Fatica a dire di lui, ma da giorni le formicola dentro anche l’urgenza di farlo, da quell’incontro serale a fine turno. Ha tentato la strada dell’archiviazione, ma il suo volto pallido torna a sorriderle anche in sogno. E’un ronzio costante nei suoi pensieri, radicato oltre il pensiero, in quel sentire sottile che è la sostanza trasparente su cui poggia il vivere quotidiano. Qualcosa di meno pesante di una stoffa, ma non lieve come una nuvola, forse simile alla corrente che resta attiva nell’impianto elettrico anche a luci spente. In quel flusso galleggiano i suoi occhi chiari spalancati, di un candore sorridente. E’ un sorriso incongruo quello che gli si dipinge in viso mentre il fiato non sale, mentre il debito d’ossigeno costringe i suoi bronchi all’estremo fischio d’aiuto. Allora, quando la saturazione d’ossigeno precipita, tutti i pazienti sbarrano gli occhi, il terrore si dipinge sul loro volto, le mani si stringono a serrare le lenzuola e tutto, proprio tutto il corpo è un unico intollerabile sibilo acuto.
Lui invece sorride. L’aria gli stride nei bronchi, i polmoni non si espandono, la cassa toracica si distende in cerca di un grammo d’ossigeno che gli alveoli agognano e il suo volto, da sempre pallido, si fa bluastro, le occhiaie si demarcano, la cute del torace si marezza di chiazze scure e irregolari che dilagano negli arti.
Glielo avevano spinto in ambulatorio di corsa: codice rosso, non respira più nemmeno con le branchie, dichiarava l’infermiera di triage mentre velocemente dirigeva la barella nello slalom fra un paziente e l’altro, sorpassandoli tutti perché lui, il codice rosso, stava morendo in asfissia. Aveva già in carico il codice rosso di un anziano settico più morto che vivo, e l’idea di giocare su due tavoli, entrambi scivolosi, non l’attirava. Ma non è che si potesse scegliere, ci si doveva attrezzare ad affrontare ciò che capitava, che fossero uno, due o tre. Si fa quel che si deve e niente lagne, semplicemente si corre un poco di più e si spera che la sorte conceda una tregua, prima o poi.
Si erano riconosciuti subito e subito sorrisi. Che fortuna trovare te! Era riuscito a dire fra un sibilo e l’altro. Stai zitto Umberto, non dire nulla, devi concentrarti sul respiro che adesso ti faccio ritrovare, rispose lei mentre appoggiava il fonendoscopio su quel torace scarno e scavato, registrando rantoli in alto e silenzio totale dal campo polmonare medio in giù.
Quel torace annegava nel liquido che accartocciava i polmoni riducendoli a pugni contratti. Armeggiava su quel corpo in affanno bucando, ventilando, somministrando farmaci fino ad allungargli il respiro di quel tanto utile per tenerlo in vita. Riagguantare tutto quel fiato non era pensabile. Intanto lui non aveva smesso un attimo di sorriderle e di parlarle con gli occhi. E più il respiro gli veniva concesso più i suoi lineamenti si distendevano e lui cercava di dire, nonostante indossasse la mascherina dell’ossigeno. Ci parlava dentro. Era un’impellenza che lei non avrebbe fermato, perché lui era colmo di parole che lo chiamavano impellenti, come sapesse di non avere abbastanza tempo per tutto ciò che aveva da dire.
Gli tolse imprudentemente la mascherina e lo lasciò raccontare. Parlava a precipizio, mentre lei lo ascoltava e gli contava i respiri: la sua libreria, l’ulisse, con la u minuscola come lui amava precisare, chiusa da anni, la sua nuova passione per il vino vivo, l’eterno amore per i libri che non l’aveva lasciato mai.
Viaggi: raccontare, ricordare
Stalin
Mi è sempre piaciuto gironzolare tra gli scaffali delle librerie. Il più delle volte non ho un’intenzione precisa, quasi mai sono alla ricerca di un certo titolo o di un particolare autore. Preferisco guardarmi intorno, in cerca di ispirazione. Con metodo, però. Prima gli espositori delle novità, poi le mensole che reggono il peso dei classici. Quando la copertina di un libro attira la mia attenzione, variabile a seconda dell’umore del giorno, mi ci soffermo, guardo chi lo ha scritto, leggo il retro o la quarta di copertina. Se mi intriga lancio un’occhiata al prezzo, lo annoto mentalmente e proseguo nel mio sopraluogo. Di solito completo il tour prima di decidere cosa e se acquistare, ma è raro che io esca senza almeno un titolo sottobraccio. Quando mi capita di incrociare la nuova pubblicazione di uno dei miei autori preferiti, la scelta può rivelarsi più rapida, ma non è questa la norma e non sono molti gli scrittori a cui riconosco questo privilegio.
