Piccino

Se ne stavano seduti sotto un cedro assonnato, nella speranza che quell’ombra ampia attenuasse la calura, ma la loro pelle brillava di sudore misto a quella polverina bianca, sabbiosa e sottile che si solleva dalle strade sterrate anche se solo la si calpesta.
Hassan non mi piace questo posto che chiami città, fa troppo caldo, un caldo che si suda, non come da noi su in montagna.
Devi avere pazienza piccino – rispose il fratello – ancora poco, poi tutto andrà a posto.
Non gli piaceva quando lo chiamava piccino. Era vero Hassan era il maggiore, quasi un padre, ma lui Jaued aveva appena compiuto tredici anni ed era ingiusto continuare a chiamarlo piccino. A volte credeva che suo fratello diminuendolo lo tenesse lontano, gli attribuisse un posto basso nella gerarchia della famiglia, per restare lui sopra, a fare il capetto.  A giorni invece era portato a credere che fosse l’affetto a muovergli la lingua, un affetto muto e ruvido, ma vigoroso.
Erano gli sguardi di Hassan che parlavano per lui, sguardi che lo tenevano d’occhio, che lo accudivano a modo loro, attento a che non si mescolasse con brutta gente. Era lui che gli aveva insegnato a lanciare sassi per difendersi dalle bande dei ragazzini tagiki che non vedevano l’ora di insultare e di deridere. Lo affiancavano quando usciva da scuola, sempre in gruppo. Bel coraggio, sei contro uno. Ma a lui veniva richiesto di dimostrarlo il coraggio, e lui, anche grattando nelle tasche, ne trovava pochino. Era la paura che abbondava, che fluiva a fiotti, come il sangue che colava dal naso al primo impatto con il bastone brandito dai cuccioli della tribù ostile.
Perché era fatto così il suo paese: poveri, straccioni e tutti divisi a farsi la guerra. Che forse la maggior parte di loro s’era pure scordata la ragione dell’odio, era un litigare che aveva messo radici nelle ossa, uccidersi per puntiglio, più che per quel pezzo di deserto che non dava frutti. Perché quando comincia un conflitto, poi è dura fermarlo, va avanti di generazione in generazione, di offesa in offesa, si incancrenisce e avvelena la vita di chi perde e di chi vince.
Era Hassan che gli aveva insegnato ad incassare, a proteggere la pancia, che se colpivano quella si poteva morire, così come la testa.  Meglio che si ostinassero sul naso, che non era mai stato gran che diritto. Ma fuggire no, ne andava dell’onore della famiglia, della tribù, dell’Afghanistan tutto. Perché loro erano pashtun e bisognava andarne orgogliosi.
Jaued era un ragazzino sottile, i capelli neri incollati alla fronte, occhi vivaci puntati come spilli mentre osservava il mondo sempre a bocca aperta. Curioso ma fragile, da sembrare a momenti un pulcino sperduto. Era Hassan che aveva il potere di farlo sentire tranquillo.
Jaued scavava con le scarpe nella sabbia e, giusto per farlo arrabbiare, la ammonticchiava sui piedi del fratello che continuava a vederlo piccolo. E lui allora faceva il piccino dispettoso.
Hassan lo guardò storto, arricciando un poco il suo naso adunco che sembrava gocciolargli in bocca e, sotto il cielo lattiginoso, la sua faccia si fece seria lasciando affiorare la preoccupazione, o forse proprio la paura.
Hassan anche tu a volte hai paura? gli chiese a bruciapelo, parlando a precipizio, un po’ per mortificarlo, un po’ per sentirsi meno solo nel fiume della sua paura.
Hassan guardava la terra, e stringendosi nelle spalle rispose Sì, quando cala il coprifuoco e tu e gli altri fratelli continuate a giocare in cortile, ho paura perché tocca a me proteggervi, tenervi in vita finché tornerà nostro padre. Sono io l’uomo in sua assenza.
Mamma mia quante arie che si dava, pensò Jaued, solo perché aveva qualche anno di più faceva il gradasso. Ma lo sguardo del fratello non aveva nulla del pavone, aveva più del coniglio braccato, al massimo della lepre. Sì la lepre andava bene per lui che amava correre come un pazzo, che sgattaiolava il mattino presto fuori casa per allenarsi e migliorare i tempi, come diceva lui sognando le olimpiadi. Che poi tornava fradicio con le braghe lunghe sdrucite, perché da tempo neanche i maschi potevano indossare i pantaloni corti. Femmine a capo e viso coperto e chiuse in casa, e maschi barbuti con maniche e pantaloni lunghi.

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Uomini e donne! A proposito di geni

XY genotipo maschile che, nella maggior parte dei casi si esprime in un fenotipo maschile, cioè dotato di caratteri sessuali secondari da maschio: testicoli, prostata, pene e distribuzione pilifera specifica.
XX genotipo femminile che, nella maggior parte dei casi si esprime in un fenotipo femminile, cioè dotato di caratteri sessuali secondari da femmina: ovaie, utero, vagina, vulva, mammelle e distribuzione pilifera specifica.
La genetica è scienza diversa dall’antropologia, eppure entrambe si sono chieste se il secondo cromosoma sessuale maschile, cioè la Y, potesse essere il segno del comando, se in quella letterina, in quel simbolo si concentrassero tutta l’aggressività, la virilità, il potere, il dominio, la volontà di controllo, in una parola il patriarcato.
Biologismo versus culturalismo! Arriviamo sempre lì.
Bisogna anche dire che le genetiste femministe hanno sostenuto, nel secolo scorso, che quella Y fosse in realtà una X mancante, frutto di una delezione cromosomica che aveva amputato una gambetta dell’identità sessuale, mettendo al mondo una femmina dotata di protesi, eppure monca.
Ma a ben vedere, chi una Y la possiede, possiede pure una gambetta in più rispetto a noi XX. O, se proprio dobbiamo dirla tutta, alcuni una gambetta, altri una gambina,  altri ancora una gamba, o al più una signora gamba e, quelli che credono che la sessualità sia tutta lì, un gambone della madonna.
Dunque, la genetica non può dire con esattezza come stiano le cose. Se sia nata prima la X e poi la Y, come il simbolo scritto farebbe pensare, o se siano venute al mondo in contemporanea, perché l’una senza l’altra non si reggevano, non si bastavano proprio. E allora i protozoi si sono fatti pluricellulari, le cellule mesenchimali si sono differenziate e il corredo genetico si è stabilizzato in ben due generi: XX e XY.
Questo fino a quando i geni delle nuove teorie non hanno cominciato a ipotizzare che il genere non esista, che siamo tutti maschi e femmine in potenza. Come se l’utero fosse un fenomeno culturale! Che forse hanno paura del corpo che abitano, o peggio ancora preferiscono vivere nell’indeterminatezza, nel neutro.
Chissà che ne direbbe il professor Freud, che forse di bestialità ne ha già dette abbastanza, nelle sue geniali pensate?  Perché, proprio per dirla ancora tutta, l’invidia del pene è proprio una grande cazzata, per stare in tema. Che io, quel coso lì in mezzo alle gambe non glielo invidio proprio. Chissà che scomodità quell’appendice pendula, quella spugna rivestita da muscoli a volte ipotonica, a volte ipertonica e comunque sempre da tenere d’occhio perché altrimenti piscia sull’asse del bagno.
Lo dico sempre ai miei colleghi maschi: tenete a bada il cobra quando fate pipì, o se proprio non riuscite a centrare il water, almeno pulite.
Che loro si credono di avere chissà che cosa in quei cunicoli vascolari, tutta la genialità della scienza, il coraggio del soldato, l’astuzia del politico, la precisione e la decisione del chirurgo e potrei continuare per ore.
Sarà per questo che i poeti vengono considerati un po’ checche. Come se sentimenti, emozioni, tonalità dell’animo fossero solo femminili.
Mi viene il dubbio che ne abbiano paura, che siano costretti ad averne paura, vittime di un maschile imposto che mette la sordina a tutto ciò che non è testosterone purissimo.
Prova ne è il fatto che, chi di noi XX abbia mai provato a raschiare un po’ la crosta, è anche riuscita a trovare tesori di sensibilità sotto. Ma sotto sotto, perché loro li celano molto più profondi di noi, sempre per via di quella paura di non si sa cosa, che chiamano coraggio.
E se la vedano poi loro, che noi i nostri guai ce li siamo arati e vangati da sole, quelli che attenevano a ovaie e utero nostri, e anche quelli che avevano a che fare con  l’organo loro. Perché, che si ricordino bene, di caverne sostenute da muscoli si tratta, non di osso, anche se a tratti, nei momenti di gloria, qualche dubbio potrebbe sorgere.
Ma non si montino la testa perché l’aspetto dell’osso dura per quel tanto, e poi rieccolo quell’organulo floscio, quella pelle sovrabbondante, rugosa come la faccia d’un vecchio.
Certo, a ben vedere quelle X e quelle Y si incastrano proprio bene e l’anatomia dà accesso a fantastiche combinazioni. E’ che essere diversi non è poi male. Si può discutere, litigare, alzare la voce, avere ragione e torto, provare a guardare con lo sguardo dell’altro senza riuscirci, fare la pace, capirsi senza parlare, pensare alla stessa cosa nello stesso momento, grattarsi le croste, tenersi su a vicenda quando si inciampa, condividere il tempo e a volte anche lo spazio senza esagerare, sciogliere paure, sperimentare il coraggio, insegnare a guardarsi dentro imparando a tollerare il fuori.
Si può perdere la testa, impazzire d’amore, vivere nel desiderio dell’incontro di quell’Y del cazzo, appunto, che ti offusca il self control e ti scombina i piani. Si può averne nostalgia. Si può continuare ad amarsi per anni e anni, per decenni e ventenni, perché come dice bene la Gualtieri

