Il Nord e il Sud di ogni scrittore

Ian McEwan, Lo spazio dell’immaginazione. Riflessioni sul saggio di George Orwell Nel ventre della balena, Einaudi 2022, (pp. 48, euro 12)

Un’altra prova, questo piccolo libro, di che cosa ci riservano i grandi scrittori – lo abbiamo verificato ad esempio leggendo i saggi critici di Gianni Celati, in queste note a fine marzo 2020 – quando parlano, come Calvino sapeva fare da mestro, dei libri degli altri.
Quelli di Henry Miller e George Orwell, nel caso di McEwan.
“Nonostante una buona dose di reciproca ammirazione, i due autori non pensavano allo stesso modo su molte cose”. Il bohémien pessimista e edonista “nutriva un profondo disprezzo per la politica e ogni genere di militanza”: “era, per usare la definizione di Orwell, “nel ventre della balena”, “con metri di grasso” che mettono al sicuro dal mondo, una condizione dalla quale l’inglese era “uscito da un pezzo” impegnandosi “nella causa antifascista [in Spagna] e nella lotta contro l’ingiustizia sociale nel suo Paese”.
Nel loro incontro, nel dicembre 1936, a Parigi, Orwell si dichiara convinto che “libertà e democrazia garantivano l’indipendenza dell’artista – compresa quella di Miller”. Questi, convinto che “la civiltà moderna fosse agli sgoccioli”, riteneva considerazioni del genere solo “fesserie”. Eppure i due si stimano, e Miller regala a Orwell, in partenza per la Spagna, una giacca. Quasi un anticipato contraccambio della tesi che quattro anni dopo l’autore di Omaggio alla Catalogna avrebbe espresso: “a Miller doveva essere riconosciuto il diritto di rifiutare, come artista, l’impegno politico”.

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Ogni cosa ha la sua fine, niente è per sempre

Kader Abdolah, Il faraone d’Olanda, Iperborea 2022 (pp. 288, euro 17,50)

La narrazione procede con il passo dei due anziani personaggi, un professore e un operaio. Il primo è un insigne egittologo olandese che dopo aver indagato per una vita sul lontano passato ha perso la memoria, ma non del tutto: non ricorda il proprio nome ma lo pseudonimo che aveva adottato; durante le sue quotidiane uscite non di rado si perde e dev’essere riportato a casa, ma non ha dimenticato nulla di ciò che riguarda la mummia che, non saprebbe dire come portata con sé dagli scavi in Egitto, conserva nella propria cantina; stenta a riconoscere anche le persone va lui vicine ma ha mantenuto l’ormai antica consuetudine con l’operaio – ecco il secondo personaggio, vero protagonista del romanzo – che gli aveva molti anni prima portato a casa una lavatrice, uno dei tanti gastarbeiter emigrato dalla terra delle piramidi in Olanda, il quale, rispolverando un’abilità acquisita nell’infanzia, ha negli anni dipinto i muri della cantina dello studioso facendone una perfetta imitazione d’una tomba faraonica.

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La non appartenenza dell’intellettuale pubblico

Tomaso Montanari, Cassandra è ancora muta, Edizioni Gruppo Abele 2022 (pp. 176, euro 14)

“Un libro dedicato al silenzio del pensiero critico nell’Italia di oggi”. La quale non è cambiata da quando è stato pubblicato la prima volta, per vedere adesso, a cinque anni di distanza, questa nuova edizione. Anzi: la pandemia e poi la guerra lo hanno zittito ulteriormente, com’era accaduto a Cassandra, condannata a vedere il futuro senza mai essere creduta. Come accade all’“intellettuale pubblico”, studioso che accumula conoscenza ma “vuole rimanere nel mondo, e condividere quella conoscenza con tutti”, senza rinchiudersi nella visione ristretta e alla comunicazione circoscritta cui costringerebbe la specializzazione, accettando piuttosto la non appartenenza, la “solitudine di chi dice la verità”. Se affermazioni del genere possono destare il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo capitolo dell’eterno “dibattito tra intellettuali sugli intellettuali”, come diceva Norberto Bobbio, è dallo stesso che Montanari trae la sua “bussola”: “il primo compito degli intellettuali – scriveva infatti Bobbio – dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità”.

