Una donna pulita

Nita Prose, La cameriera, La nave di Teseo 2022 (pp. 447, euro 21)

“Dicono che è imbarazzante. Distaccata, meticolosa. Una maniaca della pulizia. Una tipa stramba. E peggio”. Sì, in effetti, Molly, cameriera ai piani del Regency Grand Hotel è fatta a modo suo, basta poco per rendersi conto che è diversa, ed è questa sua diversità che pagina dopo pagina impariamo a capire, tanto da farci provare una simpatia crescente per la protagonista, una sorta di versione femminile dell’indimenticabile Forrest Gump di Zemeckis. Ma quello che caratterizza Molly non è un ritardo mentale: l’autrice non lo rivela, ma al lettore basta mettere in fila gli atteggiamenti del personaggio per individuarvi i segni della cosiddetta sindrome di Asperger.

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Custodi del tempo

Valeria Parrella, La Fortuna, Feltrinelli 2022 (pp. 142, euro 16)

Ci sono romanzi storici che usurpano questa definizione: fatti di vicende, personaggi, idee di oggi, semplicemente trasposti nel passato, ridotto così a semplice scenario di un palcoscenico sul quale recitano attori che potrebbero vivere solo nel nostro tempo. Altri romanzi a buon diritto riconducibili al genere, invece, sanno evocare in modo suggestivo e insieme rigoroso ciò che non è più, senza tuttavia rinunciare a richiamare – più o meno esplicitamente ma rispondendo a un’intenzionalità evidente – il presente, spesso con finalità critiche, o satiriche, di presa distanza comunque dal nostro mondo, dalla nostra società.

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Donne alla ricerca della libertà

Paola Baratto, Una luce differente, Manni 2022 (pp. 96, euro 13)

«Alle donne impegnate nella ricerca della libertà» sono dedicati i tre racconti che il nuovo libro di Paola Baratto raccoglie. A donne come Vittoria, Lidia, Gemma, diverse fra loro ma accomunate da alcuni tratti essenziali, da una «luce differente» che trascorre da una storia all’altra sul filo di una continuità profonda, sostanziata dai caratteri dei personaggi e dai temi di cui si nutre una poetica riconoscibile da un libro all’altro dell’autrice.

L’esperienza che vivono, tutt’e tre, si realizza in un posto che non è quello in cui vivono abitualmente, e questo scarto gioca un ruolo non secondario nello sguardo che rivolgono ai luoghi e alle persone: la sensazione che prova Vittoria al ritorno nella città natale rimanda a quella di Lidia in visita a un paese di mare e di Gemma trasferitasi quale custode in una casa museo.

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Indizi e bazzecole

Susan Glaspell, Una giuria di sole donne, Sellerio 2022 (pp. 96, euro 12)

Il testimone, lo sceriffo, il pubblico ministero non hanno dubbi: se un uomo è stato trovato morto nel suo letto strangolato con una corda, l’assassino non può che essere la moglie, che al testimone era apparsa indifferente al fatto; preoccupata, se mai, per i suoi vasi di conserva. Non si tratta dunque che di individuare il movente, di scovarne gli indizi.

La moglie dello sceriffo, che ha dovuto seguire il marito sulla scena del crimine per scegliere alcuni effetti personali da far avere all’omicida, ormai in carcere, e ha chiesto in quel difficile frangente la compagnia della consorte del testimone, sembrano non avere opinioni sulla faccenda, si aggirano per la casa facendo le loro osservazioni su particolari minimi: “le donne sono abituate a preoccuparsi per delle bazzecole”, è il giudizio benevolmente supponente degli uomini.

