Il giornalismo filosofico di Foucault

Michel Foucault, Discipline, poteri, verità. Detti e scritti 1970-1984, Marietti 1820, 2021 (pp. 264, euro 22)

Mentre non mancano ragioni per un Ritorno a Jean-Paul Sartre, come recita il titolo di un recente libro di Massimo Recalcati (ne parliamo qui), altrettanto convincenti sono le iniziative volte a richiamare l’attenzione su colui che gli fu successore, come alcuni sostengono, quale intellettuale engagée: dalla ripubblicazione di Io, Pierre Rivière (ne parliamo qui) un paio d’anni fa a quella recente della biografia di Michel Foucault, il filosofo del secolo, secondo Didier Eribon (Feltrinelli 2021), dall’uscita di Medicina e biopolitica. La salute pubblica e il controllo sociale, che riunisce alcune sue conferenze del 1974 (Donzelli 2021) alle riprese del suo pensiero che la pandemia e le misure adottate hanno stimolato, con Agamben e Zagrebelsky, e altre accese polemiche (fra tutte quella tra Paolo Flores d’Arcais, direttore di “Micromega”, e il filosofo Roberto Esposito, nel volume 8 del 2020).

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Finché puoi, continui a non morire

Emmanuel Carrère, Yoga, Adelphi 2021, (pp. 312, euro 20)

“Fra il mio progetto iniziale di un libricino arguto e accattivante sullo yoga e il libro che (…) ho cominciato a mettere insieme (…) sono successe molte cose imprevedibili, alcune atroci”. “ Ora sono passati sei mesi e il libro è finito”.

Che cos’è successo in questi sei mesi? Un corso di yoga e il proposito di scriverne, appunto, ma poi un’interruzione inaspettata, drammatica: l’attentato a Charlie Hebdo, e, ancor più drammatica, la caduta in uno stato mentale che richiede il ricovero e trattamenti drastici; ma ne esce, l’autore-personaggio: un soggiorno a Leros, isola asilo di rifugiati, e siamo all’epilogo: “Finché puoi, continui a non morire. Continui a non morire, ma non ci metti nessun entusiasmo. Non ci credi più. Sei convinto di non avere più niente da giocarti, e che non succederà più niente. Invece un giorno succede qualcosa. L’ignoto, desiderato e temuto, assume le fattezze di un’ignota particolare”. Happy end di una trama irraccontabile: l’autofiction pare essersi qui risolta – quanto ai fatti almeno – in autobiografia, ma l’ultimo romanzo di Carrère non si propone di dare una trama alla vita, di racchiuderla in un prima, un durante e una fine – come fanno o si continua nonostante tutto a credere debbano fare i romanzi. Ciò che ci offre è piuttosto un brano – o, meglio, alcuni brani in successione – di esistenza: un romanzo in scala uno a uno con la vita, ma solo a tratti, non alla maniera di Knausgård però (La mia battaglia, Feltrinelli 2014-2017). Nessun desiderio di dire tutto quel che è accaduto, giorno per giorno, momento per momento, ma di scrivere quel che ha contato in quel cammino di miglioramento di sé – dettato dalla “voglia di condurre una vita più coerente, unificata, meno inquieta” – ”, che il protagonista identifica come un proprio tratto caratterizzante anche se continuamente contraddetto dall’altro polo della sua personalità: “il mio unico, vero problema (certamente innegabile, ma comunque un problema da ricchi) era un ego ingombrante, dispotico, di cui aspiravo a ridurre il potere, e la meditazione è fatta appunto per questo”. La meditazione: sono una quindicina le definizioni che di essa via via se ne danno, fino a giungere, verso la fine, non a una sintesi, ma solo a un elenco. È in ogni caso per imparare a praticarla che si fa yoga, e si fa yoga – lo si ribadisce più volte – per sconfiggere la prevalenza dell’ego. Senza grandi risultati, comunque: la meditazione dovrebbe metterci “al corrente dell’esistenza altrui (…) Se non lo fa, se resta una faccenda fra noi e noi, allora non serve a niente: l’ennesimo giochino narcisistico”, che è quello che il protagonista – ossia Emmanuel – ha paura che la meditazione sia, almeno per lui.

