Di che cosa parliamo quando parliamo di consolazione

Delphine Horvilleur, Piccolo trattata di consolazione. Vivere con i nostri morti, Einaudi 2022 (pp. 160, euro 16,50)

Ci sono parole che, pur facendo ancora parte del lessico comune, ne sembrano tendenzialmente relegate ai margini, non solo perché usate più raramente che in passato ma anche perché il ricorso ad esse appare sempre più cristallizzato in formule che ne impoveriscono il senso. La “consolazione” è spesso ben magra, se non addirittura amara, tanto da qualificare il premio che non ci si augura di ricevere, mentre suona vagamente ipocrita, e non a caso capita sia citata ironicamente, la rassicurazione che i parenti – sempre meno frequentemente, c’è da dire – inscrivono nel necrologio o vogliono incisa sulla lapide dichiarandosi inconsolabili.

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Uomini oscuri a sé stessi

Paola Castriota, Fascisti 70. Storie di vite estreme, Liberedizioni 2022 (pp. 168, euro 15)

Attenendosi al precetto della buona scrittura narrativa – non dire, ma far vedere –, in consonanza con la sua esperienza di autrice di documentari d’inchiesta, come quello dedicato alla strage di piazza della Loggia, Paola Castriota ci introduce a ciascuna delle storie di cui è fatto questo libro dandoci i riferimenti del tempo e del luogo nel quale si produce l’evento culmine, quello cui sembra essersi indirizzata la traiettoria esistenziale del protagonista. La conclusione si annuncia già all’inizio, stagliandosi sull’ordinarietà del contesto, staccando dalla quotidianità che lo connota. La morte, inattesa sempre e pure contaminata – quando non è la propria, o quella di chi ci è caro – dalla banalità degli accadimenti prevedibili e inevitabili, assume in queste storie il senso di un approdo fatale, lentamente maturato in giorni vissuti all’insegna di un’estraneità sostanziale, se non addirittura di una sorda opposizione, alla vita. Nel viluppo di pensieri e parole, atti e relazioni nel quale la vita di fatto consiste, l’originaria, mitica unicità che i protagonisti si sono persuasi di sentir pulsare nel profondo di sé stessi sembra infatti correre il rischio di disperdersi nella pluralità delle esistenze ai loro occhi omologate, insensate e moralmente corrotte della gente comune, nelle vite mancate che i più si rassegnano a condurre.

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Un senso nuovo della caducità

Bruno Latour, Dove sono? Lezioni di filosofia per un pianeta che cambia, Einaudi 2022 (pp. 180, euro 15)

Il filosofo prosegue la sua riflessione – rintracciabile in saggi come Tracciare la rotta, in queste note nel settembre 2018 – alla luce del confinamento che abbiamo conosciuto durante la pandemia. Non perché sia convinto che quell’esperienza ci abbia reso finalmente consapevoli della nostra situazione, ma perché in essa siamo stati costretti, al di là della consapevolezza conservatane, a fare una “specie di prova generale” di quello che ci aspetta ma che – anche se di fatto negazionisti, sia pure in quella forma di “quietismo ambientale” che ci accomuna – già ora ci sgomenta: di fronte a un bel paesaggio, ascoltando il fruscio degli alberi, non possiamo non avvertire l’inquietudine suscitata da un senso nuovo della caducità. Una caducità non inevitabile, connessa alla condizione di tutto quanto è nato, ma derivante dalle nostre azioni: “se ti senti così a disagio a guardare gli alberi, il vento, la pioggia, la siccità, il mare, i fiumi – e naturalmente le farfalle e le api – è perché ti senti responsabile, sì, in fondo colpevole di non lottare contro quelli che li distruggono”. Opponi resistenza, ma una resistenza sempre più precaria alla coscienza che tutto è cambiato, che “una metamorfosi c’è stata e non pare proprio che al risveglio da questo incubo torneremo indietro”: la pandemia è solo uno dei molti segni di una metamorfosi radicale, simile a quella vissuta dal Gregor Samsa di Kafka, che si riaffaccia in molte di queste pagine a ricordarci il carattere inedito del cambiamento ormai in corso, una metamorfosi che lui solo, non i suoi familiari, comprende.