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La nuova bussola del mondo, finanziaria e tecnologica

Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi, il Mulino 2022 (pp. 172, euro14)

Un libro che vuole “dare conto di una doppia dinamica avvenuta negli ultimi decenni del ’900: un trasloco e una metamorfosi del potere”, l’affermarsi di poteri nuovi che oggi governano il mondo. E questo proprio mentre la guerra in Ucraina “si presenta come una forma di violenta irruzione, proprio nel cuore dell’Europa, del potere nella sua forma più arretrata”, tale da minacciare “la narrazione di un mondo interconnesso e pacificato” nel segno della globalizzazione. “Saranno i prossimi mesi e i prossimi anni – riconosce limpidamente l’autrice nella premessa – a stabilire quanto reggano le coordinate adottate in questo libro”. Tra le quali una constatazione fondamentale: lo “scivolamento [del potere] – dagli anni ’80, “in un mondo che mancava di infrastrutture fisiche e giuridiche per far funzionare un’economia globalizzata” – verso il privato e la coincidenza con forme finanziarie e tecnologiche.

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Una specie incapace di imparare dai propri errori

W.G. Sebald, Tessiture di sogno, Adelphi 2022 (pp. 243, euro 19)

“L’inconfondibile figura del viandante solitario che si guarda d’attorno”: Sebald pensava a uno scrittore con il quale si è per molti versi identificato, Robert Walser, quando scrisse – in Soggiorno in una casa di campagna – che era la sua immagine a tornargli alla mente appena sospendeva per un attimo il suo lavoro quotidiano, ed è appunto la figura del viandante che ci conduce, nella prima parte di questo libro, a visitare luoghi, come sempre nei viaggi di Sebald fuorimano, della Corsica. Luoghi scelti per la rispondenza con il proprio stato d’animo, in questo caso la “sensazione di essere libero e senza legami”, “senz’altra occupazione sino alla fine della vita se non lo studio del tempo: del tempo passato e di quello che passa”: un definizione sintetica del tema, della ragione stessa, della scrittura di un autore che del tempo – nella duplice accezione segnalata – , della memoria e della storia, dell’osservazione disincantata e critica di ciò che si definisce contemporaneo ha fatto lo scopo del proprio lavoro.

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L’incerto confine tra gli animali e gli uomini

Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio 2022 (pp. 248, euro 16)

Vivono in tane arredate come appartamenti, cucinano, allevano galline e coltivano l’orto, parlano e, in alcuni casi, scrivono. Ma non sono gli animali del tutto umanizzati di Disney, né sono – come nella Favola selvaggia di Filelfo – portatori di una saggezza che gli uomini dell’Antropocene hanno perduto. E neanche, pur essendo caratterizzati secondo i clichés tradizionali – a partire dalla volpe, che non può che essere la più furba – sono ridotti a rappresentanti delle doti e dei vizi degli uomini. Zannoni non è Fedro. I suoi animali restano animali e il gusto della narrazione prevale su ogni possibile morale della favola. Che pure non manca, ma resta ancorata a una domanda che, per quanto non esplicitata, percorre il romanzo e riguarda la pretesa certezza che un confine netto distingua gli animali dagli uomini. Sono numerosi gli episodi nei quali il protagonista – Archy, una faina – si pone la questione. Quando, per esempio, non acconsente alla proposta del fratello maggiore di rispondere alla loro disperata fame divorando il più piccolo e debole di loro e ne deve quindi trarre una prima, decisiva conclusione: “Da lì cominciai a capire che fra me e Leroy c’era una leggera, orribile differenza: era più animale di me”.