Tu sei del mondo la più cara forma
Tu sei il mio essere a casa
Sei casa, letto dove
questo mio corpo inquieto riposa.
E senza di te io sono lontana
non so dire da cosa ma
lontana, scomoda un poco
perduta, come malata,

…allora tu sei la mia lezione più grande
l’insegnamento supremo.
Esiste solo l’uno, solo l’uno esiste
l’uno solamente, senza il due.

E che i neutri vadano al diavolo.

Una bella bionda

G. era una bella bionda, di quelle che fanno girare gli uomini per strada: alta, sottile, ma con tutto quel ci voleva al posto giusto. Non saranno state proprio novanta-sessanta-novanta le sue misure, ma credetemi, non le mancava proprio nulla. Magari, a ben guardare, proprio per voler essere critici a tutti i costi, forse abbondava un po’ sui fianchi, ma pochi centimetri, impercettibili, che solo lei riusciva a misurarsi addosso in quel suo continuo specchiarsi e rispecchiarsi, mettersi creme e pettinarsi.
Curava ogni particolare: mani con unghie perfettamente convesse, costantemente dipinte di rosso. E i piedi, da non credere, due piedini piccoli in relazione all’altezza, da far dubitare che glieli avessero fasciati nell’infanzia secondo l’antica tradizione della Cina Imperiale. Piedini morbidi, senza la minima callosità, un poco paffuti forse, ma anch’essi curati. Lei ne era orgogliosa e non perdeva occasione di mostrarli, indossando sandali con tacchi a spillo o decolté ardite che lasciassero intravvedere il più possibile di quelle appendici preziose, che incredibilmente la reggevano.
Così issata coraggiosamente su dodici centimetri di tacchi, se ne stava in piedi per otto ore di seguito nel grande magazzino in cui lavorava, correndo da un reparto all’altro, sorridendo alle clienti, chinandosi per sfilare scarpe, o sollevandosi sulle punte per afferrare calze dall’ultimo ripiano. Senza mai cadere, senza distorcersi neppure una caviglia. Un equilibrio strabiliante, così come la pazienza che metteva in campo con tutte le donne incontentabili che affollavano il negozio.
Alcune la mettevano veramente a dura prova: prima indossavano un capo e poi un altro, poi tornavano al primo, per essere di colpo attirate da un terzo di fattura completamente diversa dai primi due, per poi scivolare verso un quarto. E non mancavano quelle che la maltrattavano, con una sorta di maleducazione crudele a svelare l’invidia per non essere altrettanto belle, o altrettanto alte. Lei non ci badava, neanche faceva cenno di avere udito: meglio passare da stupida che portarsi a casa il rimprovero del capo reparto.
Che tanto lei, stupida non era proprio. Perché non è vero che le belle sono cretine, questa diceria la mettono in giro le brutte. Lei era intelligente, sapeva osservare, non le scappava nulla dell’animo umano, dal tono di voce presagiva un conflitto, intuiva tresche in semplici sguardi. Forse per questo le colleghe le confidavano le loro pene, perché lei sapeva ascoltare, capire senza l’ombra di un giudizio. Anzi lei assolveva sempre, scovando attenuanti, buone ragioni, anche per quella che non perdeva il vizio di andare a letto con tutti.
Di uomini ne aveva avuti ovviamente, tutti la trovavano attraente e divertente. Ma nulla che fosse durato. Non per colpa degli uomini, anzi alcuni l’avrebbero voluta sposare, era lei che non si persuadeva al passo, come se l’amore non fosse mai abbastanza. Di fronte alla richiesta lei batteva in ritirata, sognando un prossimo amore sicuramente più appassionato, che l’avrebbe finalmente coinvolta facendole perdere la testa.
Di amore in amore era arrivata a sfiorare i trentacinque, e ora che anche la madre se n’era andata, non aveva scuse, anzi si rendeva conto di doversi sbrigare per via di quella storia dell’orologio biologico che andava per la maggiore su tutte le riviste femminili. Perché lei un figlio lo voleva, anzi almeno due.
Fu sull’onda di quel desiderio, o forse di quel timore, che accettò il suo invito a cena. Era un bell’uomo, brizzolato, capelli un poco lunghi sulla nuca ma non troppo, elegante. Riforniva il grande magazzino di biancheria intima femminile e con le donne ci sapeva fare. Venne a prenderla con una macchina blu scuro, niente di eccessivo, non una Porche da arricchito, né una Ferrari da pappone, una Mercedes di classe, di quelle che ti danno la misura del savoir faire. Cena in un buon ristorante, chiacchiere fluide come fossero vecchi amici: un uomo che capisce le donne. Con il suo sguardo misterioso e caldo sapeva farla vibrare.
Il mattino dopo un mazzo di fiori sul posto di lavoro, da fare impazzire d’invidia le colleghe. Poi silenzio per tre giorni per tenerla sulle spine, e quando ormai era cotta a puntino, ancora un invito a cena. Niente da dire: quell’uomo ci sapeva proprio fare.

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Un sorriso incongruo

Fatica a dire di lui, ma da giorni le formicola dentro anche l’urgenza di farlo, da quell’incontro serale a fine turno. Ha tentato la strada dell’archiviazione, ma il suo volto pallido torna a sorriderle anche in sogno. E’un ronzio costante nei suoi pensieri, radicato oltre il pensiero, in quel sentire sottile che è la sostanza trasparente su cui poggia il vivere quotidiano. Qualcosa di meno pesante di una stoffa, ma non lieve come una nuvola, forse simile alla corrente che resta attiva nell’impianto elettrico anche a luci spente. In quel flusso galleggiano i suoi occhi chiari spalancati, di un candore sorridente. E’ un sorriso incongruo quello che gli si dipinge in viso mentre il fiato non sale, mentre il debito d’ossigeno costringe i suoi bronchi all’estremo fischio d’aiuto. Allora, quando la saturazione d’ossigeno precipita, tutti i pazienti sbarrano gli occhi, il terrore si dipinge sul loro volto, le mani si stringono a serrare le lenzuola e tutto, proprio tutto il corpo è un unico intollerabile sibilo acuto.
Lui invece sorride. L’aria gli stride nei bronchi, i polmoni non si espandono, la cassa toracica si distende in cerca di un grammo d’ossigeno che gli alveoli agognano e il suo volto, da sempre pallido, si fa bluastro, le occhiaie si demarcano, la cute del torace si marezza di chiazze scure e irregolari che dilagano negli arti.
Glielo avevano spinto in ambulatorio di corsa: codice rosso, non respira più nemmeno con le branchie, dichiarava l’infermiera di triage mentre velocemente dirigeva la barella nello slalom fra un paziente e l’altro, sorpassandoli tutti perché lui, il codice rosso, stava morendo in asfissia. Aveva già in carico il codice rosso di un anziano settico più morto che vivo, e l’idea di giocare su due tavoli, entrambi scivolosi, non l’attirava. Ma non è che si potesse scegliere, ci si doveva attrezzare ad affrontare ciò che capitava, che fossero uno, due o tre. Si fa quel che si deve e niente lagne, semplicemente si corre un poco di più e si spera che la sorte conceda una tregua, prima o poi.
Si erano riconosciuti subito e subito sorrisi. Che fortuna trovare te! Era riuscito a dire fra un sibilo e l’altro. Stai zitto Umberto, non dire nulla, devi concentrarti sul respiro che adesso ti faccio ritrovare, rispose lei mentre appoggiava il fonendoscopio su quel torace scarno e scavato, registrando rantoli in alto e silenzio totale dal campo polmonare medio in giù.
Quel torace annegava nel liquido che accartocciava i polmoni riducendoli a pugni contratti. Armeggiava su quel corpo in affanno bucando, ventilando, somministrando farmaci fino ad allungargli il respiro di quel tanto utile per tenerlo in vita. Riagguantare tutto quel fiato non era pensabile. Intanto lui non aveva smesso un attimo di sorriderle e di parlarle con gli occhi. E più il respiro gli veniva concesso più i suoi lineamenti si distendevano e lui cercava di dire, nonostante indossasse la mascherina dell’ossigeno. Ci parlava dentro. Era un’impellenza che lei non avrebbe fermato, perché lui era colmo di parole che lo chiamavano impellenti, come sapesse di non avere abbastanza tempo per tutto ciò che aveva da dire.
Gli tolse imprudentemente la mascherina e lo lasciò raccontare. Parlava a precipizio, mentre lei lo ascoltava e gli contava i respiri: la sua libreria, l’ulisse, con la u minuscola come lui amava precisare, chiusa da anni, la sua nuova passione per il vino vivo, l’eterno amore per i libri che non l’aveva lasciato mai.