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L’anno più caldo di sempre

Richard Flanagan, Il vivo mare dei sogni a occhi aperti, Bompiani 2022 (pp. 245, euro 18)

“(…) stava per finire l’anno più caldo di sempre”: incendi durati mesi, intere zone evacuate e divenute inabitabili, città soffocate dal fumo e a rischio di rimanere senz’acqua; incertezza – su quanto avvenuto, su quanto potrebbe avvenire – resa con l’immediatezza di un pensiero disorientato e angosciato che cerca di inquadrare la situazione. L’esperienza vissuta nell’estate di quest’anno avvicina il racconto di quella del 2019 in Australia, che l’autore inquadra nel più generale sconvolgimento indotto dal cambiamento climatico costellando la sua narrazione di riferimenti alla dimensione planetaria del fenomeno: “(…) intanto metà della calotta glaciale della Groenlandia si scioglieva, in Francia si registrava il giorno più caldo di sempre, un piccolo topo marsupiale australiano era la prima specie a essere spazzata via dal cambiamento climatico e gli ultimi rinoceronti di Sumatra morivano”.

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La città dei ‘desombrati’

Piero Bevilacqua, La città delle ombre perdute, Castelvecchi 2022 (pp. 158, euro 17,50)

Fa pensare a quei romanzi in cui succede qualcosa, non si sa cosa il più delle volte, per cui la gente smette di morire. Una ragione di felicità, all’inizio. Poi cominciano i guai: nell’isola di Luggnagg, Swift fa incontrare al suo Gulliver esseri che non muoiono ma non smettono di invecchiare: una condanna; Borges ritiene, nell’Immortale, che essere esenti dalla morte si risolva nel non essere nessuno, in un non essere, in definitiva; il Saramago delle Intermittenze della morte si diverte a raccontare con la sua ironia impareggiabile le conseguenze economiche e sociali della sparizione della morte, e il tema non ha smesso di fornire lo spunto. Per restare al vicino, Gianmaria Parrotta, ci si è esercitato con Immortali (Bartha 2021). Che cos’hanno in comune, al di là del loro valore letterario e filosofico, questi racconti? Il fatto che l’immortalità, da tutti alla fin fine giudicata una sciagura, dà il la a una serie di vicende e di considerazioni che si susseguono come rispondendo alla domanda implicita: che cosa succederebbe se…?

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Fiuto da sbirro e renitenza indisciplinata

Massimo Tedeschi, Il giardino dei cedri. Una nuova indagine del commissario Sartori, La nave di Teseo 2022 (pp. 207, euro 17)

Uno scrittore il cui “immaginario si colloca sulle sponde del lago e racconta una provincia fatta di personaggi comuni e nel contempo esemplari”, nel bene e nel male – come i “fascisti da operetta” che non mancano nei suoi romanzi, vista l’epoca in cui si svolgono. Sembrano parole pertinenti per richiamare la figura dell’autore bresciano, e invece – cambia il lago, quello di Como al posto del Garda – e trovi Andrea Vitali, così come ce lo restituisce il sintetico profilo che in internet se ne può leggere. Ma il parallelo si ferma qui, o comunque approfondirlo è fuori dalla portata di questa nota sull’ultima indagine del commissario creato nel 2016 da Massimo Tedeschi. Le analogie non mancano, e del resto Italico (Italo) Sartori è solo alla sua quinta prova: avrà modo di conquistare – soprattutto da quando le sue storie ci raggiungono nella veste conferitagli da un editore di prestigio e vasta diffusione – schiere di lettori oltre quelle che già si possono dire affezionate al personaggio, ai luoghi, alla grana di storie dall’intreccio sempre coinvolgente (e lineare, il che non è di tutti i polizieschi).