E poi ci sono i libri che fanno eccezione. Quelli che, per una ragione tutta loro, non vogliono stare alle regole, che quando mi arrivano tra le mani si rifiutano di abbandonarle, che reclamano il mio interesse e che pretendono di essere letti, se possibile d’un fiato. In quei casi, si va alla cassa e via.
Durante una di queste mie ricorrenti visite in libreria, un giorno non meglio precisato dei primi anni del nuovo millennio, mi sento improvvisamente attratto dalla copertina di un libricino esposto tra le novità. Poche copie, posizione marginale. Il disegno in bianco e nero riproduce la scena più nota di uno dei film che maggiormente ho amato da ragazzo, Il mucchio selvaggio, grandissimo western crepuscolare della fine degli anni ‘60. Il libro si intitola La banda Bellini.
“Il mucchio… ma dai… è parecchio che non lo rivedo… uno di questi giorni, magari… e poi, questo titolo… ma sarà proprio lui, il mitico Bellini del Casoretto? Quanti anni sono passati… Lo avevo quasi dimenticato.”
Mi coglie come una vertigine, un gigantesco vortice di ricordi mi risucchia, e io mi ci abbandono, aggrappato a quel libro come un naufrago ad un relitto in un mare in tempesta…
Estate del 1974. Avevo appena terminato il secondo anno di superiori. Da due anni facevo parte del Collettivo studenti medi di Lotta Continua, cui aderivano praticamente tutti i miei amici. Con loro condividevo la passione politica e la pratica dell’antifascismo militante, che ci aveva da poco condotto a costituire il primo nucleo del servizio d’ordine studenti medi di LC della nostra città. Nel farlo ci eravamo ispirati ai due modelli milanesi che consideravamo leggendari: i Katanga del Movimento Studentesco dell’Università Statale e il servizio d’ordine del Collettivo del Casoretto, nato nell’omonimo quartiere popolare, di cui Andrea Bellini era il leader indiscusso.
Con l’inizio delle vacanze scolastiche, anche l’attività politica aveva inevitabilmente subito un notevole rallentamento, perciò chi di noi aveva potuto, cioè i più grandi, si era ficcato uno zaino in spalla ed era partito per qualcuna delle numerose mete “alternative” che popolavano la geografia vacanziera della sinistra militante. Io no, i miei genitori pensavano che la mia età anagrafica non fosse ancora adeguata a consentirmi di andare in giro per l’Italia con la sola compagnia di qualche amico lungocrinito. Perciò ero rimasto a godermi il caldo cittadino, con l’unico refrigerio offerto dalle spiagge lungo il fiume e la consolazione di condividere il tedio con i pochi compagni rimasti.
Come ogni giorno, ci eravamo dati tacito convegno nel primo pomeriggio al Bar Orchidea, luogo di ritrovo prediletto della galassia extraparlamentare cittadina. Eravamo stravaccati lì davanti già da un po’, indecisi sulla piega da far prendere alla giornata, quando qualcuno se ne esce con:
“Al cinema Castello danno un film di qualche anno fa, si intitola Il mucchio selvaggio. E’ un western e ho sentito che non è affatto male. Visto che non abbiamo niente di meglio da fare, potremmo anche andare a vederlo… Oltretutto è qui vicino e il biglietto costa poco… Alura, anduma o no?”.
Buona parte di noi, me compreso, non ne aveva mai sentito parlare prima ma, considerata anche la completa assenza di proposte alternative, dopo breve discussione la mozione veniva approvata. Poco dopo, in una mezza dozzina ci dirigevamo verso il cinema Castello, spettacolo pomeridiano.
