L’inevitabilità del distacco, il segreto delle relazioni

Cees Nooteboom, Venezia. Il leone, la città e l’acqua, Iperborea 2021 (pp. 255, euro 19,50)

Fra coloro, non pochi, che ritengono che da una parte ci siano le città, tutte, e dall’altra Venezia, c’è sicuramente Nooteboom: Venezia – prevede, anche se ci ritorna dopo esserci già stato molte volte –, “ mi attirerà e mi respingerà (…), diverrà parte della mia vita mentre io non sarò mai parte della sua, vagherò come un granello di polvere attraverso la sua storia”, e anche se visitarla si risolve in un “esercizio di ripetizione, la città deve essere riconquistata ogni volta”, perché a coglierti è “sempre la stessa mescolanza di estasi e di smarrimento”. La si può conoscere in ogni angolo e sperimentare così la sottile sensazione dello spaesamento. Ma non si tratta solo di luoghi, di spazio. È la grana del tempo che è diversa: “Il tempo qui non pesa nulla”, anche se, contraddittoriamente, “le bronzee voci del tempo che in altre città non si sentono più, qui ti saltano addosso nei vicoli e sui ponti”, e non si tratta solo del tempo della giornata. È il tempo della Storia a venirti incontro in questa “città pieno di ombre e del ricordo di ombre, Monteverdi, Proust, Wagner, Mann”. È tutta la città a confondere il presente con il passato, a far continuare a vivere, e a lasciar intravedere, il passato nel presente: “Qui si va in giro un po’ disorientati, smarriti tra gli strati di passato, che a Venezia appartengono tutti contemporaneamente al presente. Qui l’anacronismo è l’essenza stessa delle cose”. Tanto più che il futuro stesso si aggira fra calli e campielli, un futuro che non si vuole immaginare, quello in cui la città “come un Titanic, tornerà a sprofondare nel molle terreno su cui sembra ancora galleggiare”. Meglio dunque affidarsi, in questo girovagare che si traduce in un minuto diario di sguardi e memorie, a guide che risalgono a tempi nei quali un simile destino era del tutto impensabile, al Baedeker del 1906, o alla guida del Tci del ’54 (un po’ come Michael Portillo nelle sue serie documentaristiche che la televisione da anni ci propone). Ma il proposito è presto scordato: la città si impone e “se hai buon senso ti lasci smarrire”, ti rendi conto dei vantaggi che ha perdersi, a Venezia; entrare “in un vicolo che finisce contro un muro o su una riva senza ponti” e in questo modo vedere “quelle cose che non avresti visto mai” se avessi seguito diligentemente i consigli di una guida, né avresti udito: è quando abbandoni le vie più battute che senti, nel suono dei passi, “il rumore dimenticato di un tempo senza automobili e che qui risuona ininterrottamente da tanti secoli”.

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L’inevitabilità del distacco, il segreto delle relazioni

Bernhard Schlink, I colori dell’addio, Neri Pozza 2021 (pp. 240, euro 18)

Non è questo l’unico caso in cui Schlink preferisce, rispetto al romanzo, la raccolta di racconti. Sette, come in Bugie d’estate (pubblicato dallo stesso editore due anni fa), tenuti insieme però da un tema, quello richiamato nel titolo: l’addio, il commiato. Scelte inevitabili e che tuttavia, più che a un passo indietro, a un ridimensionamento dell’Io e delle sue pretese, costringono a una rivisitazione del proprio passato, impongono l’assunzione di un impegno in qualche modo eluso fino al momento del distacco e, anche, l’acquisizione della consapevolezza che la scomparsa dell’altro prelude alla propria: “Sono morti tutti: le donne che ho amato, gli amici, mio fratello e mia sorella e naturalmente i miei genitori, gli zii e le zie. Sono andato ai loro funerali, un tempo di frequente perché a morire era la generazione precedente alla mia, poi di rado e negli ultimi anni sempre più spesso perché stanno morendo quelli della mia generazione”. Ma andare ai funerali non è che mettere in scena una separazione che in realtà chiede di essere ben altrimenti elaborata: “Per lungo tempo ho pensato che un funerale potesse aiutare a congedarsi dai nostri morti. Del commiato c’è bisogno, perché sapere che un nostro caro se n’è andato continua a turbarci fino a quando, grazie a quella cerimonia, egli non trova la pace – e noi con lui. Ma in realtà un funerale non è di alcun aiuto. Rassicura chi è rimasto dell’importanza del defunto e in qualche misura lo rende partecipe di quella importanza. Rassicura chi vi assiste della dignità del rituale cui si dedicano un paio d’ore, durante il quale si vede e si viene visti, si rende l’ultimo omaggio al defunto e si porgono le condoglianze ai familiari, e in fondo in fondo il funerale dà una certa dignità anche ai partecipanti. Ma che serva ad affrontare meglio il commiato, questo proprio no”.