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Quel nodo saldissimo fra soldati e operai

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi 2022 (pp. 889, euro 28)

Non credo sia capitato solo a me di rimandare la lettura di questo romanzo, una volta che me lo sono trovato fra le mani: inondati come siamo da mesi di notizie sulla guerra in Ucraina, l’idea di ritrovare in un libro altri racconti di violenza e distruzione e persino nomi di luoghi, di città e di oblast, come abbiamo imparato a dire, che la cronaca ci ha reso quasi familiari, mi ha consigliato di posticipare l’impresa. Perché di un’impresa si tratta: se non si è lettori di fantasy, non capita spesso di cimentarsi con opere di questa mole. Sono però bastati un assaggio, poche pagine, e la renitenza è caduta: non è semplicemente la storia a sgombrare da subito il campo dalla cronaca, ma la letteratura. Quella che sa restituirci con immediatezza le figure dei personaggi che, come si dice, la storia l’han fatta: Hitler e Mussolini, dunque, che si incontrano a Salisburgo a fine aprile, nel 1942, e il primo annuncia al collega “l’ultimo, decisivo attacco all’Unione Sovietica”.

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Due donne, un lungo duello, un’amicizia profonda

Magda Szabó, La porta, Einaudi 2022 (pp. 266, euro 17)

Due protagoniste e due comprimari. In primo piano, due donne, una scrittrice e una donna di servizio; sulla scena, al loro fianco, il marito della prima (anche lui scrittore) e un cane, raccolto dalla strada, che appartiene alla scrittrice ma riconosce come sua padrona, amandola di un amore incondizionato, la domestica. La storia si svolge nell’arco dei vent’anni trascorsi dal momento in cui Emerenc ha cominciato – dopo avere, lei, raccolto referenze sui potenziali datori di lavoro – a occuparsi della loro casa, presentandosi come una “vecchia fuori dagli schemi”, ruvida, spesso scostante, taciturna, ma grande lavoratrice, capace di gesti di attenzione che le hanno assicurato il rispetto dell’intero quartiere in diverse case del quale esercita la sua professione. Rispetto e simpatia, anche se nessuno ha mai potuto entrare nella sua casa, la cui porta resta rigorosamente chiusa, invalicabile.

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Raccontare l’Antropocene

Racconti del pianeta Terra, a cura di Niccolò Scaffai, Einaudi 2022 (pp. 318, euro 21)

Ormai è una constatazione assodata e diffusa (non a caso ricorrente anche in queste note, delle quali converrà perciò richiamare solo quelle essenziali): sappiamo molto, sempre di più, degli effetti della crisi ambientale, del riscaldamento climatico in particolare, ma continuiamo a comportarci come se non sapessimo. O meglio, “Sappiamo che stiamo scegliendo la nostra stessa fine: solo che non riusciamo a crederci”, scrive Safran Foer (in queste note nel dicembre 2019), per cui si può ben dire che “ È enorme la cosa che sta accadendo, ma lo è anche ciò che non sta accadendo”, come fa Carla Benedetti (in queste note nel giugno 2021).

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Di che cosa parliamo quando parliamo di consolazione

Delphine Horvilleur, Piccolo trattata di consolazione. Vivere con i nostri morti, Einaudi 2022 (pp. 160, euro 16,50)

Ci sono parole che, pur facendo ancora parte del lessico comune, ne sembrano tendenzialmente relegate ai margini, non solo perché usate più raramente che in passato ma anche perché il ricorso ad esse appare sempre più cristallizzato in formule che ne impoveriscono il senso. La “consolazione” è spesso ben magra, se non addirittura amara, tanto da qualificare il premio che non ci si augura di ricevere, mentre suona vagamente ipocrita, e non a caso capita sia citata ironicamente, la rassicurazione che i parenti – sempre meno frequentemente, c’è da dire – inscrivono nel necrologio o vogliono incisa sulla lapide dichiarandosi inconsolabili.

