Andrea Bonomi, Io e Mr Parky, Bompiani 2016
Chi l’ha avuto fra i suoi professori all’Università Statale, a Milano, a inizio anni Settanta, ha certamente un motivo in più per leggere questo libro e riconoscere il brillante collaboratore di Enzo Paci, studioso di Merleau-Ponty, poi docente di filosofia del linguaggio, nel settantacinquenne professore in pensione che fa i conti con lui il Signor Parkinson, e deve scoprire quanta banale quotidianità si annida anche nelle giornate di chi è colpito da malattie che segnano una svolta nella sua vita. Eppure, il filosofo che vive in lui, permette all’autore di trovare quel che di nuovo, se non di buono, c’è nella situazione: la sala d’aspetto in cui è costretto a passare ore in attesa delle visite di controllo diventa luogo di esperienza. Esperienza fino allora solo sporadicamente avvertita di una diversa percezione delle vite degli altri : l’occasionale compagno d’attesa in ambulatorio si fa oggetto di un interesse che va oltre la curiosità distratta per assumere – anche se i due non si scambiano una parola e preferiscono non turbare il loro “silenzio consapevole” – i contorni di un’inedita vicinanza umana (“un volto massiccio, ma dai tratti gentili. E dallo sguardo buono. (…) Nessuno l’ha accompagnato a questo appuntamento importante, e questo mi fa pensare che possa anche vivere da solo”). E i casi e le situazioni si susseguono, fino a sfociare nella constatazione di aver acquisito una nuova sensibilità: “se c’è una verità che ho imparato di recente è che l’esperienza della malattia induce un affinamento nel modo di percepire le storie degli altri e le loro sofferenze.” Ma è da quel primo incontro che tutto ha preso avvio: “ho passato la vita a studiare i meccanismi del linguaggio per arrivare soltanto adesso alla piena consapevolezza che, per quanto ci si dia da fare, rimane comunque qualcosa di inespresso: in questo caso l’intensità degli sguardi (…). Come restituirla in parole? Come trasmettere l’emozione che ho provato in quella sala d’aspetto quando i nostri sguardi si sono incrociati e, nel silenzio più assoluto, mi è sembrato di cogliere un cenno d’intesa? Le parole possono essere più o meno precise, più o meno efficaci, ma ci sarà sempre un residuo che non si lascia catturare.” Ci sembra di poterlo immaginare quel residuo, quel sottofondo della comunicazione muta fra i due uomini in attesa: non se lo dicono, forse neanche distintamente lo pensano, ma lo sentono che il loro stato, la sofferenza – indotta dal Parkinson, nel loro caso – non è che “uno dei tanti volti che può assumere il fattore Tempo” nella vita.