Il fattore Tempo

Andrea Bonomi, Io e Mr Parky, Bompiani 2016

Chi l’ha avuto fra i suoi professori all’Università Statale, a Milano, a inizio anni Settanta, ha certamente un motivo in più per leggere questo libro e riconoscere il brillante collaboratore di Enzo Paci, studioso di Merleau-Ponty, poi docente di filosofia del linguaggio, nel settantacinquenne professore in pensione che fa i conti con lui il Signor Parkinson, e deve scoprire quanta banale quotidianità si annida anche nelle giornate di chi è colpito da malattie che segnano una svolta nella sua vita. Eppure, il filosofo che vive in lui, permette all’autore di trovare quel che di nuovo, se non di buono, c’è nella situazione: la sala d’aspetto in cui è costretto a passare ore in attesa delle visite di controllo diventa luogo di esperienza. Esperienza fino allora solo sporadicamente avvertita di una diversa percezione delle vite degli altri : l’occasionale compagno d’attesa in ambulatorio si fa oggetto di un interesse che va oltre la curiosità distratta per assumere – anche se i due non si scambiano una parola e preferiscono non turbare il loro “silenzio consapevole” – i contorni di un’inedita vicinanza umana (“un volto massiccio, ma dai tratti gentili. E dallo sguardo buono. (…) Nessuno l’ha accompagnato a questo appuntamento importante, e questo mi fa pensare che possa anche vivere da solo”). E i casi e le situazioni si susseguono, fino a sfociare nella constatazione di aver acquisito una nuova sensibilità: “se c’è una verità che ho imparato di recente è che l’esperienza della malattia induce un affinamento nel modo di percepire le storie degli altri e le loro sofferenze.” Ma è da quel primo incontro che tutto ha preso avvio: “ho passato la vita a studiare i meccanismi del linguaggio per arrivare soltanto adesso alla piena consapevolezza che, per quanto ci si dia da fare, rimane comunque qualcosa di inespresso: in questo caso l’intensità degli sguardi (…). Come restituirla in parole? Come trasmettere l’emozione che ho provato in quella sala d’aspetto quando i nostri sguardi si sono incrociati e, nel silenzio più assoluto, mi è sembrato di cogliere un cenno d’intesa? Le parole possono essere più o meno precise, più o meno efficaci, ma ci sarà sempre un residuo che non si lascia catturare.” Ci sembra di poterlo immaginare quel residuo, quel sottofondo della comunicazione muta fra i due uomini in attesa: non se lo dicono, forse neanche distintamente lo pensano, ma lo sentono che il loro stato, la sofferenza – indotta dal Parkinson, nel loro caso – non è che “uno dei tanti volti che può assumere il fattore Tempo” nella vita.

Le vie misteriose dell’amore

Robert Nathan, Ritratto di Jennie, Atlantide 2016

Robert Nathan, Viaggio sul fiume, Atlantide 2016

“Indipendenti, liberi, visionari”, e tutti e cinque – tre uomini e due donne – attorno ai trent’anni (tre di loro autori di romanzi pubblicati con editori di livello nazionale): questo l’identikit di Atlantide.

E in più, si direbbe, una vocazione alla riscoperta. Come quella di un autore americano del secolo scorso, Robert Nathan (1894-1985), amato da F. Scott Fitzgerald e pressoché sconosciuto in Italia (risalgono al 1948 e al ’58 le edizioni Bompiani e poi Mondadori di Ritratto di Jennie). A metà fra l’atmosfera surreale e felice di un film di Frank Capra (è soprattutto l’angelo di La vita è meravigliosa che viene in mente) e quella inquietante del Ritratto di Dorian Gray, la storia del pittore e di Jennie, la sua enigmatica modella che compare e scompare dalla sua vita facendosi nel frattempo donna dalla bambina che era, è la storia di un grande amore. E insieme – sul filo di una riflessione di tonalità esistenziale – della scoperta del mistero che, a cospetto della nostra inconsapevolezza, abita la vita: “Può darsi che qui su questa terra, non siamo abbastanza grati per la nostra ignoranza, neanche per la nostra innocenza. (…) Eppure siamo stati creati così, stupidi, innocenti e ignoranti; ed è solo grazie all’ignoranza che possiamo vivere sulla terra, a nostro agio fra i misteri”. Amore è anche quello che riempie le pagine del secondo romanzo, ma è un altro tipo d’amore: è quello che matura in una lunga convivenza inevitabilmente fatta di “gentilezza e monotonia”: “Nulla di cui vergognarsi, e non un granché da ricordare”. Eppure non sono scontentezza o frustrazione i sentimenti che animano la protagonista che, saputo del poco tempo che le resta da vivere, progetta un’impresa che lei e il metodico, apparentemente tranquillo marito non avevano mai osato. Affitta una casa galleggiante e partono, per il loro viaggio sul fiume. Perché quel che lei desidera è lasciargli qualcosa da ricordare, di lei, della loro vita. Qualcosa che dimostri – a lei, oltre che a lui – che tra loro c’è stato di più di un’“affettuosa intimità”, espressione d’amore coniugale sempre segnata, tuttavia, da un confine invalicabile: “più si avvicinavano ai loro sentimenti più veri, profondi, più diventavano timidi. Ciò accadeva perché, come per chiunque altro, i loro sentimenti più profondi erano dolorosi e pieni di aneliti – tristi per la gioventù perduta, per frammenti dimenticati di felicità, per l’intimo, meraviglioso, impossibile matrimonio di carne e spirito cui la razza umana aspira.” E il viaggio, lungi dal risolversi nel recupero di una vicinanza solo sognata e nella ricomposizione di un quadro idilliaco, rimescolerà le carte: sarà lui – dopo, ormai solo – a chiedersi che cosa ha lasciato alla moglie da ricordare.

Una lettura natalizia, a suo modo

Maurizio Maggiani, La zecca e la rosa, Feltrinelli 2016 (pp. 164, euro 18)

Non è lo sguardo pieno di meraviglia e soggezione riconoscente del cittadino che guarda la natura quello che Maggiani posa su piante e animali: lui in campagna c’è nato, e c’è tornato a vivere.

Il suo è uno sguardo alla pari. Di creatura fra le creature. Uno sguardo d’amore, certo, ma nel quale l’animale resta animale: negli occhi della cavalla coccolata dalla sua padrona si legge dolcezza ma anche rancore per la cattività impostale, e la gatta che porta animali morti in omaggio ai padroni non fa altro che il suo dovere e “ottempera il mandato felino che le è stato affidato dagli avi”. Non antropomorfizzare gli altri esseri viventi non impedisce di amarli, ma porta se mai ad amarli tutti. Il vecchio gelso come l’edera che l’ha ricoperto rischiando di soffocarlo: “Il gelso è bellissimo, ma è bellissima anche l’edera, pervicace e delicata”, che, cedendo alla volontà dei famigliari, l’autore a malincuore finisce per sacrificare, estirpandola. Ha a che fare con questo atteggiamento alieno da ogni antropocentrismo, lontano dal considerarsi apice del creato e destinatario privilegiato dei colori, dei profumi e dei sapori che l’ambiente, coltivato e no, ci fornisce, l’ironia lieve che attraversa i 123 capitoletti che, rigorosamente disposti in ordine alfabetico, da Abete natalizio a Zecca, compongono questo libro (dopo esser comparsi sulle pagine del “Fatto quotidiano” e del “Sole 24 Ore”). Un’unica musica li percorre, e li si assapora come frutti appena colti, ognuno col suo nocciolo lucido come un haiku. E con quel colpo d’ala finale, beffardo o pensoso che sia, così vicino alle fulminanti conclusioni di molte poesie di Wisława Szymborska. Una lettura natalizia, a suo modo – si potrebbe aggiungere – ricordando l’appello “per la buona morte degli alberi di Natale” e la compassione per la solitudine in cui lasciamo sfiorire le stelle di Natale, “trattate al mercato dei fiori come fossero cotechini da smaltire per tempo” e nel giro di poche settimane dimenticate.

Una “vera vita”, nonostante tutto

Alain Badiou, La vera vita. Appello alla corruzione dei giovani, Ponte alle Grazie 2016 (pp. 112, euro 12)

La “vera vita” è quella guidata da un’Idea. È la vita che perciò “si lascia alle spalle il denaro, i piaceri e il potere”.