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Il tempo raggiunto

Mariagrazia Fontana, Il tempo raggiunto, secondorizzonte/Liberedizioni (pp. 280, euro 16) 

Misurarsi con il proprio corpo, i segni che ne giungono, le paure e i desideri che indistintamente esprime, nell’esperienza della malattia come nella pratica della corsa.

Soccorrere quello ferito e sofferente – tanto più da interpretare nel suo muto linguaggio  se chi ricorre alle cure è straniero – nell’esercizio del proprio lavoro, un lavoro – l’autrice è chirurga, presso l’Ospedale Civile – che non si lascia mai ridurre al protocollo né alla semplice procedura tecnica dell’intervento; confrontarsi con il corpo  che attraversa le età della vita, nella relazione, densa di ricordi e significati sedimentati, con la madre che invecchia, così come in quella sempre in via di nuova definizione e anche per questo rigenerante con le figlie che, da bambine che erano, sono già donne.
Sono queste le coordinate principali entro cui si delinea il corso di un’esistenza che per dirsi non ricorre al romanzo autobiografico ma a una sequenza di racconti che rimandano  uno all’altro in una medesima trama, entro l’orizzonte aperto di un tempo che solo la scrittura sa raggiungere. Una scrittura che sa aspettare in solitudine le parole che, sfuggendo all’inflazione e al brusio assordante delle molte che si pronunciano, sanno conservare traccia dei giorni, e far uscire dallo spazio del silenzio la voce che può tenere in vita la vita, nella sua unità profonda.
Come la pratica della corsa è seguita alla malattia, nascendo dalla “pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci”, così la scrittura trova radice nel corpo: “Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve. (…) Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. (…) Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate.”

Il testo che segue è tratto dal primo racconto, La traccia della corsa:

E’ necessaria la disposizione dell’animo al silenzio, al vuoto, all’ascolto di quello che la corsa porta.
Non so bene descrivere cosa c’è da ascoltare. Si comincia con il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie sui rami, l’improvviso sgambettare di uno scoiattolo. Poi si ascolta il rumore delle suole sull’asfalto, sul terreno del sentiero, ripetitivo, sempre uguale eppure diverso. Ritmo veloce, muscoli contratti nello sforzo, che gradualmente si sciolgono.
Ma per sciogliersi devono attraversare la fatica e il sudore, evolvere dallo stadio di contrattura serrata a quello di abbandono che regala movimento gratuito, fluido, passivo, liberato dal controllo cerebrale. (…) Motore principale silente, semplice ripetizione ossessiva, danza di dervisci, taranta, soppressione del controllo della coscienza.

(…)

La corsa induce all’ascolto del corpo, alla confidenza con i muscoli e dunque con il cuore, ma non con il cuore dei sentimenti, con il cuore pompa formidabile, magico motore silenzioso, scrigno segreto.

(…)

La chemioterapia aveva cancellato anche l’equilibrio fisico, mi accorgevo di sbandare per strada, di pencolare sotto la doccia come un giunco, vittima di una lieve vertigine che non mi ha più abbandonata del tutto. Attraverso lo yoga ho ripreso una parte del vecchio equilibrio (…)
Per qualche anno lo yoga ha funzionato (…)
Finché l’ambiente della palestra yoga ha cominciato a guastarsi. Le pretese atletiche crescevano e con loro cominciava a fare capolino la competizione e il gusto per la perfezione del corpo che mi disturbava.

(…)

Ho abbandonato la palestra yoga, ma a quel punto il corpo aveva le sue esigenze e reclamava spazio. Non potevo chiuderlo in cantina un’altra volta.
La corsa nasce qui, da questa pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci. Un richiamo forte, ineludibile. Il bisogno di riprovare ad immaginare una sopravvivenza, di rigiocarsi.

(…)

Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve.
Quando mi siedo alla scrivania, per lo più non so cosa voglio scrivere, obbedisco a un bisogno interiore, al richiamo di parole che chiedono di essere messe in fila su un foglio, di essere tirate fuori dal silenzio, direbbe Maria Zambrano.
Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. Quella scrittura che spolpa la carne, che asserisce, spiega, fa ordine. Scrittura rigida, metallica, non diversa dalla scrittura scientifica e neppure da quella intimistica che vuole svelare il sé in successione logica.
Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate. Allora so che quando avrò finito di correre, dopo la doccia, la scrittura sarà essenziale, scarna, adesa al vero. Devo appuntare subito le parole che sono venute correndo, urgenti, ancora prima di lavarmi, per non lasciarle scomparire. Come faccio nelle mattine in cui mi sveglio ancora preda di un sogno: scrivo subito poche parole, per tenerle prigioniere, per accalappiare quel sogno prima che la veglia lo disintegri nell’ordine logico. I sogni sono soffi parlanti, ma leggeri come l’aria.
Le parole in cui più mi riconosco, quelle che mi calzano addosso come un vestito cucito su misura, sono quelle che sono comparse nella corsa, trasparenti, semplici, che sgomberano il campo, che vanno dritte alle viscere, alla sorgente della parola.


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Trailer di vecchiezza

Gracile, incurvata, ripiegata su di sé. La guardo e di lei mi colpiscono soprattutto le mani, dove il tempo ha seminato chiazze di vecchiezza, dove la cute si scolla e si ripiega sovrabbondante, come stoffa in eccesso. Abbiamo sempre avuto mia madre e io, delle mani asciutte, dita affusolate, lunghe, non interrotte da nodosità. Anno dopo anno le sue mani sono andate assumendo l’aspetto di rami rinsecchiti, artigli spesso preda di tremori incontrollabili. La vista di quelle mani mi scatena fiumi di pena, mista a risentimento per lei che si permette di invecchiare, non mantenendo le promesse: una madre è per sempre.
Entrambe osserviamo quei tremori di sfuggita, come ladre, l’una colpevole di vecchiezza, l’altra di scarsa compassione. In realtà il suo tremore non é venuto con l’età, c’é sempre stato in quelle mani, quando l’emozione eccede il recipiente del cuore. Lei la chiama emotività, quella stessa da cui sono fuggita infilandomi in una professione dove per l’emotività non c’è spazio, concedendo all’emozione altre rappresentazioni.
La guardo, le mani in grembo, l’una sull’altra serrate a pugno per nascondere il tremore, tradita dal labbro superiore che si increspa appena appena. Guardo quella donna innegabilmente vecchia che é mia madre, che regge ormai a fatica il bagaglio dei giorni, abdicando spesso anche alla dignità minima del tenere per sé ciò che andrebbe celato.
Ha sempre avuto un’innata abilità nello svuotare il suo zaino addosso a me bambina, a me ragazza, a me a mia volta madre e ora donna più che adulta. Da sempre mi presto a essere il setaccio delle sue ansie, della sua angoscia, del suo terrore di invecchiare e di morire, fino ad abitare le sue paure, a svegliarmici dentro il mattino.
Mi lascio trapassare dalle sue parole lamentose, ne filtro la paura e gliene restituisco di chiare, trasparenti, piene di speranza. Ho ingoiato i bocconi amari delle sue rughe, delle sue rare patologie, della sua solitudine. Trascinata fuori da me, mi sono allenata alla vecchiaia e alla decadenza di corpo e mente, in un trailer ripetuto all’infinito. Per interposta persona, ho già sperimentato il collare di rughe sul collo, le chiazze di pigmentazione cutanea, i dolori articolari al punto di stupirmi quando lei mi butta lì l’impietosa previsione mista a minaccia e a vendetta di quel “Vedrai come è difficile invecchiare!”, senza vedere che sono già vecchia per osmosi, per il principio dei vasi comunicanti, parte degli anni e degli acciacchi materni mi appartengono, li sento nel corpo.