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“Questo libro che crede di essere un romanzo”

Paolo Nori, Sanguina ancora. L’incredibile vita di Fëdor Michajlovič Dostoevskij, Mondadori 2021 (pp. 288, euro 18,50)

“Sanguina ancora”: che cosa? La ferita aperta da un libro, Delitto e castigo, “quel libro pubblicato centododici anni prima a tremila chilometri di distanza”. E perché, sanguina? Perché, “in un certo senso” a lui, l’autore, piace sanguinare: “nel senso che viviamo, mi sembra, in un tempo in cui valgono salo le vittorie e i vincenti, un tempo in cui il participio presente perdente non indica una condizione temporanea, è un’offesa, in un tempo in cui, se ti chiedono ‘Come stai?’ (e te lo chiedono, continuamente), devi rispondere ‘Benissimo!’ col punto esclamativo, in un tempo in cui devi nascondere le tue ferite e i tuoi dispiaceri, come se tu non fossi fatto di quelle, e di quelli”. Eccolo qui, Nori. Il Nori che conosciamo meglio, quello delle Parole senza le cose (Laterza 2016) e di Undici treni (Marcos y Marcos 2017), ne parliamo qui. Ma, in questo libro, a scrivere è soprattutto il Nori studioso di letteratura russa, lo stesso che un paio danni fa ha proposto un “viaggio sentimentale” con La grande Russia portatile (Utet 2019) e l’anno prima, offrendoci un “corso sintetico di letteratura russa”, ci ha informato che I russi sono matti (Salani 2018). Il professor Nori dunque, che però non rinuncia al suo periodare svagato: “Memorie del sottosuolo di Dostoevskij, o Ricordi del sottosuolo, o Appunti dal sottosuolo, anche questa storia dei titoli, un volta ho visto un romanzo di Dostoevskij che si intitolava Gli indemoniati, ‘Vacca’ ho pensato, ‘un inedito’, invece era I demòni che gli avevan cambiato titolo”.

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Una lezione di metodo

Gianni Sofri, L’anno mancante. Arsenio Frugoni nel 1944-45, il Mulino 2021 (pp. 142, euro 12)

Suo allievo negli anni Cinquanta alla Normale di Pisa, Gianni Sofri scrive più di sessant’anni dopo di Arsenio Frugoni – bresciano d’adozione, medievalista, autore di Arnaldo da Brescia nelle fonti del secolo XIII. Perché? Perché imparò da lui qualcosa di essenziale, un’“idea di ricerca” segnata dal “suo gusto del suggerire anziché dell’esplicitare”, dal suo invito continuo a leggere finemente nelle righe e fra le righe. E ancora, dal suo amore per la complessità”. Tutte qualità che possono essere attribuite alla ricerca di Sofri su quei dieci mesi nei quali Frugoni fece il pendolare – in bicicletta, più di 120 chilometri all’andata e altrettanti al ritorno – fra Solto Collina, sul lago d’Iseo, dove stava la famiglia, Brescia e Gargnano, il paese gardesano in cui risiedeva Mussolini (circostanza che, fra altri, ha documentatamente ricostruito  il gargnanese Bruno Festa, giornalista e storico, in Polvere nera. I 600 giorni di Mussolini a Gargnano). Il fatto è – e qui sta una seconda motivazione della ricerca – non si conoscono con certezza le ragioni per cui il ventinovenne storico andasse là. Se non quelle ufficiali: padrone della lingua tedesca dopo un periodo di studio a Heidelberg e un soggiorno di lavoro a Vienna, trova impiego come insegnante di italiano e interprete presso l’Ufficio di collegamento fra l’Alto comando della Wermacht e la Repubblica sociale.

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Un ricercatore libero, un po’ anarchico

Philippe Ariès, Interrogare la storia. Pagine ritrovate, Marietti 1820, 2021 (pp. 110, euro 9)

Nel 1968 abbiamo potuto leggere Padri e figli nell’Europa medievale e moderna, dieci anni dopo Storia della morte in Occidente: Ariès è stato una delle voci emblematiche della “nuova storia”, il pioniere della storia delle mentalità che ci ha spiegato come ciò che sembra attraversare indenne i secoli non è in realtà sempre stato come lo conosciamo. Né il modo di rapportarsi ai bambini né quello di concepire la morte. Senonché, ci spiega Gabriella Airaldi nella sua introduzione, Ariès fu uno storico “molto lontano dal mondo delle “Annales”: “un ricercatore libero, un po’ anarchico, come ogni ricercatore dovrebbe essere”, per usare le sue stesse parole; oltre tutto conservatore per tradizione familiare e convinzione personale. Ma attenzione: tradizionalista perché non disposto “ad accordare i valori e le norme di un modo di vita allo sviluppo delle razionalità tecniche” (è Foucault in questo caso a parlare, in uno degli interventi contenuti in un altro recente libro della stessa Marietti 1820 che raccoglie scritti del pensatore francese, Discipline, poteri, verità), capace quindi di vedere quanta parte nei discorsi del Sessantotto avessero “i miti e le immagini del mondo perduto dei nostri antenati”, quale ruolo giocassero temi “passati dall’estrema destra reazionaria e ancora un po’ tradizionalista a una estrema sinistra nuova”.