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L’ecologia e il sentimento di esistere

Arne Næss, Siamo l’aria che respiriamo. Saggi di ecologia profonda, Piano B 2021 (pp. 204, euro 16)

“La complicata questione di come le società industriali possano aumentare la produzione di energia (…) è uno spreco di tempo se l’aumento dell’energia è inutile in relazione ai fini ultimi”. Che è come dire: discutiamo pure di come far fronte alla minaccia che le forniture di gas crollino, oppure della tassonomia europea delle fonti da ritenere compatibili con la lotta alla crisi climatica, ma la questione vera è che cosa se ne fa dell’energia stessa. L’”ecologia profonda” si riassume in prese di posizione come questa: se è tale davvero, il discorso ecologico non può non mettere in discussione l’assetto generale del sistema in cui, di cui viviamo, e, a monte, il pensiero che più o meno esplicitamente lo sostiene.

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Non basta dire Buddenbrook

Gabriele Tergit, Gli Effinger. Una saga berlinese, Einaudi 2022 (pp. 914, euro 24)

La storia della Germania dal 1878 al 1948, da Bismarck a Hitler, attraverso quella di una famiglia ebraica, o meglio, di due – oltre agli Effinger, i Goldschmidt-Opner –, le cui vicende si susseguono incrociandosi per oltre 900 pagine e non è certo il caso di ripercorrere in una breve nota. Quattro generazioni, un profluvio di personaggi opportunamente mappati nei due alberi genealogici che precedono il testo.
Inevitabilmente paragonato al primo grande romanzo di Thomas Mann (tanto da poter essere definito “i Buddenbrook ebraici”) per il suo contenuto e i temi trattati ma anche perché là dove termina il romanzo di Mann, nel 1877, inizia quello di Tergit, uscito cinquant’anni dopo, prodotto di un lavoro di scrittura e riscrittura durato un ventennio, trascorso in esilio per sfuggire alle persecuzioni naziste.

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Vite vissute

Claudio Piersanti, Quel maledetto Vronskij, Rizzoli 2021 (pp. 240, euro 18)

Certo, sempre di libri si tratta, ma metterli a confronto non ne rivela tanto il contrasto quanto un’eterogeneità così pronunciata da farne oggetti fra loro estranei, imparagonabili perché appartenenti a universi differenti, solo per comodità, e pigrizia, definibili come il vecchio e il nuovo. Eppure, il romanzo di Piersanti è stato tra i finalisti dello Strega 2022 insieme ai romanzi di Veronica Raimo (Niente di vero) e di Mario Desiati (Spatriati), il vincitore.

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Ascoltare l’abbandono

Mario Ferraguti, La voce delle case abbandonate. Piccolo alfabeto del silenzio, Ediciclo Editore 2016

“Le case si capisce subito che sono abbandonate quando sembrano finalmente stare bene con tutto quello che c’è intorno”, ma c’è voluto del tempo. Prima erano case disabitate, che non è la stessa cosa. Quelle disabitate sono tristi, “sembrano soltanto case vuote in attesa di un ritorno”.
Fatta questa distinzione fondamentale – di tempi, non di tipologie – e individuato l’Appennino come terra nella quale l’incontro con l’abbandono è, purtroppo, assicurato, si tratta di guardare a sé stessi, quello che accade quando si varca la porta, o quel che ne resta, di una casa abbandonata, attirati e intimiditi allo stesso tempo dal suo silenzio, dal “senso di soggezione di chi entra a disturbare”. Perché è vero che non c’è più nessuno, nessuna presenza umana, ma nella casa ci sono le cose, “piene degli sguardi di chi ci ha abitato”, ci è nato, ci è morto… Loro, le cose, sono lì, “ferme ad aspettare niente; perché è solo nostra l’attesa, è solo nostro il dividere il tempo, l’aspettarlo o il rimpiangerlo. Alle case e alle cose basta restare ferme, è solo nostra l’ansia del passare del tempo”.