Eppure questa è la madre che mi sommergeva di fotografie fin dalla nascita, documentando ogni mio impercettibile cambiamento nel mirino della macchina fotografica, intercettando le mie prime, smorfie. E’ questa la madre che non sapevo lasciare sulla porta della scuola materna, che attendevo per ore sola, senza giocare, senza mescolarmi con gli altri bambini, seduta sulla panchina rossa nel cortile della scuola. E’ questa la madre che mi mancava fino a togliermi il respiro in colonia in montagna, quando tutte, proprio tutte le sere piangevo e mi struggevo nella nostalgia… E’ questa la madre che se ne stava seduta facendo la maglia mentre ripetevo gesticolando per casa il nome di ossa e muscoli prima dell’esame di anatomia, che mi ascoltava o fingeva di farlo, presente, silenziosa, pronta a caricare la caffettiera al primo intoppo.
A volte mi drappeggio intorno agli occhi una raggiera di rughe, così per prenderci ancora più confidenza, per portarmi avanti. Quelli sono i giorni in cui riesco a provare pietà per me stessa, a intravvedere la fatica inutile, dietro i pensieri che si snodano nel cervello di una brava figlia.
La guardo mentre preda di un’ansia nuova, rifiuta di governare la paura e si abbandona al flusso di emozioni infantili che snocciola come i grani di un rosario, sicura che parlandomene se ne libererà. E’ così che funziona fra di noi fin dalla mia infanzia: lei apre il pozzo delle sue angosce, le sue parole si gonfiano come vele e fluiscono nel fiume dei miei giorni, da tempo immemore. E io, che ho anticipato il tempo, che ho superato in corsa la mia vecchiaia con la sua, non posso che diventare sempre più abile a portare pesi, inarcando un po’ la schiena, sempre più curva sotto una gerla altrui eppure mia.

La ricordo seduta sul bordo del mio letto quando un amore adolescente svaniva, pronta all’ascolto, sempre attenta, mentre mi pronostica una vita meravigliosa e si butta a cucinare un budino che divoriamo. Le sue parole sapevano attenuare dolori, aprire varchi in terreni aridi, pur nell’incapacità di gesti, nella negazione di abbracci o di baci. La fisicità le è sempre stata preclusa, il suo campo da gioco erano le parole.
La sento cantare canzoni d’amore in macchina o mentre camminiamo in montagna o accennare qualche aria della Carmen o della Traviata nei rari momenti in cui il dover essere si assopiva.

Ma anche allora, quando la vicinanza pareva intimità, sapeva brandire con arte l’arma invisibile del ricatto. Con fine intuito sapeva portarmi lì dove lei credeva dovessi stare, al punto da annebbiarmi completamente la vista, da trafugare il mio sentiero di soppiatto, aprendo il sipario su una strada asfaltata a doppia corsia di suo gradimento.
A volte la sento affannarsi a frugarmi nell’anima con il chiaro intento di rubare, non so bene cosa, forse quello che lei crede essere la mia riserva di vita cui potrebbe attingere senza riserve, se questo fosse decoroso. Detesto la sua rapacità celata in quell’aspetto inoffensivo che trattiene gli artigli, nella finta debolezza di una donna che non si è mai piegata e neppure flessa per un istante, ben concentrata su una bussola costantemente orientata verso di sé.

Le telefono da Maidstone, al primo anno di università, spaventata dalla mia disavventura britannica, nella speranza che mi richiami, che mi riaccolga a casa. E invece lei fa leva sul mio desiderio e mi spinge nelle fauci di Londra, dove sogno di andare da anni. Infonde fiducia nelle mie vene, mi garantisce che ce la posso fare, che devo solo allungare una mano e aprire le dita. E’ lei, più di mio padre, a farmi udire il richiamo del mondo, a sostenere la mia fuga, a dare voce alla mia inquietudine. Londra la devo a lei. A lei devo dunque anche l’uscita da casa, pur nel suo confuso tirare e mollare l’elastico della mia adolescenza.

Derubata, quando la guardo, istintivamente tendo a rannicchiarmi ancora di più in me stessa, immergendomi sempre più a fondo per non essere catturata dalle sue dita lunghe.
E’ in quei momenti che percepisco la sua volontà di trascinarmi con sé fino alla morte, oltre la morte, non per amore ma per non essere sola, per attenuare il suo terrore, per conservarmi come devoto balsamo filiale. Saprò sottrarmi quando sarà il momento o mi lascerò scivolare, ancora incapace di frapporre qualche centimetro fra di noi?

Con stravagante ingenuità provo a mettermi contro il suo tempo, contro il tempo, con i talloni puntati. Provo a lasciare emergere il buono che so esserci stato. La rivedo che mi fa compagnia ad ogni ciclo di chemioterapia, quando i farmaci inondavano di gelo le mie vene e cominciavo a battere i denti. Eccola che si alza, si procura un’altra coperta e mi asciuga il sudore freddo dalla fronte, senza una lacrima, lei che piange per nulla. Durante la mia malattia non ha mai ceduto in mia presenza, si è presa cura di me senza battere ciglio, come fosse stata certa delle mie chances, come se la mia sopravvivenza non fosse mai stata in dubbio. Lei, terrorizzata dalla sua morte, sedeva accanto alla mia con dignità, con fiducia, come un soldato al fronte, certo della vittoria.

Mi impegno a scrollarmi di dosso il risentimento e le antiche pendenze. E’ vecchia e a una vecchia non si fa la guerra. Semplicemente la si digerisce così, la si accudisce, la si sopporta clementi.
Ma la clemenza mi fa difetto e inciampo, riluttante, nelle mie stesse acrobazie scomposte. Sento il frastuono dei suoi ferri da calza che incrociano la falce della Grande Signora. So che si sta allenando al grande passo, ma il rovescio delle sue paure ha un sapore troppo amaro. Come un’attrice prima del debutto si sforza di contenere l’angoscia, nella vana ricerca di un appiglio, di un senso, di una seppur minima speranza. Interroga tutto e tutti: Dio, la scienza, il delirio ed ovviamente me che imbastisco balbettii compassionevoli che sopravvivono giusto una sera.
Nel suo inespugnabile tormento, vive nel terrore di quella prova suprema, di quel torrente che la porterà via e che percepisce vicino almeno da trent’anni, senza neppure il buon gusto di vedere che gli unici piedi che lì si sono immersi sono stati i miei.

Forse questo non lo può guardare, forse per una madre la morte di una figlia risulta così intollerabile da non poterla neppure sfiorare con il pensiero. E il suo amore materno non lo posso mettere in dubbio. Ma l’amore materno ha mietuto non poche vittime.

O forse è ancora lei al centro del suo mondo e del mondo intero. Forse invecchiando il mondo si restringe fino al cerchio che le proprie braccia possono disegnare intorno al corpo e quello diventa l’unico mondo visibile, la patria.
Il rancore si tende dentro di me come la corda di un arco, pronto a scoccare una freccia che non partirà, che non saprà ferirla, che non potrà difendermi. Le sue narici fremono nella sua quotidiana questua e lei annaspa in attesa che io spalanchi il mio cuore pavido e alleggerisca la sua ansia di oggi. Ma un muro sottile e trasparente si erige fra di noi, la mia volontà recalcitrante temporeggia, sta a guardare e la mano resta in tasca.
Il suo collo si inclina, sinuoso come un rettile, in quella postura sofferente che chiede la pietà che oggi stento a concederle, finché mi accascio esausta e offro i padiglioni auricolari che non riesco a scollegare dall’anima, alle sue lagnanze di oggi. Mi sforzo di ascoltare senza sentire, di anestetizzarmi saggiamente, come non ho mai saputo fare. Intercedo per me stessa e cerco di essere un vaso bucato sul fondo, da cui transitano le sue parole senza lasciare impronte, senza ferire, senza incidere ricordi. Fingo che non si tratti di mia madre ma del racconto di una paziente senza nome, cui non devo nulla se non un’empatica accoglienza. Provo a mettere distanza fra di noi a escogitare la giusta postura.

Sono in piedi sul tavolo della cucina mentre lei appunta gli spilli all’abito rosso che indosserò per la mia prima festa. Come tante altre volte, lei maestra, si cimenta con ago e filo e ne tira fuori capi graziosi che io indosso dall’infanzia all’adolescenza e anche oltre. La vedo china con gli spilli incautamente fra le labbra, che osserva prima l’orlo e poi l’insieme del vestito, visibilmente soddisfatta di sé. Così come quando finisce un maglione da sci stile jacquard, con le renne e i pini colorati che mi terrà caldo sulle piste.