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Storie di vita al supermercato

Annie Ernaux, Guarda le luci, amore mio, L’orma 2022 (pp. 112, euro 13)

“Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un non luogo”, un luogo che non sa integrare in sé i luoghi così come li intendevamo, spesso classificati come “luoghi della memoria”. Marc Augé, coniando l’espressione e identificando il concetto ha anche indicato una tipologia: appaiono non luoghi gli aeroporti, le autostrade, le catene alberghiere, ma anche “i grandi spazi commerciali”. È facile riconoscere come non luoghi le immense hall degli aeroporti, le camere omologate e stranianti dei grandi alberghi identici in tutto il mondo e certamente spazi fatti per le auto e non per gli uomini (se non nella loro forma di passeggeri) come le autostrade; un po’ forzata ci appare invece la definizione se applicata a supermercati e centri commerciali. Perché? È avvenuta, o per lo meno è in corso, una loro evoluzione che li ha tolti dallo statuto, e dal vissuto, di non luoghi? (senza per questo farne “luoghi della memoria”, anche se vicende come quella del Freccia rossa a Brescia e di altre strutture del genere, candidate a una prossima archeologia commerciale, fanno pensare…). Oppure si sta assistendo a una metabolizzazione dei non luoghi che ci ha portato a farcene una ragione, ad abituarci ad aggirarci in essi come facevamo, e qualche volta facciamo ancora, nei mercati che (sempre meno stabilmente) occupano le piazze cittadine?

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Un’umanità altra, irripetibile e scomparsa

Paolo Malaguti, Il Moro della cima, Einaudi 2022 (pp. 280, euro 19,50)

“Mestieri, tasse, fèmane. E te mori prima di tirare el fià”. Il destino di chi ha lavorato, messo su famiglia e dato allo stato il dovuto, però, concede a volte di tirarlo il fiato, perché “passati gli ottanta non serve essere strolgadori per cogliere i segni e rassegnarsi che, se non la va a giorni, ben che vada la va a mesi”. Eppure, qualcosa di cui stupirsi il vecchio montanaro, ormai vicino alla fine, ce l’ha: “Le rare volte in cui aveva avuto tempo libero a sufficienza per pensare alla morte, il Moro non se l’era immaginata così banale. Con quello che aveva passato, con quanto gli era toccato vedere, mai avrebbe creduto di avere il lusso di crepare in casa”. Men che meno “di andarsene da questo mondo ridendo”.

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Tu vivi, ma la vita non c’è

Piccole ballate. Pensieri in forma poetica di donne ucraine, a cura di Olha Vdovychenko, secondorizzonte – liberedizioni 2022 (pp. 96, euro 10)

La luna di Kiev, innanzitutto, e la domanda di Gianni Rodari: “Chissà se la luna / di Kiev / è bella / come la luna di Roma, / chissà se è la stessa / o soltanto sua sorella (…)”. E poi loro, le donne ucraine autrici di queste Piccole ballate: “In Ucraina scorrono i minuti: / qualcuno va al funerale, / qualcuno al battesimo. / Ma qui il tempo si è fermato e non si muove: / tu vivi, ma la vita / non c’è”, constata Olha Kozak, e un’altra Olha, Olha Zavada, allarga lo sguardo alle sue compagne: “Occhi grigi, occhi bruni, snelle e robuste, se ne vanno le belle donne dalla Ucraina-madre. Vanno in un paese straniero non per riposare, non fanno crociere, vanno a lavorare. Hanno lasciato a casa tutti i loro cari: i mariti amati, i loro figli, i vecchi genitori. Là erano ingegneri, maestre e sarte, all’estero sono diventate domestiche-schiave (…)”.

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Indossare la propria vita come un vestito

Georges Simenon, Il dottor Bergelon, Adelphi 2022 (pp. 195, euro 18)

