Epifanie del Tempo

Paola Baratto, Tra nevi ingenue, Manni 2016 (pp. 46, 12 euro)

E’ la stessa voce che abbiamo ascoltato in Giardini d’inverno: anche in questo nuovo libro di Paola Baratto ricordi ed emozioni decantano nella misura del racconto breve, se mai più rarefatto qui, ancora più sobrio nei riferimenti, meno circostanziato, tanto da sconfinare spesso nei colori luminosi e intensi delle Gouache, divagazioni assorte che intervallano i brani proponendo momenti sospesi in una sorta di domestica eternità.

Ritroviamo personaggi – donne e uomini identificati solo dal nome – che acquistano la loro consistenza nel silenzio, e in quei suoni che lo perfezionano (il fruscio di uno “scorrere d’acque”, i “gargarismi mattutini d’una moka”, i “rintocchi dei campanacci su un altopiano”). Un silenzio come quello che si può godere nel piccolo cortile chiuso fra alti muri dove il bambino sfugge – le domeniche dedicate ai pranzi familiari – all’”insensato trattenersi degli adulti a tavola” e fa esperienza di quella solitudine che nell’infanzia non è mai assoluta, perché “si avverte che qualcuno ci sta osservando”, sempre, e persino il pino che sorge nel cortiletto, “nella sua maestosa indifferenza”, dà “l’impressione d’interessarsi a lui”.
Sono le “epifanie” che la noia – sentimento di cui si fa esperienza vivida nelle prime età della vita – sa regalare. Sono vissuti che echeggeranno poi nella vita adulta – ma mai immemore dell’infanzia trascorsa – in paesaggi dove si rivela “la nudità innocente e primigenia” che la montagna sa rivelare quando non ci si attarda nel bosco ma se ne esce, senza però farsi prendere dalla smania di raggiungere la vetta, e si indugia invece fra ghiaioni, fenditure di calcari e ondulazioni di graniti, gole di nevai… Ed è un’immagine, questa della neve, che ritorna: il rumore dei passi sul sentiero innevato “si fa teso come un filo di silenzio” (sembra di sentire le prime battute di Des pas sur la neige di Debussy) e sono “le nevi ingenue di Utrillo” – nei suoi ritratti del Cabaret Le lapin agile – a dare il titolo alla raccolta, ma era un “immobile paese innevato” anche l’aspetto che ogni giornata sembrava assumere quando da bambini si stava a giocare in casa, “come dentro un acquario”, “acquattati sotto mobili di formica celeste” (come il Benjamin di Infanzia berlinese: “Io li conoscevo uno per uno i nascondigli nell’appartamento…”).

E’ in questa dimensione appartata e silenziosa che i personaggi rivelano in pochi tratti la loro vicenda essenziale, lasciano trapelare il tratto che – con accentuazioni diverse, versioni variate di un’unica comune attitudine – rende uniche le loro vite, e ne fa vite a loro modo riuscite: L’arte del passo – cui è dedicato uno dei racconti – fa tutt’uno con un’arte di vivere (e di scrivere…) che coltiva tenacemente, non curandosi dell’incomprensione degli altri, la propensione alla ricerca del tempo perduto. Una ricerca che non sembra tuttavia aver la prospettiva d’un tempo ritrovato: le “tracce” di “echi” che non si cessa di seguire non portano a rivivere il passato dando la sensazione di una vittoria sul tempo. Ai protagonisti di questi racconti non è dato guadagnare – come a quello della Rechercheframmenti d’esistenza sottratti al tempo col risultato di sentirsi un essere – a sua volta – extratemporale. Questi personaggi si accontentano del “gratuito piacere d’accomodarsi dentro una risonanza conosciuta ma chiusa come un’ostrica”. E tuttavia è un accontentarsi che non si risolve nell’acquietamento: “per quanto non (ignorino) la lezione del disincanto, ogni volta ci (ricascano)”. L’assenza, per loro, resta tale, ma proprio in quanto assenza mantiene vivo il Desiderio: sa farsi segno d’un momento passato senza restituirlo con l’evidenza travolgente, la presentificazione sorprendente del sapore della madeleine. Non ne viene perciò l’impressione di essere – sia pur transitoriamente – indifferenti alla morte ma, al contrario, la percezione lucida dell’impermanenza: della “bellezza metamorfica “della montagna, ad esempio, dove la forma definitiva non alligna” e quella della solidità delle rocce è solo un’illusione, in realtà frutto di “fragorosi crolli”. Ed è tuttavia “una sovrastante impressione di permanenza” che quello stesso ambiente può darci, così rendendo “tangibile la natura relativa del nostro passaggio”.
Ci era parso di camminare sulle orme di Calvino, nei Giardini d’inverno. Sembra piuttosto Proust il richiamo costate in questa nuova prova, fin dal primo racconto: a Illiers – la Combray della Recherche – “il tintinnio della campanella sul portone sembra ancora quello “di quando il visitatore era Swann”, ma una volta entrata nel giardino e nella casa, la protagonista “si (sente) estranea, come se vi ritornasse dopo aver perso la memoria”.
Più dei miracoli della memoria involontaria, si direbbe tuttavia la perdita dell’aura a trasparire in questi racconti, nel “lavorio del rimpianto” che li permea ma non esclude il ricorso fiducioso alla capacità evocativa che possono offrire le nuove tecnologie (consci comunque che “la tecnologia non può tutto”). E’ dunque a Benjamin che accade di pensare, anche per il valore che si riconosce all’“oggetto buttato per errore o perduto per disattenzione”, o a quelli che si conservano, nella seconda casa magari, perché sono “testimonianze d’esistenze che non si riesce a tradire”. Un’aura che avvolge le cose ma anche certi luoghi – come un vecchio bistrot, che anche la copertina richiama, o una “vecchia dimora a mezza collina appartenuta a un amico – in equilibrio fra passato e presente, fra dimensione privata e pubblica, fra solitaria discrezione e aspirazione a uscire dalla propria riservatezza.

Il mondo piccolo di un’agrodolce Francia

Gabriel Chevallier, L’annata memorabile del Beaujolais, edizioni e/o 2016, pp. 366, euro 18

Un paese di contadini, diviso fra la chiesa e il municipio. Fra il prete, benvoluto, e il sindaco, rispettato. Ma non siamo negli anni ’50 a Brescello, il parroco non ha il volto di Fernandel e il primo cittadino, seppur baffuto, non ha quello di Cervi.

