Adesso che sono nati
come puoi partire?
Con quale cibo
i suoi capezzoli
diventeranno turgidi di latte?
Chi le riempirà la ciotola dell’acqua?
Chi le farà capire che i boati
non deve temere?
Adesso che sono nati
come puoi partire?
Con quale cibo
i suoi capezzoli
diventeranno turgidi di latte?
Chi le riempirà la ciotola dell’acqua?
Chi le farà capire che i boati
non deve temere?
Dalla Guerra del Golfo, all’inizio degli anni ’90, viviamo in un’epoca di nuovo orientata verso la guerra, e dopo l’11 settembre la guerra si è riappropriata di ciò che la rende attraente agli occhi dei giovani, uomini e donne: l’elemento eroico.
Sono, queste, osservazioni che esprimevo nel 2001, che ho riletto oggi, che potrei avrei scritto ieri e perciò mi pare abbia senso riproporre (anche alla luce delle reazioni seguite alla pubblicazione di articoli come quelli di Barbara Spinelli sul “Fatto Quotidiano” dello scorso 26 febbraio, e di Tomaso Montanari su “Micromega”.
Quando scoppia una guerra ci parliamo di più, ma paradossalmente non riusciamo a comunicare di più: la lingua della guerra crea un frastuono che rende difficile farlo.
Si crea un’illusoria comunità dialogante.
E a soffrire è prima di tutto il parlare; ci accorgiamo che discorriamo male, rissosamente, scopriamo che le nostre parole, se non sono parole riconoscibili in quelle degli schieramenti che si sono andati formando, non hanno alcuna possibilità di essere recepite, sono rese del tutto superflue.
E’ in scacco la fiducia nel potere che le parole hanno di creare legami sociali, di resistere alle chiusure create dalla guerra. Soprattutto, è messo in questione il senso del parlare perché la guerra costruisce una sua lingua insensibile, corazzata, armata di ragioni e ragionamenti.
Mi è sempre più chiaro che il tempo che stiamo attraversando chiede di essere chiamato tempo della pazienza.
La pazienza non è inerte sopportazione; è un’energia che agisce con forza: generativa, creativa, illuminante. È all’opera in tutti i momenti della vita, ma ci sono situazioni nelle quali la sua azione si mostra più chiaramente dandoci la possibilità di osservarla e di riconoscerla.
La sofferenza è uno di questi momenti e lì la vediamo all’opera con le tensioni, i conflitti che è costretta ad agire, perché la pazienza non è data. È il frutto di un esercizio difficile nel quale impariamo a conoscerci, riconoscendo le energie originarie della nostra natura: la mitezza, l’aggressività, l’ira… perché è con queste che ciascuno/a di noi affronta le tensioni da cui può scaturire la pazienza. Mi sembra di poter riconoscere tre generi di pazienza: la pazienza dell’attesa; la pazienza creativa; la pazienza filosofica.
Il tempo che stiamo vivendo le mette all’opera tutte e tre.
La pazienza dell’attesa, energia generativa, quella della madre che accoglie nel suo corpo la gestazione. Esperienza che si trova faccia a faccia con il mistero, in tensione con il senso di impotenza , in conflitto con la volontà di tutto controllare, con l’illusione di poter dominare il corso del processo… Facciamo fatica a percepire la maternità in questi termini perché la medicina ci dà l’illusione di tener sotto controllo la gravidanza, ma se ci pensiamo bene, non può interferire con il divenire dell’embrione, una volta avviato il processo, se non interrompendolo o disponendo qualche misura di protezione. Come fa un bravo giardiniere che ha messo a dimora un seme.
La pazienza creativa, propria dell’arte, della poesia, dell’invenzione letteraria. Questa pazienza matura in conflitto e in tensione con l’impazienza, la frettolosità, la volontà di raggiungere un risultato, l’incapacità di ascolto interiore… “Nel cuore è la sorgente della parola”, si legge nelle Upanishad. In questo tempo abbiamo bisogno di parole che scaturiscano da questa sorgente. La pazienza filosofica: la pazienza di pensare, di riflettere, di trovare parole precise. Perché maturi questa pazienza ci vuole coraggio, il coraggio di riguardare quello che è accaduto e sta accadendo nell’attesa che la verità si faccia sentire, che nella sofferenza si possa avvistare un significato aprendoci a letture impreviste del reale, aprendoci a una visione più ampia delle cose che accadono.