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L’avventura dello scrittore

Daniel Mendelshon, Tre anelli. Una storia di esilio, narrazione e destino, Einaudi 2021 (pp. 112, euro 16)

Una conferma ulteriore della vitalità di una forma capace di innovare e insieme conservare l’impianto narrativo che continua ad apparire, a molti di noi perlomeno, consustanziale all’arte del raccontare: questo troviamo nel nuovo libro di Mendelshon, esempio di romanzo-saggio o, se si preferisce, di saggio che trova il suo elemento unificatore in una cornice narrativa e in un susseguirsi di digressioni, in gran parte autobiografiche. Il tema, lo dice il sottotitolo, è quello dell’esilio; per alcuni, come per i tre autori di cui si racconta, destino che ha motivato e sorretto la loro opera. Il filo che percorre la “storia” è la riflessione sullo scrivere, e per chi sia tentato di leggervi il segno di un’autoreferenzialità dello scrittore vale quanto affermato recentemente da Elena Ferrante (I margini e il dettato, in queste note alla fine dello scorso dicembre): “ogni narrazione dovrebbe comprendere sempre, al suo interno, anche l’avventura dello scrivere che le dà forma”.

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Segni dell’inciviltà di un paese

Tomaso Montanari, Chiese chiuse, Einaudi 2021 (pp. 144, euro 12)

La denuncia che nasce dalla considerazione documentata, l’appello che muove dalla denuncia per far sì che il discorso si traduca in atti concreti, la passione che si sostanzia di competenza, una competenza accumulata con passione: è di questo che si tratta (o si dovrebbe) quando si parla di intellettuali, di intellettuali portatori di un pensiero critico. Come Tomaso Montanari, studioso e cittadino attivo, polemista acuto e divulgatore efficace, in questo libro in particolare, dedicato a un oggetto a prima vista riservato a cerchie ristrette, di cultori del patrimonio storico artistico, o di credenti animati dalla fede. Senonché, il destino di molte chiese – chiuse, impraticabili, abbandonate, saccheggiate, contraffatte – è spia di una crisi culturale, e civile, che travalica le loro porte serrate e i loro muri cadenti. Perché si tratta di “Luoghi del silenzio: pause nella vita di ogni giorno, capaci di suggerire un diverso senso del tempo, un altro ritmo esistenziale”, per cui “bisognerebbe avere la lucidità di comprendere che, nella densità asfissiante e ansiogena della nostra vita quotidiana, entrare in una chiesa antica, sostarvi anche senza una precisa ragione, equivale a respirare. A poter pensare entrando in un mondo governato da altri ritmi, altri colori, altre luci, altre prospettive”: “In una società che si regge sulla teorizzazione della mancanza di alternative (esistenziali, culturali, politiche) le antiche chiese sono un mondo radicalmente alternativo al nostro: un mondo che si può conoscere semplicemente varcando una soglia”.

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Lo scrittore investiga

Patrick Modiano, Inchiostro simpatico, Einaudi 2021 (pp. 108, euro 16)

Le istruzioni del titolare dell’agenzia di investigazioni sono povere, scarne anche le note contenute nella scheda attinente alla donna scomparsa: il ventenne incaricato della ricerca si mette all’opera, ma pochi mesi dopo lascia l’agenzia, portando però con sé, senza una ragione precisa, il documento. L’indagine si insabbia ma, carsicamente, torna ad affiorare riconquistando il desiderio di sapere del protagonista. Il quale, tra episodi disseminati nel racconto e personaggi che compaiono per poi sparire e successivamente essere ripescati, la troverà, quella Noëlle Lefebvre, sulle cui tracce si è mosso fin dall’inizio. Il tutto, però, complicato dall’andirivieni della memoria, dalle sue doppiezze, dai sui sottofondi enigmatici: Modiano lo si riconosce da questa attenzione all’“arte della memoria”, che gli è valsa il Nobel pochi anni fa, un’arte “con la quale – recitava la motivazione del premio – ha evocato il destino umano più inafferrabile”. Come quello di Noëlle, appunto, ma non solo: la traiettoria dell’uomo che le dà la caccia non è meno sfuggente.