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Un atlante per gli umani del primo Antropocene

Telmo Pievani, Mauro Varotto, Viaggio nell’Italia dell’Antropocene. La geografia visionaria del nostro futuro, Aboca 2021 (pp. 189, euro 22)

Prima del testo sono le carte geografiche, a partire da quella in copertina, a impressionare. Ognuno, immagino, guarda ai luoghi in cui vive: Brescia non la si trova, non è segnata nella carta. Ma il disappunto si trasforma in consolazione appena ci si rende conto che il suo nome non appare come quello di altre città che ancora si trovano sulla terra ferma. A differenza, per rimanere dalle nostre parti, di Cremona e Mantova, i cui nomi spiccano sull’azzurro del mare che ha invaso la Pianura padana; Verona è lì lì: una città della costa… A quale era geologica risale la situazione così rappresentata, viene da chiedersi, se non si è ancora letto il sottotitolo: la geografia di quest’Italia inondata al nord e frastagliate di golfi e fiordi per il resto delle sue coste non è quella di un passato lontano, ma di un futuro abbastanza vicino (se si ragiona su scala geologica). Mille anni. Il 2786. Mille anni dopo che Goethe aveva iniziato il suo Viaggio in Italia. È vero che si tratta di una geografia “visionaria”, ma lo scenario, ci avvertono gli autori, è “utile per riflettere sul fatto che l’assetto ereditato del nostro territorio non è affatto scontato, e che è oggi nostra la responsabilità di orientarlo in una direzione o nell’altra”. Si tratta di vedere “se la nostra azione rimarrà sorda ai moniti di studiosi, scienziati e organizzazioni internazionali, al loro invito a invertire la rotta, riflettendo sulle ricadute climatiche e ambientali del nostro attuale modello di sviluppo e di vita”.

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Il rischio di vivere

Muriel Barbery, Una rosa sola, e/o 2021 (pp. 176, euro 16,50)

Occorre superare il disagio che si può avvertire all’inizio: la lingua ricercata, densa di metafore arrischiate che sembrano voler echeggiare le sensazioni cangianti e sottili – i profumi, i colori dei fiori innanzitutto – che prova la protagonista, le atmosfere sospese in cui viene a trovarsi, i dettagli dal significato sfuggente concorrono a raccontare un’esperienza che si direbbe oscillare fra l’inedito e l’ineffabile. E i brani dal sapore sapienziale che si alternano ai capitoli accentuano questo ambiente narrativo che può creare perplessità. Ma è Rosa, francese di padre giapponese, a confrontarsi con il Giappone, con la casa di Kyoto in cui il genitore era vissuto e che ora lei ha raggiunto per assistere alla lettura del testamento: stupore e disorientamento, cambiamenti repentini di stati d’animo, una ricorrente quanto inspiegabile impressione di far ritorno in questi luoghi che non aveva mai visto, culminano nella scoperta che il padre,  agiato mercante d’arte ed esteta raffinato, da sempre assente dalla sua vita, aveva in realtà seguito da lontano ma con amore la sua vita, fin dall’infanzia e ora che non c’è più l’ha affidata Paul,  suo esecutore testamentario, che le farà da accompagnatore, colto e sensibile quanto discreto, nelle visite a templi che poco a poco rivelano alla trentacinquenne europea i tratti di una cultura altra.