La vicenda si svolge trent’anni prima, e il paesaggio – a Clochemerle, nel Beaujolais – non è dominato di campi di grano e granoturco ma da colline percorse dai filari di vite. E soprattutto: lo sguardo del narratore non è quello di Guareschi, filtrato dalla lente di fiere ideologie politiche. È piuttosto lo sguardo di un etnologo divertito dai personaggi che osserva e dai loro pettegolezzi, dalle loro invidie (sociali o personali che siano), dalle contese che ne derivano e vengono a galla soprattutto quando “il bel tempo alimenta senza tregua le chiacchiere” degenerando in un’“inesplicabile e scambievole follia”. E qui, come del resto in altre pagine, l’ironia bonaria sembra cedere a un pessimismo antropologico che va oltre i confini del villaggio francese: “in una regione benedetta da Dio, dove l’orizzonte non aveva che dolcezza e sorrisi, sotto un cielo raggiante indulgenza e amore, tremila teste di clochemerlini ronzanti di sciocco furore sciupavano quella pace troppo bella; e tutta Clochemerle rumoreggiava di pettegolezzi, di minacce, di dispute, di complotti, di scandali.”
Ma il sorriso torna subito a illuminare il racconto d’una luce che richiama certi film francesi, come quelli di René Clair. Non è un caso che questo romanzo e quelli che gli fecero seguito ad aggiornare le gesta degli abitanti di Clochemerle abbiano ispirato fortunate versioni cinematografiche (una delle quali con Fernandel, chiamato tuttavia a calarsi in una parte diversa da quella di un don Camillo francese).

Il ronzio che disturba Homo sapiens

Marco Belpoliti, La strategia della farfalla, Guanda 2016, pp. 142, euro 12

L’abbiamo incontrato pochi mesi fa a Brescia, Marco Belpoliti, con il suo Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda 2015), e ce lo ritroviamo qui in veste di entomologo, che pure non abbandona gli strumenti dell’umanista nel proporci una “visita guidata nel mondo degli insetti”.

Ed ecco allora ricomparire l’autore di Se questo è un uomo, anche lui convertitosi però a decifrare questa presenza pervasiva ma quasi invisibile, e a farlo con la competenza che gli permette di puntualizzare che Gregor Samsa non è in uno scarafaggio che si tramuta, ma in un coleottero, e precisamente in uno scarabeo. E Levi non è l’unico letterato attento al mondo degli insetti: Nabokov ha addirittura dato il proprio nome ad alcune farfalle da lui studiate, e mentre alla pietas di Gozzano non sfuggiva la sofferenza delle “disperate cetonie capovolte”, Sciascia, come Pasolini, sembrava riservare un’attezione particolare alle lucciole. Ma non solo letterati rappresentano le fonti dell’autore: sono scienziati che li hanno studiati per una vita a ricordarci che gli insetti costituiscono tre quarti delle specie viventi e sono i veri protagonisti dell’evoluzione: “noi siamo comparsi due milioni e mezzo di anni fa come genere Homo, duecentomila come Homo sapiens. Gli insetti abitano questo Pianeta da trecento milioni di anni” e, si badi, sembrano, a detta degli zoologi, più adatti di noi a scampare ai mutamenti climatici e alle evoluzioni del Pianeta, forse anche alla sesta estinzione di massa che, secondo alcuni studiosi, ha già preso avvio…

Libertà di partire, diritto di restare

Valerio Calzolaio, Telmo Pievani, Libertà di migrare. Perché ci spostiamo da sempre ed è bene così, Einaudi 2016, pp. 133, euro 12

Non sono un evento eccezionale le migrazioni di oggi, né un fatto momentaneo o un’emergenza: “il tempo profondo dell’evoluzione insegna il contrario. Il fenomeno migratorio umano è strutturale e costitutivo della nostra identità di specie”.

Ci siamo “adattati migrando pur non diventando – come altre – una specie migratoria” e la nostra superiorità, ben prima che dalla crescita dell’encefalo, è venuta dai piedi: dall’andatura bipede, che ci favorì nei lunghi spostamenti, la fuoriuscita dall’Africa innanzitutto. Ma non immaginiamoci carovane infinite, esodi di massa, file interminabili che avanzano verso una meta ben identificata per quanto lontana: le grandi ondate migratorie che portarono al popolamento del pianeta furono piuttosto “una lenta avanzata, di generazione in generazione, di gruppi parentali o più ampi, fra 25 e 150 individui”, “con scarso grado di scelta sul come, quando, verso dove e perché”.
Quel che è certo è che il Mediterraneo rappresenta il “crocevia migratorio intercontinentale umano più antico” e che data dal neolitico, dall’affermarsi dell’agricoltura stanziale che induce a tracciare confini artificiali, il sommarsi ai fattori ambientali delle migrazioni – la ricerca di habitat più favorevoli – di un altro fattore decisivo: le guerre. Uccidere, scacciare, ridurre in schiavitù anziché andarsene. È da allora che prende avvio “una dialettica durevole fra costrizioni a migrare e libertà di migrare”.
In questa dialettica si inscrive la “libertà giuridica di migrazione per tutti” esistente nel mondo attuale, “libertà di partire” ma anche “diritto di restare”, libertà pesantemente condizionate da una congerie di fattori, economici, politici, ambientali, fra i quali emerge sempre più quello climatico: non è una novità storica, ma è un fatto che oggi, mentre assistiamo al “più grande e doloroso esodo internazionale di profughi dalla seconda guerra mondiale”, dobbiamo prender atto che i mutamenti climatici ne sono un fattore decisivo e, quel che più conta, sempre più lo saranno: “nel 2030 la certezza di essere rifugiati climatici o la probabilità di diventare tali riguarderà almeno 250 milioni di donne e uomini”. Molti di quanti sono morti nel Mediterraneo fuggivano da cambiamenti del clima che ha reso invivibili le loro terre. E non hanno riconoscimento in quanto rifugiati climatici. È di essi che il negoziato sul clima si deve occupare, con “lungimiranza”: per “evitare disatri e prevenire la fuga, organizzare lo spostamento e valutare se e quanto sia irreversibile, maturare la ri-localizzazione insieme ai soggetti a rischio e alle loro aspettative sociali, lavorative, familiari. Culturali”.

Adesso anche il giardino lo sa

Pia Pera, Al giardino ancora non l’ho detto, Ponte alle Grazie 2016, pp. 216, euro 15

“Verrà un giorno in cui il giardiniere non terrà fede al suo appuntamento consueto. Il giardino questo non lo sa.” E Pia Pera ha aspettato a dirgli che il suo male avanzava e quel giorno sarebbe arrivato, anche prima della fine.

Era un male che non troncava la vita, il suo, ma che le avrebbe tolto poco alla volta la capacità di curare le sue piante, i suoi fiori.
Come il giardino era diventato metafora dell’esistenza, così il doverlo abbandonare anzitempo si fa possibilità di un “ribaltamento della prospettiva della morte”: “anziché preoccuparsi della propria sorte, chiedersi come sarà, non per noi ma per gli altri”. Per le creature vegetali del giardino, ma non solo: che ne sarà della cagna Macchia? “I cani si trovano talmente indifesi, quando muore chi se ne prende cura. Non possono decidere nulla della loro vita. Non dico che agli umani non importi nulla della mia scomparsa, solo che non dipendono da me”.
Difficile non immaginare Macchia che cerca la sua padrona fra le aiole, come il “gatto in un appartamento vuoto” di Wisława Szymborska, disorientato – e indignato poi – dovendo constatare che “qui c’era qualcuno, c’era, / e poi d’un tratto è scomparso / e si ostina a non esserci.”
Ma chissà se è andata così: anche Macchia si sarà resa conto che tutto, lentamente, stava cambiando? Le sarà accaduto come al giardino che, pur tenuto all’oscuro di quel che stava capitando, “si è già abituato a vedere altri che se ne prendono cura”?
È difficile parlare di questo libro senza metterne in fila i passi che alla lettura ci sono sembrati rivelazioni: “cos’è curare un giardino se non un corpo a corpo, non tanto con la terra, ma contro il tempo che lo vorrebbe inghiottire?”, e la compassione che ci ispira non è dunque “compassione per la propria stessa fragilità”? È un libro da centellinare, a cui tornare, questo, che parlando dell’esperienza della malattia ci parla della vita. Della vita di tutti, e della sua finitudine. Con una forza che non nasconde la fragilità, la paura, il dolore di doversene andare e per dirlo, alla fine, prende a prestito – come per il titolo, che è un verso di Emily Dickinson – le parole di un altro poeta, Robert Louis Stevenson: “Ma non vi pare brutto / Col cielo così chiaro e azzurro, / Quando si vorrebbe tanto giocare, / Dovere andare a letto di giorno?”