La guardo con sconforto mentre, dimentica di me, incurante delle ferite che si producono sul mio corpo, versa i suoi fluidi, incontinente. Sento la sua fame di vita, della mia vita. La vedo mentre scavalca la montagna della sua paura attraverso il mio ascolto, grazie al mio orecchio, al mio timpano a brandelli. La osservo mentre si accarezza l’anima ormai rassicurata, riorientata nel suo tramonto.

Ora mi corregge i compiti e con la testardaggine della maestra mi convince a riscrivere tutto da capo, in bella calligrafia, ad essere brava, sempre più brava. Lei che la scuola ha dovuto implorarla con le lacrime, vuole che io studi, che ottenga ottimi risultati, che realizzi sogni…. io che posso.
Asciutta, scattante, angolosa, con quel che di arrogante sul fondo, quello sprezzo simil nobiliare che segna come un marchio le donne della sua stirpe confligge con l’immagine di madre accogliente, magari un po’ grassottella, rassicurante, avvolgente, silenziosa, serena che un tempo, nella furia di guadagnarmi un posto nel mondo, avrei liquidato come remissiva e scialba.

Ogni giorno mi presidio e mi propongo di non concedere nulla al suo crepuscolare lagnarsi e ogni giorno le consento di infilarsi nel mio spazio intimo, suo luogo d’elezione, melliflua, spargendo germi che non so arginare. Allora divento ostile, carica di una rabbia impotente che si spegne in tristezza.
Ed ecco che lei, eludendo il mio sguardo, fa la sua mezza giravolta e, come se avesse parlato di cucina, con il suo sguardo sicuro, intavola una chiacchera sull’opportunistico nulla quotidiano.
Sopporto il mio castigo consolandomi al pensiero che di lei conosco anche il non detto mentre lei di me sa poco e nulla. Ma non basta per continuare a fare da materasso delle botte.
Cerco di guardarmi come potrebbe vedermi un altro, di pensare ciò che un estraneo penserebbe di una donna attempata ancora ostaggio di sua madre. Ma ho troppa intimità con me stessa per potermi guardare a distanza. Un accenno di sorriso sghembo si fa strada al pensiero che lo faccio per lei, nel disonesto tentativo di spacciare per amore filiale l’incapacità di difendermi, di mantenere una distanza di sicurezza.
Ma nelle sue mani legnose affondano le mie radici, in quella terra scura in cui ha germogliato l’algida donna che è stata sua madre e l’austera vecchia che è stata sua nonna. Una genealogia femminile così poco femminile, orfana di dolcezza, incapace di carezze, maestra di regole, di sobrietà e di decoro. Quanto di quelle donne arcigne scorre nelle mie vene? Quali angoli mi è stato consentito smussare e quante le timidezze e le ritrosie che ho potuto solo sopportare?
I miei rami si allungano verso l’azzurro dove le mie figlie germogliano, stupende nella loro sfaccettata trasparenza. Quanto so di loro? Quanto sanno di me? Quanti baci ho saputo concedere e quanti negare?
Quanto ingombrano nei loro giorni le mie radici, quelle di mia madre, di mia nonna e di sua nonna? So per certo che di queste radici hanno consapevolezza e questo per ora mi basta.

Cerco di mettere la sordina ai ricordi ma lei compare sugli sci con il suo pullover azzurro cielo, o mentre cammina sui pendii di montagna o distesa al sole come una lucertola, o impegnata nel vano tentativo di imparare a nuotare. Eccola che sfodera la tovaglietta a quadretti bianca e rossa sul tavolino da picnic issato sulla neve. Ecco noi bianchi e rossi dalla fatica che ci godiamo le tagliatelle al ragù al sole d’inverno. E poi ancora neve, ancora sci e freddo secco sul viso e sole e tutto il bello e il buono dell’esser bambini.

Cerco le mie tracce mentre mi appoggio con i gomiti alla mia immagine sbiadita, tiepida e priva di coraggio, smentendo la mia propensione al taglio. Nel mio corpo si fa strada un’eco che non so decifrare ma che si sente sul fondo mentre increspa le onde, lì dove i sospiri si fanno supplica. Vado a caccia di vento e osservo il mio inutile insabbiarmi nell’autobiografia, in un’epoca del mio vivere che dista millenni dall’infanzia e che non mi dà titolo di appellarmi ad un’allora paleolitico.
Provo ad archiviare ciò che è stato, a interrompere quell’insensato ricordare, interrogare, attribuire responsabilità e meriti che non mi porterà da nessuna parte. Non ci sono matasse da sbrogliare, bisogna lasciare tutto lì dov’è, prendere quel denso magma che chiamiamo passato e metterselo in tasca, tenerlo lì senza continuare a stuzzicarlo a tormentarlo. Tenerlo lì con le sue grinze, con le sue spine e i suoi arcobaleni, a contatto con il corpo da cui non può separarsi.
Con mansuetudine, il mio cuore invertebrato e polveroso arrotola le mie scintille di irritazione, il mio impotente nervosismo che si distende come ragnatela sulle sue parole e sulla mia fiacca rinuncia a tenermi presente a me stessa. Liquido sommariamente le mie perplessità in un ennesimo avvitamento, amputando le mie possibilità di oggi e forse anche quelle di domani, nell’estremo tentativo di uscirne viva.
Cerco in me il perdono, per lei e per me. Cerco un po’ di tregua, provo a raschiare via gli strati di rancore dall’anima, a lasciare andare, prestando ascolto ad altro, nella ricerca di quel grembo che ho abitato, di quel confine incerto fra il nascere e il morire, in quel tempo irrecuperabile alla memoria in cui il suo desiderio mi ha messa al mondo.
Ma i nodi non si sciolgono nel mondo visibile e, nel mio confuso annaspare, cerco un ormeggio in quel miscuglio di bene e di male, di tentativi e di rinunce, arrendevole come l’acqua. Ascolto il risuonare del silenzio, guardo il disordine del mio presente, il mio quotidiano scacco totale. Lascio emergere la mia opacità impermeabile che per ora posso solo osservare.
Cerco in qualche mio doppio fondo un po’ di compassione per lei, per me, mentre sento la sua vita gocciolare via, e con la sua la mia.