Lui, Bergelon, medico condotto, moglie e due figli, vita modesta, lavoro e casa; l’altro, Mandalin, padrone di una clinica, piccola ma remunerativa (nella misura in cui medici come Bergelon gli mandano i propri malati), vita brillante, ricevimenti e cene, come quella cui invita anche il collega che alla fine si è lasciato convincere e ha fatto ricoverare alla clinica una donna alla vigilia del parto. Stanno esagerando nel bere, sia il padrone di casa che l’ospite, quando non possono esimersi dal soccorrere la partoriente, ma sono ubriachi… Risultato: durante la notte, muoiono sia il bambino che la madre, e il marito, e mancato padre, comincia a perseguitarli, a minacciare soprattutto Bergelon, che sente più simile a sé e proprio per questo imperdonabile. Senonché, il dottore nasconde nella sua normalità, nel decoro della sua vita, nella routine della sua professione un’anima inquieta. Né felice né infelice: potrebbe continuare fino agli ultimi giorni la stessa vita se non fosse intervenuto quell’episodio, in sé privo di conseguenze per la sua figura pubblica ma capace di far deflagrare la sua intima insoddisfazione. O meglio: il suo non aver saputo mai aderire alla propria vita, l’aver sempre sentito di indossarla, ogni giorno, come un vestito, sotto il quale non c’è un Io pronto a manifestarsi, a realizzarsi magari, ma solo una vaga aspirazione a cercare altro, un’altra donna, un altro luogo, un altro mestiere forse. Non si spiegherebbe altrimenti la strana attrazione che il giovane medico prova per il vedovo che lo minaccia di morte e pure percepisce a sua volta una vicinanza con la sua vittima potenziale.

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Un assillo inevitabile, forse addomesticabile

Julian Barnes, Niente paura, Einaudi 2022 (pp. 248, euro 19,50)

“La consapevolezza della morte si è palesata presto per me, quando avevo tredici o quattordici anni. (…) Di recente il mio amico R. mi ha domandato se penso spesso alla morte, e in quali circostanze. Almeno una volta al giorno, gli ho risposto, senza escludere gli intermittenti attacchi notturni. L’idea della morte si insinua sovente nella mia coscienza quando il mondo di fuori offre un parallelo evidente: al calare della sera, quando le giornate si accorciano, o verso la fine di una lunga camminata.” Si può scrivere un libro all’insegna dell’ironia e dell’umorismo partendo da presupposti simili? Barnes lo fa, raccontando aneddoti sui propri genitori e il fratello filosofo, sulla propria adolescenza e la propria formazione, all’insegna di un’irreligiosità che ammette tuttavia un continuo rimuginare sulla possibilità di credere nell’esistenza di Dio e su quel che significa il non credervi (“Non credo in Dio, però mi manca. Ecco cosa rispondo quando me lo domandano”), e non esclude la frequentazione dei luoghi di culto (“Entro sovente nelle chiese, ma per interessi architettonici”).

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Poesie che sanno raccontare

Andrea Bajani, L’amore viene prima, Feltrinelli 2022 (pp. 62, euro 10)

Si ha ancora in mente il bambino del Libro delle case (Feltrinelli 2021, in queste note nella primavera dello scorso anno), che trovava la sua compagna di giochi in una tartaruga, custode longeva della casa, quando Bajani ci fa incontrare un altro bambino, un neonato. Il suo bambino. Già nel romanzo si faceva notare una lingua e un periodare ricchi di suggestioni e sfumature, capaci di dire quello che solitamente, più della prosa, è la poesia a saper dire, ed ecco ora queste poesie che sanno raccontare, come le note di un diario: “l’unica cosa che sono riuscito a fare, in quel lasso di tempo [le settimane successive alla nascita del figlio], è stata aprire un quaderno e appuntare dei versi. Registravo accadimenti minimi (…) I fatti, quello che succedeva, in fondo, era tutto quello che avevo da dire”. Molto e poco al tempo stesso: questi “canti minuti raccontano ciò che non si riesce a spiegare forse perché è troppo complesso e al contempo troppo semplice: un neonato nel suo primo mese di vita”, ed è qui che viene in soccorso la poesia, appunto.