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Uomini oscuri a sé stessi

Paola Castriota, Fascisti 70. Storie di vite estreme, Liberedizioni 2022 (pp. 168, euro 15)

Attenendosi al precetto della buona scrittura narrativa – non dire, ma far vedere –, in consonanza con la sua esperienza di autrice di documentari d’inchiesta, come quello dedicato alla strage di piazza della Loggia, Paola Castriota ci introduce a ciascuna delle storie di cui è fatto questo libro dandoci i riferimenti del tempo e del luogo nel quale si produce l’evento culmine, quello cui sembra essersi indirizzata la traiettoria esistenziale del protagonista. La conclusione si annuncia già all’inizio, stagliandosi sull’ordinarietà del contesto, staccando dalla quotidianità che lo connota. La morte, inattesa sempre e pure contaminata – quando non è la propria, o quella di chi ci è caro – dalla banalità degli accadimenti prevedibili e inevitabili, assume in queste storie il senso di un approdo fatale, lentamente maturato in giorni vissuti all’insegna di un’estraneità sostanziale, se non addirittura di una sorda opposizione, alla vita. Nel viluppo di pensieri e parole, atti e relazioni nel quale la vita di fatto consiste, l’originaria, mitica unicità che i protagonisti si sono persuasi di sentir pulsare nel profondo di sé stessi sembra infatti correre il rischio di disperdersi nella pluralità delle esistenze ai loro occhi omologate, insensate e moralmente corrotte della gente comune, nelle vite mancate che i più si rassegnano a condurre.

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Un senso nuovo della caducità

Bruno Latour, Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, Einaudi 2022 (pp. 180, euro 15)

Il filosofo prosegue la sua riflessione – rintracciabile in saggi come Tracciare la rotta, in queste note nel settembre 2018 – alla luce del confinamento che abbiamo conosciuto durante la pandemia. Non perché sia convinto che quell’esperienza ci abbia reso finalmente consapevoli della nostra situazione, ma perché in essa siamo stati costretti, al di là della consapevolezza conservatane, a fare una “specie di prova generale” di quello che ci aspetta ma che – anche se di fatto negazionisti, sia pure in quella forma di “quietismo ambientale” che ci accomuna – già ora ci sgomenta: di fronte a un bel paesaggio, ascoltando il fruscio degli alberi, non possiamo non avvertire l’inquietudine suscitata da un senso nuovo della caducità. Una caducità non inevitabile, connessa alla condizione di tutto quanto è nato, ma derivante dalle nostre azioni: “se ti senti così a disagio a guardare gli alberi, il vento, la pioggia, la siccità, il mare, i fiumi – e naturalmente le farfalle e le api – è perché ti senti responsabile, sì, in fondo colpevole di non lottare contro quelli che li distruggono”. Opponi resistenza, ma una resistenza sempre più precaria alla coscienza che tutto è cambiato, che “una metamorfosi c’è stata e non pare proprio che al risveglio da questo incubo torneremo indietro”: la pandemia è solo uno dei molti segni di una metamorfosi radicale, simile a quella vissuta dal Gregor Samsa di Kafka, che si riaffaccia in molte di queste pagine a ricordarci il carattere inedito del cambiamento ormai in corso, una metamorfosi che lui solo, non i suoi familiari, comprende.

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L’anno più caldo di sempre

Richard Flanagan, Il vivo mare dei sogni a occhi aperti, Bompiani 2022 (pp. 245, euro 18)

“(…) stava per finire l’anno più caldo di sempre”: incendi durati mesi, intere zone evacuate e divenute inabitabili, città soffocate dal fumo e a rischio di rimanere senz’acqua; incertezza – su quanto avvenuto, su quanto potrebbe avvenire – resa con l’immediatezza di un pensiero disorientato e angosciato che cerca di inquadrare la situazione. L’esperienza vissuta nell’estate di quest’anno avvicina il racconto di quella del 2019 in Australia, che l’autore inquadra nel più generale sconvolgimento indotto dal cambiamento climatico costellando la sua narrazione di riferimenti alla dimensione planetaria del fenomeno: “(…) intanto metà della calotta glaciale della Groenlandia si scioglieva, in Francia si registrava il giorno più caldo di sempre, un piccolo topo marsupiale australiano era la prima specie a essere spazzata via dal cambiamento climatico e gli ultimi rinoceronti di Sumatra morivano”.