Preferirei di no

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Una pellicola che si riavvolgeva, un film visto a ritroso: la strada per l’ospedale, osservata dal finestrino posteriore di un’ambulanza; seduta alla testa del paziente, lo sguardo incautamente rivolto all’indietro: sembrava un percorso rivisto dal traguardo, una storia letta dall’epilogo, una vita dall’odore di violetta e naftalina.
In emergenza, anche quando il mezzo sfrecciava contromano, su e giù per marciapiedi a velocità proibitive, lo stomaco non faceva una piega, ed era pur sempre lo stesso stomaco che al minimo ondeggiare abitualmente si rivoltava su se stesso. Sarà che nell’urgenza non c’è tempo per pensare ai propri organi traditori e il cervello è arrampicato su altri dirupi. Certo è che, assisa su un seggiolino instabile, abbarbicata ad un monitor, poteva permettersi di guardare indietro, veder sfrecciare sull’asfalto la linea bianca interrotta, come più volte la traccia dei suoi anni e poi ripresa con un balzo e ancora tenuta fra indice e pollice come filo sottile.
La pressione arteriosa reggeva, poteva stare tranquilla e continuare a sbirciare la sua vita srotolata dall’ultima pagina che si palesava dal finestrino.
L’emicrania bussava alle tempie, un ritmo pulsante, un dolore che sopportava da decenni, ma che negli ultimi anni scardinava quasi tutti i giorni, insensibile ormai ai farmaci per bocca, la obbligava sempre più spesso a ricorrere alle vene, senza trascurare il cortisone.
Non era sano, ancora una volta la sua vita aveva preso una piega nociva e sulfurea. Serviva un colpo di reni, un atto di coraggio per mollare la presa.
La saturazione dell’ossigeno superava il novantacinque per cento e la sua adrenalina sonnecchiava nell’angolo, pronta a ringhiare alla minima deflessione del valore percentuale. Lo sguardo scattava dal monitor al viso del paziente. Ora sfiorava i caschetti appesi al portellone da utilizzare in caso di pericolo, lo zaino intubazione, la borsa farmaci. Tutto era al suo posto, a tiro di braccia. Tutto quello che riempiva l’angusto spazio di un vano ambulanza, raggrumava la sua esistenza degli ultimi anni, tutta la sua storia recente, condensata in oggetti di soccorso, barelle, bombole d’ossigeno. Questo era ciò che doveva risolversi a lasciare, dopo l’addio urticante al bisturi, l’età lo imponeva ormai e la cefalea era lì pronta a scrivere il grafico di un corpo stanco, prostrato, che aveva fatto il suo tempo e che chiedeva respiro.
Era tempo di sciogliere le vele.
Bisognava assecondarla almeno questa volta, la vecchia carcassa, smettere di farla gemere, coricarla al bordo della carreggiata e lasciarla rallentare. Anche le resistenze della volontà si stavano sfilacciando, fiaccate da un dolore opprimente, onnipresente, che smembrava i giorni e ne faceva spazzatura. Tirava il vento della sottomissione e della resa.
Desiderava girare pagina, non solo rallentare la danza, ma ballare proprio un’altra danza. Non capiva ancora quale, certo non più questa. La fatica non stava tanto nell’emergenza, che pure non era una passeggiata, ma nella burocrazia che si mangiava la clinica, nel monitor di un computer che si frapponeva fra medico e paziente e nel tempo per l’ascolto che era divorato dai dati. Era bastata l’adozione di un nuovo programma informatico in pronto soccorso per appesantire vertiginosamente il lavoro e per scatenarle bordate di cefalea incontrollabili.
Aveva sempre visitato scrivendo poco, ascoltando e parlando tanto, mettendo le mani addosso ai pazienti per sentire cose che ora erano delegate solo a sonde ecografiche, gettando alle ortiche il sapere delle mani. Moncherini ai polsi e abuso di indagini diagnostiche.
E più si accertava, più si doveva accertare e documentare di averlo fatto, annotando il perché e il per come e, ovviamente l’ora e il minuto in cui si era deciso di farlo, l’ora e il minuto in cui si era materialmente fatto, l’ora e il minuto in cui si era ottenuto un referto. In questo delirio le parole dei pazienti si riducevano a monologhi consegnati a medici-automi ossessionati dal prendere nota pigiando compulsivamente sulla tastiera. Con gli occhi incollati al monitor, si agognavano pazienti disartrici o addirittura afasici per avere il tempo di sedare la voracità del computer.

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Il risveglio della parola. Leggendo Maria Zambrano

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In questi mesi qualcosa o qualcuno si è messo di traverso fra me e la scrittura. E in sé non sarebbe un problema vitale, nel senso che il cuore continua a pompare sangue e i polmoni inspirano ed espirano, sia che scriva, sia che non riesca a scrivere. Il problema è l’inquietudine di fondo, una sorta di tremore, di prurito della mano destra che vorrebbe impugnare una penna mentre la sinistra tiene fisso il foglio.

Si può vivere senza scrittura, almeno per un po’. E’ che lo stesso ostacolo che si frappone fra me e la scrittura si mette di mezzo per ogni altra attività creativa che resta preclusa. Bisognerebbe avere pazienza con se stessi perché, come dicono a Napoli, “ha da passà ’a nuttata”, ma negli anni la pazienza viene meno.

Ho cercato chiarezza nelle pagine di Maria Zambrano che, come sempre, riesce a trovare le parole che a me mancano. O che a volte, come in questo caso, proprio la sua lettura mi porta a scrivere.

***

Il risveglio della parola.

Indecisa, appena articolata, si sveglia la parola. Non sembra che riesca a orientarsi mai nello spazio umano, che va prendendo possesso dell’essere che si sveglia lentamente o istantaneamente. Poiché se il risveglio si compie in un istante lo spazio lo assale come se lo avesse aspettato lì per definirlo, per fargli sapere che è un essere umano e basta. Mentre il fluire temporale, in ritardo sempre, rimane aderente all’essere che si desta avvolto nel suo tempo, in un tempo suo che custodisce ancora senza cederlo, il tempo nel quale è stato deposto fiduciosamente. E la parola si desta a sua volta dentro questa fiducia radicale, che si annida nel cuore dell’uomo e senza la quale egli non parlerebbe mai. E si direbbe persino che la fiducia radicale e la radice della parola si confondano tra loro o si diano in un’unione che permette alla condizione umana di emergere.
E’ di indole docile la parola, lo mostra nel suo destarsi quando comincia a sgorgare indecisa come un sussurro in parole slegate, in balbettii, appena udibili, come un uccello ignaro che non sa dove andare ma si dispone ad alzare il suo debole volo.
Viene ad essere sostituita, questa parola nascente, indecisa, dalla parola che l’intelligenza già sveglia proferisce come un ordine, come se statuisse anch’essa una presa di possesso dinanzi allo spazio che implacabilmente di presenta e davanti al giorno che suggerisce un’azione immediata da compiere, che tutte le comprende. Parole cariche di intenzione. E la parola originaria, ritiratasi in sé, torna al suo silenzioso e nascente vagare, lasciando l’impronta impercettibile della sua diafanità. Non si perde però. Come un balbettio, come un sussurro della fiducia inestinguibile, attraverserà la serie delle parole dettate dall’intenzione, liberandole per qualche attimo dalle loro catene. E in questa breve aurora si avverte il germinare lento della parola nel silenzio. Nel debole bagliore della resurrezione la parola finalmente si stacca lasciando intatto il suo germe, annunciato dal pallido albeggiare della libertà un attimo prima che la realtà irrompesse. E così la realtà rimane sorretta dalla libertà e con la parola avviata a dirsi, a prendere corpo. La parola e la libertà precedono la realtà estranea, che irrompe dinanzi all’essere non ancora compiutamente destatosi nell’umano.

Maria Zambrano, Chiari del bosco

***

Sussurro sottile, sottile, quasi trasparente, limpido come cristallo, soffio di sogno notturno di incerta materia, sospetto. A palpebre serrate pareva luminoso, del colore dell’aurora, splendente. Al sollevarsi delle ciglia si fa indecifrabile, quasi ombra, apparenza, indefinita esistenza.

Si cerca di acchiapparlo, legarselo al polso della memoria, circostanziarlo. Ma proprio l’intenzione di trattenere lo dissolve, come acqua che non può farsi fiume.

Quel balbettio luminoso è perso, ha voltato le spalle deciso. E ci si perde a chiedersi che cosa lo abbia così urtato, addirittura offeso, quale sia la nostra responsabilità in quell’assenza. Perché dentro si sa che di responsabilità si tratta. Non dico di colpa, ma responsabilità.

Disporre l’animo a destra invece che a manca fa una bella differenza, così come lasciare correre imperterrite ombre nei giorni, ostinarsi ad ignorare impronte, segnali sospetti .

Non è di indole docile la parola, ha enormi pretese la parola nascente, sa essere permalosa oltremodo e sdegnosamente abbandona il campo e si ritira in sé, quando l’animo non è sgombro.

Che poi non si perda è tutto da dimostrare. Cacciata a calci una volta, poi due, poi cento, ha tutto il diritto di estinguere la sua innata fiducia nel mondo in un’udibile pernacchia, di alzarsi in volo senza voltarsi indietro.

Resta il fare, fitto susseguirsi di gesti che riempiono spazio e tempo, instupidiscono coscienze, sotterrano fiducia, declamano necessità inderogabili, con parole stantie anche se ben definite ed avverse al silenzio.

Ma è di quel silenzio che non si riesce a non avere nostalgia.