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Nutrirsi di mancanze

Mattia Corrente, La fuga di Anna, Sellerio 2022 (pp. 256, euro 16)

 “Perché ogni cosa di te mi fa dimenticare che non ci sei? Succede per davvero. Io non ci credo che non ci sei. Ma dura il tempo di un battito di ciglia”. L’ottantenne Severino non ce la fa a stare solo nella casa che la moglie Anna ha improvvisamente abbandonato, e allora lascia Stromboli – dove si erano stabiliti “per godersi la vecchiaia”, dopo gli anni in cui lui era stato impiegato postale – e torna a Librizzi, sulla collina del messinese, il paese dove si erano sposati una cinquantina d’anni prima, nel 1964 (e che è anche il paese dell’autore). Il racconto della peregrinazione del vecchio (i paesi, le case che hanno abitato, le persone che conoscevano) e il progressivo emergere della storia, di Anna e sua, marciano di pari passo, mettendo in scena altre figure, dando loro la parola nell’alternanza delle voci narranti e nel seguito discontinuo degli episodi narrati senza riguardo per la cronologia.

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Che cosa la letteratura può essere, oggi

Caterina Bonvicini, Mediterraneo. A bordo delle navi umanitarie, Einaudi 2022 (pp. 242, euro 16)

“Mi sono resa conto che per raccontare il mediterraneo – immenso, sterminato e vuoto, come ti appare durante una traversata – puoi solo aggrapparti ai dettagli. Una visione del problema dall’alto rende tutti troppo ragionevoli, o troppo irragionevoli. E questo ci fa perdere umanità. I dettagli invece destabilizzano, diventiamo più fragili e quindi più capaci di cogliere la fragilità degli altri. È il dettaglio che agisce davvero su di noi, e ci cambia. (…) La nostra immaginazione è banale perché non conosciamo i dettagli. La nostra immaginazione è pericolosa perché è banale. La nostra immaginazione, banale e pericolosa, è facilmente manipolabile e viene usata contro di noi. E forse i dettagli sono l’unica arma che abbiamo per difenderci. L’unica via per entrare in una tragedia senza accesso e senza testimoni, insondabile”. L’unica via per parlare di donne e uomini ognuno con un nome, una storia, una speranza.

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Raccontare la fine

Irvin D. Yalom, Marilyn Yalom, Una questione di morte e di vita, Neri Pozza 2022 (pp. 208, euro 18)

“Compagni di scrittura” per un’intera vita, “nonostante quattro figli” e i vari incarichi che l’insegnamento e la professione hanno comportato: il libro è scritto a quattro mani, anche se Marilyn non c’è più. Ma prima di morire aveva proposto al marito di scrivere un nuovo libro, “un libro che dovremmo scrivere insieme”. Questo, appunto, che racconta “i giorni e i mesi” della malattia finale, e insieme la vicenda di “una coppia molto fortunata”, unita fin nel percorrere “il sentiero che infine conduce alla morte” – entrambi sono ormai vicini a novant’anni – sulla scorta di un convincimento espresso da Irvin nella sua Psicoterapia esistenziale: che “è più facile affrontare la morte se si hanno pochi rimpianti per la vita che si è vissuta”. Più facile, non risolutivo. La domanda di fondo resta: “Come possiamo vivere dando un senso ai nostri giorni fino alla fine?”

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Le ombre del passato

Paolo Maurensig, Il quartetto Razumovsky, Einaudi 2022 (pp. 148, euro 17,50)

“Non è lontano dalla verità chi oggi afferma scherzando che la Seconda guerra mondiale si sia conclusa con l’invasione tedesca degli Stati Uniti”. Una migrazione avvenuta non prima della guerra – e dunque Thomas Mann, Theodor Adorno, Bertold Brecht e tanti altri intellettuali costretti dal nazismo a lasciare il loro paese non c’entrano –, ma dopo, quando “non solo intere famiglie ma vere e proprie comunità furono trapiantate dalle ceneri di una nazione rasa al suolo a una prospera terra promessa. Alcuni, però, si portarono dietro anche l’ombra del loro passato”, il timore costante di essere riconosciuti per quel che erano stati e per ciò in cui avevano creduto (e credevano ancora, nel caso del protagonista). Tra questi tedeschi espatriati troviamo anche quattro musicisti, un tempo celebri per l’esecuzione del quartetto beethoveniano richiamato nel titolo del romanzo, l’ultimo scritto da Paolo Maurensig, scomparso meno di un anno fa.