La “falsa vita” oscilla fra la scelta di bruciarsi nella soddisfazione immediata, nell’eccesso, e quella di votarsi alla riuscita, alla carriera: che si vada in un senso o nell’altro, è così che la vita cede all’imperativo dominante del capitalismo consumistico: vivere una vita fatta solo di lavoro, di bisogni e di soddisfazione di questi bisogni. “Corrompere i giovani”, nella scia di Socrate, significa contribuire a renderli consapevoli di questa falsa alternativa, premessa, appunto, di una falsa vita. Dice giovani, il filosofo, ma non possono non venire a mente anche i politici, i manager, i finanzieri logici e rigorosi, implacabili e arrembanti di giorno, e assetati la notte di travolgenti pratiche dei sensi, di esperienze erotiche inevitabilmente ripetitive, e dunque abitate dalla pulsione di morte. Resta comunque il fatto che i giovani sono le prime vittime della “vera crisi” del nostro mondo, e insieme a loro i vecchi (non a caso si auspica un’alleanza fra giovani e vecchi contro i quaranta, cinquantenni affermati), sapendo però individuare questa crisi non nelle défaillances del capitalismo finanziario, ma nel gigantesco vuoto simbolico che abita le nostre vite. Una “crisi storica della simbolizzazione” che suscita in alcuni un “desiderio di Occidente”, ossia l’adesione incondizionata all’idea che non esista altro mondo migliore di questo; in altri, un desiderio di tradizione, nazionalista, religiosa o razzista che sia. Ma le cose non vanno nello stesso modo per maschi e femmine. I ragazzi sono tentati dal fare del proprio un corpo pervertito (forandolo, tatuandolo, drogandolo), oppure dal sacrificarlo sull’altare della bella morte del terrorista, o ancora: dall’adeguarlo alle pratiche che ne faranno un “corpo meritevole” di una carriera che sarà solo un “tappabuchi del non senso” della vita che hanno scelto. Tutta un’altra storia per le ragazze: loro, differentemente dai maschi, non sembrano costrette – dall’evaporazione della figura del Padre e dalla scomparsa di ogni rito d’iniziazione, come il servizio militare – a un’adolescenza infinita. Anche per loro l’iniziazione è scomparsa: matrimonio e verginità hanno perso il senso che avevano, ma questo, all’opposto dei loro coetanei di sesso maschile, le costringe a essere donne prima del tempo, a lasciarsi divorare l’adolescenza, se non addirittura l’infanzia, dai discorsi, e dalle pratiche relative all’abbigliamento, alla cura del corpo, allo shopping, al sesso. Di fatto, anche per loro la via dell’affermazione personale, competitiva, è quella che sembra naturale si apra: ecco allora la figura della donna in carriera, che rifiuta o circoscrive la maternità ad esperienza fra le altre, tendenzialmente non più bisognosa dell’uomo, né dal punto di vista riproduttivo (vedi i progressi biotecnologici) né da quello simbolico (che farsene di un adolescente che non sa crescere?). Ma c’è anche una pars construens, in questo libretto denso e pieno di diagnosi fulminanti: amore, arte e scienza, politica – sì, anche politica, come fare collettivo orientato da un’Idea – sono le strade da battere per guadagnarsi una “vera vita”, per costruire insieme, donne e uomini, una nuova simbolizzazione egualitaria. Capace da un lato di evitare l’autoreferenzialità sterile degli Occupy Wall Street e di stabilire invece un’alleanza fra coloro che, senza appartenere all’élite dei ricchi, hanno da vivere e i diseredati che costituiscono la maggioranza della popolazione mondiale. Una nuova simbolizzazione in grado, d’altro lato, di affrontare quello che oggi è “il punto-chiave di tutto”: “la riproduzione della specie umana, le sue modalità e la sua simbolica”. E saranno le donne a indurre gli uomini ad associarsi in questa direzione: “non so quel che le donne inventeranno”, ma “nutro in loro la massima fiducia”, conclude il quasi ottantenne pensatore.

Pensarsi da fuori, per capire

François Jullien, Essere o vivere. Il pensiero occidentale e il pensiero cinese in venti contrasti, Feltrinelli 2016 (pp. 302, euro 22)

Primo. Lasciar da parte l’insofferenza per i discorsi che ci propongono di cambiare pelle – culturale, esistenziale – passando armi e bagagli all’Oriente nelle sue varie declinazioni: Jullien non ci propone conversioni.

Secondo. Non pensare che questo sia un libro per addetti ai lavori: si parla molto di filosofia, europea e cinese, è vero, ma mettendone sempre in luce i contrastanti principi che agiscono nel nostro (e nel loro) modo di pensare, e di vivere. Senza essere un vademecum per la saggezza, il libro è utile a tutti, leggibile per tutti. Non offre ricette. Invita a confronti, semina domande, induce ripensamenti. Anche su se stessi. Terzo. Il pensiero cinese continuamente evocato non è quello del capitalismo di stato attuale e della società senza democrazia di cui sappiamo. È il pensiero della tradizione cinese che si confronta, qui, con quello che va da Parmenide e Eraclito ai filosofi occidentali del Novecento. Tre avvertenze utili per chi non conosce ancora Jullien: per questi, il libro è un’ottima introduzione al suo pensiero, così come si presenta come una sintesi efficace per chi l’ha già frequentato. Un quarto consiglio, forse: si può leggere la postfazione prima di passare ai capitoli che, dopo l’introduzione, la precedono. Si affronteranno i “venti contrasti” – venti coppie di concetti, ma ancor più di atteggiamenti, di posture del pensiero: prima fra tutte quella che mette al centro la questione dell’essere e non la quotidiana umana dimensione del vivere – avendo già messo a fuoco l’essenziale del metodo di Jullien, annunciato fin dalle prime pagine e via via precisato da diversi punti di vista: in sintesi, “non si tratta di comparare, cercando di identificare delle somiglianze e delle differenze per caratterizzare l’uno e l’altro pensiero; organizzando un faccia a faccia tra queste lingue e questi pensieri, si tratta piuttosto di permettere un loro reciproco squadrarsi, da cui risulti una riflessione da una parte e dall’altra, simultaneamente.” “Smarcarsi” dai capisaldi impliciti nel nostro modo di pensare (dove nostro rimanda non tanto a un’appartenenza quanto a un limite), riconsiderarli da fuori, da quell’altrove che il pensiero cinese – sotto la guida di Jullien – è capace di offrire. Andare oltre la pur feconda riflessione sul rapporto fra avere e essere (le due dimensioni che, fin dal titolo del suo fortunato libro di fine anni ’70, Erich Fromm metteva in alternativa), per addentrarsi in quella sull’irriducibilità del pensiero – e quindi della questione dell’essere, fulcro del pensiero occidentale – al vivere, che precede il pensiero e, appunto, non se ne lascia ricomprendere. Non si tratta di puro aggiornamento culturale. Tutt’altro: quella che entra in gioco è la posizione da tenere nell’attuale confronto fra culture, nel quale occorre “difendere le fecondità culturali, non le identità”. Divenendo consapevoli allora dei limiti del multiculturalismo, in cui gli scarti fra le culture si cristallizzano in diversità che, pur impegnandosi a convivere, restano separate, ognuna sterilmente chiusa in se stessa. E non meno “politicamente pericoloso”, oltre che culturalmente infruttuoso, è il “pigro relativismo culturale”: “in entrambi i casi non si incontra l’Altro” e si mette in campo, di fatto, “un conflitto di Volontà di potenza ammantate di buona volontà”. Mettersi a confronto davvero, fino a giungere a ritenere i proprio principi niente altro che il frutto di una possibilità fra altre (non per questo rinunciabile, ma sempre rivedibile sì), non è un semplice invito. Costruire un “comune dell’umano”, aperto e in divenire, al posto di un “universale” ormai ridotto sulla difensiva, è una necessità. Inderogabile. L’aveva detto anche in un altro libro recente, Jullien (Sull’intimità, Cortina 2014), richiamando la “necessità in cui ci troviamo, oggi, in un’Europa che si disgrega, ma le cui categorie mentali, più che unificare, standardizzano il mondo intero: la necessità di ripensare l’originalità della cultura europea e di misurarne anzitutto la storicità.”

La città e i barbari

Marco Frusca, La Muraglia e altre genealogie, secondorizzonte e Liberedizioni 2016 (pp. 112, euro 10)

Uno sguardo curioso e critico, ironico e partecipe, a volte stralunato, attraversa gli scritti che l’autore – bresciano, architetto – ha prodotto a partire dalla metà degli anni Ottanta e raccolto ora in questo libro.