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Il brutto di non esserci

Roberto Livi, Solo una canzone, Marcos y Marcos 2021 (pp. 240, euro 18)

“Ero così abituato al mio comportamento da brava persona, che arrivato a un certo punto della vita ho cominciato a pensare di essere davvero una brava persona”, recitava l’incipit del precedente romanzo di Roberto Livi (La terra si muove, Marcos y Marcos 2017), e anche il protagonista di questo è un uomo che fatica a scovare una propria identità. Aspirante cantautore, gestisce un ristorante nel quale la cuoca non ha che da scongelare i cibi surgelati che si servono, guarniti di “qualche foglia di insalata o spicchio di pomodoro, o qualsiasi altra cosa che (li) faccia somigliare a un piatto tradizionale”, e lui deve servire ai tavoli, sia pure controvoglia: “una cosa che non sopporto del mio mestiere – sono le prime parole del romanzo – sono quei clienti che parlano senza guardarmi negli occhi (…) Forse non si rendono conto di quant’è brutto non essere, anche per me che sono un cameriere”, proprio per questo tenuto a “non esserci” per non disturbare i clienti con la sua presenza. Rischio che non corrono gli altri due, rintanati sempre in cucina: la cuoca Gianna, con i suoi ottanta chili messi su dopo esser rimasta sola (“Lei è convinta che suo marito l’abbia lasciata per via del grasso, ma pare che il grasso sia venuto dopo”), e il fedele quanto malandato Silverio, tuttofare che non sa stare lontano dalla “Luna nel pozzo”, questo il nome del ristorante. Sullo sfondo, ma sempre vivo nella memoria del protagonista, il padre, ex camionista innamorato del sassofono, che aveva avviato il locale organizzandoci una sala da ballo. Ma erano altri tempi.

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Una natura domestica, non addomesticata

Philippe Descola, Un’ecologia delle relazioni. L’uomo e il suo ambiente, Marietti 1820, 2021 (pp. 60, euro 9)

Ha il tono della rievocazione, ma risponde anche al proposito di un consuntivo, questa breve, esemplare lezione di uno dei più grandi antropologi del nostro tempo. Antropologo ma, innanzitutto, etnografo, lo “specialista che si immerge nella vita di una comunità, vicina o lontana che sia dal suo luogo d’origine”, “per capire dall’interno le sue abitudini”, “i suoi modi di agire e di pensare”. La comunità studiata da Descola è stata, per anni, quella amazzonica degli Jivaros Achuar; il fulcro della cultura là indagata, messo a fuoco attraverso la riflessione dell’etnologo, si rivela sorprendentemente pertinente rispetto ai problemi, anzi al problema dei nostri tempi: la relazione fra l’uomo e la natura; il modo, e la misura, nei quali gli uomini si sentono parte dell’ambiente in cui vivono. È l’antropologo, infine, ad estrarre e formalizzare le concezioni che governano questa relazione.

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Non fare resistenza al tempo che passa

È morto Gianni Celati, la notte fra il 2 e il 3 gennaio.
Ne rileggiamo qualche pagina, un modo per dargli un saluto.
Una delle prime fra queste Note di lettura (all’inizio del febbraio del 2016) segnalava l’uscita del Meridiano che raccoglie romanzi, cronache e racconti dello scrittore. Fra questi, Verso la foce, del 1989:

“Quand’ero giovane, leggevo sempre, avevo paura di perdermi qualcosa. E adesso ho l’idea che il perso e il trovato vadano nello stesso alveo.
Forse l’unica cosa da capire è quanto siamo estranei e inadatti alla ‘vita piena di pena’, l’unica che c’è (calamità, dolore, morte). E come tutto lavori a dismemorarci, ci aiuti a mettere degli argini, per poter dire che ‘ha i suoi lati buoni’ (…); insomma per dire e mostrare sempre e dovunque che è una cosa tutta diversa da quello che è”.