In conclusione, la segnalazione di una lettura utile e una riflessione di Romano Guardini:
*Gabriella Caramore, Pazienza, Il Mulino 2014
*“Per la pazienza ci vuole forza, molta forza. Solo l’uomo forte può esercitare una pazienza davvero viva: può riprendere su di sé sempre di nuovo ciò che è, e di continuo ricominciare. La pazienza senza forza è pura passività, supina subordinazione, abitudinarietà cosificata. E occorre amore, a una pazienza autentica, amore per la vita. Giacché le cose vive crescono lentamente, hanno la loro ora, fanno giri e rigiri numerosi. Esse hanno bisogno di fiducia. Chi non ama la vita non ha pazienza con essa. Allora arrivano le furie e i cortocircuiti. E ne nascono ferite e cocci.”
▸ dai giorni del coronavirus
Una donna sta camminando con dei bagagli in mano in un piazzale vasto, molto vasto. Sicuro e calmo il suo incedere. È sola in questo spazio così vasto. Sul lato sinistro c’è uno sbarramento, come un argine, una diga. Di là, oltre la diga, si sente il mare che si solleva e si abbassa, il rumore di onde grandi. Ma lei sa/io so che il mare non arriva a superare lo sbarramento. Una voce nomina La Spezia. Mentre sono in questo piazzale ad un certo punto mi accorgo che la terra si muove, dico: è un terremoto. E mentre dico questo ci sono delle persone. Continuo a camminare tranquilla, perché in quel piazzale vasto non c’è pericolo… il terremoto non suscita angoscia.
È la notte fra il 16 e il 17 febbraio quando questo sogno arriva. Sono a Chambéry, la città di transito dove la mattina dopo prenderò, questa volta per la prima volta, un autobus, il flixbus che viene da Parigi e arriverà a Milano. È pieno come un uovo e in ritardo di 90 minuti per una tempesta che ha bloccato tutti i voli da Parigi verso l’Italia. Al risveglio, penso che il sogno porti alla luce quel filo d’ansia che ha accompagnato questo viaggio in cui per la prima volta decido di rinunciare al treno nei miei viaggi da pendolare tra Brescia e Mirmande, un paesino della Drôme francese. Una scelta forzata, non tanto per la convenienza, ma per gli scioperi ferroviari in Francia che da mesi rendono quasi impossibile affidarsi ai treni per spostarsi.
Quel sogno resta lì, con quel tanto di enigmatico che certi sogni ci trasmettono. So che a volte occorre sospendere ogni lettura e aspettare che ci dicano qualcosa di più, e d’altro. Che parlino più chiaramente, con il passare del tempo. Perché ci sono sogni che non vengono solo per aiutarci a vedere uno stato d’animo che la coscienza individuale non sa o non vuole riconoscere. Nel mio caso: una inquietudine vaga, non tale tuttavia da impedirmi di partire. Ci sono sogni di un altro genere, sogni che, potrei dire, vengono dal cielo. Quelli in cui la nostra anima più vasta e profonda ha il presentimento di qualcosa che sta arrivando, prima che si manifesti con evidenza. Quelli in cui intercetta qualcosa che non riguarda solo il nostro personale sentire oscuro, le nostre inquietudini inconsce, ma qualcosa che si agita nell’ inconscio collettivo, che scaturisce dall’angoscia che pervade l’anima del mondo comune, il mondo creato dall’agire umano. Paure ancestrali: dell’acqua che esce dai suoi limiti e si riprende le terre emerse inondandole, paura della terra che si muove come un animale infuriato sotto i nostri piedi facendo crollare le costruzioni di cui andiamo orgogliosi, le case delle quali abbiamo bisogno per trovare riparo e protezione.