Sì, viaggiare

Federico Pace, La libertà viaggia in treno, Laterza 2016, pp. 196, euro 15

È quello che si fa in treno, il viaggio vero, e non è sempre lo stesso: varia secondo la reazione esistente fra la città di partenza e quella d’arrivo, i paesaggi che si attraversano, il clima in cui ti trovi immerso.

Il treno è un mezzo ma è anche un luogo, un luogo da cui puoi osservarne – anche se fuggevolmente, proprio perché fuggevolmente? – altri in cui avresti potuto vivere, scambiar parole con persone che ordinariamente non avresti accostato, far cose che solitamente non ti permetti (star a guardare, semplicemente; accettare di parlare d’argomenti che non hai scelto tu; lasciar correre il pensiero): “il tempo vissuto sul treno non è solo il tempo del viaggio, ma è il tempo in cui ciascuno prova ad accedere a un se stesso che altrove non gli viene riconosciuto”.
Quel che puoi provare, nella sostanza, è un senso di libertà dal sapore inconfondibile (niente a che fare con quello assicurato dall’automobile, nonostante la possibilità che ti offre di fermarti dove decidi e modificare a tuo piacere il percorso): “il viaggio in treno non è mai solo il viaggio che si sta compiendo. Non è mai solo quel che sembra, ma sempre qualcosa di più”.
È quel qualcosa che sentiamo di non poter perdere, che ci ostiniamo a non voler credere per sempre compromesso dal disordine sciatto, dal sovraffollamento, dall’inaffidabilità degli orari dei treni locali (là dove continuano a esserci), così come, sui treni “a prenotazione obbligatoria”, dall’invadenza delle voci con cui i compagni di viaggio parlano – spesso a un volume che il cellulare non richiederebbe – con persone assenti, o di quelle registrate per diffondere slogan pubblicitari più che informazioni, traformandoci da viaggiatori in clienti.
Continuiamo a sperare che quel qualcosa che il viaggio in treno può darci non sia del tutto perduto, anche se a volte dubitiamo che l’esperienza che ne serbiamo sia solo un ricordo, o addirittura solo un’eco letteraria (ma è poi tanto diverso?). E allora conviene cercare conferme in libri come questo, usarlo magari come fosse una guida, e andare in giro per l’Europa a sincerarci che il viaggio in treno ci può dare ancora il meglio che sa dare: sulla Atene-Salonicco, la Porto-Lisbona, la Monaco-Berlino, ma anche sulla Ragusa-Siracusa o la Cagliari-Olbia.


Marco Aime, Sensi di viaggio, Ponte alle Grazie 2016, pp. 212, euro 13

Argomento classico, quasi inevitabile, dei dopocena fra amici: il prossimo viaggio, o l’ultimo che si è fatto. Viaggi raccontati, non di rado a base di immagini (sempre troppe, solitamente poveramente didascalizzate da un pleonastico “qui invece eravamo…”): nell’epoca in cui i viaggi in luoghi lontani (e parliamo dei viaggi fatti per scelta, e per il proprio piacere, beninteso) sono alla portata di molti – non di tutti – sembra darsi per scontato che viaggiare abbia senso, che lasciare i luoghi dove ordinariamente si vive porti beneficio. Ma c’è anche qualcuno che ascolta i racconti degli amici, ma di viaggi non ne fa. Potrebbe magari, ma preferisce di no: è a questo ideale interlocutore che sembra rivolgersi l’autore, tornando insistentemente a sostenere le ragioni del viaggo reale rispetto a quello mentale (supportato da discorsi, letture, film, documentari). Lui, un antropologo che di viaggi ne ha collezionati a bizzeffe, nei luoghi più remoti e meno turistici del mondo, sente di dover spiegare il perché. In molti modi, che sorprendono a volte: viaggiare per sentirsi “spaccato in due dalla solitudine e dalla voglia di solitudine”, ad esempio. Ma soprattutto: viaggiare per sentire, per dar materia su cui esercitarsi ai cinque sensi, e dunque per nutrire la mente: “Il viola malinconico delle Dolomiti quando il giorno le abbandona. I mille volti della sabbia del deserto, pronti a tradire la tua memoria a ogni battere di ciglia del sole. Era rosa quella duna, un attimo fa. Ora è gialla, ma basta distrarsi un attimo e diverrà grigia. Il dilatarsi tenero del cielo sulla savana, il rosso che rincorre il blu per poi cedere entrambi al silenzio della notte, nera come il cuore del papavero.
Quali occhi ha la mente? Come può vedere tutto questo? Può inventarlo? Sì, può, ma solo dopo averlo visto accadere.”

La lettrice scomparsa, di Fabio Stassi

Fabio Stassi, La lettrice scomparsa, Sellerio 2016, pp. 276, euro 14

Si era occupato dell’edizione italiana di Curarsi con i libri. Rimedi letterari per ogni malanno, di Berthoud e Elderkin (Sellerio 2013). Ora Fabio Stassi ci racconta, con un’ironia a tratti desolata, di un biblioterapeuta, uno che si è inventato un mestiere creando una nuova diramazione del grande albero della specie “psico”.