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La penna e la pena

Elena Ferrante, I margini e il dettato, e/o 2021 (pp. 160, euro 15)

Richiesta di tenere tre lezioni sulla sua attività di scrittrice, la sua poetica, la sua tecnica narrativa, Elena Ferrante accoglie l’invito ma quello che offre, più che resoconto istruttivo o vademecum di raccomandazioni, è racconto: ci sono scrittori che non amano, o non sanno, parlare di sé, altri invece per i quali il loro scrivere è materia dello scrivere stesso. La Ferrante cita in proposito Beckett, ma quel che ne dice si adatta bene anche a lei: “È raro che chi dedica la propria esistenza alla scrittura non abbia lasciato almeno qualche rigo sull’io ficcato a forza in un angolino del cervello a far parole scritte. E non ho dubbi che in quelle righe non ci sia semplicemente una sorta di omaggio alla passione di scrivere, ma una porta o porticina aperta sul senso della propria opera, difetti e meriti”. Questo libretto è appunto quella porta, che ci fa entrare nella storia di una vocazione che si fa strada dal momento in cui la futura, potenziale scrittrice, mette a fuoco il fenomeno “sorprendente”, descritto da Svevo, per cui “l’io di chi vuole scrivere si separa dal proprio pensiero e, nel separarsi, quel pensiero lo vede” e si sente tenuto a metterlo sulla carta, o a cercare di farlo quantomeno, perché deve fare i conti con il fatto che “il presente – tutto il presente, anche quello dell’io che scrive, una lettera dopo l’altra – non ce la fa a trattenere con nitore il pensiero-visione, che viene sempre prima, che è sempre il passato, e che perciò tende a offuscarsi”.

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Vivere nel posto che ci fa felici

Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi 2021 (p. 146, euro 18)

A quarant’anni Fausto lascia la città e torna alle montagne sotto il Monte Rosa, che conosce fin da ragazzino (starne lontano è probabilmente la causa dei “problemi con la donna che era diventata sua moglie”). E là incontra la titolare del ristorante del posto – “arrivata anche lei dalla città”, trentacinque anni prima –, che non tradisce il nome evocativo e promettente che si è scelta, Babette, e sa infatti “cercare soluzioni pratiche a problemi esistenziali”. Ne è assunto come aiutante in cucina, facendosi così, anche lui, una comparsa nel “travestimento collettivo” cui si prestano pastori e boscaioli diventando per tre mesi all’anno, durante la stagione sciistica, “macchinisti di seggiovia, addetti all’innevamento, gattisti e soccorritori”. Che cosa manca a questa favola alpina? Lei, la bella, ed eccola dunque: la ragazza che serve ai tavoli, “giovane, allegra, aria da giramondo”: “un segno dei tempi pure lei come le fioritura fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi”.

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Nostalgia della vita nella vita

François Jullien, La vera vita, Laterza 2021 (pp. 149, euro 18)

“La vita si restringe”, giorno dopo giorno, ma non è tutto qui: su di essa può a un certo punto gettare un’ombra il dubbio che non sia davvero vita. Anche se “tutti, chi più chi meno, facciamo in modo di andare avanti, come se non avessimo davvero provato questo dubbio”, senza tuttavia riuscire a dissipare una vaga, intermittente “nostalgia della vita nella vita”, la sensazione – del tutto fondata – che la vita non coincida con sé stessa, non si lasci “mordere, nella sua immediatezza presente”. Quello che non fa la vita cercano di farlo i romanzi, sforzandosi di “esplorare la vera vita”. La letteratura, non la filosofia che – in conseguenza dei “pregiudizi” affermatisi a partire dai Greci (dal privilegiamento dell’Essere rispetto al Divenire al principio di non contraddizione, fino a un mondo delle idee distinto da quello in cui viviamo) – “ha lasciato perdere il vivere” nella sua singolarità, nella ambiguità e nella contraddittorietà, nell’imprendibilità che lo costituiscono.