Una scrittura, la sua, pensosa, a tratti aspra, non di rado divertita, e divertente, che pur nella diversità dei toni stabilisce, tra le diverse sezioni che compongono il testo, rimandi e assonanze, che vanno dal lirico al sarcastico, aprendosi a considerazioni che testimoniano di un’attenzione tenacemente rivolta al presente e ricca di echi letterari. Come nelle pagine dello scritto, il più recente, La Muraglia, che apre il libro e richiama atmosfere note, dal Buzzati del Deserto dei tartari al Coetzee di Aspettando i barbari: “[…] Da dove viene, il barbaro? Ha lasciato anch’egli una città circondata da muri e fortificazioni? Quanto lontana, quanto diversa? È reduce dalla distruzione della sua città, è forse esiliato? No, certamente non è così. Venisse da un’altra città non sarebbe lui, non sarebbe il barbaro. Avrebbe nome e insegne e vessilli e il suo disegno di guerra sarebbe, per quanto terribile, chiaro ed aperto. Ma da dove viene, il barbaro? Viene da polvere e invidia, da povertà, sudore e cieca determinazione alla vita. Viene dalle zone franche, dalle periferie, dai bordi, dalla cintura… Da fuori. Da tutti i fuori. […] La città agita il deserto della notte con bagliore di incendio lontano, pallida lava trattenuta dall’abbraccio della Muraglia. Da tutti falò notturni che la circondano i barbari guardano la città, misurando il loro desiderio e la loro pazienza spietata. I loro sguardi tessono trame, invisibili ragnatele geometriche che solcano il cielo sopra la città. Dentro la Muraglia la volta celeste è suddivisa ordinatamente, censita in ogni parte, classificata dai suoi abitanti nel catasto dei sogni. Dalle loro solitarie torri, disposte lungo la Muraglia secondo un ritmo che più nessuno riconosce e frequenta, gli astronomi puntano le stelle con i loro caleidoscopi. Celti e caldei, cinesi e maya, da lungo tempo hanno portato le loro lingue a confondersi dentro la città, oltre la Muraglia. Il barbaro, fuori, è spinto da stelle furibonde. […] La città cresce sommandosi a se stessa, cresce per sovrapposizione. Anche le parti che vengono sostitute non scompaiono mai veramente, non fosse che per la frettolosa visione quotidiana dei suoi abitanti , per la loro distratta conoscenza e la loro imprecisa memoria. I vuoti della città non sono mai davvero vuoti, sono ferite, riscritture, palinsesti; i muri nuovi non cancellano le storie scritte dai muri vecchi. La città cresce anche per gemmazione e per partenogenesi, per meiosi e per mitosi, con ogni mezzo e strategia la città aumenta, si ingrandisce, si complica, si allarga. La città cresce piega su piega, si ritaglia da se stessa, sembra contraddirsi e si riafferma. Uno stucco, un ornato barocco, un frattale. La città cresce sempre, anche di notte, nel silenzio e nella calma apparente degli arnesi e dei rumori, nella pace e nella brezza che asciuga la pelle ai lavoranti. La città cresce e volge le spalle alla Muraglia, cercando invano di dimenticarla. La città cresce per ignorare il suo limite, per nasconderne l’esistenza, per seppellirne la memoria. Ma è un tentativo vano. […]”.

L’indimenticabile profumo del legno fresco

Lars Mytting, Norwegian wood. Il metodo scandinavo per tagliare, accatastare e scaldarsi con la legna, Utet 2016, pp. 250, euro 22

Una delle ultime cose che Mario Rigoni Stern diceva è che sentiva di aver vissuto abbastanza, e fra le cose che lo confermavano in questa idea c’era, oltre all’aver scritto qualche libro, l’aver raccolto un po’ di legna.

Vengono in mente le sue parole leggendo questo libro, che occorre sfogliare per farsi un’idea di quel che ci può dare. Non aiutano infatti, in questo senso, né il titolo (alla Murakami) né tantomeno il sottotitolo: si tratta di più di un manuale, che pure è, anche. Utile per chi ha legna da tagliare anche lontano dalla Scandinavia, o anche soltanto un fuoco o una stufa da accendere. Ma lo può leggere anche chi si scalda vicino a un termosifone, per la stessa ragione per cui ha un senso leggere libri di viaggio anche se non si ha intenzione di lasciare casa. Basta aprirlo per restare affascinati già dalla prima delle immagini che si incontrano nelle sue pagine: cataste di legna che sembrano sculture. È sotto l’influsso di questa fotografia che leggiamo le prime righe del testo, una poesia (“Il profumo di legno fresco / è una delle ultime cose che dimenticherai / quando il velo si chiuderà”) e pare di sentirlo davvero quel profumo. A mano a mano che si procede nella lettura si capisce come sia proprio nei metodi – di tagliare, accatastare, accendere – che si esprime il sentimento fatto di gratitudine e di rispetto per il bosco (abbattere alberi, se si sa quando, dove, come farlo non significa distruggere il bosco) e di piacere della frugalità, di riconoscimento di ciò che è davvero essenziale. “Il fuoco a legna ci mette a contatto con il clima stesso”  (bruciare legna se si sa  come, con quali strumenti e accorgimenti farlo può drasticamente ridurre l’inquinamento dell’aria). Ci mette a contatto con il clima facendo di noi stessi “collegamento fra il freddo di fuori e il caldo”, un caldo ben diverso da quello prodotto bruciando gasolio o ricorrendo all’elettricità. Così come la “legna è ciò che lega il bosco alla casa. Chi accende il fuoco deve uscire per andare alla legnaia (…) per un istante entriamo in contatto con le necessità elementari della vita”, come quella di farsi un fuoco (è il titolo di un bel racconto di Jack London). E allora possiamo perderci a guardare la fiamma e renderci conto che non ci stiamo solo scaldando, ma stiamo sperimentando “un metodo antichissimo, forse il più antico di tutti, per rasserenare vecchi e giovani.”

La vita al ritmo di passo

Paolo Cognetti, Le otto montagne, Einaudi 2016, pp. 204, euro 18,50

Il padre – uomo di scienza per cultura e professione, innamorato della montagna: un po’ come il genitore di Natalia in Lessico famigliare – lavora in città ma appena può è là, a camminare, fra alpeggi, pietraie e cime, e si porta dietro la moglie e lui, ancora bambino…

È questa la “montagna d’infanzia”: il padre, per il quale il bosco è solo l’accesso all’alta montagna, quella vera, concentrato nel cammino; la madre a indicare gli alberi e a dirne i nomi, “come se fossero persone ognuna con il suo carattere”. E lui, Pietro, sarà come il padre o come la madre? Se lo chiede senza trovare risposta, e intanto impara ad avere anche lui, come i genitori, nostalgia di quei luoghi, quando è in città, e ad aspettare impaziente il momento di andarci. Anche perché lassù s’è fatto un amico, Bruno, che in montagna ci vive, stando dietro alle mucche in un alpeggio. E ci vuole vivere. Il tentativo della madre di Pietro di portarlo in città a studiare si rivelerà un fallimento.
Ma gli anni passano, e l’adolescenza segna il distacco, la fine di quell’intesa che aveva legato padre e figlio sui sentieri. Pietro preferisce le compagnie che trova in paese, e la città. Bruno no: farà il muratore, costruirà alpeggi. Anche da lui Pietro si allontana. Da lui e dalla montagna: “Il futuro mi allontanava da quella montagna d’infanzia, era un fatto triste e bello e inevitabile”.

Le atmosfere montane che potevano ricordare le pagine di Rigoni Stern non si perdono nel seguito del racconto, ma loro due, Pietro e Bruno, pur nella diversità delle loro scelte, sembrano assumere la fisionomia di personaggi di Pavese presi nel mestiere di vivere.
La morte del padre rende impossibile a Pietro il riavvicinamento di cui aveva cominciato a sentire desiderio, ma l’eredità che gli viene lasciata in qualche modo supplisce all’assenza: farà il manovale e Bruno il capomastro per ricostruire insieme il rudere che il padre ha lasciato al figlio, che solo allora scoprirà come l’amico avesse in qualche modo preso il suo posto: “andavano sempre via insieme”, gli rivela la madre. Insieme, in montagna, fino a quel rudere d’alta quota che diventa ora l’alpeggio che Bruno aveva sempre sognato e che Pietro a questo punto è felice di affidargli. Lui no, non resta, vuole fare il documentarista, lontano, su altre montagne, sull’Himalaya, ma torna puntualmente dall’amico: “Non ricordavo bene perché mi fossi allontanato dalla montagna, né cos’altro avessi amato quando non amavo più lei, ma mi sembrava, risalendola (…) di farci lentamente la pace.” Quella che i due amici hanno ricostruito diventa “la casa della riconciliazione”.
La montagna. Il luogo della vita lenta, vera, giusta. Il luogo che “custodisce la tua storia”. I passaggi d’età, le vicende della vita, le speranze e gli affetti è nella montagna che trovano la loro verità, che ci si resti o che la si abbandoni. Perché il mondo – racconta un vecchio nepalese a Pietro – somiglia a un mandala nel quale il centro è un monte altissimo, il Sumeru, e intorno ci sono otto montagne separate da otto mari. C’è chi va a esplorare quelle, e chi invece resta dov’era: non è dato sapere chi avrà imparato di più, se chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi  è arrivato in cima al monte Sumeru.”  Bruno è di questi, Pietro e suo padre di quelli che se ne sono andati per tornare e partire di nuovo. È in questa somiglianza di destini che si realizza la ricomposizione del rapporto con il proprio padre. Quando lui non c’è più, come nella maggior parte dei casi avviene.
La montagna, il mai concluso misurarsi con chi ci ha messo al mondo, l’amicizia. E la vita che passa, e dà e toglie.
Anche cose simili si possono raccontare con il ritmo del passo. Un ritmo semplice, lento,  concentrato.