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Una vicenda enigmatica al ritmo della commedia brillante

Alessandro Zaccuri, Poco a me stesso, Marsilio 2022 (pp. 240, euro 16)

Non è la prima volta che la famiglia dell’autore dei Promessi Sposi attira la curiosità di uno scrittore: “un tentativo di ricostruire e ricomporre per disteso la storia della famiglia Manzoni”, “sparpagliata in diversi libri, per lo più introvabili”, l’aveva fatto quarant’anni fa Natalia Ginzburg, che nella nota di prefazione al suo La famiglia Manzoni avvertiva che si tratta di una vicenda “tutta cosparsa di vuoti, di assenze, di zone oscure. Come d’altronde ogni storia famigliare che si cerchi di rimettere insieme. Tali vuoti e assenze sono incolmabili”. Sono proprio le storie lacunose, forse, che si prestano ad essere rivisitate, sull’onda di un’immaginazione capace di colmare quei vuoti. Ciò che a suo modo fa Zaccuri, convinto – come si è letto in una recente recensione del suo libro apparsa sul “Giornale di Brescia” – di come fosse “indispensabile, per raccontare la storia Manzoni o immaginarne una alternativa, narrare la storia di Giulia, figura decisiva nella sua vicenda personale”.

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Una vita piena di vite degli altri

Daria Bignardi, Libri che mi hanno rovinato la vita e altri amori malinconici, Einaudi 2022 (pp. 168, euro 16,50)

“Temevo di ‘fare la figura di quella che pubblica perché va in tv’”: il timore dell’autrice e conduttrice televisiva, ammettiamolo, non era campato per aria. La riluttanza a leggere i romanzi da chi è segnato dalla “lettera scarlatta della tv”, secondo le parole della stessa Bignardi, ha le sue ragioni. Ma dimentichiamo o mettiamo fra parentesi, l’amabile, e non banale, interlocutrice di attori e cantanti, scrittori e politici: questo romanzo ci propone – facendo seguito agli altri libri pubblicati negli ultimi anni, uno per tutti: Storia della mia ansia (Mondadori 2018) –, un’autobiografia fatta di note che si richiamano fra loro, di semplici appunti, si direbbe a volte, che lasciano però emergere con chiarezza alcuni fili conduttori. Primo fra tutti la passione compulsiva per la lettura che restituisce una trama ininterrotta di autori e titoli. Come è logico avvenga, quando l’autore è anche un lettore di questo genere, il racconto della sua vita si intreccia con quello dei romanzi che ha letto, con il modo in cui hanno segnato i suoi giorni, con il posto che hanno via via preso nella sua storia. Innanzitutto quelli amati nonostante, anzi: proprio perché hanno avuto l’effetto richiamato nel titolo ma hanno saputo dare alla lettrice l’impressione di parlare proprio a lei.

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L’abisso interno

Henning Mankell, Nel cuore profondo, Marsilio 2021 (pp. 472, euro 18)

Atmosfere cupe, fra tempeste e banchise ghiacciate del Baltico; una natura che non consoce altra legge che quella del più forte, tanto più in un’epoca nella quale il mare è percorso dalle corazzate tedesche e russe che si affrontano nella più distruttiva delle guerre fino allora combattute, la prima guerra mondiale: il senso di una catastrofe incombente percorre questo romanzo fin dalle prime pagine – occupate da un’anticipazione angosciosa, il tentativo di fuga di una pazza dal manicomio in cui era rinchiusa da ventitré anni – e accompagna la narrazione che ci riporta alle missioni del capitano esperto in misurazioni batimetriche, capace di rilevare inesattezze nelle carte nautiche ma in realtà sempre “alla ricerca di qualcos’altro: un punto in cui il batimetro non sarebbe mai riuscito a raggiungere il fondo. Un punto in cui il batimetro cessava di essere uno strumento tecnico per trasformarsi in un mezzo poetico”. Non è tuttavia nell’idillio che la sua storia sfocerà, ma nella tragedia, perché la profondità del suo cuore è irraggiungibile, sulla sua vita gravano ombre di cui ignora la natura e lo portano ad azioni che, a posteriori, gli sembrano compiute da un altro. E che Mankell racconta guardandosi dall’attingere all’onniscienza del narratore, preferendo il ruolo di testimone, apparentemente distaccato, delle menzogne nelle quali il protagonista si imprigiona: “volevo riflettere sul perché al mondo ci siano troppi uomini che mentono quando si tratta di sentimenti”, ha raccontato lo scrittore nel 2014, dieci anni dopo l’uscita del libro: “uomini che agiscono senza controllo dei sentimenti nei riguardi delle donne, e se un uomo perde il controllo, può sprofondare nell’abisso interno e può accadere di tutto”.