Mestiere che, peraltro, esercita senza troppa convinzione, da perdente qual è, o si sente (lui stesso, del resto, ha sempre sentito nel proprio nome, Vince, “la terza persona di un verbo che non lo riguardava”).
Ne vien fuori un romanzo pieno di letteratura, libri e scrittori, ma non privo di un intreccio enigmatico che ingegnosamente Vince saprà sciogliere. Anche se nel frattempo, invece di curarsi con tutti i libri che legge e consiglia, si ammala, di una malattia la cui sintomatologia può suonare vagamente inquietante per qualche “lettore (molto) forte”…

“Non c’era dubbio (…) mi ero ammalato di letteratura. Sapevo che si trattava di una malattia mortale, e incurabile. Si comincia analizzando ogni circostanza come se fosse la trama di un romanzo: se ne indagano i significati taciuti, i rimandi interni, le eventuali incongruenze (…) mettendo in relazione cose lontane, nel tempo e nei luoghi, e trovando un legame, per quanto sottile e prodigioso, finché ci si introduce alla spaventosa reticenza della realtà e alle sue ancora più spaventose dicerie e, in bilico, sul confine tra le cose certe e quelle impossibili, finalmente ci si prende la responsabilità di cambiarne la punteggiatura, di alterarne il movimento e di lasciarsi mollemente andare in un cinerama di ipotesi e di visioni, esausti e vinti dalle analogie e dalle corrispondenze, consegnati per sempre alla follia definitiva della letteratura e irrimediabilmente dimentichi della tangibilità del mondo e dell’esperienza.
Non sapevo più cosa avevo realmente vissuto e cosa soltanto letto.
(…) L’avventurami nel mio nuovo mestiere di biblioterapeuta aveva agito da fattore scatenante (…) Se anche fossi stato involontariamente di aiuto a qualcuno, l’attività che mi ero scelta nuoceva gravemente alla mia, di salute”.

Il tempo e il racconto

Daniele Del Giudice, I racconti, Einaudi 2016, pp. 248, euro 19

In quelle pagine il tempo si annullava, programmaticamente: “in continuità e in una sorta di simultaneità” si raccontavano spedizioni antartiche avvenute nel passato, una di pochi anni prima e un’altra solo immaginata. A “un guardiano del tempo” si paragonava Daniele Del Giudice nel 2009, quando pubblicò Orizzonte Mobile. Un libro che, una volta letto, rendeva difficile pensare che dopo ne avrebbe potuto scrivere un altro. Un romanzo definitivo, ultimo.

Non lo sapevo: in una recensione ai Racconti, pubblicati quest’anno, ho letto che Del Giudice non ha davvero più scritto nulla, dopo, e nulla può sapere di questa riproposta di suoi scritti. Perché ormai da parecchi anni una malattia l’ha reso “assente a se stesso”. Fuori dal tempo, mi è venuto da pensare. E allora è Mercanti del Tempo il primo racconto che ho letto: il protagonista – un ricercatore, che si occupa dei fenomeni di discontinuità – scopre che segretamente esiste un commercio del Tempo, perché da noi non ce n’è più, occorre importarlo da dove invece ne è rimasto in abbondanza, dal Marocco per esempio, ma occorre anche trattarlo, confezionarlo secondo le necessità e le richieste, e questo si fa in Norvegia, dove lui ne acquista un po’. Tentato dapprima di comprare quello che gli serve per finire il racconto, opta poi per la sua prima ora di vita: continua a essere lui ma è anche – in continuità – il neonato appena uscito dall'”animale lì vicino”, e non sa più “che cosa sia il tempo”.

Inevitabile leggere questo racconto alla luce di quel che si è appreso della sorte toccata allo scrittore. Questo e anche gli altri, i due inediti soprattutto. Quello dedicato al suo gatto, cui riserva uno sguardo che non può non ricordare i passaggi, divertiti e affettuosi, dedicati in Orizzonte mobile ai pinguini. E l’altro, Di legno e di tela, dove torna la passione di Del Giudice per il volo, e anche la solitudine di chi vi ha colto la bellezza d’un’“arte del fare” che è esercizio di esattezza, e si è ritrovato a vivere in un paese nel quale la “cultura aeronautica” è fin dall’inizio sprofondata nella retorica degli “audacissimi eroi, arditi violatori del cielo”.

Tempo dell’Appennino

Maria Rosaria Valentini, Magnifica, Sellerio 2016, pp. 274, euro 16

Una penna d’oro indispensabile per scrivere storie lasciata in dono da un figlio che se n’è andato, personaggi (femminili, quelli protagonisti) che sembrano sfumare l’uno nell’altro più che distinguersi in una sequenza. Ma non è questo che disorienta alle prime pagine: sono i luoghi.

La storia prende il passo che ti aspetti, ma ti fa entrare poco alla volta. I luoghi sembra non ti accolgano, all’inizio, e la lingua – con tutte quelle immagini, e metafore che più che ardite suonano a volte stralunate – sembra imporsi, occupare troppo lo spazio della narrazione. Poi, però, capisci che non bisogna dar troppo peso a questi svoli di parole, come agli abbellimenti in certa musica barocca, e allora il filo del racconto emerge, discretamente si fa seguire, e cominci a vederli, i luoghi. Ci entri poco alla volta: come accade quando ti addentri nell’Appennino. Non quando lo attraversi per andare altrove, correndo sull’autostrada, e lo puoi immaginare uguale alla montagna che conosci, all’Alpe. Quello che si fa avanti, se non vai via, se rallenti e percorri le sue strade, se ti fermi in qualcuno dei suoi paesi, è altro: è l’Appennino “appartato, remoto”, “distante da qualsiasi altra parte del mondo”, dove può capitare di trovarsi “a mezza montagna, in un orizzonte chiuso, circondati da cime più alte” dalle quali tuttavia si può “avvistare il mare, nei giorni più limpidi e fortunati”.
I luoghi sembrano prevalere, in questo romanzo, sulle persone che vi si muovono, e le stagioni sulle vicende. Il Tempo sembra essersi ritirato, come il prato davanti al bosco che riprende spazio. La Storia aver ceduto al mito, e alle sue cadenze di nascite e morti, amori e partenze.

Felicità senza desideri

Elena Varvello, La vita felice, Einaudi 2016, pp. 200, euro 18,50

Chiusa la fabbrica. Tutti a casa, senza lavoro. Ma per qualcuno non è solo la disoccupazione: è la vita che si disfa, fantasmi che sembravano sepolti e invece tornano a confondere la mente, a far immaginare la malignità del complotto dove c’è solo la crudeltà dell’economia.

Lui, un manutentore, non sa riannodare i fili di una quotidianità che moglie e figlio gli offrono, lei recitando il copione di una normalità ormai perduta negli incubi del marito, il ragazzo scontrandosi con l’indecifrabilità delle parole e dei comportamenti di un padre di cui sente il bisogno. Non diversamente dall’unico amico che ha trovato. È anche un romanzo di padri assenti, questo, e di madri che suppliscono con un amore totale, che resiste a smentite e delusioni: “non ne sapevo niente, allora, dei modi in cui l’amore può manifestarsi”, ricorda il sedicenne protagonista trent’anni dopo, quando ricostruisce quell’estate che ha cambiato la sua vita. L’estate nella quale la confusione paranoica del padre è precipitata nel rapimento di una ragazza, atto conclusivo di un progressivo deragliamento che in casa si è finto di non vedere, o meglio: ci si è sforzati di comprendere: “devi cercare di capirlo, – dice la madre al figlio. – Devi sforzarti. Ci sono persone che sentono le cose in modo diverso dagli altri. Tuo padre è uno di quelli.”
Quando ne leggiamo sui giornali, di fatti simili, è solo dell’epilogo che veniamo informati, della tragica conclusione di un percorso riassunto in uno scarno cenno alla salute mentale del soggetto in questione. Qui no, è il percorso che conta, e si fa seguire, una pagina dopo l’altra, sul filo del racconto del figlio e, contemporaneamente, nella cronaca in diretta del rapimento. Fino a che il cerchio si chiude: ciò che sapevamo fin dall’inizio è accaduto. Quel che resta è “il bene che, nonostante tutto, diamo e riceviamo”: non c’è altro. Non c’è altra felicità nella vita.