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Le ragioni dei vecchi

Ancora su Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza di Francesco Stoppa (Feltrinelli 2021): uno scambio con l’autore dopo l’incontro a Brescia dello scorso 11 giugno, al Bistrò Popolare

Gentile professore,

Le età del desiderio – come credo risulti evidente dalla nota di lettura che gli ho dedicato – mi ha rimandato ad altri libri per me significativi nel lavoro di elaborazione della condizione del tutto prevedibile ma per molti versi inimmaginabile che è l’invecchiare. Fase conclusiva della “personalizzazione”, stando al Sartre rivisitato da Recalcati (ne abbiamo parlato qui), impegnativa e ineludibile, a meno che ci si voglia adeguare alla figura del’anziano così come viene proposta (o imposta), assumendola su di sé come nelle età precedenti si erano indossate le maschere corrispondenti a ruoli e collocazioni sociali; occasione di una “seconda vita” – come recita il titolo di Jullien (ne abbiamo parlato qui) –, se si sa far propria la possibilità di sottrarsi a quel bisogno che ha avuto un ruolo portante nella prima vita: il bisogno di riconoscimento, anche nell’amore, il bisogno di “imporsi al mondo e stabilirvi il proprio posto”. È soprattutto questa, la prospettiva di Jullien, ad essermi risultata convincente nel lavoro di elaborazione cui accennavo, e mi è parso di poterla ritrovare nel suo libro. Anche se da un punto di vista diverso: Jullien lascia intendere che di quel bisogno di riconoscimento ci si possa sbarazzare, che degli altri, nella sostanza, si  possa (finalmente) fare a meno; illusione che invece non mi pare trasparire dal suo discorso: l’“arte di tramontare” somiglia alla “riforma” della propria esistenza di Jullien, ma è un’arte –  un’“opera”, come ha efficacemente sottolineato nella conversazione a Brescia – che si esercita in relazione agli altri, sotto lo sguardo degli altri (anche, o soprattutto, aggiungerei, degli altri che sono in noi, che siamo noi).

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Un narcisista di pelle sottile

George Simenon, La mano, Adelphi 2021 (pp. 172, euro 18)

C’è il morto, non un assassino. Eppure si legge fino alla fine con il fiato sospeso.

Donald vive una vita di cui si sente prigioniero, ma non è ribellione la sua, è solo scontentezza, una scontentezza di sé che viene da lontano. Non è innamorato di Mona, la moglie dell’amico. Non è innamorato di nessuna donna. Si accontenta di Isabel, la moglie. Remissiva, ma giudicante: “mi era capitato di essere sgarbato, ingiusto, ridicolo o che so io, con lei o con le nostre figlie. Neanche una parola. Il suo sorriso era indelebile”, “quel suo terribile sorriso che perdona o che…”: sposato da anni, lui non la sa decifrare, lei gli sa leggere dentro. Non le sfugge l’indifferenza e insieme l’invidia che lo trattengono dal soccorrere l’amico che si è perso in una tempesta di neve, a pochi passa dalla loro casa.

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Le due solitudini

Aurelio Musi, Storia della solitudine. Da Aristotele ai social network, Neri Pozza 2021 (pp.172, euro 17)

Non giova quel sottotitolo che fa pensare a uno dei soliti libri compilativi capaci, almeno nelle promesse, di offrirti sintesi fulminanti di temi strappati a trattati prolissi e difficili. Perché la storia che qui ci viene raccontata, colta e insieme piacevole alla lettura, opera delle scelte precise, individua criteri efficaci e trasparenti nel ricondurre le forme della solitudine a pochi essenziali modelli che offrono “una lente attraverso la quale rileggere la storia culturale dell’Occidente a partire dalle sue radici nell’antichità classica”. L’ambivalenza della solitudine, innanzitutto. Come di ogni sentimento umano, del resto, faceva notare il più grande storico dei sentimenti e delle mentalità, Lucien Febvre, secondo il quale “una specie di comunità fondamentale unisce sempre i poli opposti dei nostri stati affettivi”, per cui è possibile distinguere una solitudine buona da una cattiva, la solitudine “depressiva” da quella “evolutiva”, la loneliness dalla solitariness (com’è noto gli inglesi hanno in proposito due termini distinti), continuando tuttavia a riconoscere una continuità profonda fra i due modi di vivere una condizione che tutti – in misura e secondo modi diversi – conosciamo per esperienza.

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La conversione di un uomo di scienza nell’Islanda disperata di fine ’700

Bergsveinn Birgisson, La fonte della vita, Iperborea 2021 (pp. 317, euro 18)