La donna che incede tranquilla, certa che quello sbarramento protegge da una inondazione che altrimenti sommergerebbe totalmente lo spazio vasto nel quale sta camminando, resta un’immagine che rivelerà tutto il suo significato e la sua forza nei giorni che seguiranno il mio rientro in Italia, quando, dopo una settimana, scopriremo che il virus di Wuhan è già arrivato qui e occorre arginarlo. Qui: nella città dove vivo (Brescia), nella mia città d’origine, dove abitano i miei (Cremona), ma anche a Mantova, la città dove il sabato 21 febbraio mi sono ritrovata per il laboratorio mensile con le amiche di lì e di Reggio Emilia…
È l’immagine di quella donna ad abitarmi, quel suo camminare calmo e sicuro, quando le giornate del ritiro zen in Francia e il pomeriggio del laboratorio, nella casa dell’amica che abitualmente ci ospita, resteranno nella memoria come ultime esperienze di contatti in carne ed ossa, di abbracci vissuti con tranquilla spensieratezza prima di imparare a bloccare la mano tesa per stringere quella dell’altro, dell’altra.
La prima volta che questo avviene è lunedì 23 febbraio. La giovane donna, con la quale ho un appuntamento per ricevere le poesie che desidera farmi leggere, ritrae la sua mano e si porta il foulard alla bocca dicendomi che è da poco uscita da una brutta influenza con febbri altissime. Non sono ancora arrivati i provvedimenti che bloccano i contatti ravvicinati, ma già c’è, in chi era qui nel mese di febbraio, la paura del contagio. Di contagiare e di essere stati contagiati. Sono questi i primi segnali di qualcosa che, nell’arco di pochi giorni, cambierà radicalmente le nostre vite. Dalla tenuta di questi ricordi capisco adesso che sono il crinale che separa il prima dal dopo, anche se non registro subito che stiamo vivendo non una guerra, ma una cesura davvero epocale.
All’inizio mi sembra eccessivo allarmarsi. Mi dico: è un’influenza, non è né Černobyl, né Fukushima, tantomeno Hiroshima… L’ironia mi aiuta nell’adattarmi al tempo che stiamo vivendo: passo sotto i portici di Brescia davanti al teatro Grande e mi viene da ridere guardando il tabellone del Festival pianistico di quest’anno dal titolo “Armonie sospese”. Faccio fatica ad essere prudente prima che arrivino i provvedimenti che ci chiedono di restare a casa e tuttavia non aspetto le restrizioni imposte per chiudere la mia casa agli incontri settimanali e mensili. Sono i miei amici e amiche francesi i primi a obbligarmi a riflettere su quello che accade. Mi chiedono notizie sull’onda di una informazione che scatena inquietudine, in alcuni angoscia, per quello che sta succedendo in Italia, nelle nostre città del nord. Temono che quello che sta capitando qui, a noi, possa capitare anche a loro. So per esperienza che è più angosciante immaginare una malattia che può portare alla morte o a una mutilazione, o a una limitazione grave dei movimenti, che non il viverla. Mentre la viviamo possiamo scoprire risorse del tutto sconosciute, una sapienza del corpo capace di guidarci nel muovere i primi passi dentro un tempo nuovo, insegnandoci ad accoglierlo e ad attraversare passaggi insidiosi che possono farci scivolare in abissi dai quali tirarci fuori diventa impossibile.
La collera è l’insidia dalla quale devo guardarmi. La collera brucia energie, chiude il cuore in una morsa. C’è una collera giusta, l’indignazione, che devo mantenere nell’alveo della saggezza. La collera non per l’imposizione di restare a casa, ma per le incompetenze e il caos nella gestione regionale della cura che si rendono così evidenti da generare sgomento e rabbia. È sempre lei, la donna del sogno che mi si presenta con il suo incedere calmo e sicuro ad arginare la collera.
La vedo quando scendo a portare lo sporco nei cassonetti e mi concedo il dono di una passeggiata di 500 metri nello slargo deserto del parcheggio dove, come noi, la nostra auto, una Panda color caffelatte sta ferma in attesa del dopo.
Sarà lei, la donna del sogno, a guidarmi in questo dopo, aiutandomi a non cadere prigioniera della paura del contatto, dell’angoscia del contagio?
Brescia 7 aprile 2020
▸ dai giorni del coronavirus
Di solito la mattina dedico almeno due ore per mettermi in contatto con persone care e amiche con le quali lavoro da anni, perché la distanza non annulla l’intima prossimità che nel tempo si è andata approfondendo. Da questa profondità vengono le parole e le pratiche che propongo per rendere ogni giorno vivo e ricco di esperienza non solo per me.