Il mestiere di pensare

George Steiner, Dieci (possibili) ragioni della tristezza del pensiero, Garzanti 2016, pp. 108, euro 11

Peter Bichsel diceva, in un piccolo libro (Il lettore, il narrare, Comma 22, 2012) che il solo fatto di sapere che la nostra vita ha un termine la colora di un’angoscia che “può essere tenuta a bada” ma non eliminata: “ciò che non scompare è la tristezza per questa finitudine. La tristezza non la si può vincere, può soltanto essere rifiutata o accettata”.

Tornano alla mente queste parole dello scrittore svizzero quando si passano in rassegna le brevi, fulminanti note di Steiner. Ma si badi: qui non è un pensiero, come quello della morte, a generare tristezza, ma il pensiero stesso. Per cui la tristezza non invade la vita a partire da quel che è inevitabile pensare, ma dal fatto di non poter non pensare. Allo stesso modo che non si può smettere di respirare. Anzi: il respiro lo possiamo trattenere, per qualche momento. Il pensiero no. Anche il “vuoto” cui aspira chi pratica la meditazione è in realtà un concetto. Un altro pensiero, insomma.
E il problema è che “il pensiero è rigorosamente inseparabile da una melanconia profonda, indistruttibile”. Perché? Per le dieci (possibili) ragioni, appunto, che ognuno dei dieci capitoletti che formano il libro chiariscono. Ogni lettore è libero di riconoscere quella che più gli sembra convincente. L’ottava per esempio: “impossibile sapere al di là di ogni dubbio che cosa stia pensando un altro essere umano (…) In ultima analisi, il pensiero ci rende estranei l’un l’altro. L’amore più intenso è una negoziazione, mai conclusiva, tra solitudini”. O la decima: “La padronanza del pensiero, della velocità perturbante del pensiero esalta l’uomo al di sopra di tutti gli altri esseri viventi. Ma lo lascia straniero a se stesso e all’enormità del mondo.”

Attenzione però: questa “tristezza”, questa condizione riassumibile nel fatto che “siamo stati creati, per così dire, rattristati”, “è anche creativa. L’esistenza umana, la vita dell’intelletto, significa un’esperienza di questa melanconia e la capacità di superarla”.
Come? Bichesel diceva che si raccontano, e si scrivono, storie proprio per fare i conti con la melanconia. Steiner non pare voler dare consigli. Offre “ragioni, appunto” e, se può consolare, ci assicura che nessuno, proprio nessuno sfugge alla fondamentale “pesantezza dell’animo” che il pensiero induce, perché “ciascun uomo, donna o bambino è un pensatore. Questo vale per un cretino come per Newton…”.

Come vivere in modo più confortevole, di Wisława Szymborska

Wisława Szymborska, Come vivere in modo più confortevole, Adelphi 2016, pp. 268, euro 14

“A Wisława Szymborska – ci informa il curatore – non interessava scrivere vere e proprie recensioni: da semplice «lettrice», infatti, non si sentiva obbligata a un incessante esercizio critico.” E allora, a prevalere è un confronto rapido, disinibito, con la materia e lo stile del libro che le è capitato fra le mani.

“Con il cuore stretto – ammette a seguito della lettura di un’opera, sia pur divulgativa, di fisica – ci accorgiamo che sterminate regioni del sapere contemporaneo sfuggono alla nostra comprensione. Ciò nonostante, in quel nostro cuore stretto coltiviamo l’antica ambizione a sapere tutto, sia pure a grandi linee.”
Non diversamente, quando si imbatte nel fisico in carne ed ossa deve riconoscere che “aveva genio, talento e attitudini.” Sennonché “il suo genio sono in grado di apprezzarlo soltanto gli specialisti. A noi, infelici profani, non resta che farci un’idea del suo talento e delle sue attitudini”: talento musicale e letterario, sicuramente, ma “per non affogarlo nella melassa, bisogna riconoscere che gli fecero difetto due attitudini: una alla politica, l’altra al matrimonio”. “Un misto di grande perspicacia e di ingenuità quasi infantile” nei giudizi politici di questo grand’uomo, che “si sposò due volte, ma sarebbe stato meglio se non l’avesse fatto”.
Ma non sono solo scienziati e letterati, storici e pittori che la poetessa incontro in queste sue letture, ci sono anche attori, come il nostro Mastroianni, che “riusciva a essere comico e struggente al tempo stesso”. Perché allora non immaginarlo in una parte che non ha mai recitato? “Un’idea folle: Mastroianni nel ruolo di James Bond. Avrebbe potuto venirne fuori un fiasco. O magari il film comico più divertente della stagione…”.
La riconosciamo in pagine come queste, Wisława Szymborska: la stessa ironia corrosiva, e sempre umanissima, che i suoi versi ci hanno reso familiare.

La normalità del male

Pierre Lemaitre, Tre giorni una vita, Mondadori 2016, pp. 228, euro 18

Non tutti conoscevano il bambino scomparso nel bosco, probabilmente assassinato, ma “la sensazione era che fosse il fratello minore di ogni ragazzino come era già diventato il figlio di ogni adulto”: immedesimazione con la vittima? solidarietà con i genitori?

No, solo il piacere inconfessabile di poter godere di un diversivo, di una rottura della monotonia della vita che si conduce a Beauval, una cittadina francese come tante, dell’eccitazione diffusa da voci che in men che non si dica si rivelano del tutto infondate: perché “le dicerie sono una salsa complicata, o viene o non viene”; dipende più dalla considerazione di cui è circondato chi le sparge che dal loro contenuto di verità. Quello che conta, nella cittadina, è poter “pregustare di ritrovarsi unita nel dolore”.
Ma il lettore lo sa, il nome del colpevole, fin dall’inizio: un altro bambino. Non un mostro. Un bambino che non voleva fare quel che ha fatto: è la sua, la voce narrante, è attraverso i suoi occhi che vediamo i fatti. La sua paura di essere scoperto, con i momenti bui della disperazione e le schiarite inaspettate quanto effimere di speranza, sono la costante che ci rende partecipi della vicenda e ci fa proseguire la lettura. E via via conosciamo gli altri personaggi, a partire dalla madre, “cresciuta e vissuta in una cittadina di vedute ristrette dove si osserva e si viene osservati nello stesso tempo, dove l’opinione degli altri è un peso schiacciante”.
Come in certi film, la storia è segnata da una cesura netta: gli anni sono passati, il protagonista ha fatto a tempo a diventar grande, senza che nulla sia trapelato: “ora che era adulto il carcere non lo spaventava più, il suo terrore era il clamore mediatico”, “tutti avrebbero adorato quel fatto di cronaca perché ognuno, in confronto a lui, si sarebbe sentito meravigliosamente normale”.
Sarà questo che accadrà? o nessuno mai scoprirà la verità e lui la farà franca? Né l’una né l’altra… Ma, giunti alla fine, si ha l’impressione che la verità, nella sua sostanza, si fosse già rivelata: in quella meravigliosa normalità.