(canzone messicana malinconica di sottofondo) continua a leggere
Roberta
Roberta è mia sorella. Ha 51 anni ed è affetta dalla sindrome del “grido del gatto”, malattia genetica dovuta alla delezione del cromosoma 5. Ha un ritardo mentale grave, che non le ha però impedito di imparare un numero sufficiente di parole che le consentono di esprimersi e di relazionarsi con gli altri. Anche troppo… Roberta parla moltissimo, con tutti, anche se il vocabolario che usa non è sempre di immediata comprensione per chi non la conosce bene. Qualche settimana fa ha cominciato a non vederci più. Probabilmente da tempo ci vedeva poco e male ma non ci aveva mai detto nulla. I medici le hanno diagnosticato una cataratta bilaterale. Lunedì è stata operata all’occhio sinistro. Questo è ciò che lei ed io ci siamo detti prima che entrasse in sala operatoria. Una precisazione, anzi due: in “robertese” PUIUIA significa paura e PICCOLO CONVENTO sta per piccolo intervento.
R: Andea…
A: Dimmi Robi.
R: Io ho puiuia del piccolo convento…
A: Lo so. Ma vedrai che andrà tutto bene.
R: Si…?
A: E poi con il tuo occhietto tornerai a vedere come prima. Non vorrai mica restare cieca?
R: Cieca come Andea Bocelli?
A: Si. Però guarda che tu non canti bene come lui.
R: (ride). Non è colpa mia se il mio occhietto non ci vede?
A: Non è colpa di nessuno.
R: Il mio occhietto è un po’ tremendo?
A: No, si è solo ammalato. Ma ora il dottor Francesco lo farà guarire.
R: Si…? Mi fa male?
A: No. Ora ti faranno dormire con una medicina e quando ti sveglierai sarà tutto finito. Avrai una benda sull’occhietto e sembrerai un pirata. Ricordati che mi hai promesso di non toccarlo mai. Mi raccomando… E’ importante. continua a leggere
La lingua del gioco
“Perchè non hai aperto alla signora Gardoni?” mi dice Grazia rientrando dal lavoro.
“Non ho sentito suonare. Forse non ha premuto bene il pulsante del citofono…”
“Si, certo… O forse è che sei diventato proprio duro d’orecchi. Ormai ti sta capitando sempre più spesso…”
“Sarà… Però quando hai suonato tu ho sentito. Infatti ti ho aperto…” rispondo seccato. Mi infastidisce sempre un po’ quando mi dice che sto diventato sordo, anche se probabilmente ha ragione.
“Va bè, non importa, voleva solo regalarci un cestino delle sue albicocche, sai, quelle delle piante che ha in cortile… Aveva capito che eri in casa perché ti ha sentito parlare con le gatte…”
In effetti, ero in camera da letto con la finestra spalancata… proprio la finestra rivolta verso casa sua… Certo che, la signora Gardoni, nonostante l’età, a quanto pare ci sente ancora benissimo… O forse stavo facendo davvero un gran casino…
“Allora avrà pensato che sono un deficiente.”
“Ma… Non so… Tu che ne dici?” mi risponde Grazia con aria innocente…
Per un momento mi immagino la nostra vicina che ascolta perplessa quell’insieme di versi inarticolati che emetto quando gioco con le gatte… Si sarà divertita un sacco la vecchia berlusconiana… Già, perché mica me la scordo quella bandiera di Forza Italia appesa sopra il suo portone d’ingresso all’epoca della prima vittoria elettorale del Cavaliere… E neanche il suo sorriso strafottente quando in quei giorni ci incrociavamo per strada… Me ne deve regalare di albicocche la signora Gardoni… Provo un po’ di disappunto al pensiero di lei che di nuovo se la ride alle mie spalle…
Poi però mi ricordo di tutte le volte in cui l’abbiamo ascoltata divertiti mentre si rivolgeva al suo cane urlando come un’invasata… “UGO!!! Vieni qua che ti riempio di legnate… Guarda cos’hai fatto brutto maiale… UGO!!! Oh, quando ti acchiappo…” e giù imprecazioni che neanche un camallo del porto di Genova… che risate… Anche ora fatico a trattenere un sorriso… la signora Gardoni che parla con UGO!!!… Forse ci somigliamo più di quanto sono disposto ad ammettere…
Comunque è vero. Non che sono un deficiente, no… Che parlo con le nostre gatte. Soprattutto con una delle due, in verità…
Ci sono capitate a pochi mesi di distanza l’una dall’altra, entrambe cucciole.