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Genio e dissipazione

Giorgio Fontana, Il Mago di Riga, Sellerio 2022 (pp. 126, euro 13)

C’è chi gioca a scacchi e chi no. I secondi, di cui faccio parte, si accostano con una certa diffidenza al nuovo romanzo di Fontana (non sarà una lettura per scacchisti?). Ma Fontana è quello di Un solo paradiso (che abbiamo letto alla fine del 2016) e di Prima di noi (in queste note nel maggio del 2020), e dunque… E poi, c’è anche il fatto che non si contano i grandi uomini appassionati di scacchi. Lenin, per esempio: lo si vede, in quella fotografia famosa del 1908, che gioca – tranquillo, forse sta perfino sbadigliando – con il compagno Bogdanov sotto gli occhi dell’amico Gor’kij. Sì, però – sostiene qualcuno – ha poi smesso, a Zurigo: s’è accorto che gli scacchi lo prendevano troppo, rischiavano di distoglierlo dal suo lavoro di rivoluzionario professionale. Mah…

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Un poliziesco che intriga e diverte, ma non si conclude

Marco Denevi, Rosaura alle dieci, Sellerio 2022 (pp. 314, euro 10)

Camilo Canegato è un uomo comune, vicino alla mezza età, più restauratore di quadri che pittore, uno di quelli che ci si dimentica subito d’aver visto, e timido per giunta, patologicamente timido e introverso. Per un tipo del genere, il rapporto con gli altri ha sempre un che di traumatico, soprattutto se sono invadenti come la padrona della pensione presso la quale ha preso domicilio dopo la morte del padre. Doña Milagros è una di quelle persone che si sono convinte di conoscere il mondo, di sapere come vanno le cose, e perciò contano di capire fino in fondo ed essere legittimate a giudicare gli altri, ma non sono per questo appagate e autonome: degli altri hanno bisogno, come bestie affamate del cibo. E dunque, essendosi fatta un’idea di loro e dei loro problemi che non può che essere quella giusta, li perseguitano con i loro consigli, le loro critiche, i loro incoraggiamenti.

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Una donna pulita

Nita Prose, La cameriera, La nave di Teseo 2022 (pp. 447, euro 21)

“Dicono che è imbarazzante. Distaccata, meticolosa. Una maniaca della pulizia. Una tipa stramba. E peggio”. Sì, in effetti, Molly, cameriera ai piani del Regency Grand Hotel è fatta a modo suo, basta poco per rendersi conto che è diversa, ed è questa sua diversità che pagina dopo pagina impariamo a capire, tanto da farci provare una simpatia crescente per la protagonista, una sorta di versione femminile dell’indimenticabile Forrest Gump di Zemeckis. Ma quello che caratterizza Molly non è un ritardo mentale: l’autrice non lo rivela, ma al lettore basta mettere in fila gli atteggiamenti del personaggio per individuarvi i segni della cosiddetta sindrome di Asperger.

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Custodi del tempo

Valeria Parrella, La Fortuna, Feltrinelli 2022 (pp. 142, euro 16)

Ci sono romanzi storici che usurpano questa definizione: fatti di vicende, personaggi, idee di oggi, semplicemente trasposti nel passato, ridotto così a semplice scenario di un palcoscenico sul quale recitano attori che potrebbero vivere solo nel nostro tempo. Altri romanzi a buon diritto riconducibili al genere, invece, sanno evocare in modo suggestivo e insieme rigoroso ciò che non è più, senza tuttavia rinunciare a richiamare – più o meno esplicitamente ma rispondendo a un’intenzionalità evidente – il presente, spesso con finalità critiche, o satiriche, di presa distanza comunque dal nostro mondo, dalla nostra società.

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Donne alla ricerca della libertà

Paola Baratto, Una luce differente, Manni 2022 (pp. 96, euro 13)

«Alle donne impegnate nella ricerca della libertà» sono dedicati i tre racconti che il nuovo libro di Paola Baratto raccoglie. A donne come Vittoria, Lidia, Gemma, diverse fra loro ma accomunate da alcuni tratti essenziali, da una «luce differente» che trascorre da una storia all’altra sul filo di una continuità profonda, sostanziata dai caratteri dei personaggi e dai temi di cui si nutre una poetica riconoscibile da un libro all’altro dell’autrice.