Apocalittici e integrati 2.0

Filippo La Porta, Indaffarati, Bompiani 2016, 180 pp., euro 12

“Altro che sdraiati!” Anche La Porta basa il suo discorso sull’osservazione dei propri figli, ma a differenza di Serra (Gli sdraiati, Feltrinelli 2013) arriva a conclusioni diverse: “le nuove generazioni danno più peso all’esperienza che all’erudizione”, all’etica vissuta e non alle idee astratte”.

“Non sono per niente apatici e intellettualmente pigri. Casomai “indaffarati”, anche se leggono meno, molto meno di chi – come i loro genitori – appartengono “all’unica generazione nella storia umana che ha letto più dei padri e più dei figli”, ma non possono sfuggire al sospetto “che la lettura sia stata anche un surrogato dell’esistenza”. Al contrario, “i nostri figli, o meglio una parte di essi, provano a vivere alcune delle cose che la nostra generazione ha solo teorizzato”. E dunque sono indaffarati, apparentemente divaganti, in realtà tesi a distinguere quel che è davvero credibile (non solo ideologicamente coerente) nei discorsi e nelle azioni degli adulti.
Già lette cose del genere, viene da pensare. Ma qualcosa di nuovo c’è. Lontano dal lucido pessimismo di Raffaele Simone (La terza fase. Forme di sapere che stiamo perdendo, Laterza 2006), La Porta può semmai richiamare l’ottimismo provocatorio di Baricco (I barbari. Saggio sulla mutazione, Feltrinelli 2013), soprattutto quando se la prende con i “giovanologhi” e il loro moralismo (da Galimberti a Benasayag allo stesso Serra).
Eppure, c’è altro in queste pagine, che ha il sapore della constatazione onesta, dell’osservazione ineludibile, come quella sulla “segreta complicità tra lettori bulimici – che vanno ben oltre i lettori forti, beniamini degli editori e dei librai – e non lettori”, accomunati dal fatto che, pur in maniera opposta, “fuggono la lettura come qualcosa che può trasformarli e, entro certi limiti, disturbarli”. Campioni, purtroppo non isolati, di una cultura priva di relazione con l’esistenza. Come non essere d’accordo? E allora vale la pena di prenderlo per quello che è, e dichiara di essere, questo libro: “Un azzardo antropologico (che) contiene una ipotesi non disperante sul presente (e sul futuro)”, l’ipotesi che il legame con la tradizione culturale non sia irreversibilmente compromesso, ma esposto “a un oscuramento solo provvisorio”, affidato “a una trasmissione inedita, a una consegna spiazzante ma forse temporaneamente necessaria”.
Del resto, “la teoria di un continuo regresso può essere persuasivamente dimostrata almeno quanto la teoria speculare del progresso”, conclude La Porta.
E dunque, “fino a che punto non ci troviamo di fronte a due facce di uno stesso problema“? Ma questo non è La Porta, è Eco, quello di Apocalittici e integrati (1964). Un libro che, curiosamente, non compare nella bibliografia finale.

Altri tempi

Ermanno Cavazzoni, Gli eremiti del deserto, Quodlibet 2016, pp. 142, euro 14

Si possono mettere insieme “sette lezioni” ed enumerare quarantanove casi di scrittori inutili; si può scrivere una Guida agli animali fantastici, o una Storia naturale dei giganti: perché non le vite degli eremiti del deserto?

Una delle tante tentazioni cui Cavazzoni aveva del resto già ceduto venticinque anni fa quando ci aveva raccontato di quelle di Girolamo, ritiratosi “nel deserto siriaco portando con sé in eremitaggio tutta una biblioteca”, per poi rendersi conto “un bel giorno che queste letture, queste isole di paradiso, erano un’ulteriore tentazione…”.
E allora occorrono forse anche libri che non solletichino la nostra smania e avallino la nostra illusione di capire, il nostro desiderio di identificarci in personaggi che sono o ci piace credere migliori di noi: libri fatti per accettare con curiosità leggera la sterminata varietà delle vite che gli uomini possono vivere, e lasciare che un’ironia svagata semini il dubbio della loro sostanziale equivalenza.
Non sono dunque eroi questi eremiti: sono persone scrupolose, questo sì. Metodiche. Cocciute la loro parte. Un po’ fissate. E soprattutto amanti della solitudine. Favorite comunque – c’è da dire – dall’epoca (fra il terzo e il quinto secolo dopo Cristo): “un’epoca in cui questa fuga era possibile. Oggi un eremita non saprebbe più dove andare; non ci sono più luoghi senza proprietario e senza Stato che li controlli; un eremita oggi sarebbe soggetto al fisco”. Non correva questo rischio Antonio, sprofondato nel deserto più dimenticato, capace di resistere non solo quando il diavolo “si travestiva da donna e imitava una donna in tutti i modi possibili”, ma anche di restare insensibile al “ricordo dei soldi e della ricchezza”, alla “voglia di farsi notare e di mangiar bene”. E proprio per questo, si badi, “benvoluto da tutti”, ammirato e famoso… Già, era un’altra epoca.

La vita che si ha

Zeruja Shalev, Dolore, Feltrinelli 2016, pp. 288, euro 18

“Ad assordarle le orecchie non era stata la potenza dello scoppio, bensì un altro suono, più profondo e terribile: quello provocato dal repentino addio alla vita di decine di passeggeri sull’autobus, il lamento di madri che lasciavano degli orfani, l’urlo di ragazzine che non sarebbero mai diventate adulte (…) il gemito di membra amputate, gambe che non avrebbero mai più camminato, mani che non avrebbero mai più abbracciato…”.

Un attentato, a Gerusalemme, ha segnato la vita della protagonista, madre moglie lavoratrice che scopre, quando a distanza di anni rincontra l’uomo amato in gioventù, di essere sempre stata “asservita a un tiranno crudele, il passato che gettava la sua lunga ombra sulla sua vita”.

Dialoghi fitti, eventi inaspettati, paesaggi urbani disegnati con pochi tratti: il tutto filtrato dallo sguardo di lei, dai suoi pensieri, dall’andirivieni della sua memoria. E solo alla fine – non è uno di tanti romanzi, questo, la cui trama si sfilaccia nella seconda metà e chiedono al lettore di imporsi il dovere di arrivare in fondo – si rende conto di “essersi sempre rifiutata di dedicarsi” al presente. Lei, tanto attiva, sinceramente dedita agli altri, “ha cercato di dominarlo, con tutti i suoi progetti, mentre adesso il presente le dice: non sono l’eco dei ricordi passati, non sono il ponte per i progetti futuri, sono tutto quello che hai, la sostanza della tua esistenza, dammi fiducia perché non hai altra scelta”. E questa fiducia, Iris Eilam – incerta, combattuta – la dà: “il passato si è aperto, sente tutt’a un tratto, sarà l’occasione di aprire la caverna soffocante e maledetta del passato, e mescolarne il contenuto con il sole e il vento e le voci del presente?” Un’ occasione che alla protagonista – ma forse a tutti, e mai troppo tardi per esser raccolta – si rivela nella possibilità di “amare la propria vita per quello che ha e non per quello che non ha”.

