è il tesoro più prezioso che possiedi. Quel sorriso che sei tu quando avevi i suoi anni. Quel sorriso che sei tu ed è Lisa”. E insieme a quel sorriso, la franchezza affettuosa ma ferma della madre: “Non fare come il papà. Come il papà? Come lui con me. Non fare così con Lisa. Stai diventando come lui. Cioè come? Che non sai cosa fare. Che sei deluso e pensi che da solo staresti meglio. Che ci sei ma non ci sei e pensi a una vita diversa. Non c’è una vita diversa.” L’amarezza, che aveva sempre venato l’ironia di Cisi, si è fatta dolore, rasenta la disperazione, e non basta più, allora, la presa di distanza che appunto l’ironia consentiva. Occorre altro, ed è un sentimento più vasto, che salva dalla “piena”, un sentimento di pietas, verso gli altri e verso di sé, e forse anche un atto di umiltà, dell’uomo, con le certezze che pretende di possedere, di fronte alla comprensione, più aderente alla vita, della donna. Quando la piena arriverà, quella vera, lui sarà là con gli altri a mettere sacchi perché l’argine tenga. Poi cambierà posto di lavoro, entrerà nella grande fabbrica della zona, il tubificio, e intanto la moglie metterà al mondo il secondo “nano”. “Cosa fa?”, chiede il fratellino guardando il nuovo arrivato. “Mah, per ora niente. E’ appena entrato nelle nostre vite”, risponde il padre. “Ma ci sta?” Gli accarezzo i capelli col palmo di una mano. Sorrido. “Ci stringiamo”. Perché – l’ha detto sua madre – non c’è una vita diversa, una vita da rincorrere fuggendo da quella che si ha. C’è questa, e non resta che viverla. A costo di stringersi, per viverla. E raccontarla.
Dal Corriere della Sera Brescia del 26 aprile 2017. Clicca sull’immagine per visualizzare l’articolo.
Lars Gustafsson, La ricetta del dottor Wasser, Iperborea 2017 (pp. 155, euro 16)
È quello che i critici letterari chiamano narratore inaffidabile, il dottor Wasser: ha rubato l’identità a un morto nel quale si è per caso imbattuto.
Il suo nome, la sua professione erano altri, ma pare soddisfatto della sua messinscena, non c’è ombra di pentimento in lui. E non perde occasione per ribadirlo: “la tentazione era troppo forte. La tentazione di sfuggire semplicemente alla mia vita e viverne un’altra”. Anzi, parecchie altre, perché il dottore cambia con facilità la donna con cui vivere dando colori diversi alla propria esistenza, e anche in questo mantenendo una coscienza perfettamente tranquilla. Non è insomma, quest’ultimo di Gustafsson, il romanzo ideale per lettori che amano identificarsi nel protagonista. Anche se, pagina dopo pagina, la fisionomia di questo imbroglione – è lui stesso a definirsi tale – vira verso quella del filosofo scettico, capace di motivare le proprie scelte con la lucida arguzia dell’anticonformista vero, dell’osservatore critico di una società in cui tutti recitano la loro parte, spesso con una dose di ipocrisia che non ha nulla da invidiare a quella di chi si spaccia per altri. Del resto, Bo Kent Andersson – questo il nome del protagonista prima che assumesse quello di Kurt Wolfagang Wasser – delle scusanti le ha: fin da quando, ragazzo, andava a scuola, gli accadeva di far sentire insicuri i compagni, di suscitare negli altri un sottile malessere, perché “era come se indovinassero che io non sapevo esattamente chi fossi”.
È così che questo Vitangelo Moscarda svedese – privo tuttavia delle complicazioni psicologiche e degli interrogativi esistenziali dell’eroe del pirandelliano Uno, nessuno e centomila – finisce per diventare simpatico a chi ne segue le peripezie, fino a indurlo addirittura a prendere sul serio le sue meditate osservazioni di specialista dei disturbi del sonno quale si spaccia. È in questa veste che ci avverte che l’insonnia potrebbe non esser altro che la conseguenza dell’inevitabile “conflitto tra l’essere umano e la sua socializzazione”, e che del resto quella di un sonno senza interruzioni non è che una delle tante pretese della modernità, sconosciuta a un Cervantes, per fare un esempio. Una vena di saggezza si insinua così nello humour di questo ottantenne, coetaneo dell’autore quindi, che non ha mancato di avvertirci prima di andarsene, giusto un anno fa, che “vivere una vita normale è la forma più triste di suicidio”.
Novita Amadei, Dentro c’è una strada per Parigi, Beat 2016 (pp.175, euro 9 )
Finché notte non sia più, Neri Pozza 2016 (pp. 239, euro 16,50)
I luoghi sono diversi: la città che cambia più rapidamente del cuore degli uomini, e ai negozietti di quartiere subentrano gallerie d’arte, di un’arte astrusa e lontana, nel primo romanzo.
Due paesi, uno in Italia e l’altro in Francia nel secondo, distanti fra loro ma accomunati dalla loro perifericità, dal diradarsi dei loro abitanti, e dal loro inevitabile invecchiamento. E’ dentro questi paesaggi, tenui, a tratti struggenti, che si muovono le protagoniste delle due storie, ed è proprio in persone attempate che trovano interlocutori essenziali, gravati dal peso dell’età ma ricchi di una saggezza del vivere che li ha resi lievi e intuitivi nel rapporto con gli altri. Anche con chi è molto più giovane, persino con quelli che vivono i loro giorni con la spontanea adesione alla vita che l’adulto s’è lasciato alle spalle, come la bambina del primo romanzo, cui si deve l’immagine trasognata e poetica trasposta nel titolo (“dentro c’è una strada per Parigi”, spiega la piccola Eline intenta a disegnare un casa tanto grande da contenere la città, e poter ospitare chi c’è e chi non c’è più).
Ma a dare unità alle due prove narrative è soprattutto la scelta – una scelta vissuta con passione convinta, si avverte – di mettere in scena donne che sanno stare nella loro solitudine, senza compiangersi e senza risentirsi, in questo modo sapendone fare terreno fertile di incontri veri, con persone che, cosa sempre meno scontata, nel corso della loro esistenza hanno saputo accumulare un’esperienza, e con la vita, nonostante l’età, non hanno chiuso, tanto da non rifuggire dal misurarsi con vicende dolorose del proprio passato. Non sono quindi il vicinato, o la parentela (neanche la sororità, che pure rappresenta un motivo che percorre entrambi i romanzi) a far nascere le relazioni che coinvolgono i personaggi, ma il presentimento di una comunanza profonda e la scelta consapevole che ne consegue, e apre alla possibilità del dialogo, dell’amicizia, dell’amore. Possibilità inattese, nuove, perché “gli attaccamenti che ci creiamo, giorno dopo giorno, contano più di appartenenze lontane”. Si tratta di saper prendere sul serio la propria vita, di volerla tenere nelle proprie mani, quietamente, con determinazione: è il modo di stare al mondo che i protagonisti di queste storie, i personaggi femminili in primo luogo, ci propongono. Attenti alla loro esistenza ma al tempo stesso capaci di rimettersi in gioco di fronte a presenze nuove, come quelle degli stranieri – la mendicante bulgara a Parigi, i giovani magrebini nel paese francese – che non potevano mancare nei romanzi di un’autrice per la quale il lavoro nell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni e la narrativa sono le due strade parallele lungo le quali avvicina i volti, le fragilità e la solitudine, l’unicità e l’energia di tante esistenze quotidiane.
Venerdì 6 marzo, ore 17.30. Incontro con Raffaele Masto. Presentazione di Africa, Tam editore 2016 (pp. 152, euro 9,50) Con l’autore dialoga Carlo Simoni
Africa è uno di primi titoli che figurano nel catalogo della neonata casa editrice milanese Tam, nata da un’idea di un giornalista del Corriere della Sera per proporre “piccoli libri eccellenti”, essenziali, sobri sin dalla copertina senza immagini, con l’ambizione di dare l’avvio a un tamtam di informazioni.
E di idee, a giudicare da questo piccolo libro: bastano le prime quaranta pagine a dare al lettore la sensazione di aver messo ordine nella congerie di notizie che quotidianamente i giornali ci danno sull’Africa – se non giriamo velocemente pagina, scoraggiati da una cronaca che raramente sa fare sintesi e dare strumenti per farsi un’idea complessiva. “Negli ultimi secoli l’Africa – questa la constatazione di fondo – pur cambiando volto, non ha mai cambiato ruolo: ha sempre contribuito a finanziare gli equilibri mondiali, e continua a farlo tuttora.” Gli spettacolari aumenti del Pil di alcuni stati non contraddicono purtroppo questo quadro: sono il frutto dei flussi di denaro straniero che si riversano su di essi per dotarli di opere pubbliche – strade, porti, aeroporti – che rappresentano il corrispettivo di concessioni petrolifere e minerarie e sono oltretutto funzionali al trasferimento delle materie prime, anche agricole. Che cosa ne deriva? Che la Nigeria, ad esempio (ma è solo uno dei molti casi presi in esame e spiegati con efficacia), paese leader sul piano economico, è “un non-stato dal punto di vista della sicurezza e della giustizia”: i quasi 190 milioni di nigeriani che si potrebbero credere beneficiari di quel favoloso Pil sono fra gli abitanti più poveri del continente, costretti a vivere sotto il tallone di eserciti privati assoldati dalle compagnie petrolifere e vessati dalle violenze della setta islamista Boko Haram. Ma a confermare l’idea che il colonialismo non sia finito e prosegua con altri mezzi è soprattutto il fenomeno del land grabbing: la Cina, in primo luogo, ma anche gli stati arabi, comprano o affittano per tempi lunghissimi immensi territori, di cui necessitano per ottenere prodotti alimentari e fonti energetiche da paesi che a loro volta lottano per raggiungere l’autosufficienza alimentare. E a permettere che questo avvenga è una classe politica formata in gran parte da dittatori, nuovi ricchi e funzionari che proteggono con l’uso della forza le loro posizioni. Conclusione: l’Africa “ancora una volta tende a svolgere la funzione di serbatoio piuttosto che di mercato”. Serbatoio di materie prime e risorse, ma anche di donne e uomini in carne ed ossa: i migranti di oggi “viaggiano stipati in imbarcazioni come un tempo gli schiavi” (non fosse per una differenza, che Erri De Luca ha spesso sottolineato: i criminali che organizzano la traversata del Mediterraneo riscuotono il loro compenso prima di partire, e non all’arrivo, come accadeva ai negrieri, che dunque avevano maggiore interesse che la merce giungesse integra alla consegna).