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La città dei ‘desombrati’

Piero Bevilacqua, La città delle ombre perdute, Castelvecchi 2022 (pp. 158, euro 17,50)

Fa pensare a quei romanzi in cui succede qualcosa, non si sa cosa il più delle volte, per cui la gente smette di morire. Una ragione di felicità, all’inizio. Poi cominciano i guai: nell’isola di Luggnagg, Swift fa incontrare al suo Gulliver esseri che non muoiono ma non smettono di invecchiare: una condanna; Borges ritiene, nell’Immortale, che essere esenti dalla morte si risolva nel non essere nessuno, in un non essere, in definitiva; il Saramago delle Intermittenze della morte si diverte a raccontare con la sua ironia impareggiabile le conseguenze economiche e sociali della sparizione della morte, e il tema non ha smesso di fornire lo spunto. Per restare al vicino, Gianmaria Parrotta, ci si è esercitato con Immortali (Bartha 2021). Che cos’hanno in comune, al di là del loro valore letterario e filosofico, questi racconti? Il fatto che l’immortalità, da tutti alla fin fine giudicata una sciagura, dà il la a una serie di vicende e di considerazioni che si susseguono come rispondendo alla domanda implicita: che cosa succederebbe se…?

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Fiuto da sbirro e renitenza indisciplinata

Massimo Tedeschi, Il giardino dei cedri. Una nuova indagine del commissario Sartori, La nave di Teseo 2022 (pp. 207, euro 17)

Uno scrittore il cui “immaginario si colloca sulle sponde del lago e racconta una provincia fatta di personaggi comuni e nel contempo esemplari”, nel bene e nel male – come i “fascisti da operetta” che non mancano nei suoi romanzi, vista l’epoca in cui si svolgono. Sembrano parole pertinenti per richiamare la figura dell’autore bresciano, e invece – cambia il lago, quello di Como al posto del Garda – e trovi Andrea Vitali, così come ce lo restituisce il sintetico profilo che in internet se ne può leggere. Ma il parallelo si ferma qui, o comunque approfondirlo è fuori dalla portata di questa nota sull’ultima indagine del commissario creato nel 2016 da Massimo Tedeschi. Le analogie non mancano, e del resto Italico (Italo) Sartori è solo alla sua quinta prova: avrà modo di conquistare – soprattutto da quando le sue storie ci raggiungono nella veste conferitagli da un editore di prestigio e vasta diffusione – schiere di lettori oltre quelle che già si possono dire affezionate al personaggio, ai luoghi, alla grana di storie dall’intreccio sempre coinvolgente (e lineare, il che non è di tutti i polizieschi).

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L’ecologia e il sentimento di esistere

Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B 2021 (pp. 204, euro 16)

“La complicata questione di come le società industriali possano aumentare la produzione di energia (…) è uno spreco di tempo se l’aumento dell’energia è inutile in relazione ai fini ultimi”. Che è come dire: discutiamo pure di come far fronte alla minaccia che le forniture di gas crollino, oppure della tassonomia europea delle fonti da ritenere compatibili con la lotta alla crisi climatica, ma la questione vera è che cosa se ne fa dell’energia stessa. L’”ecologia profonda” si riassume in prese di posizione come questa: se è tale davvero, il discorso ecologico non può non mettere in discussione l’assetto generale del sistema in cui, di cui viviamo, e, a monte, il pensiero che più o meno esplicitamente lo sostiene.

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Non basta dire Buddenbrook

Gabriele Tergit, Gli Effinger. Una saga berlinese, Einaudi 2022 (pp. 914, euro 24)

La storia della Germania dal 1878 al 1948, da Bismarck a Hitler, attraverso quella di una famiglia ebraica, o meglio, di due – oltre agli Effinger, i Goldschmidt-Opner –, le cui vicende si susseguono incrociandosi per oltre 900 pagine e non è certo il caso di ripercorrere in una breve nota. Quattro generazioni, un profluvio di personaggi opportunamente mappati nei due alberi genealogici che precedono il testo.
Inevitabilmente paragonato al primo grande romanzo di Thomas Mann (tanto da poter essere definito “i Buddenbrook ebraici”) per il suo contenuto e i temi trattati ma anche perché là dove termina il romanzo di Mann, nel 1877, inizia quello di Tergit, uscito cinquant’anni dopo, prodotto di un lavoro di scrittura e riscrittura durato un ventennio, trascorso in esilio per sfuggire alle persecuzioni naziste.