Prediche utili

Salvatore Settis, Costituzione. Perché attuarla è meglio che cambiarla, Einaudi 2016, pp. 336, 19 euro

Libro utile, necessario. Utile in vista del referendum istituzionale di ottobre. Necessario indipendentemente da quello. Perché l’attacco alla Costituzione, il suo sistematico smantellamento non è cosa di oggi (il confronto – cui l’autore ci invita – tra la riforma Renzi-Boschi con il “piano di rinascita democratica” della P2 risulta a dir poco inquietante, quello con il progetto di revisione costituzionale di Berlusconi avvilente).

Viene da lontano e non ha di mira soltanto il cambiamento della natura e della funzione delle massime istituzioni: l’attacco è avvenuto e avviene su molti fronti, come gli articoli qui raccolti testimoniano e argomentano, dall’impostazione culturale e organizzativa della scuola alla tutela dei beni culturali, dalla gestione del territorio ai diritti dei lavoratori.

Non di oggi, e neanche soltanto scelta strategica del governo attuale: critiche e insofferenze, “aggiornamenti” letali e volontà demolitorie sono il frutto inevitabile di una generale progressiva soggezione della politica nei confronti dell’economia (quella finanziaria, non quella reale), della sudditanza (spacciata per decisionismo ed efficienza), dei governi nei confronti dei “mercati” e delle istituzioni sovranazionali, mondiali o europee che siano, che sfuggono a ogni logica di controllo democratico. E non si tratta di un’interpretazione tendenziosa: è una potente società finanziaria, la J.P. Morgan, a formulare – con riferimento agli stati della “periferia meridionale” – l’invito a modificare le costituzioni in modo da dare maggior potere ai governi rispetto ai parlamenti: giunge il 28 maggio 2013; di due settimane dopo è la presentazione della legge di riforma della Costituzione italiana in cui si sancisce l’inadeguatezza di quella vigente ad “affrontare le nuove sfide della competizione globale”.
Libro utile, necessario: per non confondere – quale che sia la scelta – il referendum cui saremo chiamati con un plebiscito sul capo del governo; per esser capaci di guardare oltre, di mantenere lo sguardo lungimirante (“presbite”, diceva Calamandrei) che ebbero i costituenti; per opporre alla disinformazione anemica dei telegiornali, e a quella premeditatamente sovreccitata dei talk show, una conoscenza simile a quella che favorirono le campagne di “alfabetizzazione costituzionale” che in Italia furono organizzate mentre si redigeva la Carta.

Il figlio del figlio, di Marco Balzano

Marco Balzano, Il figlio del figlio, Sellerio 2016, pp. 200, euro 13

Devono tornare giù, a Barletta, a vendere la loro casa, abbandonata da anni, da quando sono emigrati a cercar lavoro a Milano. E con loro, padre e figlio, decide di andare anche lui. Il figlio del figlio. Ormai diverso dal nonno e dal padre, e proprio per questo capace di vedere: la Storia, quella grande, nella vicenda della sua famiglia.

Una storia che starebbe tutta in una fotografia, se qualcuno l’avesse scattata: l’immagine di “tre uomini messi in riga a ricomporre il tempo”: “quello a sinistra si chiamava Leonardo. Era ancora analfabeta. È morto d’asma. Qui lo vedi seduto, ma in piedi era quasi uno e novanta. Grosso e forte come un guerriero. Era un contadino ma non aveva un pezzo di terra tutto suo, cosa che ha desiderato più di tutte. Si è fatto la seconda guerra in Sardegna, si è sorbito un bel po’ di fascismo da comunista ed è stato qualche settimana in prigione perché non ha mai preso la tessera. Il boom economico l’ha sbattuto a Milano insieme ai figli. Da contadino di pesche e ulivi è diventato operaio vicino alla Bovisa. Di fianco c’è Riccardo, il figlio. Anche lui è nato a Barletta, dove è rimasto fino a quindici anni. E’ venuto a Milano senza finire le superiori. Diplomato alle scuole serali, sposato e in un attimo padre. A vent’anni. Dicono che fosse molto taciturno. Era della generazione dopo la guerra. Pare che si trovasse bene a Milano e che non avesse più voglia di tornare a casa sua, che pure era sul mare. Faceva il perito chimico. L’ultimo, questo qui, è il figlio del figlio, Nicola. Il primo ad essere nato in ospedale. A essersi laureato. Non più un campagnolo inurbato, ma un insegnate di città. Un milanese…”

Una storia dura, ma lineare, una storia di emancipazione da secondo dopoguerra. La storia di una famiglia come tante. Ma intanto qualcos’altro è successo, qualcosa che la Storia non sembra saper registrare: “a tavola adesso si parla poco. Si commentano più che altro le notizie del telegiornale. (…) Mia madre sbuffa sempre, la pelle ancora chiara ma l’occhio vivace non si vede più. Non so se si sia spento alla fine della giovinezza o con le altre disillusioni che porta il tempo”.

Il tempo. E lì il problema. Lo sa il più vecchio, il nonno, che ha visto tutto e si è convinto che “è stato tutto troppo veloce per capirci qualcosa… e noi abbiamo dovuto essere vecchi e nuovi, e ci siamo ingarbugliati dentro”.

Favola nera dal vero

Claudio Morandini, Neve, cane, piede, Exòrma 2015, pp. 144, euro 13

La montagna, il bosco, la neve: Rigoni Stern, pensi all’inizio. Ma vai avanti, e il vecchio ti richiama un Rosso Malpelo sopravvissuto alle fatiche, e perché non un’altra figura di Verga, il Mazzarò della Roba? Ma neanche qui puoi dire di averlo capito, Adelmo Farandola.

Perché è vero che è tutto concentrato su di sé e sulle sue cose, ma i soldi che aveva se li è dimenticati in banca e non sa neanche più di averli, e quei pochi che tiene nella sua baracca sperduta sono solo il mezzo che gli permette di far provviste le rare volte che scende fino al paese. Per poi scordarsi, quando è alla bottega, di che cosa ci fosse andato a fare. Ma anche l’eco di un altro vecchio smemorato isolato fra le montagne, il signor Geiser dell’Uomo nell’Olocene di Frisch, si spegne presto: Adelmo non possiede alcun immaginario enciclopedico cui aggrapparsi per non perdere la memoria.
Però c’è il cane, un randagio che gli si è affezionato, e gli parla, dando voce a quel che di umano è rimasto in lui, soprattutto quando dalla valanga spunta un piede. Un piede umano. E qui il racconto si tinge di giallo: di chi è quel piede? Per un po’ crediamo di aver capito dove vuol andare a parare questo racconto. E invece no. Non è neanche un giallo alpino, questo racconto (ce ne sono: pur di scriverne, i giallisti sono arrivati anche in alta quota, vedi Faggiani e il suo forestale detective).
Tra i tanti echi di cui risuona e le molte tracce che semina e subito si perdono, Neve, cane, piede, alla fine si rivela una “storia vera”, a suo modo. Ce lo spiega l’autore, nella “Storia di una storia” con la quale in conclusione si è sentito in dovere di illuminare il lettore. E, si direbbe, giustificare anche di fronte a se stesso il fatto di aver immaginato questa favola pacata e feroce.