Ma occorre soprattutto aver presente che a partire non sono i più poveri, gli affamati: sono essenzialmente i giovani, che fuggono da situazioni di conflitto o economicamente insostenibili. Sono forze vitali di cui l’Africa viene privata, mentre le fasce più povere delle popolazione continuano a pagare il prezzo maggiore delle disuguaglianze crescenti a livello mondiale. Il dramma della migrazione – se ne può dedurre – non è dunque il succedaneo di quello della povertà estrema, non ne costituisce un’evoluzione che avrebbe almeno il merito di dargli attraverso i media una visibilità planetaria: un dramma si somma all’altro, il primo guadagnando la ribalta dell’informazione, almeno per ora, il secondo continuando a perpetuarsi senza far notizia. Come giudicheranno allora, gli storici, la situazione attuale dell’Africa? nel segno della continuità con l’epoca dello schiavismo e del colonialismo o in quello della discontinuità, segnata appunto dalle lotte anticoloniali e dalla conquista dell’indipendenza? L’autore non ha dubbi: “il saccheggio, che ha certamente cambiato modi e formule, continua”. Eppure. Eppure l’autore, che ammette di poter essere ascritto al campo dell'”afropessimismo”, alla fine fa propria la prospettiva di Laurent, un giovane intellettuale ivoriano, rappresentante di quella pur crescente schiera di nuovi cittadini acculturati che nuove borghesie corrotte e despoti al governo umiliano in lavori sottopagati o addirittura non retribuiti quando le finanze statali traballano. L’Africa ha resistito allo sfruttamento secolare dell’Occidente, osserva Laurent: “pensi che adesso, in pochi decenni, qualche cinese, alcuni jihadisti folli e qualche miliardo di dollari delle monarchie del Golfo possano cambiarci? No, l’Africa finirà per dire la sua. Siamo giovani, abbiamo una forza vitale sconosciuta in altri continenti, dal punto di vista demografico cresciamo in modo esponenziale. Il mondo dovrà fare i conti con noi.” Una speranza grande, radicata nella propria storia e nella propria cultura e nello stesso tempo capace di prefigurare con lucido coraggio una situazione radicalmente diversa dall’attuale . Una speranza che ci ricorda il valore etico e il ruolo politico dell’utopia, non sinonimo di sogno irrealizzabile ma componente imprescindibile di ogni orizzonte di cambiamento. Ed è allora un’indicazione che riguarda l’Africa ma non solo, quella che ci viene da queste pagine: il contrario del pessimismo, oggi, forse non è l’ottimismo, ma quel pensiero critico che si chiama(va) utopia. Quello stesso pensiero che permette ancora di scrivere libri come questo.
Georges Simenon, La casa dei Krull, Adelphi 2017 (pp. 210, euro 19)
Non è vero che quando di uno scrittore morto da decenni vien pubblicato un altro, ennesimo romanzo, ti devi aspettare una delusione.
O meglio: è vero in molti casi, ma non quando lo scrittore è Simenon, di cui sembrano essere rimasti, inediti in Italia, non solo romanzi che si leggono d’un fiato come questo, ma che addirittura propongono storie inquietanti perché in qualche modo attuali. Il paesaggio sembra di conoscerlo già: è la periferia squallida e senza speranza, col capolinea del tram e il canale con le chiuse, nella quale si ha l’impressione che da un momento all’altro debba spuntare la pipa di Maigret, e sembra di vederlo entrare, il commissario, nella mescita gestita dai Krull, al piano terreno della loro casa, e ordinare una birra, o un calvados. E invece no. Maigret non c’è. Non ci sono la sua intelligenza e la sua empatia ad arginare la desolazione disperata che abita i luoghi e le anime che popolano questa tragedia annunciata, fin dalle prime pagine. Perché i Krull sono crucchi, sono tedeschi che vivono e lavorano in questa città francese di provincia da anni, ma gli anni sono quelli del nazismo, minacciosamente vicino anche se non ancora in armi. Ma forse, diversi sarebbero in ogni modo sentiti, i Krull, perché un diverso occorre dove la vita è dura, per affibbiargli un qualche responsabilità, non importa se inconsistente, immaginaria. Anzi, meno è definita e meglio farà al caso: “ogni volta che succede qualcosa nel quartiere, la colpa è comunque nostra”, lamenta uno dei Krull, quello che studia per diventare medico. E così accade anche quando si trova il cadavere di una ragazza, assassinata. Dai sospetti si passa in poche ore ai tentativi di linciaggio. Tutto chiaro dunque? Si tratta di “una storia esemplare di odio populista” (come ha scritto pochi giorni fa la Repubblica)? della “deriva ineluttabile che ci attende quando indichiamo nello Straniero il responsabile di ogni male”?
Certamente. Ma Simenon non si accontenta del romanzo a tesi. C’è dell’altro in questa storia, ed è uno dei personaggi a farlo venire a galla, un Krull anche lui, ma appena arrivato dalla Germania e del tutto indifferente, al contrario dei parenti, al giudizio della gente: non è tanto per il fatto di essere stranieri, immigrati, che sulla famiglia si riversano diffidenza, sospetti e infine odio distruttivo. Il peccato dei Krull è non esserlo abbastanza, stranieri. Non esserlo fino in fondo, vergognarsi di esserlo, e dunque “fare come la gente del posto, scimmiottando le usanze locali”. E in questo modo diventando involontariamente – questo è il punto – specchio della miseria degli altri, e delle loro miserie. Uno specchio da spezzare, per non vedercisi, miseri quali si è.
Kent Haruf, Le nostre anime di notte, NNE 2017 (pp. 175, euro 17)
“Voglio sapere cosa pensi. Di cosa? Del fatto di stare qui. Ormai riesco ad accettarlo. Mi sembra una cosa normale.
Normale e basta? (…) La verità è che mi piace. Mi piace molto. Se non lo facessimo mi mancherebbe. Tu che ne pensi? Adoro questa cosa. E’ meglio di quel che speravo. E’ una specie di mistero. Mi piace per il senso di amicizia. Mi piace il tempo che passiamo insieme. Starcene qui al buio di notte. Parlare. Sentirti respirare accanto a me se mi sveglio.” Tutto qui. Passano la notte nello stesso letto, e parlano. Due vedovi attempati, vicini di casa. È stata lei a prendere l’iniziativa: “mi chiedevo se ti andrebbe qualche volta di venire a dormire da me”. E lui, dapprima imbarazzato come un ragazzo – ma capace di vedere dentro di sé come solo chi non è più un ragazzo talvolta sa fare – ci sta. Perché lo capisce, anche lui, che non stanno unendo due solitudini, ma il loro desiderio, ancora vivo: il desiderio di raccontarsi, di raccontare la propria vita e insieme le vite cui si è rinunciato, o che non ci è accorti di volere davvero, quand’era il momento (lui da giovane scriveva poesie, nei ritagli di tempo, come il protagonista di Paterson, il bel film di Jarmusch).
Il loro desiderio, perciò, è quello fondamentale, o che tale dovrebbe mantenersi nella vita: il desiderio di capire chi si è, senza rimpianti per il chi si è stati o non si è riusciti a essere, e senza timori per quel che potrà accadere, né per la propria reputazione. Siamo sempre nella piccola immaginaria Holt della fortunata trilogia che ha fatto conoscere Haruf in Italia, e a nessuno sfuggirà quella loro strana indefinibile frequentazione. Tantomeno al figlio, il padre del bambino che subito si è inserito nella vita della coppia e vi ha trovato il calore e la serenità che la sua famiglia non gli sa offrire. Ma il fatto che la storia non abbia un lieto fine – a meno che come tale si voglia interpretare la rinuncia che i due finiranno con l’accettare – non compromette la scoperta che, l’uno grazie all’altra, hanno fatto: la scoperta che si può, che si ha diritto a essere felici, anche se non ad ogni costo. È questa guadagnata consapevolezza, che sommessamente attraversa, e riscalda, la narrazione, a comunicare al lettore un senso di quiete che nella scrittura piana ma sempre attenta, premurosa, di Haruf, si fa via via riconoscenza per lo scrittore, che con questo ultimo romanzo ha concluso la sua opera.
Giovedì 16 marzo ore 17.30 Incontro con Paolo Cognetti Presentazione di Le otto montagne (Einaudi 2016) Con l’autore dialoga Carlo Simoni
La montagna, il mai concluso misurarsi con chi ci ha messo al mondo, l’amicizia.