Un abbecedario per imparare a vivere

A. Ceccherelli, L. Marinelli, M. Piacentini, Szymborska. Un alfabeto del mondo, Donzelli 2016, pp. 274, euro 26

Perché la poesia di Wisława Szymborska è tanto conosciuta, letta anche da chi solitamente non legge poesia, citata nelle sedi e nelle occasioni più disparate?

Il premio Nobel assegnatole nel 1996 non spiega un successo che sfiora la popolarità, e neanche si può sopravvalutare l’effetto della lettura pubblica che ne fece in televisione Saviano all’indomani della morte della poetessa, nel 2012 (evento che per altro influì certamente sulla diffusione della raccolta adelphiana del 2009, La gioia di scrivere). Occorre riconoscere che questo successo parte da lontano, dal lavoro di quanti riconobbero per tempo la grandezza della poetessa polacca, a cominciare da un editore come Vanni Scheiwiller e da un traduttore come Pietro Marchesani – su cui si sofferma Laura Novati in Szymbrorska. La gioia di leggere (Pisa University Press 2016) – ma occorre anche cercare nell’opera stessa le ragioni della sua accoglienza, rintracciare nei suoi testi un “alfabeto del mondo” come fanno Luigi Marinelli e gli altri due autori di un libro che va letto avendo accanto la raccolta delle poesie di Szymborska, cui puntualmente rimanda.
Si parte da “Amore” (con Amore a prima vista) per arrivare a “Z come Zen” (con La fine e l’inizio), e ogni capitolo ci aiuta a capire il perché della nostra affezione a questa autrice, così come può offrire motivazioni convincenti ad avviarne la lettura per chi ancora non ne ha fatto una consuetudine. Perché la poesia di Szymborska non si legge una sola volta, ma ci si torna: a cercare un sorriso (anche sulle evenienze cruciali della vita), una luce di intelligenza (anche sulle situazioni più intricate e dolorose), l’espressione di quell’umanissima (auto)ironia che si trova in tutta la sua produzione (anche nelle prose, come si notava alcuni mesi fa, in questi appunti per i lettori, parlando di Come vivere in modo più confortevole, Adelphi 2016).

Ma c’è di più, e lo nota Marinelli nel saggio che conclude il libro: essendo che “le cose, nella società, nella politica, nell’economia italiana degli ultimi venti anni sono andate di male in peggio, è stato un po’ come se lo stesso pubblico dei lettori richiedesse una poesia moderatamente ottimista come quella di Szymborska, che non si esprimesse in tonalità oscure, tragiche e sublimi, e soprattutto non fosse la manifestazione di un qualche moralismo o, peggio, pessimismo integrale, ma – per così dire – andasse incontro a tutti, o piuttosto a ciascuno, ai suoi bisogni emotivi e alle sue speranze.” Sì, c’è anche questo: quello che troviamo in questa poesia è “un invito, non tanto alla pazienza, ma a una filosofica, rasserenante presa di distanze da una realtà personale o anche collettiva (socio-politica) poco piacevole e vissuta male. Un atteggiamento anti-tragico, ironico e di moderato ottimismo sulla vita.”
E infine, un “ultimo, importante aspetto della straordinaria fortuna di Szymborska in Italia: in una società molto divisa fra vecchi (che ancora comandano) e giovani (che per lo più vivono precariamente le loro vite e il loro futuro), la sua poesia ha avuto l’ormai rara qualità di piacere a entrambi, di essere universale anche in questo senso intergenerazionale.”

Chi l’ha visto? Perché oggi molti sognano di scomparire

David Le Breton, Fuggire da sé. Una tentazione contemporanea, Cortina 2016, pp. 195, 19 euro

“Le condizioni in cui viviamo sono sicuramente migliori di quelle dei nostri antenati e tuttavia non ci sollevano dalla necessità di dare significato e valore all’esistenza”, in un mondo, com’è il nostro, in cui è facile provare una “sensazione di inadeguatezza, di scacco personale”, tanto da poter affermare che “l’insufficienza è per l’individuo di oggi quello che il conflitto era per l’individuo della prima metà del XX secolo”.

Risultato: “il piacere di vivere diventa cosa rara”. Perché è “necessario rigenerarsi di continuo” ma senza poter contare su un orientamento comune: non solo in conseguenza del dissolvimento delle grandi narrazioni politiche e dei destini comuni che delineavano, ma anche perché “l’individuo ipermoderno richiede la presenza degli altri ma vuole anche starne lontano”. Per lui “il legame sociale è divenuto un dato ambientale più che un’esigenza morale” o addirittura “un teatro indifferente” delle proprie azioni, mentre internet, cellulari e social “consentono di esserci senza esserci”…
Si potrebbe continuare: il discorso ci prende fin dalle prime battute, avvince e nello stesso tempo inquieta. Perché? Perché fuggire da sé, essendo una tentazione contemporanea, non risparmia nessuno: se non noi direttamente, sicuramente qualcuno che fa parte della nostra cerchia. Non sono tanto gli scomparsi di “Chi l’ha visto?” a venirci in mente, ma quelli che incontriamo ogni giorno, al loro posto, ma sentiamo essere come scomparsi dentro se stessi, dietro la maschera del loro ruolo, delle loro buone o cattive maniere, mimetizzati in parole e gesti stereotipati, sfuggenti, sempre al di là di una relazione vera.
Ma ci sono anche quelli che – un certo giorno, all’improvviso apparentemente, o piano piano, progressivamente – che la loro parte non ce l’hanno più fatta a sostenerla. E sono scappati, fisicamente a volte, spariti chissà dove; molto più spesso socialmente, sottraendosi al rapporto con gli altri. Contestandolo nei fatti, i giovani soprattutto, o rinunciandovi, i vecchi. Chi di noi non conosce (sempre che non ne sia protagonista) situazioni al limite della sostenibilità come quelle di genitori con figli adolescenti (che oggi vuol dire sotto i 20-25 anni) che dan di matto e fanno ammattire l’intera famiglia. O di cinquantenni che devono accudire genitori, approdati alla terza o quarta età, divenuti intrattabili nelle loro fissazioni egoiste o irraggiungibili nei mondi separati delle demenze senili e dell’Alzheimer? Già, anche l’Alzheimer, nuovo spettro che si aggira per il mondo: perché “la lesione (organica, neurologica) può essere anche conseguenza, e non già origine di una presa di distanza”: anche loro, i colpiti dal morbo, caduti nella tentazione di fuggire da sé, in certo modo, fattisi indifferenti alla vita e alla propria storia prima che dimentichi di essa e dissociati dal proprio cervello. Sicché “la diagnosi del morbo di Alzheimer può essere vissuta dai familiari con sollievo, una forma di assoluzione”. Il confine fra intenzionale e fisiologico si fa più che mai labile nella vecchiaia come nell’adolescenza, due età della vita che chiedono all’individuo uno sforzo, non per tutti sostenibile, di trovare nuovo senso nei propri giorni e nella relazione con gli altri.

Ma al di là del racconto vivido dei casi e delle situazioni che attraversiamo in queste pagine, è la scrittura a trascinarci: quelle che potevano all’inizio apparire ripetizioni si rivelano passi essenziali di una ricognizione in progress, di una ricerca continua di aderenza delle parole a stati nebulosi, crepuscolari, indefiniti e pure capaci di determinare svolte esistenziali. Di qui l’adozione di un registro che oscilla fra il saggistico e il letterario-filosofico. Non è un caso che per dire, ad esempio, della demenza senile si ricorra alle parole con cui Annie Ernaux racconta della madre (Non sono più uscita dalla mia notte, Rizzoli 1998) o alle sequenze di un film (Amour, di Michael Haneze, 2012). O addirittura si proponga una rassegna degli autori che hanno narrato la fuga, la sparizione, o il desiderio di sottrarsi al personaggio che si è stati e si è. Non si tratta però di un catalogo (come quello che si trova nel Bartleby e compagnia di Vila-Matas, riedito da Feltrinelli nel 2013), ma del richiamo di un’evidenza: la diffusione di storie simili è sorretta dall’identificazione del pubblico con gli eroi della scomparsa. A riprova della contemporaneità di questa tentazione.