La porta del bagno

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Scrivere è sicuramente esporsi, ma anche la lettura non è un’operazione passiva e gratuita, ha le sue implicazioni. Aprendo un libro ci si dichiara disponibili all’intimità non solo con la parola scritta, ma anche con chi l’ha scritta. Si corre il rischio di un’eccessiva prossimità, di venire a sapere troppo di lui.
Nel contempo si entra in una sfera di complicità che può far perdere l’orientamento, fin a farti dubitare della paternità delle parole distese sulla pagina: le si sta leggendo o le si è scritte in un’altra vita?
Non che possa venire il dubbio di aver scritto in prima persona quella storia nel suo insieme, ma quella frase o forse solo quelle due parole in quella successione perfetta, proprio quella, sarebbero potute uscire dalla penna del lettore stesso. O forse questo è quello che nell’intimo si sta desiderando: avere messo al mondo quell’equilibrio.
A volte, certi passaggi, non per forza nei nodi cruciali della storia, anche solo alla periferia del racconto o in parole che per altri potrebbero risultare marginali, istituiscono per quel lettore una magica aderenza a quello scrittore. Inspiegabile ma perfetta. E il lettore e lo scrittore, da quel momento in poi, non sono più gli stessi, singolarmente e insieme. Soprattutto insieme. Non si sta più insieme allo stesso modo dopo certi libri. Magari alla superficie la metamorfosi non è evidente e il ritmo delle onde appare immutato. Ma i due, il lettore e lo scrittore, lo sanno. Non si guardano più allo stesso modo, non si percepiscono più come prima, pur nell’incompleto conoscersi. Qualcosa è cambiato ed è qualcosa che conta anche se non si vede. Come è noto, non tutto ciò che conta risulta visibile, anzi.
A volte si è traditi dalla semplice inflessione della voce, altre da uno sguardo più sfuggente, come intimoriti dall’aver così tanto condiviso. Forse è il pudore che induce a ritrarsi. Un anglosassone passo indietro per non urtare sensibilità, per non sembrare invadenti, come a garantire di aver solo buttato uno sguardo nell’animo dell’altro, non di più.
Come se per errore si fosse entrati in bagno mentre l’autore faceva pipì, ci si ritrae fingendo di non aver visto nulla. Ma, paradossalmente, non è il segreto dello scrittore che crea l’impasse, è quello del lettore che lo scrittore ha messo a nudo. Non è chi legge che varca la soglia del bagno altrui, è lo scrittore che, incautamente, entra nel bagno di chi legge. E l’imbarazzo sta proprio nel sentirsi scoperti, nel veder squadernata la propria intimità, quando si credeva che di sé fosse visibile giusto il naso.
Forse è che i segreti si assomigliano, così come la vita di tutti. E’ che le angosce non sono poi così originali e ci si può autenticamente chiedere se siamo noi che osserviamo o se in realtà, in alcune pagine, siamo stati osservati. Qualcuno impunemente ha frugato nell’animo nostro.
Certo è che leggendo certi libri, dopo ma anche durante, si comincia a vederci meglio. E non si vedono bene tanto i segreti, ma tutto l’insieme, pur in quella confusione del guardare e dell’essere guardati che forse è ciò che ti consente di vedere. Anzi è proprio quando si cammina incerti, incespicando, quando non si rifugge l’ambiguo confondersi e si accarezzano gli indefinibili confini della nebbia, che si generano meraviglie.
Si legge e si scrive senza soluzione di continuità. Non si riesce a scrivere se non si impara a leggere. Non si può leggere se non si accetta il rischio che la scrittura propone, se non ci si apre alla parola.
Si scrive e si legge non sempre in successione. A volte si scrive mentre si leggono le parole significative di altri, come raccogliendo una gugliata di filo per terra e srotolando una matassa di lana. A volte si leggono nelle parole di altri i propri pensieri, altre volte si scrivono le emozioni di altri, percepite sulla pelle quasi per caso, assorbite in conversazioni o in semplici sguardi.
E in questo gioco di nascondimenti e di svelamenti, si aprono la porta del bagno di chi legge e di chi scrive e si continua a leggere e a scrivere per restare in vita.

La traccia della corsa

Non la linearità di una via, neppure il segno evidente di un sentiero ma la labilità di una traccia, appena accennata, sconnessa, difficile da tenere.

Suggerimenti poco ortodossi e scarsamente atletici per la pratica del correre.

 

Che cosa è necessario?

E resta il nulla e il vuoto che il chiaro del bosco dà in risposta a quello che si cerca. Mentre se non si cerca nulla l’offerta sarà imprevedibile, illimitata. Giacché sembra che il nulla e il vuoto – o il nulla o il vuoto – debbano essere presenti o latenti di continuo nella vita umana. E che per non essere divorato dal nulla o dal vuoto uno debba farli in se stesso, debba almeno trattenersi, rimanere in sospeso, nel negativo dell’estasi. Sospendere la domanda che crediamo costitutiva dell’umano.
(Maria Zambrano,
Chiari del bosco)

Strumentazione pressoché nulla. Un buon paio di scarpette con suola per terreno misto, ammortizzate, anti urto. Le scarpe sono l’unico attrezzo fondamentale, le ali ai piedi, e si trovano ovunque senza svenarsi con cifre astronomiche. Ci sono poi negozi specializzati che analizzano il tipo di appoggio plantare durante la corsa e che sanno suggerire calzature adeguate. E’ sempre consigliabile optare per scarpe a pianta larga, evitando contenzioni eccessive. Le scarpe vanno cambiate spesso, perché se si corre costantemente la suola si consuma rapidamente e correre con le suole lise danneggia la colonna vertebrale. Per altro, sono i tendini di Achille che ci informano della necessità di cambiare le scarpe, quando cominciano a irrigidirsi e a dolere.
Per noi donne, oltre alle scarpe, è indispensabile un reggiseno da atletica, di quelli rinforzati e incrociati dietro, che incollano le ghiandole mammarie alla parete toracica, evitando dolori, sanguinamenti dal capezzolo, smagliature e altri fastidi.
Fra gli optional metterei: calzini con punta e tallone rinforzati per prevenire le vesciche, pantaloni aderenti o pantaloncini. All’inizio ho faticato non poco ad infilarmi quei pantaloni stile seconda pelle che evidenziano ogni difetto, ogni grammo di cellulite. Poi ho stretto alleanza con la mia immagine, mi sono affezionata alle imperfezioni che lo specchio rivela impietoso, e mi ci sono adagiata dentro.
Gli optional, come dice la parola, non sono affatto indispensabili. Trent’anni fa, durante una campestre in Val di Genova, mentre pioveva a fiumi, mi ha affiancata una donna nativa di Carisolo, ben più vecchia di me, bagnata fradicia, che correva in gonna e mocassini: era un fulmine.
E’ necessaria la disposizione dell’animo al silenzio, al vuoto, all’ascolto di quello che la corsa porta.
Non so bene descrivere cosa c’è da ascoltare. Si comincia con il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie sui rami, l’improvviso sgambettare di uno scoiattolo. Poi si ascolta il rumore delle suole sull’asfalto, sul terreno del sentiero, ripetitivo, sempre uguale eppure diverso. Ritmo veloce, muscoli contratti nello sforzo, che gradualmente si sciolgono.
Ma per sciogliersi devono attraversare la fatica e il sudore, evolvere dallo stadio di contrattura serrata a quello di abbandono che regala movimento gratuito, fluido, passivo, liberato dal controllo cerebrale. E’ come se venissero recise le connessioni fra centro e periferia, assoni lasciati liberi, penzolanti, sinapsi disattivate, zero acetilcolina. Motore principale silente, semplice ripetizione ossessiva, danza di dervisci, taranta, soppressione del controllo della coscienza.
Nei primi anni questa corsa-danza, questa attenzione acuta senza domande, veniva solo dopo i primi dieci chilometri, quando la fatica aveva sfiancato la volontà e nessun guardiano restava sveglio. La fatica era la chiave di volta, la strada obbligata. Tanta fatica, tanto sudore.
Il sudore è un problema quando si corre, perché irrita pelle e congiuntive: si deve adottare una fascia frontale che assorbe. Molto sudore riesce comunque a colare sul viso. Le aree che si irritano di più sono gli zigomi e le palpebre inferiori. Ho sperimentato mille protezioni, quella che funziona meglio è il burro di karité che le mie amiche mi portano dal Burkina.
Non ha una buona fragranza, ma è così denso da stratificarsi come un film protettivo sulla pelle e ridurre al minimo l’insulto dell’acidità del sudore.
La corsa induce all’ascolto del corpo, alla confidenza con i muscoli e dunque con il cuore, ma non con il cuore dei sentimenti, con il cuore pompa formidabile, magico motore silenzioso, scrigno segreto.

 

Come è cominciata?