E la vita che passa, e dà e toglie. Anche cose simili si possono raccontare con il ritmo del passo. Un ritmo semplice, lento, concentrato. I temi e la voce, la scrittura di Cognetti si possono sintetizzare in questo modo, se parliamo del suo romanzo, Le otto montagne (di cui i nostri “Appunti per i lettori” si sono occupati lo scorso 2 dicembre). E’ in quelle pagine che i più hanno scoperto questo giovane scrittore, ma la vetta raggiunta con questo libro, accolto come un capolavoro da migliaia di lettori, ha richiesto, come la conquista di ogni cima richiede, un lungo percorso di avvicinamento. Fatto di racconti, innanzitutto. Pubblicati fra il 2004 e il 2012: dal Manuale per ragazze di successo a Una cosa piccola che sta per esplodere a Sofia si veste sempre di nero. Si potrebbe disegnare una mappa dei temi e dei motivi che attraversano questi racconti e ritroveremo nel romanzo: famiglie “disastrose” e percorsi di formazione a dir poco accidentati, la cesura profonda fra le aspettative e gli orizzonti della generazione degli anni ’70 e quella degli anni ’90 (i comunisti sono come i cattolici: “vi fate un culo così perché credete nel futuro. Io voglio essere felice adesso”). Il tutto vissuto da personaggi – bambine e ragazze soprattutto: la prevalenza di voci e punti di vista femminili è un dato di fondo – da cui lo scrittore si lascia sorprendere, seguendoli con il rispetto che contrassegna l’amore. Ma sarebbe fuorviante, e riduttivo, leggere i racconti di Cognetti come una palestra in cui s’è allenato in vista della scalata al romanzo. I racconti ci propongono una poetica che è tutt’uno con la comprensione di un dato esistenziale: la nostra identità, il chi siamo davvero, non corrisponde alla somma di quello che ci è capitato di vivere né con la cronologia della nostra vita. Siamo piuttosto la risultante, sempre provvisoria e in via di ridefinizione, dei nostri ricordi, delle relazioni e delle esperienze che ci hanno segnato, delle speranze e delle paure che ci hanno seguito. “Siamo il nostro repertorio di storie, non importa se vere o inventate”: è uno dei non pochi passaggi illuminanti che costellano le pagine di A pesca nelle pozze più profonde. Meditazioni sull’arte di scrivere racconti che han l’aria di aver sempre accompagnato Cognetti nella sua esperienza della scrittura (a volte rapprendendosi nel “sogno di un racconto”, qual è Il nuotatore). Niente di più distante da un vademecum per aspiranti scrittori, comunque: se mai sono un esempio di buona scrittura, queste meditazioni, e soprattutto un racconto di racconti, a partire dagli amati americani (Hemingway e il suo Nick Adams in primo luogo), perché è leggendo – sembra sostenere implicitamente l’autore – che, sempre che sia possibile, si impara a scrivere. Leggendo e cercando nelle pagine degli scrittori le loro motivazioni a scrivere, e le vie lungo le quali hanno imparato il loro mestiere. Ed è sulla scia dei grandi autori d’oltreoceano che Cognetti diventa cittadino di New York, e ne scrive guide sui generis (New York è una finestra senza tende e più recentemente Tutte le mie preghiere guardano verso ovest) che sono a loro volta narrazioni, dense di rimandi ai grandi della letteratura americana ma anche delle storie d’ogni giorno che si possono ascoltare traversando quartieri connotati da lingue, sapori, mentalità fra loro diverse.
E la montagna? Che cosa ne è rimasto tra la folla e le luci della metropoli, che sia New York, la città d’elezione, o Milano, quella in cui si vive? “Non è mica quel gran salto che tutti pensano”, gli spiega un amico, anche lui uomo di montagna trapiantato nella Grande Mela: “è solo un altro tipo di solitudine”. E infatti alla montagna torna, lo scrittore, perché è il luogo della vita lenta, vera, giusta. Il luogo che “custodisce la tua storia”. I passaggi d’età, le vicende della vita, le speranze e gli affetti è nella montagna che trovano la loro verità, ed è là si lascia affiorare allora Il ragazzo selvatico che la città non ha soffocato. Così come le short stories di Carver e compagnia non hanno zittito voci diverse, come quella di Rigoni Stern, la cui eredità – diceva Cognetti su Repubblica pochi giorni fa – “sento il bisogno e il dovere di mantenere viva”: anche a questo bisogno, forse, ha risposto Le otto montagne. A questo, e al desiderio di dare una casa ai volti, alle voci, agli scenari che avevano finora alimentato la scrittura: “Da tempo volevo scrivere una storia di montagna, di padri e figli e di amicizia maschile”, racconta Paolo Cognetti nel suo blog: “quel giorno, andando dietro al mio amico fuori dal sentiero, mi ricordo di aver pensato: ma ce l’hai già, questa storia, è tutta qui, non la vedi? La devi solo raccontare. Hai i personaggi, i ricordi, i luoghi, non ti resta che mettere insieme i pezzi e trovare le parole. Soprattutto hai la cosa più importante, e cioè il sentire che questa storia è viva dentro di te, è vera, ti accompagna da sempre, e adesso che l’hai vista non puoi più pensare ad altro che a scriverla. Vai a casa e comincia. Di colpo c’ero già dentro fino al collo.”
Bibliografia Manuale per ragazze di successo, minimum fax 2004 (pp. 118, euro 9) Una cosa piccola che sta per esplodere, minimum fax 2007 (pp. 163, euro 10) New York è una finestra senza tende, Laterza 2010 (pp. 160, euro 14) Sofia si veste sempre di nero, minimum fax 2012 (pp. 207, euro 14) Il ragazzo selvatico. Quaderno di montagna, Terre di mezzo 2013 (pp. 101, euro 12) Il nuotatore, Orecchio acerbo editore 2013, (pp. 60, euro 13,50) A pesca nelle pozze più profonde. Meditazione sull’arte di scrivere racconti, minimum fax 2014 (pp. 133, euro 13) Tutte le mie preghiere guardano verso ovest, EDT 2014 (pp. 107, euro 7,90) Le otto montagne, Einaudi 2016 (pp. 204, euro 18,50)
Han Kang, La vegetariana, Adelphi 2016 (pp. 177, euro 18)
Alberto Capatti, Vegetit. Le avanguardie vegetariane in Italia, Cinquesensi 2016 (pp. 191, euro 18)
Ana Paula Maia, Di uomini e bestie, La Nuova Frontiera 2016 (pp. 121, euro 14,50)
Giulia Innocenzi, Tritacarne. Perché ciò che mangiamo può salvare la nostra vita. E il resto del mondo, Rizzoli 2016 (pp.263, euro 18)
Tutti noi abbiamo ascoltato o partecipato ai discorsi che il vegetarianismo suscita: “Mangiare carne è un istinto basilare dell’uomo, il che vuol dire che essere vegetariani è contrario alla natura umana, no?
È semplicemente innaturale.” E le considerazioni antropologiche lasciano presto trasparire prese di distanza recise: “Una dieta equilibrata va a braccetto con una mente equilibrata, non pensate?” Sono queste le parole che, nel corso di una cena, accompagnano il rifiuto della carne da parte la protagonista del fortunato romanzo di Han Kang, la storia di un lacerante percorso di sofferenza di cui la scelta alimentare è solo l’avvio manifesto. È comunque significativo che il dolore che abita la protagonista si addensi attorno a una sensazione d’orrore che nella carne trova il suo fulcro: “Ho mangiato troppa cane, le vite degli animali che ho divorato si sono tutte piantate lì. Il sangue e la carne, tutti quei corpi macellati sono sparpagliati in ogni angolo del mio organismo, e anche se i resti fisici sono stati espulsi, quelle vite sono ancora cocciutamente abbarbicate alle mie viscere.”
Complesse e tortuose, in questo caso, le ragioni del vegetarianismo sono invece limpide nelle dichiarazioni di molti dei suoi praticanti: se ne trova ampia esemplificazione, ma soprattutto un’analisi che risale alle origini di questa scelta nella nostra cultura, scorrendo il libro di Alberto Capatti, autore di storie della cucina italiana e di saggi di storia e letteratura gastronomica: “Ieri e oggi – sostiene – i vegetariani sono coloro che, indifferenti all’opinione, hanno scelto. Il gastronomo esita e si interroga continuamente, e il mito dell’onnivoro guadagna proseliti, mentre attratti da prodotti tipici tradizionali, da astrattismi d’alta cucina andiamo alla ricerca di nuovi valori, alla ricerca di un equilibrio che la globalizzazione compromette.” “Era così, negli anni 1905-1945 da noi presi in esame?” si chiede l’autore: “Vedrete ogni sorta di gioco, ogni sorta di compromesso, dalla frutta alle uova e al pesce per ritornare ad una dieta di soli frutti, ma nulla inficia la ragion prima di ogni scelta che è a monte, anzi in una concezione della vita.” Nella quale non sembra aver giocato un ruolo decisivo lo “scandalo denunciato dagli animalisti, la macellazione”. Eppure già Tolstoj invitava a fare il “primo passo”: la visita a un macello.
Ed è qui che ci portano altri due libri, un romanzo e un reportage.