Un giorno dopo l’altro: amori disamori e altri fatti della vita

I romanzi di due giovani autori italiani: Emisferi, di Silvia Bonucci, e Un solo paradiso, di Giorgio Fontana.

Silvia Bonucci, Emisferi, Fandango Libri, pp. 270, euro 16,50

La crepa, nel soffitto della loro camera, la vede lei, e se ne preoccupa. Lui no, non dà importanza alla cosa. A questa come ad altre che interessano la moglie.

Sposati da trent’anni, la loro casa si è come tutte riempita di cose inutili che non si sa buttar via, e si è svuotata dei figli, ormai fuori casa. Nel condominio l’avvicendamento delle famiglie ha fatto sì che siano pochi quelli che ancora loro due conoscono.
Fra loro va tutto bene. Come sempre.
Ma è proprio in questa stabilità che s’è insinuata una distanza, ed è anche in questo caso lei a rendersene conto, sia pure non distintamente. Mentre Franco sembra “non avere più prospettive al di fuori della quotidianità”, Elena avverte un distacco sempre più marcato dai fatti di ogni giorno, come se andasse producendosi una separazione fra la sfera emotiva e la razionale, come se i due emisferi del cervello non comunicassero più come una volta. Una volta, quando la loro coppia se l’era immaginata sempre “unita dal divertimento di stare insieme, capace di superare la noia, la routine… E invece, piano piano, era calato il grigio…”.
Ma quando è cominciata? quando s’è aperta le crepa fra di loro, e come è andata dilatandosi? Neanche lei sa trovare una risposta, perché “è difficile non perdere il filo quando si trascorrono insieme più di trent’anni”.

Non è un caso che François Jullien ricorra proprio all’esempio del progressivo disamore che si insinua fra un uomo e una donna per chiarire che cosa sono le trasformazioni silenziose (questo il titolo del suo libro, uscito nel 2010 da Cortina): le trasformazioni che si risolvono in cambiamenti radicali e pure non si percepiscono, sembrano operare indipendentemente da noi. È appunto quello che è accaduto ai protagonisti di questo romanzo, e conferma così la convinzione di Jullien: raccontando, sapendo raccontare le trasformazioni silenziose “la letteratura si prende la rivincita sulla filosofia, perché fa apparire quel che la filosofia (europea) non ha pensato”, vale a dire il lato indeterminabile, indefinibile del cambiamento, il suo non lasciarsi rinchiudere in una sequenza di eventi identificabili e databili.
Sarà paradossalmente un’altra crepa, un ictus che colpisce in lei proprio l’emisfero sinistro – quello cui dobbiamo la percezione del passare del tempo, oltre che l’elaborazione del linguaggio – a riaprire un dialogo fra i due coniugi.
Un evento, quindi, riavvia la loro storia, che un lungo sotterraneo processo sembrava aver irrimediabilmente incrinato.

Giorgio Fontana, Un solo paradiso, Sellerio, pp. 198, euro 14

Eventi sono quelli che segnano anche la vicenda narrata da Fontana: Alessio – giovane con la passione del jazz, impiegato, fra tanti amici e coetanei che un lavoro non l’hanno – si innamora. Appassionatamente riamato, pare, da Martina, la quale però non ha potuto dimenticare l’altro, quello che l’ha tradita e fatta soffrire, ed è infatti da quello che lei finirà per tornare. Di qui ha inizio la storia di una sofferenza che dapprima cerca di rifugiarsi in viaggi senza meta, poi nel vagabondaggio in una Milano desolata, sempre più specchio dello stato d’animo del protagonista, e in seguito nell’alcolismo, nell’uso di psicofarmaci, fino all’annichilimento di sé, e nella sparizione, infine.
Ma la storia è più complessa. Amore e abbandono, sì, ma l’incontro con Martina ha portato Alessio a sentire, per la prima volta, di “voler assolutamente vivere”, e a scoprire che il contrario dell’amore non è l’odio, ma il buon senso, “lo stesso buon senso che l’aveva guidato negli anni” e l’aveva fatto approdare alla scelta di un “dolceamaro contentarsi”, come lui stesso aveva definito la propria strategia di vita. L’amore l’ha portato a “disertare dalla sua storia”, nel momento in cui ha compreso che “la fonte autentica della sua storia stava proprio nel fatto di essersi reso inerme”. Perché amare significa questo: rendersi inermi, abbandonare le difese che si erano costruite fra sé e il mondo.

L’innamoramento ha dunque interrotto, addirittura invertito, un processo che aveva lentamente plasmato l’anima del protagonista, inconsapevole della propria rinuncia al mondo e pure in quella asserragliato con il disincanto prudente che non si supporrebbe in un uomo di neanche trent’anni.
È la storia non raccontata, nella sostanza, ma che il racconto presuppone, ed evoca con discrezione, a reggere la trama – apparentemente elementare – di questo racconto.

Scolpire racconti

Erri De Luca, La Natura Esposta, Feltrinelli 2016, pp. 123, euro 13

“Nell’autunno del 2015, al termine di laboriose udienze in un’aula del Tribunale di Torino, sono ritornato alla scrittura”: è l’autore stesso a collocare questo libro nel proprio percorso.

Non poteva scriverlo prima, perché la sua scrittura “ha bisogno, come quando scalo una parete, di dare schiena a tutto e concentrarsi sulla superficie stesa davanti al naso, con la migliore precisione possibile. Sono andato a capo e ho ricominciato.”
Due periodi, due ambienti diversi.
Il protagonista, scultore di pietre e legni della montagna, è in un primo tempo anche accompagnatore di “stranieri spaesati”, “viaggiatori di sfortuna”: profughi insomma. Li guida nell’attraversamento del confine che corre tra Italia e Austria in Alto Adige. Perché sono “buffi gli Stati che mettono frontiere sopra i monti”, e “li prendono per barriere”. “Sbagliano, le montagne sono un fitto sistema di comunicazione secondo le stagioni e le condizioni fisiche dei viaggiatori”.
Proprio a causa di questa sua attività, o meglio: del modo in cui lui la pratica, sarà costretto a lasciare il paese e andare a cercar lavoro lontano, in una città di mare. E là, sulla statua di un Cristo in croce, potrà mettere alla prova la sua perizia – la sua sensibilità e intelligenza, soprattutto – di scultore.

Fra i due momenti c’è però un nesso profondo, sul quale il protagonista stesso si interroga: “cos’è la misericordia che provo davanti a questa figura?” Nella sofferenza dell’uomo crocefisso risuonano altre sofferenze: il restauro del crocefisso è un’opera di misericordia non del tutto dissimile da quella che lui faceva lassù in montagna. E ne viene “una confusione di tenerezza, uno spasmo di compassione” che, risolvendosi in spirito di fraternità, da sentimento si fa azione. Lo capisce anche il vescovo che dà il suo benestare all’assegnazione del delicato lavoro di restauro: “ho esaminato numerosi artisti (…), ma cercavo un uomo con una vicenda, con delle caratteristiche al di fuori della qualità artistica. La notizia dei suoi accompagnamenti oltre confine è arrivata anche qui.”
Ma al di là della trama, a suo modo avvincente, il racconto si regge sulla lucidità sobria della scrittura, fresca e netta nelle forme e nei colori come un mattino in alta montagna, dove può accadere di rendersi conto che l’essenziale è lì, e di tutto il resto si potrebbe fare a meno.
Una scrittura che coltiva l’arte della sottrazione. La stessa che pratica lo scultore.

La vita come un romanzo

Olivier Bourdeaut, Aspettando Bojangles, Neri Pozza 2016, pp. 142, euro 15

Aspettando, En attendant. Ma non Godot: Mister Bojangles invece, il ballerino di tip tap che teneva allegri i suoi compagni di cella nella canzone del 1968 interpretata, fra gli altri, da Nina Simone: è la sua voce ad accompagnare dall’inizio alla fine padre, madre e figlio protagonisti del racconto.

