Elena Ferrante, I margini e il dettato, e/o 2021 (pp. 160, euro 15)
Richiesta di tenere tre lezioni sulla sua attività di scrittrice, la sua poetica, la sua tecnica narrativa, Elena Ferrante accoglie l’invito ma quello che offre, più che resoconto istruttivo o vademecum di raccomandazioni, è racconto: ci sono scrittori che non amano, o non sanno, parlare di sé, altri invece per i quali il loro scrivere è materia dello scrivere stesso. La Ferrante cita in proposito Beckett, ma quel che ne dice si adatta bene anche a lei: “È raro che chi dedica la propria esistenza alla scrittura non abbia lasciato almeno qualche rigo sull’io ficcato a forza in un angolino del cervello a far parole scritte. E non ho dubbi che in quelle righe non ci sia semplicemente una sorta di omaggio alla passione di scrivere, ma una porta o porticina aperta sul senso della propria opera, difetti e meriti”. Questo libretto è appunto quella porta, che ci fa entrare nella storia di una vocazione che si fa strada dal momento in cui la futura, potenziale scrittrice, mette a fuoco il fenomeno “sorprendente”, descritto da Svevo, per cui “l’io di chi vuole scrivere si separa dal proprio pensiero e, nel separarsi, quel pensiero lo vede” e si sente tenuto a metterlo sulla carta, o a cercare di farlo quantomeno, perché deve fare i conti con il fatto che “il presente – tutto il presente, anche quello dell’io che scrive, una lettera dopo l’altra – non ce la fa a trattenere con nitore il pensiero-visione, che viene sempre prima, che è sempre il passato, e che perciò tende a offuscarsi”.
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