“La fila di buoi e di vacche è sempre lunga. Un dipendente apre la porticina e il bue che è già passato per la visita d’ispezione e il lavaggio entra piano, diffidente, guardandosi intorno. Edgar prende la mazzetta. Il bue si avvicina. Edgar guarda l’animale negli occhi e gli accarezza la fronte. (…) Con il pollice sporco di calce, disegna una croce in mezzo agli occhi del ruminante e indietreggia di due passi. E’ il suo rituale di storditore. Alza la mazzetta e colpisce la fronte con precisione, causandogli un’emorragia cerebrale che lo fa collassare. Il bue cade a terra e dopo brevi spasmi si placa. Non soffrirà, pensa. Adesso l’animale riposa, sereno, incosciente, mentre viene portato verso la tappa successiva da un altro dipendente, che lo appenderà a testa in giù e lo scannerà”. È questo che avviene in un macello. Ogni giorno, ci avverte Ana Paula Maia. E Edgar è uno dei tanti che fanno questo mestiere. Necessario… (?). Invisibile. Ma lui li guarda negli occhi, gli animali che si trova davanti . Non sa non farlo: “la cosa peggiore quando abbatti un bovino è guardarlo negli occhi”, anche se “non si riesce a vedere nulla.” Una constatazione vicina a quella che si ritrova in Perché guardiamo gli animali? di John Berger, il primo dei libri di cui si sono occupati i nostri “appunti per i lettori”. Anche là lo sguardo dell’animale: “Quando sono intenti a esaminare un uomo, gli occhi di un animale sono vigili e diffidenti” – notava Berger – e al tempo stesso indifferenti, perché l’animale “non riserva uno sguardo speciale all’uomo. Ma nessun’altra specie, a eccezione dell’uomo, riconoscerà come familiare lo sguardo dell’animale.” Perché? Perché “l’uomo diventa consapevole di se stesso nel ricambiarlo”, quello sguardo. Deve saperlo, pur non essendone consapevole, Edgar Wilson: tutta la sua vicenda ruota attorno a quegli occhi, che “assomigliano alla notte” perché dentro c’è un buio insondabile, un buio che tuttavia si è dissipato per un attimo quando ha abbattuto la sua prima vacca: “era la sua stessa immagine che aveva davanti a sé, riflessa negli occhi della vacca, poco prima di morire.” Storia di un macellatore pentito? Niente affatto. Edgar lo sa: “finché ci sarà una vacca in questo mondo, ci sarà sempre qualcuno disposto ad ammazzarla. E qualcun altro disposto a mangiarsela.” Qualcun altro, però, “disposto a mangiarsela, ma ad ammazzarla no”… Lo sa Edgar e lo sapeva Dostoevskij, citato in conclusione: “adesso noi forse consideriamo l’essere sanguinari una porcheria, ma facciamo lo stesso questa porcheria, anche più di prima”. “In modo più disgustoso di prima”.
È proprio quel che avviene nei macelli, lontano dai nostri occhi, e dalla nostra volontà di sapere, che occupa le pagine più contundenti del reportage di Giulia Innocenti, che non a caso ha preso le mosse in questa sua ricerca da un libro che, una volta letto, non si riesce a dimenticare: Se niente importa. Perché mangiamo gli animali? di Safran Foer (Guanda 2010). I macelli, ma ancor prima gli allevamenti industriali, altro luogo che la nostra coscienza cerca di negare, ma che – proprio perché rimosso – ritorna, emergendo nelle pagine di una schiera di scrittori, da Upton Sinclair (La giungla, ristampato da Gingko edizioni nel 2011) a Coe (La famiglia Winshaw, Feltrinelli 1997), da Coetzee (La vita degli animali, Adelphi 2003) a Sorman (Come una bestia, Nottetempo 2014); dal Gadda di Una mattinata ai macelli (in Verso la certosa, Adelphi 2013) al poeta Ivano Ferrari (Macello, Einaudi 2004). Il fatto è che “per sapere devi voler sapere”, insiste Innocenti. E devi continuare a leggere, potremmo aggiungere noi: anche quando ti si racconta dell’allevamento avicolo di Monticelli Brusati o dell’Italcarni, il macello degli orrori di Ghedi. Non occorre andar lontano… I nomi dei responsabili, imprenditori alimentari, amministratori pubblici o funzionari Asl che siano, non ci suonano sconosciuti: li abbiamo trovati sui giornali bresciani in tempi recenti. E così scopriamo che un concetto apparentemente distante ed elitario come quello di “benessere animale” è legato a filo doppio con la realtà concreta, quotidiana, vicina della corruzione.
Amalia Signorelli, La vita al tempo della crisi, Einaudi 2016 (pp. 111, euro 12)
Stefano Massini, Lavoro, Il Mulino 2016 (pp. 131, euro 12)
“Capire qualcosa di ciò che è stata la crisi per chi l’ha vissuta dal basso, nelle costanti modifiche (quasi sempre peggiorative) della propria quotidianità e, per giunta, spesso senza padroneggiare gli strumenti necessari per averne una comprensione piena”.
Non è un economista a porsi questo obiettivo, ma un’antropologa culturale quale è Amalia Signorelli, capace sì di cogliere la differenza di questa crisi rispetto alle precedenti – essendo, quella che ancora viviamo, frutto di “precise scelte di politica finanziaria” – ma interessata soprattutto a mettere in luce un dato, esistenziale e culturale insieme, che accomuna l’uomo della strada, i politici, la maggior parte degli stessi economisti che dovrebbero darceli quegli strumenti per capire. E invece no: la crisi è, da un lato, vissuta come una catastrofe naturale impossibile da prevedere e, dall’altro, descritta in termini esclusivamente economici ma, si badi, ispirati dalla propaganda neoliberista che presenta l’economia come una realtà oggettiva. Naturale, appunto. E imperscrutabile la sua parte, la crisi ma anche l’uscita dalla crisi che si pretende si stia profilando. Senonché, “se ci si colloca dal punto di vista delle esperienze della vita quotidiana dei cittadini comuni, non si direbbe che la crisi sia finita. Ma non importa: “come la fase minacciosa del default incombente e imminente, così anche questa ripresa viene narrata come una sorta di misterioso effetto di forze, di agenti che restano poco analizzati, salvo attribuire la ripresa ad alcuni provvedimenti governativi, ai quali però molti critici attribuiscono un’efficacia più elettorale che economica.” Di fatto, all’ottimismo della classe politica corrisponde un sentimento opposto fra i cittadini che si possono incontrare nei supermercati, nelle sale d’aspetto dei medici, sui mezzi di trasporto pubblici: “ingrigiti e intristiti, scettici e pessimisti”. Al punto da giustificare la definizione della crisi attuale come un’“apocalissi culturale”, per usare le parole del maestro degli antropologi culturali italiani, Ernesto De Martino. Vale a dire, non un momentaneo disorientamento, ma una situazione in cui “non si sa più dare un significato e un valore ai propri accadimenti”, uno stare nella storia – tanto collettiva quanto personale – come se non ci si stesse. E in ciò, la mancanza di lavoro svolge un ruolo determinante, perché nella nostra tradizione culturale “il lavoro non è solo uno strumento di sussistenza; è anche un elemento costitutivo delle identità individuali e collettive e matrice di valori.”
Ci si spiega allora perché la parola lavoro si sia negli utlimi anni “colorata suo malgrado di una patina opaca”, come la parola futuro, non a caso. Le ragioni ce le spiega Stefano Massini – sì, ancora lui: l’autore della saga dei Lehman Brothers di cui ci siamo occupati la scorsa settimana: fra la società e l’immagine del lavoro si è celebrato un vero e proprio un divorzio. E’ un’aperta contrapposizione quella che si è instaurata fra lavoro e diritti dei lavoratori, e dunque non ci si sorprenda se i sogni che un’ipotetica vincita al Totocalcio (o al suo succedaneo attuale, il Gratta e vinci) sono radicalmente cambiati nel giro di pochi decenni. Se nel primo dopoguerra il desiderio era quello di aprire un’attività, mettersi in proprio, cambiar lavoro, oggi si è spostato sul licenziarsi, vivere di rendita, comprare immobili, diventare turisti a tempo pieno. Perché – la conclusione di Massini è molto vicina a quella di Signorelli – sentiamo che la parola lavoro “aveva un senso che rappresentava molto di più di ciò che noi oggi le attribuiamo. Forse percepiamo un vago sentore di origini preziose, e intuiamo un brillare lontano. Ma è solo l’eco di un discorso andato.”
Tre romanzi per raccontare le storie degli invisibili. È un mondo sconosciuto che ti cade addosso quando ascolti le loro storie; le loro vite ti si rovesciano addosso.
Due scrittrici, una tedesca, l’altra italiana, si trovano a usare le stesse parole per dire ciò che accade quando l’incontro con l’altro – i “profughi”, i “rifugiati”, i “richiedenti asilo” – avviene davvero, quando lo sguardo di ciascuno di loro ci raggiunge e restituisce a noi stessi la capacità di vedere, uno sguardo libero dallo stereotipo che ce li fa sembrare tutti uguali e ci impedisce di andare oltre la compassione rassegnata che possono ispirarci. Ma l’identità insopprimibilmente singolare di ognuno sta nella sua storia, e dunque è il farsela raccontare, e il raccontarla a nostra volta, che realizza davvero l’incontro. È in questo modo che nascono i due romanzi di Jenny Erpenbeck e di Melania Mazzucco, dimostrazione viva – al di là di ogni dissertazione su fiction e non-fiction, sulla buona o la cattiva salute del romanzo – del ruolo essenziale che la narrazione può assumere perché il confronto con l’altro si faccia relazione. Perché diventi possibile uscire dallo stato di negazione che ostacola la nostra consapevolezza della portata storica di un cambiamento che ci riguarda tutti. Uno stato di negazione che non risparmia neanche le donne dell’Est che vivono fra noi e assistono i nostri vecchi: sappiamo molte cose di loro, eppure occorrono libri come quello di Antonio Manzini per colmare la distanza che ci separa.