Tre personaggi in attesa, sì, ma solo di nuove avventure, e feste soprattutto, che realizzino il senso della loro vita. Perché l’han capito, loro: la vita si vive qui e adesso e dunque tanto vale cavarne il meglio, subito. Il ruolo della guida, in questa pratica frenetica e spensierata, è assolto dalla madre, creativamente seguita dal marito: divertire, stupire il figlioletto è il loro criterio educativo. Interpretare la vita come un romanzo e se stessi come personaggi è la loro bussola esistenziale, per cui il padre “si inventa vite da spacciare” a chi lo ascolta, la madre cambia ogni giorno nome secondo il gusto del consorte e tratta il figlio “né da adulto né da bambino, ma piuttosto come un personaggio da romanzo”, appunto: “un romanzo che lei amava molto, nel quale si immergeva ad ogni istante. Non voleva sentir parlare né di grattacapi né di tristezza”. Qui sta il punto: la condotta sostanzialmente demenziale di questa famiglia è una sorta di gioiosa protesta nei confronti della seriosità, del dovere, del lavoro. La stessa felicità che inseguono con determinazione non s’aspettano che si stabilizzi: occorre rinnovarla escogitando trovate e organizzando banchetti, bevendo ininterrottamente cocktail e ascoltando lui, Bojangles.

C’è la visionarietà di Queneau, in questo romanzo, ma anche l’inventiva di Dickens: come spesso accade nei suoi romanzi la voce narrante è quella del bambino, e l’altra che interviene è la voce di un adulto, il genitore, che sembra a tratti condividere lo svagato buon senso, la stravagante probità del Wilkins Micawber di David Copperfield.
Romanzo sorridente, ma solo in apparenza. Nell’euforia incontenibile della protagonista si fa strada la tristezza, e infine la follia, e il marito si dovrà infine rassegnare a non essere più “l’imbecille felice che aveva sempre pensato di essere” e seguirà l’adorata compagna nella morte. Non prima però di aver lasciato al figlio i quaderni in cui aveva annotato “tutta la loro vita come in un romanzo”, scrivendo “i momenti belli e quelli brutti”, senza tralasciare nulla, tanto da offrire all’erede la “sensazione di rivivere tutto una seconda volta”.

Storie buie di un mondo a parte

Franck Bouisse, Ingrossare le schiere celesti, Neri Pozza 2016, pp. 174, euro 15

L’editore l’ha messo nella collana I neri, e questo può starci. Ma citare in copertina, a mo’ di presentazione, una recensione francese che l’ha definito “il miglior thriller francese dell’anno” no.

Perché il destino di Gus è quello di un Rosso Malpelo delle Cevenne e la sua storia richiama un mondo a parte, il mondo dei contadini e delle campagne, un’isola di non contemporaneità nel contemporaneo, coi suoi tempi e i suoi riti, e nulla di idilliaco. Pieno di rancori anzi, e di violenza repressa. L’atmosfera che si respira in queste pagine può far pensare al Pavese di Paesi tuoi, se mai. Non certo ai garbugli costellati di colpi di scena granguignoleschi come quelli cui l’industria del giallo tenta di assuefarci.
Nell’epoca un cui è stravagante, e sospetto, non possedere automobile e cellulare, Gus possiede solo una tv che trasmette a mala pena un canale, abbastanza comunque per venire a conoscenza della morte dell’Abbé Pierre. Una figura che sembra aprire uno spiraglio nella sua scorza di insensibilità e diffidenza, offrirgli l’immagine, per quanto stilizzata, di un uomo che ha vissuto in semplicità e coerenza i suoi giorni. Tutto il contrario dei politici del Comune, i preti della parrocchia, i “succhiabibbia” propagandisti della Chiesa evangelica, i funzionari di banca che vorrebbero convincerlo a indebitarsi per ammodernare il suo allevamento di vitelli.

Poi gli eventi precipitano. Il buio della propria infanzia irrompe nella vita di quest’uomo: “Non temeva più l’oscurità, il freddo, la solitudine, perché era diventato lui stesso la notte, il silenzio, la somma di tutti i giorni passati, e il futuro non sarebbe esistito mai più”. E invece la morte è già lì a prenderselo. Ma sarà proprio in quel momento estremo che Gus vedrà farglisi vicino proprio lui, l’Abbé Pierre, e insieme l’unica creatura che abbia saputo alleviare la sua solitudine, il cane Mars, che qualcuno gli aveva avvelenato.
E, come in un film di Charlot, li vediamo andarsene via fianco a fianco: “Il terzetto – è la scena che ci resta in mente – si mise in marcia per andare a ingrossare le schiere celesti”.

Il discorso del professore

Cristovão Tezza, La caduta delle consonanti intervocaliche, Fazi 2016, pp. 237, euro 17,50

Duecento pagine di monologo, un riandare alla propria vicenda da parte di un professore settantenne di filologia romanza, studioso delle evoluzioni attraversate in Brasile dal portoghese (esemplificate da fenomeni come la caduta delle consonanti intervocaliche, appunto): mentre si sbarba e si veste per la cerimonia in cui gli verrà consegnata una medaglia per meriti accademici pensa a come impostare il discorso che dovrà fare.

È questa l’occasione per riandare ai fatti salienti della propria vita (il matrimonio, i figli, l’appassionata relazione con una studentessa, la carriera professionale) e, più che un racconto, è un rimuginare sempre gli stessi avvenimenti cercando di spremerne il senso della propria esistenza, fino all’esperienza ormai preponderante: l’invecchiare, il degrado fisico (“il nemico è il corpo?” è la domanda ricorrente), la nostalgia del sesso…

Ma perché leggere un libro del genere? scontato prima che triste, verrebbe da pensare. E invece no: dire che il monologo del professore è (auto)ironico non rende l’idea. Anche i ricordi più brucianti e le riflessioni più impegnative si risolvono in una risatina fra sé (quel eheh che costella il testo), e a poco a poco è come se, per simpatia, si cominciasse a sentirla quella voce, e viene da darle un volto scegliendolo fra quelli che si conoscono, amici, attori. A me è capitato di vederlo a un certo punto, il professore: ha cominciato a parlare come Gianrico Tedeschi, ne ha assunto la fisionomia. Quel suo fare sornione e bonario, quel suo non aderire mai del tutto al personaggio interpretato. Perché lui, il protagonista, è un po’ così: anche la politica, e la vicenda tormentata del Brasile, non lo toccano più di tanto (sarà per la lingua che parla e studia, il portoghese: viene in mente un Pereira prima del suo risveglio di coscienza civile). Non è la vita pubblica infatti ma quella privata che “l’ha sempre sommerso” – sostiene il professore – e quale delle due dimensioni dia sostanza all’esistenza è una delle tante domande che si pone e restano inevase. Anche perché, alla fine, occorre ammettere che “la vita si cela nella lotteria delle piccole scelte”, confuse nella quotidianità e nei suoi automatismi.
E quindi i ringraziamenti, poi qualche osservazione cordiale e i saluti conclusivi: questa la scaletta del discorso che farà.

La virtù di non collaborare

Andrea Inglese, Parigi è un desiderio, Ponte alle Grazie 2016, pp. 320, euro 16

È quello di Jean Seberg il volto che compare in copertina, personaggio di Fino all’ultimo respiro di Godard, film decisivo nella costruzione del sogno di Parigi che alimenta la giovinezza del protagonista di questo romanzo.

Parigi, meta e sintesi di tutti i desideri, sogno che si confonde – in questo “post-punk” – con le parigine, che in effetti saranno tramite essenziale della sua esperienza della città. Una città della quale a un certo punto vorrebbe scrivere “una guida turistica letteraria o, ancora meglio, un romanzo turistico“, “un romanzo topograficamente ragionato, per quartieri, epoca, gastronomia, attività culturali, il romanzo con l’itinerario urbano incorporato, e tutte le tappe per il turista evoluto”, “con i posti e i personaggi come dio comanda, e gli aneddoti”. Ma non è questo che scrive: troppo preso dai suoi amori, ma anche dall’osservazione dei mutamenti che l’ipermodernità impone: dagli smartphone – veicoli di solipsismo (“connessione permanente con il brodo psichico”) ma anche mezzi per “mostrare a tutti gli stronzi che ti circondano che tu ce l’hai una vita privata” – alle vetrine in cui qualche store manager ha deciso di esporre, “posta su un piedistallo marmoreo, illuminata da uno spot invisibile, una sola scarpa, ultimo esemplare spaiato di un antico popolo di calzature per bipedi umani”. Niente a che fare con la vetrina del negozio di fotografia di un vecchio cinese, che lascia scorgere “una parete intera di macchine fotografiche usate, ma in buono stato e funzionanti, macchine analogiche, reflex, sia ben chiaro”: un messaggio del tutto diverso da quello dei negozi che “rifuggono il gremito, l’ammasso” e “mostrano il massimo disprezzo per il lato materiale, volumetrico, della merce”. È il primo, il cinese, ad aggiudicarsi la “medaglia Bianciardi”, onorificenza immaginata dal protagonista per quanti “stanno fermi e non collaborano” con le mode correnti e il cambiamento continuo, incontestabili imperativi sociali nella società dei consumi. È più che mai attuale invece la necessità che un pagina della Vita agra segnalava, che “la gente impari a non muoversi, a non collaborare, a non produrre, a non farsi nascere bisogni nuovi, e anzi a rinunziare a quelli che ha.”
Questa e altre verità percorrono questo romanzo volutamente sconclusionato, discontinuo, amaro e divertente, deluso e appassionato come una canzone di Paolo Conte.