I luoghi, e le atmosfere, li conosciamo già: si tratta delle lande desolate che ci ha fatta conoscere Jón Kalman Stefànsson nella sua trilogia (ne parliamo qui), di quel “paese inospitale” “agli estremi confini del mondo”, di quella “grande isola solitaria” che è l’Islanda. I tempi in cui si svolge la storia che ci racconta Birgisson sono diversi però: non la fine dell’Ottocento, ma quella del secolo precedente, e la situazione è ancor più disperata. Eruzioni vulcaniche in continuazione che sciolgono nevi e spaccano ghiacciai, vomitando ovunque piogge di cenere che bruciano le piante, uccidono gli animali, affamano gli umani. Già la lettura di Stefànsson aveva evocato il Leopardi del Dialogo della Natura con un Islandese; qui il riferimento è esplicito: “La natura afferma che non le importerebbe di annientare l’intero genere umano, nemmeno se ne accorgerebbe (…). E con ciò pare che si principi a cancellare dai cieli il buon Padre che finora si era interessato ai nostri travagli”. Un’ironia lieve, e amara, percorre la narrazione e non è tanto la Natura il suo bersaglio, ma gli uomini. Uomini che osano infierire su una terra come quella in un periodo come quello: i Danesi. Padroni dell’isola, che dalla Reale camera delle Finanze di Copenhagen, il capo coperto da parrucche incipriate e pieni di pidocchi poggiate sui capelli spalmati di sego, non esitano a immaginare il rimedio finale per quegli accidiosi e superstiziosi islandesi: il trasferimento forzato di quanti fra loro si dimostrino abili al lavoro, idonei a passare dalla fame che soffrono allo sfruttamento della fabbriche che sul continente la rivoluzione industriale sta diffondendo. Corrotti e ipocriti, i politici della capitale si propongono di “salvare” circa ventimila persone, ma prima si premurano di organizzare una spedizione al fine di disporre di un rapporto dettagliato “sulle condizioni di vita delle comunità locali”, corredato di informazioni su quanto di “curioso” o “antico” sia rintracciabile in quella terra di streghe e barbari e di aggiornamenti delle carte geografiche spesso approssimative di cui all’epoca si dispone.

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Un’anestesia permanente che derealizza il mondo

Byung-Chul Han, La società senza dolore. Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite, Einaudi 2021 (pp. 85, euro 13)

“Se le sofferenze vengono lasciate solo alla medicina, ci sfugge il loro carattere di segni”. Se corri dal medico ad ogni malessere stai barando con te stesso, se la medicalizzazione si fa prassi diffusa è la società che rivela una falla e dunque compensa facendoci vivere in “un’anestesia permanente” che “derealizza il mondo e fa apparire plausibile e ragionevole evitare “qualsiasi circostanza dolorosa. Perfino le pene d’amore sono diventate sospette”: un innamoramento che faccia soffrire va immediatamente rifiutato, così come il conflitto. Non solo nella vita privata, anche in politica, dove perciò prevalgono “il conformismo e la pressione al consenso”. Non c’è alternativa, dunque mettiti l’anima in pace, non soffrire per come vanno le cose. Non importa se intanto quella che teniamo in vita è sempre più “una democrazia palliativa”.

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Appartati, discreti maestri di vita

Paola Baratto, Malgrado il vento. Racconti, Manni 2021 (pp. 80, euro 12)

Sono tornati, gli appartati, discreti maestri di vita che popolano i racconti di Paola Baratto: dopo il romanzo (Lascio che l’ombra, segnalato in questi Appunti il primo settembre 2019), Malgrado il vento riprende le storie raccolte nel 2014 in Giardini d’inverno e due anni dopo in Tra nevi ingenue. Un dato di continuità da subito evidente è la brevità dei racconti, un tratto che ne è sostanza, non rispondendo tanto a una scelta stilistica, quanto a un impegno preciso, quello di mirare all’essenziale e di questo dire, senza farsi distrarre, senza distrarre il lettore. Il succo della storia è già lì, sin dalle prima righe, e così il suo protagonista. Non ci viene chiesto di arrivarci attraverso trame complicate che mettono in campo schiere di personaggi. Ciascuna delle storie che ci vengono proposte potrebbe costituire il nocciolo di un racconto lungo, se non addirittura di un romanzo – anche perché, sia pure in pochi tratti, spesso si dà conto del passato in cui è maturata la fisionomia del personaggio –, ma una scelta del genere tradirebbe il senso che l’autrice sembra assegnare alla scrittura: dire ciò che davvero conta, appunto, senza confonderlo in un intrico di fatti e discorsi come a imitare la vita. La buona scrittura, la scrittura vera, quella che giustifica il lavoro dello scrivere e assicura il piacere del leggere, quella che dà senso ad entrambe le attività, opera una distillazione della vita, non ne persegue la mimesi. Ha bisogno della vita, la letteratura, se ne alimenta, ma è altro. Lo leggiamo nelle prime pagine, in una premessa – Le stagioni degli altri – che rappresenta di fatto la dichiarazione di una poetica: “Non c’è letteratura nei racconti della gente”, quegli stessi racconti che pure vale la pena di ascoltare, di saper ascoltare – “un’inclinazione”, questa, che risulta essere ormai “una mercanzia rara”. Come il saper narrare, del resto.