Jenny Erpenbeck, Voci del verbo andare, Sellerio 2016 (pp. 350, euro 16)
Diventiamo visibili, hanno scritto su un cartello i rifugiati che da mesi sono accampati in Oranienplatz, a Berlino. Africani, fuggiti dalla Libia. Approdati, quelli che non sono annegati, a Lampedusa, e ora qui, a cercare un lavoro, e un posto dove passare l’inverno ormai alle porte. Lui, Richard, professore di filologia classica da poco in pensione, passa di lì ma non ci bada, non lo vede il cartello. Solo guardando il telegiornale della sera si rende conto della loro esistenza. E senza dirselo, senza cercare argomenti, senza chiedersi a quale comitato di aiuto ai migranti partecipare, comprende che è questo a fare davvero la differenza: vederli. Riuscire a vederli, a capire che ognuno di loro ha una storia, è il prodotto della storia che si porta dietro e da cui vengono i suoi bisogni e le sue aspettative. Né più né meno come accade a ciascuno di noi. Richard ha i suoi problemi, ovviamente. Come tutti. Deve fare i conti con quel che comporta uscire di scena, pensare che nel suo ufficio in università, al tavolo dove ha lavorato decenni, adesso siede un altro. Vedovo da cinque anni, regola le sue giornate attorno a gesti precisi, sensati. Ha molto tempo, adesso che non lavora, ma “il tempo ora è tutto un altro genere di tempo”, ed è proprio a partire dalla sua condizione che fa una scoperta: “parlare di ciò che il tempo è veramente, lui riuscirebbe farlo, forse meglio che con chiunque altro, con coloro che sono caduti fuori dal tempo”. E allora si prepara, studia la geografia e la storia dell’Africa: vuol sapere qual era la vita di Awad, di Rufu, di Osarobo, di Khalil e di tanti altri prima che fossero costretti a lasciare i luoghi dov’erano nati, prima che le loro storie diventassero l’elemento su cui le autorità operano la selezione fra chi può restare e chi – in base agli accordi di Dublino – deve essere rimandato in Italia, perché lì è sbarcato. Va da loro, nella scuola dove sono stati spostati dopo lo sgombero di Oranienplatz, ne ospita qualcuno nella propria casa, collabora ai corsi nei quali gli si insegna il tedesco (andare, andai, andato: è quello il verbo che imparano per primo a coniugare). E li ascolta, soprattutto, non arretrando davanti allo sconcerto in cui sprofondi “quando ti cade addosso un intero mondo che non conosci”. Ma “quando – non esita a chiedersi, lucidamente – uno come lui, che nutriva grandi speranze per l’umanità, è diventato quello che fa l’elemosina? (…) Ha perduto così radicalmente la speranza?” Eppure non si ferma, Richard, non sta a rimuginare su quel che è accaduto dopo la caduta del Muro che divideva la sua città, non elabora teorie: si lascia semplicemente attraversare dalle singole vicende di cui non s’era accorto, che aveva pensato di poter ignorare. Che ora ha imparato a conoscere e dalle quali impara: che è “un equivoco assurdo (quello) che spacca in due l’umanità”, “un fronte finto, che ne nasconde un altro, quello che esiste nella realtà”, e porta la polizia a sorvegliare minacciosamente la protesta dei rifugiati che non vogliono essere dispersi in centri d’accoglienza lontani anziché a schierarsi davanti a una banca per portarne fuori “i manager colpevoli di malversazione per somme miliardarie”. E’ la festa di compleanno di Richard a occupare le ultime pagine: non l’aveva più festeggiato da quando era morta sua moglie e ora ci sono loro, i rifugiati che ha conosciuto. Ma non è un lieto fine: Richard non ha trovato il modo di superare l’incertezza che lo pervade, di colmare le domande che il suo passato gli pone, il timore che il futuro gli ispira. Non ha trovato rimedio alla propria fragilità, a una precarietà che scopre ineliminabile. La sa riconoscere però, e in quella individuare il tratto che lo accomuna agli altri, anche a quelli che hanno perso tutto: “credo di aver compreso che quanto riesco a sostenere è solo la superficie di tutto quanto non riesco a sostenere”. “Come in mare? domanda Khalil.” “Sì, in linea di principio, proprio come in mare.”
Melania Mazzucco, Io sono con te. Storia di Brigitte, Einaudi 2016 (pp. 259, euro 17,50)
“Siete come la sabbia del mare. Non finite più”, dice sconsolato il poliziotto che deve identificarli. E si vergogna, il volontario incaricato del primo colloquio con loro, di dover ammettere che nei primi tempi non riusciva a “memorizzare un solo viso. Gli africani gli sembravano tutti uguali”. Gli ci è voluto del tempo per rendersi conto che “sono diversi fra loro quanto uno scandinavo da un greco, un irlandese da uno slavo”. Lei stessa, Melania, ha certamente incrociato l’esule dal Congo che si trascina spaesata, affamata, nel caos della stazione Termini, ma non l’ha vista, “non (ha fatto) caso a lei”. Eppure sarà proprio questa donna, Brigitte, la protagonista della sua storia, di una storia che alla fine apparterrà ad entrambe. Perché lei, la scrittrice, sa fin dall’inizio che non sta semplicemente raccogliendo un resoconto cui dovrà dar forma, ma sta facendo altro, e di più: “Non ho registratore, né videocamera. Del resto non sto facendo un’intervista. Ci conosciamo solo da pochi mesi. Non voglio intimidirla o indurla ad assumere una parte. E’ ciò che ha fatto, istintivamente, la prima volta che l’ho incontrata. Ancora non so se riuscirò mai a scrivere la sua storia. Ma sono sicura che, se potrò farlo, sarà solo perché lei sarà stata se stessa con me, e anch’io con lei. Allora io potrò essere anche lei e riuscirò a trovare le parole.” Solo nelle ultime pagine veniamo a sapere delle circostanze che hanno portato le due donne a parlare fra loro per ore, la prima a raccontare alla seconda le atrocità che l’hanno portata, dalla clinica che aveva messo in piedi e dirigeva nel suo paese, al degrado e alle insidie dei marciapiedi di Roma. E la reciprocità della relazione traspare nella struttura narrativa, nello scambio della voce narrante, nell’alternarsi del punto di vista, nell’intreccio di racconto in presa diretta e di flash back che portano sulla pagina episodi allucinanti. Del resto, ancora mentre è alle prese con la scrittura, è ben chiaro il proposito dell’autrice: il suo libro “non sarà una raccolta di storie. Sarà la storia di un rifugiato solo, perché nessuno è un numero, ma una persona, unica, irripetibile.” Un modo diverso, rispetto alla Erpenbeck, di declinare una convinzione comune: “Conoscerli – e fare in modo che loro conoscano noi – è necessario. Il futuro si costruisce adesso. (…) La dobbiamo scrivere la loro storia, che ormai è anche la nostra. Non soltanto per loro, ma per noi. Mi pare diventato necessario.”
Antonio Manzini, Orfani bianchi, Chiarelettere (pp. 243, euro 16)
Non sono arrivate di notte, su un barcone attraverso il Mediterraneo, o nascoste fra il carico di un camion. Non hanno alle spalle storie inimmaginabili, tanto da non poterle raccontare. Non appartengono alla folla di migranti che troviamo nelle pagine di altri libri, come quelli di Erpenbeck e di Mazzucco. Vivono nelle nostre case, ne conosciamo il nome e non ne confondiamo la fisionomia. Di loro sappiamo molto. Perché raccontano di sé, molto spesso: della casa che là possiedono ancora, del lavoro che là facevano, dei vecchi genitori e del resto della famiglia, del marito (se c’è), ma soprattutto di figli che hanno dovuto lasciare. Là: in Ucraina, in Bielorussia, in Moldavia… Le loro non sono storie di invisibili. Eppure. Eppure occorrono libri come questo per vederle davvero, per accostarsi alla storia di una di loro nella sua umana concretezza. Perché “qui in Italia ognuno vive per i fatti suoi”, deve constatare Mirta, badante moldava assunta in una casa di ricchi, a servire Olivia, una vecchia signora che la paralisi ha reso sprezzante, cattiva. “Hanno tutto – qui in Italia – ma sorridono poco e non gli viene da essere felici. Per questo la signora Olivia mi fa una tenerezza enorme. La lasciano qui, con me, un’estranea che viene da lontano. E quando se ne andrà, forse avrà solo i miei occhi accanto. Quelli di una sconosciuta che le sta vicino solo per il mensile.” Ma questa vicinanza si rivela un corpo a corpo crudele, quella tenerezza è annientata dall’arroganza sadica dell’assistita. Eppure un filo di comprensione prende a scorrere fra le due donne. E’ la signora a dirlo: “io e te siamo uguali, Mirta”. Nella disperazione. Anche se una ha fatto una bella vita e l’altra la stringe coi denti: “nella disperazione non c’è una scala di valori”. La ricca signora vuole morire, la badante vive solo per Ilie, il figlio che ha dovuto lasciare in un “internat”, insieme a tanti altri orfani bianchi, come li chiamano là. Ma la speranza di farlo venire in Italia, quel ragazzo, è più forte delle umiliazioni e delle offese che ogni giorno, in quella casa, negli uffici, per la strada, è costretta a subire. Ce la farà, glielo assicura anche un connazionale che la vuole sposare, e far da padre a Ilie. Il lieto fine si profila. Ma ancor prima di essere giunti alle ultime pagine, non sappiamo crederci, sentiamo che non potrà finire bene, questa storia…
Stefano Massini, Qualcosa sui Lehman, Mondadori 2016 (pp. 773, euro 24)
La narrazione, fatta di scene e dialoghi ripresi sempre al presente, prende il lettore: gli comunica l’incalzare delle occasioni che non ci si può lasciar sfuggire, degli affari che se non li fai tu li fa un altro, della competizione che non conosce tregua né confini. I personaggi si muovono per lo più in interni – uffici dirigenziali, residenze sontuose: le strade e i grattacieli della metropoli restano sullo sfondo – nei quali si giocano le sorti dell’impresa e della famiglia, in un confronto senza esclusione di colpi: tra fratelli prima, i tre fratelli Lehman, trasferitisi dalla Baviera, dove erano allevatori, per andare a commerciare cotone in Alabama e poi altro (caffè, carbone, petrolio) a New York. E dopo i fratelli la seconda generazione – i cugini Lehman, anche loro uniti nell’intento capitale di far soldi, ma divisi da differenze di carattere, di modi di stare al mondo – e di seguito la terza, che dovrà dividere il potere con dei partner potenti e famelici, in un progressivo allargamento della sfera d’azione che dall’economia reale – l’industria, le ferrovie, le compagnie aeree – sempre più decisamente trasmigra a quella virtuale, in cui ciò che si commercia non è altro che il denaro, senza mediazione, né di merci né di servizi.