Un’epica della vigliaccheria

Julian Barnes, Il rumore del tempo, Einaudi 2016, pp. 194, euro 18,50

“Fra le numerose delusioni che riservava la vita c’era anche quella di non essere mai un romanzo, né di Maupassant né di chiunque altro. Beh, magari un racconto grottesco à la Gogol’.”

È fin dall’inizio consapevole del suo destino, il protagonista, Dmitrij Dmitrievič Šostakovič, perché sa bene di che pasta è fatto: “Sono un uomo assai poco risoluto e non so se riuscirò mai a raggiungere la felicità”.
A che cosa va incontro un uomo di questo genere – uno dei grandi musicisti russi del Novencento, insieme a Prokof’ev e Stravinskij – in un paese nel quale la sua arte si trova costretta a resistere al “rumore del tempo”, un tempo nel quale si era stabilito che “tutti i compositori erano alle dipendenze dello stato”, “i lavoratori dovevano essere addestrati a diventare compositori, e tutta la musica doveva essere al tempo stesso comprensibile e gradita alle masse”?
Non gli resterà che aggrapparsi all’idea che “la buona musica sarebbe stata sempre buona, che la grande musica non era violabile”. Ma, intanto, accettare. Accettare le periodiche convocazioni a palazzo, e telefonate autorevoli come quella di Stalin in persona, e ogni volta piegarsi al volere protervo quanto volubile del Potere: “la purezza proletaria era per i sovietici non meno essenziale di quella ariana per i nazisti. Per giunta, lui manifestava la sventatezza, la stupidità di ricordare come ciò che il Partito aveva decretato ieri fosse spesso in netto contrasto con quanto sosteneva oggi. Il suo desiderio era che lo lasciassero in pace con la musica, la famiglia, gli amici: la cosa più semplice da volere, e la più difficile da ottenere. (…) Volevano che accettasse di essere riforgiato, come un manovale ai lavori forzati sul canale del Mar Bianco. Pretendevano uno Šostakovič ottimista.”
Pagina dopo pagina seguiamo la storia della degradazione di quest’uomo, che passa attraverso l’epoca di Stalin e quella di Chruščëv, dalle stroncature minacciose alle adulazioni ipocrite, costretto a comporre anche cattiva musica e a rinnegare colleghi ammirati come Stravinskij, e finisce per concepire un irreparabile “disprezzo di sé”, arrivando “al punto di aborrire la sua persona, quasi quotidianamente” e di pensare che “sarebbe dovuto morire anni e anni prima”. E continua a vivere, invece, e a comporre, anche dopo che ha ceduto su quello che aveva fino allora difeso, la scelta di non iscriversi al Partito: “contemplò l’ipotesi del suicidio, naturalmente, quando ebbe di fronte le carte da firmare; ma poiché già stava commettendo un suicidio morale, che utilità avrebbe avuto da quello fisico? Non era neppure che gli mancasse il coraggio di comprare e nascondere e ingerire delle pillole. Piuttosto che, a quel punto, gli era venuta meno anche l’autostima necessaria per togliersi la vita.”

Romanzi nei quali l’autore ha voluto che il meccanismo di identificazione con il protagonista si inceppasse e il gusto della lettura cercare nuove vie, ne abbiamo letti. Ma qui si tratta d’altro: quando lo leggiamo, sentiamo di esserci già convinti che “essere un vigliacco non è facile” e che “molto più facile è essere un eroe”: “a un eroe basta mostrarsi coraggioso per un istante; quando estrae la pistola, quando lancia la bomba, attiva il detonatore, fa fuori il tiranno e poi se stesso. Essere un vigliacco significa invece imbarcarsi in un’impresa che dura tutta la vita. Mai un po’ di riposo. (…) Essere un vigliacco richiede costanza, fermezza, impegno a non cambiare, il che si risolve in una certa forma di coraggio.” Questo si dice il vecchio Dmitrij Dmitrievič, e sorride fra sé: “il piacere dell’ironia non l’aveva ancora del tutto abbandonato”. Ma anche di questo dovrà ricredersi, e rendersi conto che anche “l’ironia (ha) i suoi limiti”: si può guastare e divenire “sarcasmo. E a che serve, a quel punto? Il sarcasmo è l’ironia dopo che ha perduto l’anima.”

Il quieto disincanto di una vita vissuta

Teresa Cremisi, La Triomphante, Adelphi 2016, pp. 186, euro 16

“I genitori la definiscono una che sa cavarsela da sola”: tale è da adolescente e tale resterà per il resto dei suoi giorni. È la vita di una donna che segue il proprio demone come solo certe donne – se ne hanno la possibilità – sanno fare, quella raccontata in questo romanzo autobiografico.

La vocazione all’indipendenza e il desiderio di occuparsi solo di ciò che interessa sono già evidenti nella bambina che si appassiona di navi e battaglie navali e dell’Iliade legge e rilegge il secondo capitolo, quello in cui si passano in rassegna navi, appunto, e condottieri (altra precoce passione della protagonista, che dal culto di Napoleone passerà a quello di Lawrence d’Arabia). Le navi che predilige sono quelle dell’epoca gloriosa dei velieri, come La Triomphante del titolo, una corvetta ottocentesca della quale – ormai giunta all’ultima stagione della vita dopo un’esistenza segnata da una brillante carriera nel mondo dell’editoria – acquisterà da un piccolo antiquario alcuni disegni, opera d’un artista dimenticato.
Quali sono state le condizioni che hanno favorito una vita che si può dire riuscita? Dei genitori dolci e incoraggianti, certamente: l’estrosità artistica e la spensieratezza della madre così come la delicatezza rispettosa del padre accompagnano l’infanzia e l’adolescenza di Teresa, ma altrettanto deteminante è una formazione che travalica ogni confine culturale e linguistico. Nata ad Alessandria d’Egitto, scrive in francese e in arabo ma parla anche in italiano, inglese e greco. Fin dalle prime pagine viene da pensare al Canetti della Lingua salvata, che difatti compare, ad un certo punto. Consigliata da un amico, lo leggerà con entusiasmo, confrontando alla sua la propria esperienza: “tutte quelle lingue nella sua infanzia (ancora peggio di me), per poi arrivare alla scelta esclusiva di una sola fra queste, la più ostica e l’ultima in ordine di acquisizione”. Scelta che anche la protagonista compie, privilegiando tuttavia non il tedesco ma il francese: la Francia è, fra i diversi paesi in cui ha vissuto, quello in cui si è sentita a casa. Anche se, per imperscrutabili quanto banali motivi burocratici, si vedrà respingere la domanda di cittadinanza.

Oltre che la famiglia e l’incontro con Giacomo, il pittore col quale si sposa – senza per altro che questo implichi una convivenza continuativa – sono alcuni libri a guidare la protagonista “nei momenti in cui la vita premeva sull’acceleratore e imboccava una svolta”: “a volte mi è addirittura sembrato di sentire voci amiche levarsi dalle pagine di Stendhal, Conrad o Proust, e ho fatto le mie scelte tenendo conto di quello che mi dicevano. A loro devo molto, mi hanno aiutato a decidere, spesso a partire”. “La cultura letteraria non c’entra (…). Non è un sapere trasmissibile. È altro: un legame quasi familiare.”
Una pagina dopo l’altra, questo libro trasmette il quieto disincanto dell’autrice. “Non ho deciso di scrivere per dar sfogo alla nostalgia”, avvertiva all’inizio, e la conclusione è coerente: “ho vissuto come meglio ho potuto; non mi sono limitata a sopravvivere: ho avuto fortuna”, “ho sempre saputo che niente di ciò che facevo era destinato a restare”.
Giacomo vive a Milano; lei, per sei mesi l’anno, ad Atrani, accanto ad Amalfi. I giorni si succedono uguali, sereni: “resto seduta ad aspettare il sonno. Respiro, non leggo, guardo, guardo. Neppure una virgola della Storia sarà stata scritta da me; la mia vita non avrà cambiato né aggiunto niente al destino del mondo. Le tracce che ho lasciato sono irrisorie. (…) Ma questo mondo l’ho guardato molto.”
“Mezzanotte e mezza. Com’è passata l’ora. / Mezzanotte e mezza. Come sono passati gli anni”: sono di Costantinos Kavafis, il poeta di Alessandria d’Egitto, le parole che chiudono il racconto.