Mai avrei immaginato che le pratiche zen apprese e coltivate nella seconda metà della vita (zazen, meditazione camminata, disegno con l’inchiostro, pittura libera dall’ansia performativa, scrittura strettamente contestuale e, come si dice, da cuore a cuore…) sarebbero state così decisive in questo tempo, un tempo che oso chiamare: di verità.
Perché questo tempo che stiamo vivendo è il tempo in cui cadono tre tabù: il tabù della morte, il tabù della malattia e il tabù della vecchiaia. Questa epidemia li ha fatti saltare brutalmente tutti in una volta. Così, adesso, morte, malattia e vecchiaia si mostrano in tutta la loro evidenza come nervature del Reale.
Stanno sconvolgendo un ordine in cui queste nervature dovevano restare nascoste, ben protette per non disturbare i sani, i giovani, i vivi. Per confermarli/confermarci nell’illusione che la vita sia altro dalla morte, dalla malattia e dalla vecchiaia. Ora questi nervi si sono scoperti e provocano dolori lancinanti, paralizzanti, non avendo rimedi per placarli.
Verso mattina, dopo una notte piena di risvegli, mi trovo a fare questi pensieri e il tempo del coronavirus si associa al tempo in cui ho scoperto che nel mio corpo si erano sviluppate cellule cancerogene che, lasciate alla loro vitalità, mi avrebbero portato alla morte. Allora ero nella fascia delle persone giovani; gli ospedali funzionavano e imparavo a fidarmi della medicina, grazie a medici competenti e mediche di grande sapienza e libertà. Oggi appartengo alla fascia d’età delle persone vecchie, più esposte al rischio che il contagio abbia esiti nefasti. Oggi non possiamo ammalare perché gli ospedali non possono curare. Un’amica con gravi patologie (tra cui una macula che invade i suoi occhi) nota che non esistono più le altre malattie, occultate dalla totale attenzione al virus.
Come non vi sarà sfuggito, nella città in cui vivo, non si riesce a contenere la diffusione del virus e da subito (anche se non si poteva dirlo) i medici si sono trovati a decidere chi aiutare e chi no… Si sono viste all’opera troppe incompetenze e ingiustizie nella gestione regionale della cura, che hanno scatenato in me indignazione (la collera giusta) e contemporaneamente una grande impotenza.
Perciò – e questo è il punto – faccio ogni giorno un lavoro su di me per non ascoltare le mie parole, quelle che mi bruciano dentro perché fuori non le sento pronunciare. Avrei bisogno di parole indignate, ma non le sento o non le sento abbastanza, non tante quante ce ne vorrebbero per fare un falò di tutte quelle inutili rivestite di competenza. Sono stufa di competenti che non hanno il coraggio di dire e fare quello che adesso (insisto: adesso) dire e fare è di loro competenza… Solo da due giorni ho sentito qualche voce levarsi, dopo cinque settimane.
Così disegno oche selvatiche che volano nel cielo, panchine dove restare in attesa di poter entrare ancora nel gioco del mondo per quel gioco che so fare, ma ora – mi dicono – devo stare lì, ferma, nascosta, buona e zitta ad aspettare il mio turno, chissà quando.