E’ una narrazione che mescola i generi – narrativa, poesia, saggistica, fumetto persino – quella che Massini sa mettere in scena: sì, perché è a certi filmoni – tipo C’era una volta in America – che si pensa dopo qualche decina di pagine (e del resto sono loro, i Lehman a finanziare, fra tante imprese, anche quella del cinema: Via col vento è una loro creatura). Ma non si tratta di un film: è un romanzo questo, ed è inevitabile, come sempre quando ci si immerge in una di queste saghe imprenditorial-familiari, che tornino alla mente i Buddenbrook, ma soprattutto – complice la fede ebraica, di cui i Lehman sono seguaci e praticanti – è a Singer (Israel J.) che questi fratelli Ashkenazi d’America fanno pensare, almeno fin quando trafficano in cose e non in titoli finanziari. Senonché, l’autore stesso precisa nel sottotitolo, più che un romanzo, è un “romanzo/ballata” quello che ha scritto. E allora ci si spiega perché dopo qualche centinaio di pagine si è cominciata a sentire una voce, che dipana il racconto e lo colorisce, e la si riconosce: è quella di Paolini. Impossibile: la storia dei Lehman Brothers è già arrivata al palcoscenico. Lehman trilogy: l’ultima regia di Ronconi. Eppure, vorremmo sentire lui, Paolini, a leggerla, recitarla, cavandone i risvolti drammatici, ma anche umoristici a volte, che vi si intrecciano. Decine, centinaia di pagine: un librone, Ma non ti devi spaventare, mi ha detto un amico: va a capo continuamente… Già: vuole essere anche un poema questo romanzo/ballata. E’ all’epica che aspira, un’epica fuori tempo, che suona inevitabilmente – e consapevolmente – grottesca nell’età della “ragion cinica”, in cui sono ammessi “tracolli” ma non tragedie. Non è un caso, probabilmente, che il racconto non giunga al crack della Lehman Brothers nel 2008, la più rovinosa bancarotta che l’Occidente ricordi, all’origine della crisi da cui non siamo ancora usciti. Ma questa è un’altra storia, si usa dire. Un’altra storia: la nostra.
Henning Mankell, Stivali di gomma svedesi, Marsilio (pp. 425, euro 19,50)
La paura della morte, la sensazione di essere superato dai fatti in un mondo divenuto incomprensibile, faccia a faccia con un mare sempre più spopolato, di persone come di pesci: un uomo lucidamente consapevole, tanto più ora che invecchia, dell’assenza di significato della sua esistenza.
Il misterioso incendio che una notte gli distrugge la casa segna una svolta nella sua vita. In attesa che l’assicurazione lo rimborsi e possa così ricostruire un luogo in cui vivere è costretto a provvedersi del necessario per vivere, abitando in una roulotte. Come un Robinson Crusoe che non ha però perduto solo le sue cose – e deve procurarsene di nuove, a partire da un paio di stivali di gomma – ma anche ogni motivazione a continuare. Eppure la vita non l’ha ancora abbandonato: sogna un amore con la giornalista che va da lui per scrivere un servizio sull’incendio, e in lei scoprirà un altro essere in cerca di senso, con cui realizzare non un rapporto erotico ma un’amicizia. Anche la figlia quarantenne, vagabonda, sconosciuta, finirà con il riavvicinarsi al padre, costringendolo a misurarsi di nuovo con gli altri. Sospettato di esser lui stesso l’incendiario, sarà invece proprio lui a scoprire il vero colpevole, un mite abitante dell’isola, malato di solitudine. E la casa si ricostruirà. Con lui ci abiteranno la figlia col suo compagno e la bambina che hanno messo al mondo: “Era già la fine di agosto. Presto sarebbe arrivato l’autunno. Ma il buio non mi faceva più paura”: sono le parole che chiudono la narrazione. Ma non si ha l’impressione del lieto fine, nel ritrovamento di un significato della vita. È piuttosto la percezione della distanza esigua che, nel fluire implacabile dei giorni, separa il trovarlo dallo smarrirlo ad attraversare tutto il romanzo. L’ultimo di Henning Mankell.
Robert Pague Harrison, L’era della giovinezza. Una storia culturale del nostro tempo, Donzelli 2016 (pp. 211, euro 25)
Esser giovani e poi diventare vecchi: le età della vita non sono solo un fatto naturale, che si riproduce identico a se stesso nel corso del tempo. Oltre a quella biologica, gli esseri umani hanno anche un’età culturale – diversa a secondo della parte del mondo in cui sono nati – e quella che contraddistingue la nostra epoca è la giovinezza: “il tipico volto del primo mondo rimane quello di un imberbe, anche se colo passare dell’età avvizzisce, senza assumere mai quei tratti senili dei vecchi di altre culture o di altre epoche storiche”. Si tratta di un “generale cambiamento biculturale che sta trasformando ampi settori della popolazione umana in una specie «più giovane» – nell’aspetto, nella mentalità, nel modo di vita e, soprattutto, nei desideri”. Diventiamo più giovani pur continuando a invecchiare, come tanti Dorian Gray, ma non c’è nessun ritratto che intanto mette le rughe e imbianca, e prima o poi ce la farà pagare: quello era solo un romanzo. Eppure non si può non riflettere sul fatto che “se mai arriva – e sono stati molti a metterlo in dubbio: da Epicuro a Montaigne – la saggezza è concessa a coloro che ne coltivano le risorse fin da giovani; i benefici che in seguito si ottengono sono generati dai semi che vengono gettati allora”. E allora, questo generale ringiovanimento – sia reale che immaginato e preteso – che cosa ci riserverà? Quel che possiamo ipotizzare è che “l’umanità si evolverà in una nuova forma di vita”, tanto nuova da lasciarsi alle spalle la civiltà così come noi la conosciamo.
Marco Lodoli, Il fiume, Einaudi 2016 (pp. 101, euro 14,50)
Domenico Starnone, Scherzetto, Einaudi 2016 (pp. 167, euro 17,50)
Alain Gillot, Una scacchiera nel cervello, edizioni e/o 2016 (pp. 190, euro 16,00)
Un padre, un nonno, uno zio. Tutt’e tre costretti a un inaspettato serrato confronto con dei ragazzini: il figlio decenne di una coppia separata, il primo; il figlio quattrenne della propria figlia, rimasta a Napoli, mentre lui, il nonno se ne sta da anni a Milano; il figlio tredicenne d’una sorella con cui aveva interrotto i rapporti, il terzo.
Il padre di Damiano – nel romanzo di Lodoli – si occupa di negozi in fallimento. E’ un uomo tranquillo, a suo modo: “tutto bene” è il suo intercalare, “bisogna mantenere il controllo” il suo mantra. Ma una domenica che passeggia col figlio sulla riva del Tevere, quello casca in acqua, e lui resta a guardare, non sa buttarsi. Uno sconosciuto si tuffa, salva il bambino, poi scompare. Tutto bene, direbbe il padre, se il ragazzino non insistesse per ritrovare il suo salvatore: “Bisogna ringraziare quell’uomo”. Di qui in poi, il racconto fa a pensare a quei film intitolati Tutto in una ,notte o giù di lì: mentre Damiano dorme sul sedile posteriore, suo padre corre per la città, attraverso luoghi che gli ricordano la sua infanzia, la sua giovinezza e lo costringono a ripensare alla propria vita, e intanto si caccia in situazioni assurde, surreali, ognuna capace tuttavia di fornirgli qualche indizio per trovare quell’uomo. Perché la vergogna di non essersi, lui, gettato nel fiume a riprendere il figlio non gli dà scelta: Damiano gli ha chiesto di rintracciare il suo salvatore, e lui glielo deve. E il bello è che, pur dormiente, il figlio dialoga col padre: “Dormi Damiano?”, “Sì, papà”, “Ti fidi ancora di me, Damiano?”, “Non lo so, papà”?, “Ringrazierò quell’uomo, vedrai. (…) Prima dell’alba lo troverò, te lo prometto”. “Sì, papà”. E via a correre da una periferia all’altra: “stanotte non devo fallire, mio figlio non potrebbe sopportarlo”. Ma questo viaggio al termine della notte si fa sempre più, per quest’uomo, riconsiderazione generale di se stesso. Non è avvenuto solo quel giorno: lui non si è mai gettato, è sempre stato “uomo di riva, di trepidi sguardi e fantasie inutili”. L’approdo non può che essere la constatazione amara che “si parte dalla vergogna di ciò che si è e si prova a dimenticarla durante il viaggio, ma la vergogna resiste, accompagna, precede”: il fallimento è già all’inizio. Eppure… Eppure è stato un sogno, gli assicura Damiano: “tu sei arrivato e mi hai salvato”, e a lui, al padre, non resta che guardare il fiume “come una storia che ha una direzione ma non un senso che gli uomini possono davvero comprendere.”