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L’imperativo genealogico

Elisabetta Abignente, Rami nel tempo. Memorie di famiglia e romanzo contemporaneo, Donzelli 2021

“Quel che possiamo fare per coloro che ci hanno preceduto è ricordarne i nomi e raccontarne le vite”. Ma non si tratta solo di loro. Quelli che scrivono della propria famiglia lo fanno “per capire sé stessi attraverso uno studio anatomico della cellula della società che li ha generati” – “nella consapevolezza che una personalità si forma in continuità e in opposizione a chi, sulla linea generativa la precede e la segue” – e insieme per “guardare alla storia collettiva di una comunità, di un paese, di un popolo”. Lontane dal ripiegamento intimistico, come dal narcisismo che si può annidare nella nostalgia, scrivendo “memorie di famiglia” autori fra loro diversi hanno messo al mondo romanzi intramontabili, componenti essenziali del nostro patrimonio culturale: da Lessico famigliare dei Natalia Ginzburg alla trilogia del Labirinto del mondo di Marguerite Yourcenar, dai Buddenbrook di Thomas Mann a Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcia Marquez, da Gli anni di Annie Ernaux fino al recente, possiamo aggiungere, “ritratto di una famiglia esperta in autodistruzione” in cui consiste  – secondo la definizione dell’autore stesso –  Il libro delle case di Andrea Bajani (ne parliamo qui). Romanzi diversi, segnati da una mix a proporzione variabile fra testimonianza fedele e libera finzionalità, a seconda che la storia riguardi i tempo recenti della famiglia, facendo quindi della memoria personale dell’autore la fonte principale, o risalga invece nel tempo di diverse generazioni come avviene nelle saghe, in cui chi scrive si fa storico e persino archivista e nel contempo non può che lasciare spazio alla propria immaginazione letteraria.

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Per una parola “suscitatrice” di angoscia

Carla Benedetti, La letteratura ci salverà dall’estinzione, Einaudi 2021 (pp. 138, euro 12)

Dopo la lettura del pamphlet di Franzen e il suo invito a smetterla di fingere che sia possibile fermare la crisi climatica (ne parliamo qui), viene naturale assegnare un posto specifico a ogni lettura sull’argomento – su questo che non è un argomento fra gli altri – a seconda che ammetta ancora questa possibilità o la ritenga tramontata.

Il discorso di Benedetti pare ammetterla (“siamo ancora in tempo”, la “catastrofe terribile che si annuncia potrebbe ancora essere evitata se gli uomini mutassero il loro comportamento”), e tuttavia non suona affatto incline alla sottovalutazione del problema o a prospettarne una soluzione per via esclusivamente tecnologica. Un discorso connotato da una sua radicalità, nella sostanza: “non era mai successo prima d’ora che la violenza genocida si esercitasse sui viventi di domani. Questa è in assoluto la novità più disumana del nostro tempo, che rende ancor più atroce e intollerabile l’inerzia di oggi”. La nostra “capacità empatica” non sembra capace di “estendersi oltre i viventi di oggi, o non è abituata a farlo”. Forse perché “il nostro cervello (…) è programmato per reagire solo a minacce immediate, oppure legate ad azioni immorali” ma, appunto, non riusciamo a inquadrare facilmente nell’uno o nell’altro di questi campi le minacce ambientali. Le frequenti denunce, ricche di dati e al momento in cui le leggiamo impressionanti, non sedimentano un atteggiamento che duri e soprattutto si traduca in atti concreti.  È il credere ma continuare ad agire, a vivere, come non si credesse: è questo che avviene e l’abbiamo letto ormai più di una volta, ma neanche questa consapevolezza pare in grado di determinare conseguenze tangibili. Perché? Perché sono le strutture stesse del nostro modo di pensare a mantenerci in questa bolla di oggettiva indifferenza e, come leggiamo nell’esergo del libro, “non puoi risolvere un problema con lo stesso tipo di pensiero che hai usato per crearlo”. La frase, attribuita ad Einstein, è alla base di prese di posizione che vanno dal fisico Rovelli (secondo il quale occorre “ripensare la grammatica della nostra comprensione del mondo”) all’antropologo e filosofo Latour, che ci ricorda che “la terra è un pianeta vivente”, e dunque reagisce alle perturbazioni finché può, avendo, come ogni vivente, dei limiti. 