L’esperienza che vivono, tutt’e tre, si realizza in un posto che non è quello in cui vivono abitualmente, e questo scarto gioca un ruolo non secondario nello sguardo che rivolgono ai luoghi e alle persone: la sensazione che prova Vittoria al ritorno nella città natale rimanda a quella di Lidia in visita a un paese di mare e di Gemma trasferitasi quale custode in una casa museo.

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Indizi e bazzecole

Susan Glaspell, Una giuria di sole donne, Sellerio 2022 (pp. 96, euro 12)

Il testimone, lo sceriffo, il pubblico ministero non hanno dubbi: se un uomo è stato trovato morto nel suo letto strangolato con una corda, l’assassino non può che essere la moglie, che al testimone era apparsa indifferente al fatto; preoccupata, se mai, per i suoi vasi di conserva. Non si tratta dunque che di individuare il movente, di scovarne gli indizi.

La moglie dello sceriffo, che ha dovuto seguire il marito sulla scena del crimine per scegliere alcuni effetti personali da far avere all’omicida, ormai in carcere, e ha chiesto in quel difficile frangente la compagnia della consorte del testimone, sembrano non avere opinioni sulla faccenda, si aggirano per la casa facendo le loro osservazioni su particolari minimi: “le donne sono abituate a preoccuparsi per delle bazzecole”, è il giudizio benevolmente supponente degli uomini.

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Storie di vita al supermercato

Annie Ernaux, Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022 (pp. 112, euro 13)

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non luogo”, un luogo che non sa integrare in sé i luoghi così come li intendevamo, spesso classificati come “luoghi della memoria”. Marc Augé, coniando l’espressione e identificando il concetto ha anche indicato una tipologia: appaiono non luoghi gli aeroporti, le autostrade, le catene alberghiere, ma anche “i grandi spazi commerciali”. È facile riconoscere come non luoghi le immense hall degli aeroporti, le camere omologate e stranianti dei grandi alberghi identici in tutto il mondo e certamente spazi fatti per le auto e non per gli uomini (se non nella loro forma di passeggeri) come le autostrade; un po’ forzata ci appare invece la definizione se applicata a supermercati e centri commerciali. Perché? È avvenuta, o per lo meno è in corso, una loro evoluzione che li ha tolti dallo statuto, e dal vissuto, di non luoghi? (senza per questo farne “luoghi della memoria”, anche se vicende come quella del Freccia rossa a Brescia e di altre strutture del genere, candidate a una prossima archeologia commerciale, fanno pensare…). Oppure si sta assistendo a una metabolizzazione dei non luoghi che ci ha portato a farcene una ragione, ad abituarci ad aggirarci in essi come facevamo, e qualche volta facciamo ancora, nei mercati che (sempre meno stabilmente) occupano le piazze cittadine?

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Un’umanità altra, irripetibile e scomparsa

Paolo Malaguti, Il Moro della cima, Einaudi 2022 (pp. 280, euro 19,50)

“Mestieri, tasse, fèmane. E te mori prima di tirare el fià”. Il destino di chi ha lavorato, messo su famiglia e dato allo stato il dovuto, però, concede a volte di tirarlo il fiato, perché “passati gli ottanta non serve essere strolgadori per cogliere i segni e rassegnarsi che, se non la va a giorni, ben che vada la va a mesi”. Eppure, qualcosa di cui stupirsi il vecchio montanaro, ormai vicino alla fine, ce l’ha: “Le rare volte in cui aveva avuto tempo libero a sufficienza per pensare alla morte, il Moro non se l’era immaginata così banale. Con quello che aveva passato, con quanto gli era toccato vedere, mai avrebbe creduto di avere il lusso di crepare in casa”. Men che meno “di andarsene da questo mondo ridendo”.