Con la mia mano bruciata scrivo della natura del fuoco
(Ingeborg Bachmann)

Venivo da cinque anni di yoga declinato all’occidentale, yoga tutto fisicità e muscoli, che ho intrapreso verso la fine della chemioterapia. Non riuscivo a reggere la mia immagine allo specchio, lo sguardo la sfiorava di sfuggita e poi doveva distogliersi: quarantasei chili di ossa, muscoli ipotrofici, pelle cadente, sparuti peli radi in testa. Spiumata, mi definiva mio marito.
Sotto casa avevano aperto una nuova palestra yoga, gestita da donne che vedevo arrivare in tuta rossa. Ambiente silenzioso, niente musica, poche pretese, grande preparazione atletica delle maestre, tutte dotate di fisico agile e scattante. Il silenzio del luogo e la calma delle insegnanti mi hanno conquistata. Ho ricominciato gradualmente ad estendere e a flettere i muscoli, ad oliare le articolazioni legnose. Sensazione di chemioterapici che si sciolgono nel sudore, fluorouracile e oxaliplatino che a ondate abbandonano le vene e, tramite la cute, evaporano, si portano via la nausea, il sapore dolciastro che patina la lingua e inibisce il gusto, l’astenia invincibile. Questo é stato il maggiore ostacolo, scendere a patti con l’astenia, abituarsi a non avere risorse, a doversi concentrare a lungo per trovare l’energia per alzarsi da una poltrona. Estenuante esercizio di umiltà per chi ha sempre avuto forza a profusione, sopportazione della fatica senza limiti. Come se tutto il corpo fosse un unico muscolo calpestato dentro, scrive José Saramago.
Dure anche le parestesie alle mani, ai piedi e alla lingua. L’oncologo mi aveva avvertito di non bere bevande fredde, ma il primo ciclo di terapia era andato via liscio, per cui me ne ero dimenticata fino al momento il cui ho bevuto di colpo un bicchiere di acqua fredda. Era una mattina di luglio, ero sola a casa e la gola ha cominciato a serrarsi, l’ugola si è gonfiata a dismisura e lo spazio respiratorio si é ridotto a un filo. Impossibile inspirare, debito di ossigeno, vertigine e terrore. Poi il flash, il ricordo del farmaco: era il platino che faceva ostacolo, ingombrava i nervi periferici, ispessiva le mucose. Sforzo di autocontrollo, pazienza, calma. Sarebbe passato presto. Così é stato: ho ricominciato ad inspirare nello spazio di pochi minuti dilatati a secoli quando li misuri nella paura.
Sempre l’oxaliplatino paralizzava le dita delle mani e dei piedi; impossibile allacciarsi un bottone, reggere un libro. Mani esperte ridotte ad appendici di gesso, dolenti. Duplici guanti, massaggi, formicolio e poi dolore, urente, terebrante alle ultime falangi ghiacciate, bluastre, insensibili. Mi era stata assicurata la transitorietà del sintomo, ma come fidarsi quando le mani sono completamente inservibili e di lavoro fai il chirurgo? Non avrei varcato più le soglie della sala operatoria? Se fossi sopravvissuta al male, sarei sopravvissuta alla nostalgia del bisturi?
Quando il platino mi veniva iniettato nel catetere venoso centrale, direttamente nella vena succlavia e di lì in atrio destro, la sensazione era di gelo, come se il ghiaccio cementasse tutto ciò che il farmaco attraversava, progressivamente ma inesorabilmente. Il nulla che avanza di Neverending Story. La temperatura corporea si abbassava e le funzioni vitali rallentavano; sentivo il cuore divenire bradicardico e percepivo la pressione in discesa libera. Non avevo mai fino ad allora avuto attenzione al corpo, semplice strumento, ora d’improvviso tutto. Amplificavo ogni fruscio, la percezione dettagliava ogni minimo mutamento, distintamente, nulla passava sotto silenzio, quasi potessi contare i linfociti in rottamazione. Il corpo occupava imperiosamente tutto lo spazio.
E proprio ora che avevo conquistato questo sapere, questa confidenza con la mia corporeità, la sensazione che il farmaco mi rimandava attraverso il corpo era di morte. Freddo, brividi scuotenti, pallore, cute verdognola e poi sentirsi morire. Credo che l’esperienza del platino in vena sia la più simile alla morte che si possa immaginare, almeno per chi, come me, non ha un passato di abusi di altre droghe. Progressivo raffreddamento del corpo fino all’affievolirsi di ogni funzione, di ogni segno vitale. Già al secondo ciclo di chemioterapia ho imparato che questa sensazione di morte imminente sarebbe durata solo alcune ore. Le ore possono calamitare secoli in certi frangenti, i minuti sfuggono alle misurazioni convenzionali e fanno lo sgambetto al tuo self control.

Attraverso lo yoga cercavo di fare pace con un corpo che mi aveva tradita, aveva lasciato crescere un cancro, lo aveva nutrito sottraendo energia alla vita. Come avevo potuto non sentirlo crescere? Sette centimetri é una dimensione ragguardevole, avrei dovuto accorgermene. E non era una neoplasia qualunque, ma quella che operavo, che studiavo, che inducevo nelle cavie in chirurgia sperimentale. La malattia che meglio conoscevo, con cui avevo più confidenza, di cui avrei potuto disegnare le vie di metastatizzazione aveva colonizzato il mio presente.

Com’era possibile che il mio sistema immunitario avesse fatto cilecca e non lo avesse riconosciuto come un corpo estraneo, come altro da sé? Si affacciava alla mente la possibilità che la malattia non fosse altro da me, che non si trattasse di un ospite invasivo, di un saprofita, di un nemico. Che si trattasse di me. Cellule vive che crescono, si moltiplicano, seppur aberranti sono vita. Vita che erode la vita, che stronca la sopravvivenza. Fare i conti con il mio desiderio di morte, con ciò che mi ha portato lì, sul quel crinale fra l’essere e il non essere, con la fascinazione dello scomparire, con quel canto di sirene cui é difficile resistere.

Aveva voluto morire, ma non come si vuole quando si é lontani dalla morte, bensì andandole incontro. Non l’aveva invocata ma, più semplicemente, si era messa in marcia, scegliendo il cammino che conduce a essa, o forse si era confusa; forse si trattò solo di un inganno o di un’illusione; un errore. (Maria Zambrano, Delirio e destino)

L’ata yoga, con lo sforzo atletico che comporta, mi ha traghettata fuori dalla chemioterapia, ha riattivato le mie fibre muscolari e ridato parvenza di equilibrio al mio sistema nervoso centrale. Un puntello per reggermi in piedi.
Fare i conti con la malattia sarebbe stata tutt’altra faccenda, e, per quello, lo yoga così inteso, era un’arma spuntata. Ma non era ancora tempo, troppa era l’energia necessaria per sopravvivere.
Presi la mia mente, tutto il mio essere, una cosa ormai così scoraggiata, quasi esanime, e li sbattei tra quei resti, pagliuzze, rametti, detestabili rottami di un naufragio, relitti galleggianti, robaccia buttata a mare. (Virginia Woolf, Le onde).

Cinque anni di addominali, flessioni, piegamenti, fino a riuscire a sostenere posture antigravitazionali per le quali era assolutamente necessaria, oltre che la forza fisica, la concentrazione. Per questo dovevo ricostruire l’equilibrio. Quello non era mai stato un problema, almeno quello fisico. A scuola l’asse di equilibrio mi veniva facile e scendevo dal quadrato svedese a testa in giù come un’anguilla. Lo stesso per la pertica, quasi le gambe mi proiettassero verso l’alto gratuitamente.
La chemioterapia aveva invece cancellato anche l’equilibrio fisico, mi accorgevo di sbandare per strada, di pencolare sotto la doccia come un giunco, vittima di una lieve vertigine che non mi ha più abbandonata del tutto. Attraverso lo yoga ho ripreso una parte del vecchio equilibrio anche se ancora oggi, a distanza di dieci anni, mi capita di pendere da un lato, di camminare storta, di scivolare se non sono concentrata. Ora l’equilibrio richiede impegno di testa, mentre prima era gratis, era sapere inconsapevole del corpo.
Per qualche anno lo yoga ha funzionato: la fatica, i muscoli pesti, il sudore, mi consentivano di riabitare il mio corpo e di camminare nel mondo. La strada della fatica e del sudore mi é sempre stata conforme. Se fossi nata uomo sarei stata un bravo ciclista o un buon soldato; se fossi nata animale sarei stata uno di quegli asini legati alla stanga di una macina che triturano gli anni girando in tondo.
Fatica inscritta nella carne, oltre che nei geni. Decodificarne le origini non risolve, non cuce un nuovo abito addosso.
Finché l’ambiente della palestra yoga ha cominciato a guastarsi. Le pretese atletiche crescevano e con loro cominciava a fare capolino la competizione e il gusto per la perfezione del corpo che mi disturbava. Nuove insegnanti venivano inserite, più giovani, rampanti, magrissime, ben truccate. Poi è comparso un guru nostrano, con scimmiottamenti buddisti e sguardo ieratico veramente comico. L’ambiente si è fatto esclusivo, i costi sono lievitati e la clientela è divenuta ricercata. Aria troppo pesante per me. In realtà quell’attività aveva il merito di sfruttare le posture e la tecnica del respiro dello yoga, quello che strideva era il misticismo posticcio.
Ho abbandonato la palestra yoga, ma a quel punto il corpo aveva le sue esigenze e reclamava spazio. Non potevo chiuderlo in cantina un’altra volta.
La corsa nasce qui, da questa pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci. Un richiamo forte, ineludibile. Il bisogno di riprovare ad immaginare una sopravvivenza, di rigiocarsi.

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