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Vite vissute

Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, Rizzoli 2021 (pp. 240, euro 18)

Certo, sempre di libri si tratta, ma metterli a confronto non ne rivela tanto il contrasto quanto un’eterogeneità così pronunciata da farne oggetti fra loro estranei, imparagonabili perché appartenenti a universi differenti, solo per comodità, e pigrizia, definibili come il vecchio e il nuovo. Eppure, il romanzo di Piersanti è stato tra i finalisti dello Strega 2022 insieme ai romanzi di Veronica Raimo (Niente di vero) e di Mario Desiati (Spatriati), il vincitore.

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Ascoltare l’abbandono

Mario Ferraguti, La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio, Ediciclo Editore 2016

“Le case si capisce subito che sono abbandonate quando sembrano finalmente stare bene con tutto quello che c’è intorno”, ma c’è voluto del tempo. Prima erano case disabitate, che non è la stessa cosa. Quelle disabitate sono tristi, “sembrano soltanto case vuote in attesa di un ritorno”.
Fatta questa distinzione fondamentale – di tempi, non di tipologie – e individuato l’Appennino come terra nella quale l’incontro con l’abbandono è, purtroppo, assicurato, si tratta di guardare a sé stessi, quello che accade quando si varca la porta, o quel che ne resta, di una casa abbandonata, attirati e intimiditi allo stesso tempo dal suo silenzio, dal “senso di soggezione di chi entra a disturbare”. Perché è vero che non c’è più nessuno, nessuna presenza umana, ma nella casa ci sono le cose, “piene degli sguardi di chi ci ha abitato”, ci è nato, ci è morto… Loro, le cose, sono lì, “ferme ad aspettare niente; perché è solo nostra l’attesa, è solo nostro il dividere il tempo, l’aspettarlo o il rimpiangerlo. Alle case e alle cose basta restare ferme, è solo nostra l’ansia del passare del tempo”.

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Genio e dissipazione

Giorgio Fontana, Il Mago di Riga, Sellerio 2022 (pp. 126, euro 13)

C’è chi gioca a scacchi e chi no. I secondi, di cui faccio parte, si accostano con una certa diffidenza al nuovo romanzo di Fontana (non sarà una lettura per scacchisti?). Ma Fontana è quello di Un solo paradiso (che abbiamo letto alla fine del 2016) e di Prima di noi (in queste note nel maggio del 2020), e dunque… E poi, c’è anche il fatto che non si contano i grandi uomini appassionati di scacchi. Lenin, per esempio: lo si vede, in quella fotografia famosa del 1908, che gioca – tranquillo, forse sta perfino sbadigliando – con il compagno Bogdanov sotto gli occhi dell’amico Gor’kij. Sì, però – sostiene qualcuno – ha poi smesso, a Zurigo: s’è accorto che gli scacchi lo prendevano troppo, rischiavano di distoglierlo dal suo lavoro di rivoluzionario professionale. Mah…

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Un poliziesco che intriga e diverte, ma non si conclude

Marco Denevi, Rosaura alle dieci, Sellerio 2022 (pp. 314, euro 10)

Camilo Canegato è un uomo comune, vicino alla mezza età, più restauratore di quadri che pittore, uno di quelli che ci si dimentica subito d’aver visto, e timido per giunta, patologicamente timido e introverso. Per un tipo del genere, il rapporto con gli altri ha sempre un che di traumatico, soprattutto se sono invadenti come la padrona della pensione presso la quale ha preso domicilio dopo la morte del padre. Doña Milagros è una di quelle persone che si sono convinte di conoscere il mondo, di sapere come vanno le cose, e perciò contano di capire fino in fondo ed essere legittimate a giudicare gli altri, ma non sono per questo appagate e autonome: degli altri hanno bisogno, come bestie affamate del cibo. E dunque, essendosi fatta un’idea di loro e dei loro problemi che non può che essere quella giusta, li perseguitano con i loro consigli, le loro critiche, i loro incoraggiamenti.

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