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Il solitario sforzo di capire le cose di ogni giorno

Emanuele Trevi, I cani del nulla. Una storia vera, Einaudi 2021

La protagonista del romanzo – pubblicato la prima volta nel 2003 – la vediamo in copertina, fotografata dalla moglie dello scrittore, Martina. Le due danno vita con lui a un ménage à trois in cui, scrive Veronesi nell’introduzione, “Trevi è l’allievo; sua moglie è la compagna di banco; la loro cagnetta Gina, con le sue misteriose manifestazione di dio minore, è la maestra”. Alla quale sono riservati passi nei quali chi ha o ha avuto dimestichezza con un cane non può non riconoscere la propria esperienza: “Dormicchiava, la cagnetta; oppure, di quando in quando, ci guardava insonnolita dalle strette feritoie degli occhi semichiusi. Con un lievissimo movimento ad arco della coda, in quei crepuscoli fra sonno e veglia, confermava e testimoniava l’immenso, incrollabile, fanatico amore provato per noi: indiscutibilmente, i suoi padroni. (…) Concordi, io e mia moglie, la ignoravamo. Ma Gina non si scoraggia mai, non si offende mai”.

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La pietà e la colpa

Bohumil Hrabal, Io e i miei gatti, Guanda 2021 (pp. 180, euro 16)

“Io scrivo sempre di quelle cose straordinarie che mi sono capitate, e di quelle cose invidiabili che sono capitate agli altri. Per cui il mio punto di partenza è sempre qualcosa di autentico, all’inizio c’è sempre un avvenimento, un’esperienza. Ma il gusto che fa parte dell’essere umano non impedisce che io, con l’aggiunta di un po’ d’immaginazione, non riorganizzi in maniera diversa la successione dei fatti, e che quindi in quell’autenticità io non ci rovesci poi dentro il lievito di una fantasia che vada a precisare meglio i contorni, così come avviene col succo d’uva che si trasforma in vino, o il mosto in birra”.

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Luoghi dell’inaccessibile

Jazmina Barrera, Quaderno dei fari, La Nuova Frontiera 2021 (pp. 128, euro 15)

Un libro sui fari senza immagini di fari. Non uno dei tanti libri fotografici su queste strutture che sono luoghi, ma un libro di storia e di storie, di pensieri e divagazioni. In ciò accostabile a Il ciclope di Paolo Rumiz (Feltrinelli 2015), ma rispetto a quello più marcatamente segnato da digressioni autobiografiche e, soprattutto, considerazioni esistenziali. Storia dei fari per sommi capi, da quello di Alessandria che diede il nome a tutti gli altri a quelli moderni che non han bisogno di un uomo del faro. Storia dei fari ma anche dei loro guardiani quindi, della loro vita del tutto unica, di per sé generatrice di storie: “Nel confino del faro, il guardiano è come un naufrago. Naufrago per volontà propria. Che sia un uomo in fuga da un passato oscuro, da una delusione amorosa o ideologica, o in cerca di un rifugio nella solitudine fisica da quella che si porta dentro, il guardiano del faro sceglie il proprio esilio.”

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Un romanzo di formazione, tra Natura e Storia

Benjamin Myers, All’orizzonte, Bollati Boringhieri 2021 (pp. 239, euro 16,50)

La guerra, la seconda guerra mondiale, è finita, ma è come una malattia – per alcuni “curabile solo col passare del tempo”, incurabile per molti che ne soffrono fino alla fine dei loro giorni –, e “gli unici vero confini non (sono) trincee, rifugi e posti di blocco ma quelli tra roccia, mare e cielo”: tra Storia e Natura si svolge la storia dei giovane protagonista, Robert, destinato a fare il minatore come i suoi e proprio per questo deciso, prima di inabissarsi a estrarre carbone, a vedere il mondo, che per lui è quello dell’Inghilterra settentrionale, le sue coste dirupate, i suoi villaggi sperduti. Descrizioni ariose di quei paesaggi, dei loro colori, odori, suoni occupano le pagine in un crescendo di entusiasmo che si apre a esperienze di immersione nelle atmosfere dei luoghi durante le quali “il tempo (gli sembra) statico” e ha l’impressione di “scivolare fuori dal presente – o forse, al contrario, di essere immerso così profondamente nel qui e ora – al punto da dimenticare chi è”. È in questa condizione di apertura e di adesione a ciò che lo circonda che il sedicenne incontra l’anziana e solitaria abitante di un vecchio cottage malandato, isolato di fronte al mare, e tutto cambierà. Perché i due si intendono subito: “ho semplicemente deciso di andare un po’ in giro”, le dichiara presentandosi il giovane; “Oh, mi piace – approva Dulcie.