E io sto lì, a mio modo nascosta, silenziosa ma non ammutolita, come da tempo ormai avevo scelto di vivere, una specie di eremita di città. In questa primavera, che ricorderemo come la primavera del coronavirus, quella scelta di vita mi viene imposta nella forma di reclusione. Da eremita a reclusa: cambia radicalmente la condizione. Da vocazione a necessità imposta. E allora cerco modi per rovesciare le cose, per ritrovare nella necessità imposta la mia vocazione all’eremitaggio maturata negli ultimi anni quando avevo deciso di fare della mia casa e di altre case, dove venivo invitata, luoghi di lavoro d’anima, di apprendimento di pratiche spirituali… Dedico molto delle mie giornate a tenere vivi i contatti via scambi whatsapp, tramite lettere che viaggiano con la posta elettronica, e telefonate… Sì, la vecchia abitudine di stare al telefono a lungo, quando intuiamo che abbiamo bisogno di sentire qualche amica, qualche persona cara direttamente… Penso spesso a Zambrano, alla fecondità dell’esilio per lei. Sento una profonda sintonia con questo suo modo di vivere l’esilio, non come separazione dagli altri, ma come possibilità di sfuggire alla “seduzione di una patria qualsiasi essa sia”, di accedere a un sapere, “il sapere più materiale, più concreto, più implicato ed intriso del sensibile ma anche il più esposto all’abissalità della cosa, più di essa partecipe.” Torno a leggere, in questi giorni, le prime pagine, Nascere all’esilio, della bella introduzione di Pina De Luca al libro di Maria Zambrano, Filosofia e poesia, per legarmi a questo tempo, per ritrovare, in questo tempo di forzata reclusione, la mia vocazione all’eremitaggio da un mondo incapace di riconoscere la verità dell’ammalare, del morire, dell’invecchiare… e organizza tutto sulla base di questa cecità. Un mondo che, temo, non saprà far tesoro di questo tempo del coronavirus, già catalogato come un tempo di emergenza.
(da una lettera alle amiche della comunità filosofica di Diotima, 29 marzo 2020)
Delfina Lusiardi, Metamorfosi inattese, secondorizzonte – Metis 2018
Quelli che seguono sono alcuni dei testi e delle immagini che compaiono nel libro:
Dall’introduzione:
Solo ciò che viene dal profondo mi appassiona
Sento che è giunto il momento di rendere pubblici alcuni materiali nati nella seconda parte della mia vita: tracce di un cammino avvenuto al riparo dall’esposizione, nella solitudine abitata da presenze discrete, necessarie a procedere lungo la via del silenzio interiore. Presenze di maestri e di maestre, di amiche e di amici accomunati dallo stesso spirito di ricerca, di esseri cari che condividono gli spazi della mia vita quotidiana, rispettando i ritmi e il modo di vivere la stessa casa. Penso a loro con gratitudine mentre decido di comporre questo libro fatto di poesie, disegni, inchiostri e acquarelli, e di un testo che descrive in modo essenziale i passaggi vissuti in quel processo di cura dell’esistenza, iniziato con la scoperta di un cancro al seno.
(…) Non sono una pittrice, il gesto della matita che traccia un disegno è rimasto per me un gesto naturale, non molto diverso dal gesto dello scrivere. Né più né meno come quando ero bambina. Infatti agli inizi della vita le creature umane non distinguono il disegnare dallo scrivere, lo scrivere dal disegnare. Ma, prendere in mano un pennello, da adulta, per conservare la visione di un fiore illuminato dal sole o il movimento della nebbia che sale tra le colline dopo la pioggia, comporta un azzardo che mi intimorisce. Richiede una decisione che può bloccarsi e mi può bloccare.
Ho cinquant’anni quando tento il primo acquarello della mia vita: per caso dispongo di un foglio di carta da acquarelli (regalo di un’amica artista), di un pennello morbido a punta e di un tubetto di grigio di Payne, acquistati per trasformare in fiori le macchie di vino sul muro di una casa appena imbiancata.
È settembre e davanti a me c’è del tempo vuoto, ho da poco finito un ciclo di chemioterapia e non tornerò a insegnare con l’inizio delle lezioni. Esco dopo la pioggia, i miei occhi vedono il mondo come non l’avevano visto prima e, tuttavia, quella che appare è un’immagine che mi appartiene da sempre. Non vorrei mai più dimenticare la visione di questa nebbia che sfuma i contorni. Accolgo l’impulso a prendere in mano il pennello, la carta e il grigio di Payne rimasto. L’acquarello che nasce mi aiuta a riconoscere cosa sto cercando.
Rientrata al lavoro, per alcuni anni non riprenderò il pennello, la carta, né mi procurerò altri pigmenti, fino a quando non potrò regalarmi il tempo di imparare come si fa. Come si fa a dipingere senza distruggere il silenzio nel quale il respiro del mondo appare nella fragile consistenza delle sue forme. Libera dal lavoro, cercherò maestri e maestre che mi aiuteranno a percorrere questa strada.