Lola, la prima, è una soriana tigrata di colore grigio. Elegante e magrissima, è una gatta molto dolce e riservata che riesce a trasformarsi in una belva feroce solo quando si trova di fronte un veterinario.
E’ stata la realizzazione di un desiderio a lungo coltivato da Grazia dopo la morte di Mimì, la nostra amatissima gattina tricolore. Credo che di ciò Lola si sia resa conto perché è stata, fin da subito, la “sua” gatta. Quando siamo sul divano è sempre da lei che sceglie di andare ad accoccolarsi e se la lasciamo dormire con noi è tra le sue gambe che decide di addormentarsi. Col tempo è diventata molto affettuosa anche con me, ma rimane la gatta di Grazia.
Le nostre conversazioni, quelle mie e di Lola, ruotano inevitabilmente intorno al cibo. Lei non te lo chiede quasi mai. Quando lo fa, di solito ti sta prendendo in giro… Io ci casco sempre e mi sforzo inutilmente di trovare dei buoni argomenti per convincerla ad ingoiare almeno qualche croccantino. A volte lo faccio con dolcezza, altre con esasperata ruvidità. Il risultato, comunque, è invariabilmente il medesimo: non mangia.
E poi c’è Molly… Ricordo bene il giorno in cui, con un colpo di mano, si è deciso il suo ingresso in famiglia.
Era stata una giornata di lavoro veramente pesante. Avevo effettuato, con l’aiuto di alcuni colleghi, un accesso informatico all’azienda che stavo sottoponendo a controllo, perciò era stata tutto un… “Allontanatevi immediatamente dalle vostre postazioni di lavoro e dal PC… nessuno tocchi nulla sulla propria scrivania… ognuno rimanga nella propria stanza e non si allontani per nessun motivo, nemmeno per andare in bagno… Signora, cosa sta mettendo in borsetta? No, la chiavetta no, la lasci al suo posto… ” e così via… E poi l’acquisizione di copia del contenuto di tutti gli hard disk dei PC… Una vera sfacchinata…
Non posso dimenticare la faccia dell’amministratore delegato e dei suoi collaboratori… e nemmeno lo sguardo con cui, per l’intera giornata, ha inutilmente cercato di incenerirmi…
Comunque… continua a leggere
Io, Roberto e gli stivaletti dei Rokes
“Non ci posso credere… Roberto ha comprato gli stivaletti dei Rokes!!”
Eccolo lì, in classe a pavoneggiarsi con quegli stivaletti di camoscio chiaro, a punta e con il tacco rientrante, che fino a quel momento avevo visto solo in televisione e sulle copertine dei 45 giri, indossati dai “complessi beat”, come allora venivano chiamate le timide avanguardie musicali italiane di quella rivoluzione, generazionale, culturale e poi anche politica, che nella seconda metà degli anni ’60 già stava scuotendo iI mondo. Le nostre compagne, che già normalmente gli rivolgevano solo sguardi adoranti, gli stavano intorno completamente ammaliate, facendo di tutto per attirare le sue attenzioni, mentre noi maschi lo squadravamo tra l’incredulo e il frastornato, come pugili appena raggiunti da un improvviso montante alla punta del mento. Non che tutti sapessimo chi diavolo fossero i Rokes e da dove saltassero fuori quelle strane calzature, ma era così evidente l’effetto che facevano sulla parte femminile della classe…
Io ero tra quelli che li conosceva, i Rokes: l’immagine di quei quattro ragazzi con i lunghi capelli a caschetto, i pantaloni stretti e il cravattino sottile che, con le loro chitarre dalle forme strane, cantavano canzoni in un Italiano improbabile non me la ero più scrollata via fin dalla prima apparizione televisiva a cui avevo assistito. Non sapevo ancora bene cosa, ma mi rendevo confusamente conto che loro e gli altri “beat” stavano muovendo qualcosa di importante nella mia testolina…
Da lì a chiedere ai miei genitori di acquistarmi un paio di quegli stivaletti ce ne passava, altro che se ce ne passava… Neanche riuscivo ad immaginarmi mentre formulavo una tale richiesta a mio padre, forse perché potevo invece a prevedere benissimo la reazione che avrebbe prodotto… Non è nemmeno tanto strano, a pensarci: in fondo avevo 9 anni e frequentavo la quarta elementare di una scuola cattolica dì provincia, mica un liceo londinese di Chelsea o di Kensington… Non mi ero ancora affrancato nemmeno dai pantaloni corti, che indossavo anche in inverno, tranne che nei giorni più freddi, figuriamoci… Ma ora eccoli lì, ai piedi di Roberto… Allora era possibile… “Osare lottare, osare vincere”, come diceva lo slogan del Presidente Mao che avrei imparato qualche anno dopo in manifestazione…
Roberto non era un compagno di classe qualsiasi, era anche il mio migliore amico. Condivideva questo dubbio privilegio con Gianluigi, il mio compagno di banco.