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Viaggio nei luoghi che la modernità non ha abitato

Marco Belpoliti, Pianura, Einaudi 2021 (pp. 288, euro 19,50)

Non è una guida, o un resoconto di viaggio: i capitoli si susseguono secondo un ordine che non è quello geografico, e non c’è una meta finale (non a caso è un “eccetera” la parola – anzi, l’immagine della parola manoscritta – che conclude il racconto). Si intuisce che a dettare la sequenza non sono state contiguità nello spazio ma nella memoria – anche visiva: le pagine sono cosparse di schizzi dell’autore. È il sentimento dei luoghi ad animare il discorso. Ciò che fa dell’omogeneo e astratto territorio un insieme di luoghi, appunto. Se la divagazione è quindi lo stile che anima la scrittura, il filo della memoria personale, autobiografica, è la ragione del testo che nei paesaggi, nelle cose, nelle persone trova i necessari pretesti, i riferimenti che lo precedono e ai quali torna. Spesso scavando nel passato, più o meno lontano. Leggendo nella pianura i segni della centuriazione romana o individuandovi le strutture determinate dalla sua vicenda geologica. Più spesso soffermandosi su monumenti, grandi e celebrati, come il duomo di Modena o il Tempio Malatestiano di Rimini, o piccoli e dimenticati, apparentemente insignificanti e pure in grado di restituire peculiarità locali ormai pressoché illeggibili: è il caso dei pispiò, quei cunei in muratura che tamponavano gli anfratti dei palazzi impedendo di farne vespasiani (pispiò: “non fai più la pipì”).

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Rinegoziare il rapporto con noi stessi e col mondo

Francesco Stoppa, Le età del desiderio. Adolescenza e vecchiaia nella società dell’eterna giovinezza, Feltrinelli 2021

Adolescenza e vecchiaia: due età che, in tempi di pandemia, sembrano aver subito un comune destino di “oggetti sacrificali”, o sacrificabili, sia pure secondo modalità differenti. Ma non è di questo che parla lo psicanalista, attento a mettere in luce altre, ben più profonde affinità fra queste stagioni della vita. Affinità e differenze, comunque da sondare. Perché le riflessioni che possono venire da questo esame riguardano la vita di tutti, la vita in ogni sua stagione. A partire da una dimensione che la abita dall’inizio alla fine, ma che nelle due età in questione si impone con più evidenza: il desiderio, inteso – come l’autore stesso precisa in una recente intervista (sul “Corriere della Sera” del 21 febbraio) – come “l’arte di saperci fare con la nostra mancanza, il nostro limite umano, col trovare una modalità creativa di abitare la nostra condizione umana”. Ebbene, proprio l’adolescente e il vecchio sono chiamati a fare i conti con la vita, a decidere se dirle di sì, o resisterle, essendo che “La vita ci traumatizza fin dalla nascita, ma questa distanza che ci fa soffrire ci dà anche una certa libertà di movimento che ci permette di accoglierla”. Ci permette, si potrebbe dire, di fare di noi qualcosa che non coincida con quello che gli altri di noi han fatto, evocando le parole di Sartre, il Sartre nella rilettura che Recalcati ci ha di recente proposto (ne parliamo qui). Là si parlava di infanzia, qui di adolescenza, ma l’accostamento fra i punti di vista dei due psicanalisti – non a caso, entrambi lacaniani – appare lecito, perché se nell’infanzia si delinea la “scelta originaria” che fa di noi l’essere unico che saremo, è nell’adolescenza – sia pure protratta, com’è oggi – che questa scelta deve affrontare la prova del mondo, e definirsi, sia che si stabilizzi in una sorta di fedeltà a sé stessi sia che si appanni in uno stato di latenza, o rimozione, che può durare per il resto della vita. 

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Migrante donna

Marco Balzano, Quando tornerò, Einaudi 2021 (pp. 202, euro 18,50)

Il titolo sembra richiamare quello del romanzo precedente, Resto qui*, ma non è così. La vicenda è tutt’altra, ma l’andare e lo stare, il partire e il rimanere tornano a proporsi come alternativa che genera e sta al centro della narrazione. Là si trattava della divisione degli abitanti del Sud Tirolo sotto il fascismo fra “optanti” e “restanti”, fra chi si sentiva di accettare di trasferirsi in Germania con la speranza di farsi una nuova vita e chi invece decideva di restare perché il posto in cui era nato aveva un significato imperdibile, perché – nel caso del protagonista – le strade e le montagne gli appartenevano come lui apparteneva ad esse.