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La paura della morte che avvelena la vita

Gustavo Zagrebelsky, Qohelet. La domanda, il Mulino 2021 (pp. 162, euro 14)

“V’è tempo di nascere, e tempo di morire”, “di piangere e di ridere”: chi non ha sentito, o detto, in occasioni e contesti diversi, massime simili, magari dimentico della loro fonte? Il Qohelet – o Ecclesiaste, in quanto immaginato dal suo ignoto autore, fra il III e il II secolo a. C., come un seguito di proposizioni da proporre a un’assemblea di uditori – è una miniera di citazioni, assemblate senza un ordine preciso, a volte contraddittorie, ma collegate da un concetto preciso: tutto è vanità, comprese la vita e la morte, compresa la meditazione che su di esse si può fare. E questo proprio perché la morte azzera ogni significato, ogni scopo.

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Tutti narcisisti, ma non allo stesso modo

Vittorio Lingiardi, Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi 2021 (pp. 124, euro 12)

È un narcisista, si dice di una persona le cui qualità appaiono limitate da un tratto inaggirabile, da un vizio che ne mina le potenzialità, senza badare al fatto che “Il meccanismo auto-erotico allogasi, qual più qual meno, in tutte le anime”. Così Carlo Emilio Gadda, citato in esergo da Lingiardi che ne conferma la tesi: “Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità”. Ecco il punto: c’è l’amor proprio e c’è l’amor di sé, diceva Rousseau – uno che di narcisismo se ne intendeva –, si tratta di considerarne le rispettive proporzioni. “Funambolo dell’autostima, Narciso cammina su una corda tesa fra un sano amor proprio e la sua patologica celebrazione”. Ma dove, come e perché, finisce la salute e inizia la patologia?

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Dalle nuvole degli scrittori alle nubi degli scienziati

Vincenzo Levizzani, Il libro delle nuvole. Manuale pratico e teorico per leggere il cielo, il Saggiatore 2021 (pp. 276, euro 22)

“Ora sia il tuo passo / più cauto: a un tiro di sasso / di qui ti si prepara / una più rara scena / (…) Sopra il tetto s’affaccia una nuvola grandiosa”, scriveva Montale, e “nella forma che il caso e il vento danno alle nuvole l’uomo è già intento a riconoscere figure: un veliero, una mano, un elefante…”, notava Calvino.

Nuvole, dicono i poeti, gli scrittori; nubi, invece gli scienziati. Gli inglesi hanno un solo termine, cloud (che tra l’altro, nel web, ha conosciuto fortune recenti); gli italiani due, e nuvole, non c’è che dire, è il termine preferito dalla lingua quotidiana come da quella degli artisti, anche dei pittori, dalle nuvole stilizzate di Giotto, “asservite a un discorso teologico” a quelle enigmaticamente minacciose della Tempesta di Giorgione, senza dimenticare i “nuvoli” di cui parla Leonardo, “creati da umidità infusa per l’aria, la quale si congrega mediante il freddo che con diversi venti è trasportato per l’aria”: definizione scientifica, ma ancora ricca di suggestioni poetiche. Le quali cederanno il passo alla logica scientifica con Cartesio, che si proponeva di “spiegare la natura delle nubi in tal modo che non rimanga più nessun motivo di stupore”. Una scelta decisa, una perdita forse: “In principio tutto era vivo”, scrive Paul Auster: “Anche i più piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome”. Ma un nome ce l’hanno ancora, le nuvole, anche se non serve a nominarle incantati, ma a classificarle, secondo i principi della “fenologia”, la scienza delle nubi: i termini attuali echeggiano quelli ideati a inizio Ottocento da un inglese, Luke Howard, e impiegati anche da Goethe nel suo saggio La forma delle nuvole.