E’ un illustratore, un artista, l’anziano signore creato da Starnone. Famoso un tempo e ora in declino, di salute malferma, e comunque costretto a constatare che “più si invecchia, e più si tiene a restare vivi”. Cede a malincuore alla preghiera della figlia, ricercatrice universitaria come il marito: un convegno li chiama all’estero una decina di giorni, il piccolo non può restare da solo. E così il nonno torna nella casa napoletana dov’era vissuto, abitata dai fantasmi dei suoi genitori, traversata dalle tensioni tra figlia e genero. Ma da subito è Mario a imporsi, a non lasciarlo lavorare alle tavole che deve consegnare al suo editore. Lui, pur da tempo in età di pensione, non sa vivere privo di “urgenze lavorative” e attorniato dal “consenso”, dei critici, del pubblico. Ma ora è con altro che deve misurarsi: il nipotino lo obbliga al confronto, anche sul suo terreno professionale. Disegnano insieme, e Mario ritrae il nonno: “Aveva disegnato me, riconoscibilissimo, me adesso, me oggi. E tuttavia sprigionavo orrore, ero davvero il mio fantasma. (…) Mi sentii come se avessi ricevuto uno spintone così violento da mandarmi dal centro ai bordi del mondo.” Hanno fraternizzato, e di scherzetto in scherzetto sono arrivati a questo gioco del ritratto, che il bambino vorrebbe distruggere, ma il nonno no, perché quel disegno “gli aveva tirato via l’idea che aveva di se stesso”. Sarà l’ennesimo scherzetto – quando Mario non trova di meglio che chiuderlo sul balcone, sotto la pioggia – a costringerlo a un consuntivo senza sconti della sua vita, e alla disincantata conclusione che “viviamo per tutta la vita come se il nostro continuo misurare e misurarci rimandasse a una verità inconfutabile; poi in vecchiaia ci rendiamo conto che si tratta solo di convenzioni, tutte sostituibili in ogni momento con altre convenzioni, e l’essenziale è affidarsi a quelle che ci sembrano di volta in volta più rassicuranti.”
Bilanci esistenziali, giudizi impietosi su se stessi nei due romanzi italiani. Nulla di tutto ciò in quello di Gillot: non che il quarantenne allenatore di squadrette giovanili di provincia sia soddisfatto di sé. E’ un uomo solo, che non ha dimenticato le mancanze dei genitori e non li ha perdonati, un uomo sempre sulla difensiva, convinto che credere alle illusioni sia pericoloso, ma che tutto sommato ha trovato un suo equilibrio. Non chiede molto alla vita. Men che meno agli altri. Ma ecco la comparsa di un essere diverso da tutti: un nipote che incontra per la prima volta, e che non parla, non ti guarda negli occhi, gioca – da solo – a scacchi. Non fa altro. Salvo mettere alle strette lo zio con una frase sibillina: lui, lo zio, non gioca a scacchi, gli spiega, perché ha paura di non capire, e il calcio, che è tutta la vita di quest’uomo, è troppo semplicistico, per il nipote. E qui si apre il confronto: lo zio gli sottopone decine di videoregistrazioni di partite. Senza una parola, il ragazzo le guarda, le analizza, le decifra nelle loro ricorrenze statistiche: un modo per stabilire un rapporto con questo fino allora sconosciuto fratello della madre. In campo, il tredicenne altrimenti lento e goffo, si rivela un portiere d’eccezione: prevede le mosse degli avversari come si muovessero sulla scacchiera. Non tutto fila liscio però: il ritorno di quella disperata di sua madre, la reclusione del ragazzo in un istituto dove la sindrome di Asperger di cui è portatore degenera in comportamenti asociali, la ricomparsa e la morte della nonna… Quel che vien fuori è che se c’era qualcuno davvero chiuso al mondo, deciso a sfuggire il confronto con i propri simili, non era il ragazzo, Léonard, ma lo zio. Sarà la presenza discreta e affettuosa della dottoressa che ha diagnosticato il lieve autismo di Léonard ad aprire la strada a un finale lieto ma non zuccheroso. Ironico e dolce piuttosto. Come in un film francese.
Jean-Luc Nancy, Banalità di Heidegger, Cronopio 2016 (pp. 78, euro 11)
Leggere che nel pensiero di Heidegger si incontra un “temibile intrico che non vale la pena di analizzare”, ed altre valutazioni del genere, quando a dirlo è un filosofo come Nancy, conforta: neanche lui può sfuggire al contagio dell’astrattezza delle formule e dei neologismi del filosofo tedesco, ma è come se ogni tanto – come fa il nuotatore che alza la testa dall’acqua per respirare – introduce un commento chiarificatore, semplice e inequivocabile, del proprio pensiero, e così fa respirare anche il lettore. Al quale risulta fin dall’inizio chiaro che come la banalità del male della Arendt – vale a dire il ridursi alla semplice proceduralità degli ordini la cui esecuzione si risolveva nell’efficienza della macchina dello sterminio nazista – non sottintende affatto la volontà di sminuirne la portata e l’orrore. In modo del tutto analogo la banalità di Heidegger non riduce la responsabilità innegabile del suo antisemitismo ma si rivela come una trasposizione su un piano filosofico di quella stessa torsione del senso che permetteva agli aguzzini nazisti di fare il loro lavoro.
Un (ennesimo) pamphlet di condanna, dunque? No, è altro che si trova in questo libretto densissimo, dettato dalla consapevolezza che “condannare è una cosa, analizzare un’altra” e che “oggi dobbiamo impegnarci soprattutto nell’analisi, non perché sia il caso di dimenticare il giudizio morale (politico e filosofico), ma perché fin qui non abbiamo ancora approfondito a sufficienza il pensiero delle ragioni profonde delle nostre condanne.” L’antisemitismo di Heidegger non rappresenta un aspetto isolabile all’interno del suo pensiero. Ne è parte organica, ma di più ancora: le sue ragioni non riguardano solo questo pensatore: “non basta condannare l’ignominia dell’antisemitismo: bisogna metterne in luce le radici – e questo può significare solo intervenire al cuore della nostra cultura”. E non solo di quella dei nostri padri: la cosa riguarda noi, tutti, oggi, perché neanche “basta guardare attoniti a una storia che ci pare correre verso la propria rovina: bisogna imparare a rompere con il modello che questa storia si è data, quello di un progresso in una conquista del mondo da parte dell’uomo e dell’uomo da parte delle sue finalità esponenziali”.
Ágnes Heller, Riccardo Mazzeo, Il vento e il vortice. Utopie, distopie, storia e limiti dell’immaginazione, Erickson 2016 (pp. 152, euro 14,50)
Enzo Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli 2016 (pp. 248, euro 25)
Parte dai sogni, Ágnes Heller, da quelli in cui, come sosteneva Freud, si realizza un desiderio, e rileva che somigliano alle utopie.
Così come gli altri, che chiamiamo incubi, sono in qualche modo affini alle distopie. Facciamo bei sogni e brutti sogni così come siamo capaci di immaginare mondi migliori o peggiori, secondo le epoche. Perché l’immaginazione è una facoltà, come tutte le altre di cui disponiamo, immersa nella storia che viviamo. Sicché “le utopie sono creazioni dell’immaginazione che combinano alcune credenze della loro epoca con la passione della speranza”, quanto le distopie con la “passione della paura”. Una volta definite queste categorie, la filosofa ungherese può accompagnarci nel viaggio che dalle utopie del desiderio, quelle antiche, dell'”età dell’oro”, ci porta alle utopie della società e di uno Stato giusti, com’è quella di Thomas More (e ancor prima, matrice di molte utopie successive, quella di Platone e della sua Repubblica), non tralasciando immagini rivelatrici come Il paese di Cuccagna di Bruegel e Il giardino delle delizie di Bosch. Ma a distinguere fra loro le utopie è soprattutto l’immaginare il mondo migliore nel passato o invece nel futuro: la Bibbia, pur evocando l’Eden, proietta nel futuro il desiderio di un mondo pacifico e felice, così come fa Marx, in cui vediamo all’opera l’idea di “progresso”, l’idea che il nuovo sarà meglio del vecchio, nel XX secolo più volte smentita e pure ancor oggi viva e vegeta. Con una sostanziale mutazione però: le utopie sociali sono scomparse. Dopo che le utopie totalitarie del Novecento si sono rivelate come realtà distopiche, a dominare l’orizzonte dell’immaginazione restano quelle scientifiche, e tecnologiche, sia in versione ottimistica (la tecnologia come panacea di ogni male) che pessimistica: pensiamo ai romanzi e ai film d’ispirazione distopica che ci presentano un mondo desertificato da guerre o sempre più spesso da catastrofi ambientali o reso irriconoscibile da totalitarismi globali. Ma che cosa si può leggere in questo approdo del pensiero critico che sembra non saper più praticare l’utopia ed essersi rifugiato nella distopia? Quella che traspare è la convinzione che “non resti più alcuna spiegazione significativa del mondo”. Il pensiero distopico ha sbarrato la porta all’immaginazione utopica. Basta scorrere i romanzi che hanno costellato il secolo scorso e hanno fatto la loro comparsa all’inizio del XXI (dal Mondo nuovo di Huxley e 1984 di Orwell a La strada di McCarthy e Sottomissione di Houellebeck) per rendersi conto che sono proprio questi romanzi a mostrarci “quanto possiamo perdere” e, soprattutto i più recenti, a ricordarci che “le potenzialità oscure e perturbanti” che vediamo realizzate nel racconto sono già operanti, e visibili, nel presente. Non lo si può negare, in conclusione: l’immaginazione distopica è una fondamentale “manifestazione della nostra coscienza storica contemporanea”. La delusione per le rivoluzioni tradite (fossero quella russa o il Sessantotto) ha ceduto il passo all’incapacità di credere in un futuro migliore. O addirittura nel Futuro.