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Tu vivi, ma la vita non c’è

Piccole ballate. Pensieri in forma poetica di donne ucraine, a cura di Olha Vdovychenko, secondorizzonte – liberedizioni 2022 (pp. 96, euro 10)

La luna di Kiev, innanzitutto, e la domanda di Gianni Rodari: “Chissà se la luna / di Kiev / è bella / come la luna di Roma, / chissà se è la stessa / o soltanto sua sorella (…)”. E poi loro, le donne ucraine autrici di queste Piccole ballate: “In Ucraina scorrono i minuti: / qualcuno va al funerale, / qualcuno al battesimo. / Ma qui il tempo si è fermato e non si muove: / tu vivi, ma la vita / non c’è”, constata Olha Kozak, e un’altra Olha, Olha Zavada, allarga lo sguardo alle sue compagne: “Occhi grigi, occhi bruni, snelle e robuste, se ne vanno le belle donne dalla Ucraina-madre. Vanno in un paese straniero non per riposare, non fanno crociere, vanno a lavorare. Hanno lasciato a casa tutti i loro cari: i mariti amati, i loro figli, i vecchi genitori. Là erano ingegneri, maestre e sarte, all’estero sono diventate domestiche-schiave (…)”.

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Indossare la propria vita come un vestito

Georges Simenon, Il dottor Bergelon, Adelphi 2022 (pp. 195, euro 18)

Lui, Bergelon, medico condotto, moglie e due figli, vita modesta, lavoro e casa; l’altro, Mandalin, padrone di una clinica, piccola ma remunerativa (nella misura in cui medici come Bergelon gli mandano i propri malati), vita brillante, ricevimenti e cene, come quella cui invita anche il collega che alla fine si è lasciato convincere e ha fatto ricoverare alla clinica una donna alla vigilia del parto. Stanno esagerando nel bere, sia il padrone di casa che l’ospite, quando non possono esimersi dal soccorrere la partoriente, ma sono ubriachi… Risultato: durante la notte, muoiono sia il bambino che la madre, e il marito, e mancato padre, comincia a perseguitarli, a minacciare soprattutto Bergelon, che sente più simile a sé e proprio per questo imperdonabile. Senonché, il dottore nasconde nella sua normalità, nel decoro della sua vita, nella routine della sua professione un’anima inquieta. Né felice né infelice: potrebbe continuare fino agli ultimi giorni la stessa vita se non fosse intervenuto quell’episodio, in sé privo di conseguenze per la sua figura pubblica ma capace di far deflagrare la sua intima insoddisfazione. O meglio: il suo non aver saputo mai aderire alla propria vita, l’aver sempre sentito di indossarla, ogni giorno, come un vestito, sotto il quale non c’è un Io pronto a manifestarsi, a realizzarsi magari, ma solo una vaga aspirazione a cercare altro, un’altra donna, un altro luogo, un altro mestiere forse. Non si spiegherebbe altrimenti la strana attrazione che il giovane medico prova per il vedovo che lo minaccia di morte e pure percepisce a sua volta una vicinanza con la sua vittima potenziale.

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Un assillo inevitabile, forse addomesticabile

Julian Barnes, Niente paura, Einaudi 2022 (pp. 248, euro 19,50)

“La consapevolezza della morte si è palesata presto per me, quando avevo tredici o quattordici anni. (…) Di recente il mio amico R. mi ha domandato se penso spesso alla morte, e in quali circostanze. Almeno una volta al giorno, gli ho risposto, senza escludere gli intermittenti attacchi notturni. L’idea della morte si insinua sovente nella mia coscienza quando il mondo di fuori offre un parallelo evidente: al calare della sera, quando le giornate si accorciano, o verso la fine di una lunga camminata.” Si può scrivere un libro all’insegna dell’ironia e dell’umorismo partendo da presupposti simili? Barnes lo fa, raccontando aneddoti sui propri genitori e il fratello filosofo, sulla propria adolescenza e la propria formazione, all’insegna di un’irreligiosità che ammette tuttavia un continuo rimuginare sulla possibilità di credere nell’esistenza di Dio e su quel che significa il non credervi (“Non credo in Dio, però mi manca. Ecco cosa rispondo quando me lo domandano”), e non esclude la frequentazione dei luoghi di culto (“Entro sovente nelle chiese, ma per interessi architettonici”).

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