Spaesamento

Marco Revelli, Non ti riconosco più. Viaggio eretico nell’Italia che cambia, Einaudi maggio 2016, pp. 254, euro 20

“Prati incolti, trincee scavate come per una guerra abbandonata o forse solo sospesa”: “un deserto dei tartari nel bel mezzo del Nord intasati e asfissiato dal traffico”. E’ la BreBeMi: passa anche da noi il “viaggio eretico” di Revelli.

Le auto che riesce a contare fra Brescia e la Milano dell’Expo, sono settantasei, e “nei bar di Rudiano o Travagliato proliferano le leggende parametropolitane più fantasiose, dell’industrialotto che prima di cena celebra il rito della corsa in Ferrari sulla pista libera come fosse a Monza”. Ma la grande opera che l’Expo sembrava esigere è solo una delle occasioni per fare tappa lungo un itinerario che da Torino (“città promessa, città perduta”) arriva là, a Lampedusa, “il luogo geometrico in cui s’incontrano e si scontrano l’immensa ondata della speranza che si fa illusione e la dura risacca dell’avarizia che vira in ferocia”. Più che mai in questo libro la scrittura del politologo, dello storico, si fa letteraria: perché il suo proprio sentire è il documento più significativo che porta, la sensazione che prova di fronte alle cose che vede. Quella che cerca è la possibilità di esprimere in prima persona – «in soggettiva», per così dire – la dimensione della trasformazione che il nostro Paese ha subito in questo passaggio di secolo. O, più banalmente, un motivo (una misura?) del senso di straniamento. E, se possibile, un’uscita di sicurezza…”.
Quello che accade leggendo il bilancio di questo viaggio è un’impressione inquietante di condivisione di quel che prova l’autore: “la sgradevole sensazione che si appiccica addosso quando ci si trova a misurare l’irriconoscibilità dell’immediata prossimità. E di se stessi.” E non occorre un viaggio, del resto: si “Devo ammetterlo. Ho cominciato a perdermi nella mia città. O meglio, a non ritrovarmi.”
Eppure… Eppure, “non esco prostrato dal mio «non riconoscere» (…) Vedo piuttosto nell’irriconoscibilità del nostro presente l’occasione di una «sorta di smascheramento»”. Perché c’è verità nelle “travi rugginose, nelle finestre spente dei capannoni dismessi, nell’erba incolta dei vuoti industriali”.
E’ forse per questo che non finiscono di chiamarci, di chiederci di averli a cuore, di partire da loro per immaginare il futuro di una città nella quale tornare a riconoscerci?

Marco Revelli spiega perché voterà “no” al referendum sulla riforma costituzionale Boschi, Alba (CN, Italia), sala riunioni dell’hotel Savona

Un maestro senza terra

Britta Böhler, La decisione, Guanda, maggio 2016, pp. 208, euro 15

Tra il venerdì e la domenica mattina, dal 31 gennaio al 2 febbraio del 1936. Ci vogliono tre giorni, a Thomas Mann, per prendere la decisione, o meglio: per decidere di non far marcia indietro rispetto alla decisione presa quando ha portato alla redazione del maggiore giornale di Zurigo la lettera che segnerà per lui la rottura definitiva, irreversibile con la Germania ormai precipitata nel baratro nazista.

L’ha portata ma ha poi chiesto che si attendesse a pubblicarla. Ci deve pensare.
È al sicuro, ma in esilio, nella città svizzera: in Germania non tornerà mai più. Sta scrivendo la terza parte di Giuseppe e i suoi fratelli: anche Giuseppe è un reietto, “costretto a trovare una nuova casa in un paese straniero”. Ma per Mann non si tratta solo di spaesamento: per lui la rottura con il proprio paese rischia di tradursi nell’impossibilità di continuare a scrivere. Un bivio drammatico per chi è sempre stato convinto che tra la vita e la scrittura si debba scegliere e su questa convinzione ha fondato il suo lavoro quotidiano (avendo sperimentato come “si riesca a capire qualcosa di sé solo quando si scrive. I periodi in mezzo – tra un libro e l’altro – sono terribili”).
Viene da qui la tentazione di ritirare la lettera. Non semplice prudenza, ma ritorno di un pensiero radicato nel profondo: “uno scrittore deve creare, non agire”. La politica non fa per lui. Ma è anche vero che “chi non si oppone è complice”, glielo ricorda la figlia Erika, e del resto lui è diverso da Hesse, cittadino svizzero da anni, senza nostalgie per la patria. Ma lui no: lui è uno “scrittore tedesco”. Se non scrive per la Germania, se non scrive per quelli da cui soprattutto si aspetta il riconoscimento che motiva la sua scrittura, perché scrivere? “Che cosa gliene importa, di avere lettori in America e in Cecoslovacchia, in Spagna e in Giappone, se i suoi libri non possono più essere pubblicati in Germania?”.
Tra un the e una passeggiata con il cane Toby, un sigaro e una parola affettuosa della moglie Katja (quando potremo leggere i Diari di Mann in traduzione italiana?), lo scrittore comprende finalmente qual è la sua vera posizione. La Germania di cui è fatto, della quale non può fare a meno, non “è più lì dove il paese si trova geograficamente”: “dove sono io, lì è la Germania”.
Non resta che telefonare al giornale: la lettera sarà pubblicata. Non è una decisione imposta, e neanche autoimposta: è stata faticosamente guadagnata, costruita, passando attraverso riflessioni e bilanci che sono andati oltre le circostanze, non aggirando quesiti che stanno alla radice della scrittura: perché, e per chi, lavora uno scrittore? può scrivere senza un mandato sociale? può continuare a farlo senza che gliene venga un riconoscimento?

Inevitabile cercare risposte a domande simili, quanto impossibile trovarne. La soluzione, se mai, sembra star nell’ammettere un’oscillazione, un’ambivalenza insita nella figura sociale dello scrittore, nella pratica stessa del suo lavoro: “Omaggi e lauree ad honorem in fondo se li era guadagnati, ed era contento quando gli venivano tributati”, “sì, quel genere di cose lo rendeva felice, anche se spesso avrebbe preferito condurre una vita in silenzio e solitudine. Ah, nel mio petto – lo deve riconoscere– convivono due anime.” Eppure la sua scelta non può essere quella di Hesse, quella di “essere al tempo stesso dentro e fuori”: i tempi non lo rendono possibile. Ma lo scrivere sì, lo esige: senza la giusta distanza, non si scrive, o non si scrive niente di buono. E la distanza fra la Germania perduta nei meandri della follia nazista e quella che la “nobiltà dello spirito” può preservare si rivela alla fine in grado di rappresentare questa distanza essenziale. La scrittura è ancora possibile. Anzi: è necessaria.