Loro non potevano essere più diversi, come del resto la qualità dell’amicizia che mi legava a ciascuno dei due. Non l’intensità però… Quella no, era la stessa. Era un legame che sentivo forte, assoluto, come solo le amicizie di quegli anni sanno essere (e i grandi amori, naturalmente, ma questa è un’altra storia…).
Roberto sembrava il vincitore della lotteria organizzata dal buon Dio per stabilire l’ordine di distribuzione delle doti e delle virtù. Fisicamente era bello, biondo, di altezza normale e di corporatura atletica. Nei giochi durante la ricreazione e la pausa pranzo risultava quasi sempre il vincitore, che si trattasse dì bandiera, mondo, nascondino, biglie o semplicemente darsele di santa ragione. Tutto questo sarebbe già stato più che sufficiente a spiegare l’adorazione che gii rivolgevano tutte le bambine della classe… Ma lui, per non farsi mancare niente, era anche dotato di una naturale simpatia e di un certo carisma, oltre ad essere molto sveglio ed intelligente. Risultato; era il capo del branco, il primo della classe e il cocco di suor Riccarda, la nostra maestra.
La nostra amicizia era fatta di condivisione, complicità ma anche competizione, con le inevitabili tensioni che ciò comportava. Non è sempre semplice recitare la parte del secondo. E, in quella classe, a me era toccata quella: nei giochi, nel rendimento scolastico, nelle preferenze della maestra. Era sopportabile solo perché il primo era Roberto e perché, talvolta, capitava che riuscissi a stargli alla pari. Era la concreta possibilità che questi momenti lasciavano intravedere che rendeva vitale e proficua la nostra relazione, stimolo forse illusorio ma necessario all’esistenza del nostro rapporto. continua a leggere
Terze età
Che non avessi avuto figli lo sapevano tutti.
Non facevano parte della mia esperienza di vita i pianti notturni, le difficoltà del primo ingresso nel mondo esterno alla famiglia, le crisi adolescenziali. Non ne sapevo nulla, non mi apparteneva, non ci avevo infilato le mani, non avevo annusato, assaggiato, né scompigliato il mio mondo interiore al cospetto di un figlio da crescere.
C’era il ciclo della mia vita. Guardato a ritroso avanzava a grandi passi, mantenendo tutto sommato una linearità che rendeva coerenti i passaggi da una fase all’altra, la pertinenza delle scelte, il bilancio mai portato a termine di errori, pentimenti, successi.
Era stato così, un po’ camminando, un po’ correndo all’impazzata e a volte rimanendo immobile che avevo trascorso tutti i miei anni.
Ancor oggi sarei in grado di ricostruire in successione le epoche che mi sento addosso, ciascuna ben separata dalle altre.
Poi era arrivata lei, la figlia inaspettata che aveva confuso i piani, ribaltato l’ordinato succedersi delle età, preteso tempo e attenzione.
Lei ha tre amiche. Con ciascuna coltiva una diversa vicinanza, ed è a ciascuna di loro che affida i suoi segreti. Loro tre insieme sanno tutto di lei, conoscono la verità sui suoi sentimenti, su cosa pensa e desidera, sulle sue preoccupazioni, sulle relazioni che coltiva a mia insaputa.
Lo scopro sorpresa quando la vado a trovare nella sua casa fortezza.
Anche la casa conserva i suoi segreti. Me ne dimentico, perché lei mi consente l’accesso alle sue stanze, ai suoi cassetti, all’armadio in cui ripone i vestiti.