E’ su quella delusione che lavora il libro di Traverso: siamo certi che si tratti di un sentimento intervenuto dopo le sconfitte che le aspirazioni al cambiamento hanno subito nel Novecento? o non è invece, la malinconia, una dimensione insita in quella che – tenacemente – continuiamo a chiamare “cultura di sinistra”, ossia l'”insieme di teorie ed esperienze, idee e sentimenti, passioni e utopie” che ha attraversato il XIX e il XX secolo? L’autore propende decisamente per questa seconda interpretazione, e la sostanzia di osservazioni che riguardano il momento in cui viviamo, dopo che “la fine del comunismo ha troncato la dialettica fra passato e futuro” che connotava la memoria orientata al domani propria del marxismo. Per cui “l’eclissi delle utopie che accompagna il nostro tempo presentista ha condotto la memoria marxista alla soglia dell’estinzione”, e “questo mutamento ha favorito la riscoperta di una visione malinconica della storia come rimemorazione dei vinti”, di cui Walter Benjamin è stato “l’interprete più profondo”. E lungimirante, perché questa “visione malinconica appartiene a una tradizione nascosta del marxismo” e oggi chi, al di là di ogni precisa connotazione ideologica, continua a credere che “un altro mondo è possibile” non può sfuggire al “sapore malinconico” che emana dal “passaggio da un’epoca che, nonostante tutte le sconfitte subite, rimaneva decifrabile, a una nuova era di minacce globali senza esiti prevedibili”. Ma non si tratta semplicemente di struggimento per un passato che non può tornare: la malinconia è il sentimento intelligente di una Sinistra che “non si rassegna all’ordine globale fissato del neoliberismo, ma non può fare a meno, per affilare le sue armi critiche, d’identificarsi empaticamente con i vinti della storia”. E dunque, questa malinconia non deve essere elusa o rimossa. Fra malinconia e utopia, del resto, è stato sempre operante un nesso profondo, capace di metabolizzare delusioni e sconfitte e tener aperto un ‘orizzonte di attesa e mantenere operante una prospettiva storica. Ci si ritrova nelle pagine di questo libro, ci si conferma nella percezione di una differenza non più solo ideologica, ma si direbbe antropologica, con quanti nei vinti non sanno ravvedere che dei losers, dei perdenti, e viene da pensare che non solo al neoliberismo – e al suo dogma che l’economia, i mercati, siano un dato oggettivo, naturale, e perciò incontrovertibile, insuperabile – la Sinistra abbia ceduto, ma anche al sentimento esibito dell’ottimismo che pervade, come una norma non scritta ma ineludibile, pena l’esclusione, la nostra vita pubblica, e pretende di imporsi come tonalità dominate anche in quella privata.
Claudio Magris, Istantanee, La nave di Teseo 2016 (pp. 180, euro 18)
Episodi, di cui si è stati testimoni, o di cui si ha avuto notizia. Banali di per sé, ma in qualche modo apologhi del sentire diffuso di un’epoca. La nostra.
La commozione che una morte può suscitare si rivela “pappa del cuore”, labile e condizionata alle circostanze, sentimento programmaticamente limitato, come quello che anima il personaggio di cui si legge che ha lasciato la moglie dopo quasi 40 anni di matrimonio perché “vuole essere libero”, mettendo così a nudo la povertà di spirito di chi non ha saputo capire “il gioco, il rischio, l’intensità dell’esistenza condivisa”, il significato dell’“odissea del vivere dormire, invecchiare e soprattutto scoprire e amare il mondo insieme. D’altra parte, lo stare con è spesso l’autoingannevole parodia del matrimonio”, semplice convivenza, agli antipodi dell’ andare con, espressione di un “eros schietto e onesto, che non promette falsamente, né a sé né agli altri, durata”. Scelte di vita, modi di stare al mondo che si consumano nei riti sociali di cene che somigliano a sacre rappresentazioni nella loro ritualità che “mette in scena l’anonima insignificanza di tutti”, o di conferenze “in cui nessuno ascolta nessuno e dunque ognuno parla a nessuno”. Un po’ come succede quando si chiama uno degli innumerevoli “numeri verdi” cui veniamo di continuo indirizzati, e si scopre che “è uno sbarramento”: “anziché lasciar passare il malcapitato che cerca di informarsi come risolvere il suo problema, lo introduce a forza in un labirinto di strade che ritornano su se stesse (..) avvincendolo all’apparecchio come un naufrago aggrappato a un salvagente più pesante dell’acqua, che lo tira giù.” Il pacato disincanto che attraversa queste pagine non si fa mai rinuncia al giudizio, né indulge all’autoassoluzione di chi si chiama fuori, di chi si ritiene estraneo ai comportamenti che critica. Meschinità, debolezze, piccole e grandi ipocrisie sono parte del mondo. Il nostro. Un mondo che sembra avviato ad accorgersene sempre meno…
Enrico Donaggio, Direi di no. Desideri di migliori libertà, Feltrinelli 2016 (pp. 158, euro 18)
Non è il discreto ma fermo preferirei di no di Bartleby. Il Direi di no attorno a cui ruota l’argomentare serrato di questo libro – serrato al punto da sfiorare a tratti l’andamento di un flusso di coscienza filosofico-politico – è un atteggiamento attivo, vigile, ma che è collettivo o non è: è la manifestazione coerente e non puramente teorica della “passione capitale che ha messo al mondo e tenuto viva la sinistra fino alla sua attuale scomparsa”. La passione critica, l’esercizio di un carattere essenziale degli umani: “animali critici”, percosi dal “desiderio di migliori libertà”. Migliori di quelle che il capitalismo nell’età della globalzzazione ci offre. Questo, come altri libri segnalati in questi appunti (Revelli, a suo modo La Porta) o I destini generali di Guido Mazzoni (Laterza 2015), parte dalla constatazione che continua ad esistere un certo numero di persone, non importa quante, che si sentono fra gli ultimi a “pensare, pretendere o sperare certe cose”, “che fino a poco tempo fa si sarebbero dette di sinistra. E che oggi, con l’estinzione di questo modo di stare al mondo, risultano quasi stranezze fuori luogo e fuori tempo massimo.” Eppure, a far sì che, fra loro almeno, si riconoscano, c’è appunto quell’attitudine a dire e fare di no. O meglio: a dire, perché il passaggio al fare si scontra con l’indifferenza della stragrande maggioranza: un atteggiamento da capire, non da condannare, rischiando di segregarsi in un’infelice solitudine critica. Si tratta invece di non dimenticare che ci siamo dentro tutti, anche noi, in questo mondo dominato dal presente, nel quale tutti portiamo inciso in fronte un “tatuaggio invisibile: Non c’è alternativa”, sicché “la più preziosa delle passioni umane – la critica, quella che valuta noi e il mondo in base ai nostri desideri di migliore libertà – continua a inviare segnali che i nostri gesti sconfessano”. E sono comunque sconfessati, se mai se ne tentino, dai partiti di sinistra in primo luogo, che hanno interiorizzato la religione del nostro tempo, il neoliberismo (salvo quelli che hanno scelto la via della “mummificazione”, “malati di megalomania antisistemica e reducismo fantasmatico “). E allora? Non ci resta che il ruolo di spettatori del naufragio? Nelle ultima pagine, qualche spiraglio sembra aprirsi: occorre ricostruire “luoghi comuni di umanità”, dai quali partire per rioccupare i problemi fondamentali del nostro rapporto col mondo, scegliere fuochi di esperienza attorno a cui organizzare questo lavoro collettivo, a partire da quella che viviamo in prima persona: uscire dalle nostre “nicchie egologiche”, quindi, e rifuggire ogni pratica di autosfruttamento, ogni tentazione di farsi imprenditori di se stessi, perseguire un avvicinamento fra la nostra passione critica e la vita che quotidianamente facciamo, stabilire un contatto intimo con i nostri sentimenti, pensieri, azioni: “non provando per una volta paura, ma speranza”.
Oliver Sacks, Gratitudine, Adelphi 2016 (pp. 57, euro 9)
“Tutto ciò che ha un inizio deve avere una fine”: pur facendosi evidenti i segni del declino, l’avvicinarsi della morte non è detto debba risolversi in malinconia, o peggio.
Perché quello che si sperimenta “non è una riduzione ma un ampliamento della vita mentale e della prospettiva”, una maggiore “consapevolezza della transitorietà e, forse, della bellezza”. Chi scrive non è uno dei tanti propagandisti dell’ottimismo a oltranza che inneggiano ai “vantaggi” della vecchiaia , ma un grande psichiatra, che per tutta la vita si è confrontato con la malattia e la sofferenza, e dunque quel che dice ha il sapore di constatazioni, semplici, aliene da qualsiasi volontà di persuasione: “Percepisco, chiare e improvvise, concentrazione e prospettiva. Non vi è tempo per nulla di inessenziale”. La vecchiaia è sì “un periodo di libertà e senza impegni, svincolato dalle artificiose urgenze del passato”, ma si rivela anche una dimensione in cui l’aver molto tempo coincide con il non aver tempo da perdere. E dunque – confessa senza reticenze Sacks – non farò più attenzione alla politica e al riscaldamento globale. Non è indifferenza, è distacco (…) mi interessano ancora profondamente, ma non mi riguardano; appartengono al futuro”. Il presente è altro, per chi ha superato gli ottant’anni – irrimediabilmente malato, oltretutto, come l’autore – ed è fatto di un sentimento di gratitudine per aver vissuto la propria vita , ora che è vicino il momento di “morire la propria morte”. Senza che questo comporti comunque un ascetico ritiro dal mondo: “Al contrario, mi sento intensamente vivo, e nel tempo che mi resta ho la volontà, e la speranza, di approfondire le mie amicizie, dire addio a coloro che amo, scrivere ancora, viaggiare se ne avrò la forza (…) ci sarà tempo anche per un po’ di svago (e perfino per qualche stupidaggine)”.
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