Blitz di David Trueba

David Trueba, Blitz, Feltrinelli 2016, pp. 136, euro 14

Chi non conosce, di questi tempi, architetti che lamentano la bancarotta? “La crisi ci aveva abituati tutti a una precarietà un po’ ridicola – racconta il protagonista di questo romanzo – nella quale accettavamo incarichi avvilenti e stipendi disumani per sentirci ancora partecipi del sistema, per non puntare dritti alla mendicità.”

Ma non si piange addosso l’architetto paesaggista di questa storia, una storia di più o meno accettate, perfino allegre solitudini: si sorride spesso leggendola, e talvolta si rallenta, quando la pagina si addensa in riflessioni che raggiungono anche chi architetto – paesaggista o designer che sia – non è.

“Ma non ti dà fastidio che sia tutto così perfetto?, mi domandò Helga. Non hai la sensazione che oggi tutto sia raddolcito? In ogni prodotto c’è una bugia. I coltelli devono avere l’aria di non tagliare, le padelle sembrano oggetti decorativi, gli spigoli non esistono più e poi la gente si scontra con la realtà e si sente indifesa. Ero d’accordo, ma le spiegai che negli ultimi tempi anche le persone si facevano modellare così. Certo, aggiunse lei, basta vedere tutte le donne rifatte, dovrebbero essere i manichini delle vetrine ad assomigliare alle donne, non il contrario. Io sorrisi. Sì, la gente è stupida. No, mi corresse lei. Non è stupida, ha paura. Il fatto è che la vecchiaia è orrenda, disse, non dimenticare che il degrado ci fa paura. Cerchiamo di posticipare il declino il più possibile, ma con poco successo. Io con gli specchi ci litigo da tanto. Ma forse il problema, replicai, è proprio che non siamo preparati per guardarci allo specchio, ci rifiutiamo di farlo da troppo tempo e se ammettessimo semplicemente che obbediamo alle stagioni della vita non sarebbe così problematico. Facile parlare così, disse Helga, ma prova a viverlo. Per quanto tu sia assuefatto all’idea di sfiorire, ti assicuro che quando arriva il momento è una tragedia. (…) Magari fantastichi ancora di far innamorare una persona più giovane per illuderti di prolungare gli anni d’oro, ma la fine ti acciuffa sempre.”

Il nostro classico del Novecento

Carlo Ossola, Italo Calvino. L’invisibile e il suo dove, Vita e pensiero 2016, pp. 120, euro 13

Nello scrittore che ci ha spiegato “perché leggere i classici” si può riconoscere, secondo Ossola, “il nostro classico del Novecento”, innanzitutto per la sua capacità “di collocare l’invenzione letteraria come scena ove il meditare filosofico e l’impegno etico trovano le loro più ‘giuste’ parabole.”

Il grande scrittore e il grande moraliste non si possono distinguere in tutto il tragitto di Italo Calvino, in “quella lunga dialettica fra ‘militanza’ e fantastico’” di fronte alla quale suonano quantomeno semplificatorie le interpretazioni che in passato han voluto fare dello scrittore un impolitico: “Credo molto nell’individuo – scrive in una lettera del ’57 – proprio perché mi preoccupo della storia collettiva.” Quelli che sa indicare sono piuttosto “itinerari spirituali compiuti al di fuori di tutte le religioni” – anche di quelle dell’impegno – e dentro la scrittura. Una scrittura che non dimentica mai “la continua scontentezza che ci si porta dietro nello scrivere” e non cessa di aver di mira “la trasparenza delle frasi”, interpretabile non come semplice qualità stilistica ma come rappresentazione della “nobiltà naturale” insita “nell’accettare il male e il bene della vita”, nell’aspettare, pazienti e vigili – come lo scrutatore alla fine della sua giornata al Cottolengo – “l’attimo in cui in ogni città c’è la Città”; nell’ammettere che l’inferno, “se ce n’è uno, è quello che è già qui”, non rinunciando tuttavia per questo a “cercare e saper riconoscere – come il Polo delle Città invisibili – chi e che cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.”
Nessuna tentazione di rifugiarsi in uno sguardo distante e astratto, quindi, perché “l’umano è la traccia che l’uomo lascia nelle cose, è l’opera, sia essa capolavoro illustre o prodotto anonimo d’un’epoca”, e “anche l’‘irrilevante’ delle nostre vite quotidiane prende senso e ragione” se lo si osserva con rigore.
Il “rigore del limite, in primo luogo, “la prima esattezza che dobbiamo darci”: sono pensieri, questi, che non hanno avuto il tempo di organizzarsi compiutamente nel testo di quella che sarebbe stata la sesta delle Lezioni americane.

Il mondo e l’immondo

Alessandro Zaccuri, Non è tutto da buttare. Arte e racconto della spazzatura, Editrice La Scuola 2016, pp. 169, euro 14,50

“Lo scarto costituisce una dimensione necessaria del nostro stare al mondo”: non esiste mondo che non debba fare i conti con l’immondo, l’immondizia.

Tanto più il nostro, nel quale dissipazione e povertà, conquiste tecnologiche e obsolescenza programmata sono i volti, inestricabili e confusi, di una dominante cultura del consumo, potente moltiplicatore di scarti di cui – senza cadere negli eccessi di chi soffre di disposofobia (“disturbo da accumulo”, nel linguaggio psichiatrico) – non è facile liberarsi. Prova ne sia il successo di manualetti come quello che recentemente prometteva la soluzione a quanti si affidino al Magico potere del riordino.
Ma non è il caso di cercare consigli di comportamento né di aspettarsi sistemazioni concettualmente rigorose da questo libro: un’enorme congerie di citazioni e rimandi, spunti e intuizioni, titoli di libri e di film, rapide descrizioni di quadri e installazioni, frutto della convinzione che “non è più possibile rappresentare e raccontare il mondo senza pensare, rappresentare e raccontare i rifiuti.” Un libro-deposito dunque, da attraversare senza correre. Se capita che torni alla mente una cosa che si è letto o un’immagine che si è vista, si tratta solo di aver pazienza, e andare avanti: salterà fuori, in una pagina o l’altra. C’è (quasi) tutto in questo libro, e allora si tratta di fermarsi se mai a raccogliere quello che sembra rispondente alla propria esperienza, o sorprendente per l’intuizione che rivela, o solo divertente. Facendo sosta magari quando ci si imbatte in qualcuno che sulla faccenda ha fatto il punto, a modo suo: più dei paesaggi desolati di Pasolini segnati da una “permanenza universale dei rifiuti”, è una delle Città invisibili di Calvino a proporsi come riferimento obbligato. A Leonia convivono due passioni: “il godere delle cose nuove e diverse” e “l’espellere, l’allontanare da sé, il mondarsi d’una ricorrente impurità”. Sennoché, questa coazione al nuovo e al pulito lascia intravvedere la spazzatura, sempre sospinta “fuori dalla città”, come “rovina moderna” che finisce con l’accerchiarla. E naturalmente non si può dimenticare il Calvino che ogni sera arriva fino al cassonetto a svuotare la sua poubelle agréée – la sua pattumiera approvata dai regolamenti municipali – e dà nuova dignità a questa quotidiana operazione: “Soltanto buttando via posso assicurarmi che qualcosa di me non è stato ancora buttato e forse non è né sarà da buttare”. Ma di “scrittori della spazzatura” ne esiste una schiera: da Dickens a Don Delillo, da Hrabal a Houellebecq e McCarthy. Senza naturalmente dimenticare la centralità della spazzatura nell’arte contemporanea, a partire da quell’installazione dell’anno scorso, al Museion di Bolzano, fatta di bottiglie vuote, stelle filanti e bicchieri vuoti, che un mattino gli addetti alle pulizie del museo pensarono bene di eliminare, pezzo dopo pezzo, secondo le regole della raccolta differenziata: una storia esemplare dell’Epoca dell’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità finanziaria (che è un altro libro, fra i molti libri citati: di Pierluigi Panza (2015), per chi fosse interessato a proseguire il cammino…).