A volte però mi intima di lasciare stare, di non toccare, e se non le do retta si arrabbia di una rabbia lacrimosa che lamenta l’ingiustizia. Non è giusto che non rispetti i suoi spazi, come frugare nella sua intimità senza chiedere permesso. Quella rabbia si scatena contro il potere adulto del genitore verso il quale il suo io bambino niente può ancora fare.
E’ la frustrazione di chi subisce un’angheria, un comportamento prepotente contro cui nulla si può opporre. Rimango zitta, e il mio silenzio un po’ la intimorisce e un po’ la placa.
Qualche volta, con parole smozzate e mezze frasi, mi spiega cos’è, quell’oggetto che non devo toccare o vedere, da dove proviene, a cosa le serve. Omette sempre il perché non devo; l’ovvietà si frappone fra noi ristabilendo la dovuta distanza.
La conosco bene quella rabbia, la stessa che nutrivo io verso di lei.
Lei è molto piccola. Necessità primarie e improrogabili dettano il ritmo delle giornate, decidono i miei orari lavorativi, il tempo da dedicare alle passeggiate, quello in cui incontrare altre persone, occuparsi della casa, leggere o guardare la tv.
C’è poco da fare, quando arriva l’ora del sonno, del pasto, della defecazione o della minzione, non si può prescindere.
Per fidarsi, lei deve essere sicura che sia in grado di provvedere a questi suoi imprescindibili bisogni senza anteporvi null’altro. Per affidarsi, deve poter contare su di me.
Il tempo che le dedico non le basta mai, perché quello in cui vive si dipana con la lentezza cadenzata con cui si snocciolano i grani di un rosario, si allunga, si distende, parcellizzando i movimenti in una successione frammentata di piccolissimi gesti la cui imprecisa sequenza concorre al compimento dell’atto nella sua completezza. Starle vicino mi affatica – lo mordo il tempo io, lo cavalco, cerco di domarlo – e allo stesso tempo mi nutre di inaspettate scoperte che la corsa cela.
La studio, la osservo, e assieme a lei imparo i trucchi che ingannano la rigidità degli arti, truffano l’instabilità dell’equilibrio e le consentono una precaria, fragile, orgogliosa autonomia.
La accompagno in chiesa per la messa, ma non devo sbagliare: è una bambina, non può essere lasciata sola sul sagrato quando la celebrazione è terminata e tutti stanno andando via. Non può aspettare nemmeno cinque minuti, perché dentro di sé quel breve tempo si dilaterà fino a sembrarle un’ora o anche di più, mentre la sua mente avrà immaginato innumerevoli pericoli cui il mio ritardo la sottopone.
Si spaventa se non sono fuori ad aspettarla, perché non sa come tornare a casa e si sente abbandonata.
Quando la messa è terminata devo essere presente, visibile, pronta a prenderle la mano. Lei mi scorge da lontano, alza la testa verso di me e mi sorride, rassicurata, felice.
Devo avere fatto la stessa cosa le rare volte in cui era lei che veniva a prendermi a scuola. continua a leggere
Murder ballads
Non è una giornata qualsiasi.
Fa molto freddo. L’aria è gelida, di quella qualità speciale che risente della vicinanza della neve.
Al contatto con la pelle sembra indurirsi, restituisce la sensazione di piccole spore acuminate che trafiggono gli occhi e rivestono di cristalli i tratti del volto, ormai tutti arrossati.
Acqua silenziosa e costante.
Piovono gocce gelate. Come in un disegno a matita, si dispongono in file ordinate che non vengono assorbite dall’asfalto. Del cielo non c’è traccia, tutto è avvolto dal colore liquido che sgorga da questa precipitazione monotona.
Sulle strade si sparge un luccichio diffuso come un pianto.
Immote, le facciate delle case ristagnano nell’atmosfera diluita che non cambia tonalità con il trascorrere delle ore. La luce, asincrona al passare del tempo, rimane invariata.
Sono felice, oggi ho buon tempo. Questa pioggia riesce a ripulire e contenere ogni cosa.
Rende deserta la Darsena, silenziosa, tanto solitaria che mi è possibile fermare lo sguardo sull’acqua, cristallina e trasparente, e ascoltarne la corrente sciabordare intorno ai parapetti.
Attutisce il frastuono del traffico, che sfila composto, discreto, senza inciampi, avvolto nel fruscìo che esso stesso produce strofinando sul catrame bagnato. Giunge alle mie orecchie come fosse distante, addirittura lontanissimo.