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Intuire la singolarità dell’esistenza

John Gardner, Il mestiere dello scrittore, Marietti 1820, 2021

“Leggere libri e riviste, prestando attenzione alla lingua”, ma al tempo stesso non leggere “alla maniera dello specialista della lingua, ma alla maniera di un romanziere”, che si chiede “che cosa avrebbe fatto lui nella stessa situazione e se il suo metodo sarebbe migliore o peggiore”, e dunque leggere “sia con dedizione, sperando di imparare da un maestro, che in modo critico, attento a ogni possibile errore”. Sottinteso appena accennato: scegliere che cosa leggere, evitando il peggio, ossia “la narrativa ‘di buon livello’ scadente”. Il libro “scritto bene” ma superfluo, quantomeno. Leggere sì, e molto, dunque, ma selezionando le proprie letture: il consiglio dovrebbe estendersi ai libri che parlano di scrittura, tanto numerosi ormai da occupare nelle librerie lo spazio un tempo riservato ai testi di critica letteraria – ha osservato Vanni Santoni in una recensione recente di questo libro. Ma come orientarsi? Anche in questo campo troviamo infatti proposte discutibili: perorazioni ed elogi dello scrivere come viene viene poi si vedrà; testimonianze entusiaste del valore terapeutico o liberatorio della scrittura, una risorsa che era già lì, da sempre a portata di mano; manuali fai da te che sommano consigli, prescrizioni, avvertenze senza curarsi della loro astrattezza o addirittura della loro contraddittorietà; saggi di spessore ma talmente legati alla cultura letteraria in cui sono nati da non parlare al di fuori di quella.

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Contro il totalitarismo economico

Serge Latouche, Breve storia della decrescita. Origine, obiettivi, malintesi e futuro, Bollati Boringhieri 2021 (pp. 144, euro 16)

Fa bene Serge Latouche a tornare periodicamente a spiegare la sua idea, a illustrarne presupposti e conseguenze, perché su di essa non è calato il silenzio, come su altre espressioni del pensiero critico, ma si è riversata una violenta reazione che l’ha caricaturizzata, in chiave regressiva o pauperista: dovremmo forse tornare alla candela? e che cosa ci sarebbe di felice nella rinuncia a molte delle cose che il progresso ci ha donato? Non è forse il sogno di chi queste cose le possiede, questa proposta di abbandonare la crescita come parametro attorno a cui tutto non può che ruotare (misure di contrasto alla pandemia comprese, verrebbe da aggiungere)? Una reazione non casuale, tanto più beffardamente ostile quanto più la proposta ha saputo giungere al cuore del sistema che governa la nostra società, le nostre vite.

Ecco allora una nuova lezione su quel che si deve intendere per decrescita, questa volta più di altre consapevole – si direbbe – dei fraintendimenti ormai sedimentati e disinvoltamente perpetuati da giornalisti e politici privi di remore nell’interpretare il progetto riduttivamente, come un programma immediatamente operativo: non senza qualche responsabilità del suo ideatore, c’è forse da dire – si notava sommessamente commentando un altro libro di Latouche (Come reincantare il mondo. La decrescita e il sacro, uscito l’anno scorso e in queste note alla fine dell’agosto 2020).