Ma anche in Il figlio del figlio, di due anni prima, il perno della narrazione era un viaggio, il viaggio di ritorno al paese del sud di un emigrato, con il figlio e il nipote.

In Quando tornerò l’allontanamento è quello di una donna rumena che lascia marito e due figli per venire in Italia, a Milano, a fare la badante, unico mezzo per racimolare i soldi necessari alla famiglia, della quale il coniuge, beone e inaffidabile come tanti maschi di quelle parti – stando al racconto che probabilmente molti di noi hanno ascoltato da badanti e colf slave – non si sa occupare.

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Lo stile dell’unicità

Emanuele Trevi, Due vite, Neri Pozza 2021 (pp. 125, euro 15)

Basta un paio di pagine, e ti senti a casa. La casa in cui ti è sembrato di abitare leggendo il libro precedente di Trevi, Sogni e favole*. Lo stesso tono di resoconto pacato, capace di farti sentire in ogni momento che quel che è capitato a lui non ha nulla di eccezionale: potrebbe capitare anche a te che stai leggendo. L’eccezionalità è se mai dalla parte delle persone che lui ha incontrato e di cui tiene a parlare, a raccontare. Ma si capisce alla svelta che non di eccezionalità si tratta, ma di unicità, e per dirne occorre allora adottare uno “stile” appropriato. “Più ti avvicini a un individuo – infatti –, più assomiglia a un quadro impressionista, o a un muro scorticato dal tempo e dalle intemperie: diventa insomma un coagulo di macchie insensate, di grumi, di tracce indecifrabili. Ti allontani, viceversa, e quello stesso individuo comincia ad assomigliare troppo agli altri. L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità”. Quello stile che permette di fissare in poche righe il carattere saliente di una persona. Come l’amico Rocco, seguito sin dall’infanzia da “questo compagno segreto, da quest’ombra vanificatrice, da questa orrenda e inutile succhiasangue che è l’infelicità”, mentre “Nel fondo dell’anima di Pia, anche nei momenti più difficili e disperati, resisteva sempre una vocazione inestirpabile ad accudire, proteggere – esseri umani, animali, vegetali”.

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Ereditare la colpa

Emmanuel Carrère, La settimana bianca, Adelphi 2021 (pp. 139, euro 12)

Si è abituati a considerare il romanzo di formazione come la storia di un, magari travagliato, cammino verso la consapevolezza e l’appaesamento nel mondo in cui si vivrà il resto della vita. Come se gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza non fossero invece, per molti, quelli nei quali si delinea e poi si cristallizza la nevrosi, se non di peggio, che segnerà l’esistenza a venire.

È il caso di Nicolas, bambino di nove anni, che nel corso della settimana bianca cui a malincuore partecipa vive l’esperienza che lo condannerà a una vita nella quale “non ci sarebbe stato perdono”. E non perché si sia reso responsabile di un’azione riprovevole: la colpa non necessariamente è conseguenza di una propria mancanza. Spesso la si eredita, a dispetto della convinzione che le colpe dei padri non ricadono sui figli.

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L’infanzia che è in noi

Massimo Recalcati, Ritorno a Jean-Paul Sartre. Esistenza, infanzia e desiderio, Einaudi 2021 (pp. 250, euro 20)

L’infanzia non è una stagione della vita come le altre. È il passato che non passa e ci segue tutta la vita chiedendoci di essere continuamente rielaborata. È la condizione iniziale di passività che tutti viviamo, non c’è esistenza che sia priva o si sia potuta disfare della propria infanzia; è il tempo nel quale gli altri – l’Altro, non solo i familiari, ma il linguaggio e le circostanze sociali, economiche, culturali che chi nasce si trova bell’e fatti – imprimono in noi tracce indelebili. Ma non immodificabili. Qui sta il punto. Non siamo semplicemente il risultato di quel che gli altri hanno fatto di noi, ma ciò che abbiamo fatto, e non cessiamo mai di fare, di quello che gli altri avevano fatto di noi: in polemica con il determinismo e il potere inscalfibile del passato che Sartre rimprovera a Freud, la costituzione (ossia quel che gli altri han fatto di noi) diviene poi il terreno di una personalizzazione che fa di ognuno di noi l’essere unico e irripetibile che siamo.

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