Metamorfosi inattese
Ci sono segni che ho bisogno di portare con me:
le ali dispiegate in volo del gabbiano
l’apparire circospetto del capriolo
la curva dolce dei delfini festanti
il ripiegarsi appena accennato delle betulle
verso terra
l’apertura solenne dei rami del faggio
l’ordinato incolonnarsi dei pioppi
la tensione verso il cielo dei castagni
l’abbondanza lieve degli ulivi
il circolo riposante del gatto dormiente
i profondi occhi imploranti del cane…
28 ottobre 1999
Discesa agli inferi
Ti lasci cadere
nelle viscere dolenti
di una donna
gravida di rabbia
cammini a tentoni con lei
tra parole annodate
avvinghiate come serpi in amore
nella grotta al riparo dal sole
cauta procedi per non calpestarle
attenta
a non liberare i veleni
pronti ad uccidere l’anima
la sua e la tua
ti fai strada in silenzio
fin dove
il piede si libera
del fango che sa di dolore
e scorge lontano un filo di luce
che parla di cielo
di vasto e di amore
3 dicembre 2009
Lavori di fine inverno
Bruciare la sterpaglia
Tagliare il secco
Arare Sarchiare
Aprire la terra…
Snidare lo sporco nascosto
negli angoli della casa
liberare dalla polvere
la trama dei tappeti
i cuscini del divano
le pagine dei libri
Picchiare energicamente
Un gesto dimenticato
soppiantato
dal folletto
dal bidone aspiratutto
dall’aspiratore ciclonico
un altro rumore
penetra fastidioso nel cervello
a ricordare quanta energia ci vuole
per liberare la casa
dallo sporco invisibile.
Mirmande, marzo 2012
Non scrivo poesie per consolarmi
Non scrivo poesie per distrarmi
Non scrivo poesie per divertirmi
Non scrivo poesie per scrivere poesie
Mi affido al ritmo
delle parole
che arrivano inattese
dal fondo opaco del sentire
dove la voce trema
per ciò che sa e non riesce a dire
Mi affido al ritmo
dei pensieri
che docilmente imparano a danzare
passo dopo passo
uno dopo l’altro
con cadenza regolare
Pensieri traballanti
come bambini che imparano a camminare
attraversano con timore
le regioni segrete del cuore
che sa
cos’è smarrirsi sul fondo
cos’è perdersi nella notte
senza conoscere la Via
che risale
verso la luce del primo mattino.
6-7 luglio 2014
Opaco resta il sole
nel vetro che stai lavando
giorno di nebbia
Mirmande, 1 novembre 2014
Una vocazione può essere rimandata, elusa, a tratti perduta di vista.
Oppure può possederci totalmente.
Non importa: alla fine verrà fuori. Il daimon non ci abbandona.
James Hillman
Quando un angelo cade…
Quando un angelo cade
nessuno lo soccorre
quando un angelo cade
nessuno sospetta
la sua disperazione
di angelo
dalle ali spezzate.
Condannato ad essere angelo
si costringe a nascondere
l’antica paura
di alzarsi in volo.
Condannato a portare le ali
si riempie il cuore
di cupa tristezza
mentre rinuncia ad abitare il cielo.
Quando un angelo cade
non sempre si trasforma
nel Lucifero che conosciamo.
Quando un angelo cade
può restare un angelo
dalle ali inutili
povero angelo spaesato
trascinato da ogni richiamo
che lo faccia sentire
comunque ancora
un angelo
al servizio di dio.
18-19 marzo 2018
Se vuoi leggere l’intero libro in pdf, clicca qui.
Clicca qui per scaricare il pdf.
Se vuoi leggere il libro nella sua interezza lo puoi acquistare alla nuova libreria Rinascita di Brescia (24 euro).
Via della Posta, 7 – 25121, Brescia
Tel. 0303755394
libri@nlr.plus
Se vuoi riceverlo a casa puoi inoltrare il tuo ordine indirizzandolo a: ordini@secondorizzonte.it e segnalando l’avvenuto versamento dell’importo indicato tramite bonifico sul conto corrente della libreria (IBAN: Unipol Banca – Agenzia di Brescia: IT 10 B 031 2711 20000000000 1851). La spedizione non comporta aggravi di spesa.