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Una federazione per la società civile planetaria che già esiste

Luigi Ferrajoli, Per una costituzione della terra. L’umanità al bivio, Feltrinelli 2022 (pp. 204, euro 20)

Una “federazione di popoli” estesa a tutta la Terra: quella che a detta dell’autore stesso può apparire “un’idea chimerica”, tanto più in giorni segnati dal ritorno della guerra in Europa, risulta in realtà essere “l’inevitabile via d’uscita dai mali che gli uomini si procurano a vicenda”. A dirlo non è l’autore, ma – pochi anni prima della Rivoluzione francese – Immanuel Kant, convinto che gli Stati debbano “rinunciare, come i singoli individui, alla loro selvaggia libertà (senza leggi), sottomettersi a leggi pubbliche coattive e formare uno Stato di popoli”. Si tratta, secondo Luigi Ferrajoli, di “una chiara, sicura previsione del costituzionalismo globale” prospettato in questo libro e diffusamente illustrato in altre sedi (come il sito www.costituenteterra.it). Non è, questa, una delle tante, per quanto apprezzabili, prediche inutili ma un discorso circostanziato e rigoroso quanto lo può essere quello di un giurista e filosofo del diritto e della politica capace di mettere in luce “l’imprevidenza e l’inadeguatezza dei nostri sistemi politici” di fronte alle emergenze che la pandemia ha soltanto reso più evidenti e di dimostrare che l’unica risposta all’altezza delle “catastrofi globali” che incombono è “l’allargamento a livello planetario del paradigma del costituzionalismo” affermatosi “all’indomani della liberazione dai regimi fascisti”. Catastrofi ecologiche, minaccia di guerre nucleari, lesioni delle libertà e dei diritti fondamentali, sfruttamento illimitato del lavoro, migrazioni di massa: “le tante carte e convenzioni sui diritti umani” hanno dimostrato la loro inconcludenza in una realtà nella quale “l’umanità forma già una società civile planetaria”, “attraversata – tuttavia – da conflitti e confini che le impediscono di affrontare i suoi tanti problemi globali”, irrisolvibili da parte degli Stati nazionali, strutturalmente impossibilitati a contrastare i “crimini di sistema” commessi dall’“anarcocapitalismo globale”, crimini anche se non riconosciuti come reati  in quanto – secondo una visione giuridica arretrata e sclerotizzata – non classificabili come “illeciti penali”.

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Una favola antiglobalista

John Ironmonger, La balena alla fine del mondo, Bollati Boringhieri 2021 (pp. 414, euro 18)

Il corpo di un uomo sull’arenile di un paesino della Cornovaglia, una balena che poco dopo vi si spiaggia. Ma l’uomo non è morto: gli abitanti di St Piran lo salvano, ed è lui a guidarli poi nel salvataggio della balena, risospinta a forza in mare, lei che, a quanto pare, aveva a sua volta salvato l’uomo sospingendolo fin sulla riva. Questi i fatti da cui si sviluppa la storia, coinvolgente nel suo intreccio e nella galleria di personaggi che spiccano nella piccola comunità, ma anche nel suo tema di fondo: la differenza abissale fra il mondo del villaggio e quello della città, la City londinese da cui il protagonista era fuggito, convinto di aver mandato in bancarotta la finanziaria in cui lavorava affidandone le strategie al programma da lui ideato, capace di mettere a fuoco la miriade di connessioni che percorrono il pianeta globalizzato e prevederne l’evoluzione. È questa la sequenza che ha cambiato la vita di Joe Haak: “nello spazio di quarantotto ore, era passato da funzionario relegato alla scrivania nell’angolo buio di una banca della City a eroe di una minuscola comunità a centinaia di chilometri di distanza”, una comunità nella quale il tempo “si muoveva a un ritmo diverso. Un uomo poteva stare seduto con del sidro e osservare l’oceano, e le lancette dell’orologio avrebbero fatto il giro del quadrante e nessuno lo avrebbe chiamato per nome. Avevano ‘tempo’ nella City? Era lo stesso fenomeno?”.

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