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La scrittura, l’oblio, la morte

Björn Larsson, Nel nome del figlio, Iperborea 2021 (pp. 211, euro 16,50)

“Ogni vita umana ha il diritto di essere ricordata e raccontata, ma non tutte si prestano a essere trasformate in letteratura, non tutte meritano di diventare modelli a cui attenersi o da cui scostarsi, a meno che l’autore non aggiunga o sottragga, non si serva della fantasia per raccontare una storia personale capace di convincere e coinvolgere il lettore. In fondo è raro che una vita reale abbia le caratteristiche estetiche ed esistenziali per diventare un buon libro”. Abbiamo di recente letto qualcosa di molto simile: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, diceva Paola Baratto (Malgrado il vento. Racconti, Manni 2021, ne abbiamo parlato qui): sta a chi raccoglie quei racconti, quei ricordi, leggerci ciò che contengono ma non dicono, ciò che solo la sensibilità dello scrittore può intravedervi.

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Raccontare i luoghi, raccontare il dolore

Germana Urbani, Chi se non noi, Nottetempo 2021 (pp. 209, euro 14)

Lui, lei, l’altra, l’amore e il disamore: sarebbe una storia come tante se non intervenissero due componenti decisive.

L’ambiente in cui la vicenda si svolge, innanzitutto, il paesaggio che ne è parte sostanziale: gli orizzonti sconfinati di terra e di acqua del Delta del Po, come nei film di Mazzacurati e nelle fotografie di Luigi Ghirri, come nel Celati di Verso la foce, nel Malguti di Se l’acqua ride (ne abbiamo parlato qui), nel Belpoliti di Pianura (ne abbiamo parlato qui) . Luoghi che segnano l’identità e il destino dei loro abitanti, fatti di “un impasto di terra e di acqua”, di un “fango che anche fuggendo lontano ti rimane addosso; luoghi che la scrittura di Urbani sa restituire in contrappunto alla narrazione dei fatti (“Con lo sguardo cerco sull’argine di fronte a me un filare composto di pioppi altissimi che, a intervalli perfetti, rompono la monotonia dell’orizzonte. Si alzano maestosi da queste terre piatte come monaci in processione, custodi mistici del silenzio naturale delle cose”).

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Una regione ignota e favolosa

Roberto Calasso, Memè Scianca, Adelphi 2021 (pp. 96, euro 12)

La scomparsa dell’autore, contemporanea all’uscita del suo libro, ne complica la lettura, soprattutto quando si tratta di uno scritto autobiografico: la tentazione di scorgere segni premonitori del carattere e dell’opera del protagonista nelle sue reazioni ai fatti vissuti e nelle sue prime esperienze è incoraggiata dalla certezza che nessuna ulteriore notizia da parte di chi ha scritto, nessuna possibile messa a punto di quanto riferito potrà modificare ciò che leggiamo. Anche perché la fase della vita che si è inteso raccontare era, in questo caso, già circoscritta da una constatazione definitiva: “Una lastra impenetrabile e trasparente separa ciò che ho vissuto a Firenze sino alla fine del 1954 da tutto il resto. Per quanto remoto, quel resto, che ha inizio con Roma, fa già parte di oggi”. E ha dunque semmai lasciato tracce e seminato risonanze in altri generi di scritti. Quei primi dodici tredici anni di vita, invece, hanno tardivamente chiesto di essere evocati passando di ricordo in ricordo in ragione della significatività dei  ricordi stessi, del loro carattere in qualche modo iniziatico, il quale, in fondo, ne spiega la persistenza: un “glicine fiorito è il primo colore” che si offre alla pura contemplazione – “Lo guardavo soltanto” – ; una barriera fitta di alberi oltre il confine del giardino in cui si trova è “la prima apparizione dell’āraņya vedico, la foresta dei saperi segreti”; la predilezione per il sentir raccontare storie si manifesta inequivocabilmente di fronte alle rappresentazioni di un burattinaio; il fascino ineguagliabile che può ispirare la figura dello scrittore si fa esperienza nel racconto di un amico conquistato dalla lettura di Proust, che rappresenterà una precoce indimenticabile esperienza anche per un Calasso tredicenne.

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