Mi ha sempre affascinato questa città, oggi come la prima volta che l’ho incontrata.
Questo vapore umido si adagia su ogni cosa, compatto, come la superficie di una lavagna su cui si delineano sofisticati fotogrammi in bianco e nero che oggi fanno somigliare Milano a come la immaginavo quando ero piccola, così remota e grande da credere che contenesse il mondo.
Sulla Ripa di Porta Ticinese, al riparo dal freddo e dalla pioggia, guardo fuori dalla vetrina del negozio di dischi in cui mi attardo, seduta comodamente fra le numerose casse di legno ricolme di long playing.
Avvolta dal suono delle ballate evocative e struggenti di Nick Cave, posso essere spettatrice di scorci di vita che mi scorrono davanti. E’ la musica a guidarmi, mi lascia intuire, mi dona una sensazione di conoscenza rapida e chiara e mi permette di indagare e comprendere dettagli sfuggiti alle paratie offerte dalle tende e alla vigile sorveglianza dei vetri chiusi delle finestre.
Osservo con attenzione minuziosa, e non vedo solo con gli occhi.
Su questa cornice monocromatica risaltano vividi i contorni dei passanti. Riesco ad isolare le sagome dei singoli corpi, figure di primo piano che campeggiano sullo sfondo.
Ognuno si staglia netto.
La ragazza cammina così lentamente da farmi pensare che ignori la meta del suo avanzare.
E’ così giovane e talmente rallentato il suo passo, che pare aver adeguato il ritmo del suo incedere a quello di una persona molto più vecchia di lei, una compagna che io non posso vedere e che pure le sta a fianco. Poggia l’ombrello sulla spalla destra e sostiene appena con le dita l’impugnatura dell’asta.
I suoi capelli e il resto del corpo risultano immobili. Tanto cautamente accompagna un piede accanto all’altro e tanto silente è il suo passaggio che sembra trasportata.
Tutto il corpo della ragazza è trattenuto, rivolto al proprio interno, anche la pioggia le passa vicino senza sfiorarla.
Procede piano, cercando a tentoni cosa incontrerà più avanti, attenta – come prescrive la vecchiaia – alle asperità del cammino, intenta ad evitare gli inciampi sempre pronti a tradire i suoi passi. Assorta, concede che mi scorra davanti solo questo suo appassito deambulare.
I suoi pensieri non sono per me. continua a leggere
Monkey
“Dai amore, ancora uno, dai. Uno solo te lo giuro, un altro e poi basta; dai uno, uno solo ancora”.
“Ma mi fai male…”.
“Guarda questo… mmmhhh, guardalo è bellissimo. Passalo sulle labbra, non ti vengono i brividi? Fra i polpastrelli, senti, ha una corteccia piccola, perfetta, setosa, e guarda, guarda la radice com’è grossa. E questo? Ma questo è un portento. Lo taglio, non ti faccio male amore, te lo giuro, lo taglio. Non vuoi sentire il fusto, toccalo, è eretto, potente, rigido, forte come l’acciaio…”
Cominciò per scherzo, o almeno così credevo.
Ci frequentavamo da poche settimane, quel periodo di coppia in cui il corpo dell’altro è un mondo tutto da scoprire, annusare, assaggiare. I dettagli minuti, le pieghe segrete, la qualità diversa dell’epidermide in certi anfratti nascosti, diventano nutrimento per il piacere e alimentano la vampa dell’innamoramento.
Ci si ispeziona palmo a palmo alla ricerca del più piccolo particolare. Ogni scoperta è fonte di grande soddisfazione, ottimo pretesto per rinnovare l’amplesso da poco terminato.
Fu allora che Bartolo si soffermò per la prima volta sulle mie sopracciglia, attratto dal colore forse – nero come la pece – e dalla consistenza di ogni singolo pelo.
Con dita esperte li sollevava a uno a uno, ne saggiava la robustezza stringendoli fra indice e pollice. Non seppi resistere quando mi chiese se poteva strapparne uno.
La sua voce, intonata a lasciva domanda, lasciava trapelare l’intensità di un desiderio che in quel momento credevo essere il mio.
Un gesto improvviso, rapido e violento. Un dolore acuto, registrato dai ricettori sensitivi e subito inviato alle aree cerebrali deputate al controllo del piacere.
Da allora non abbiamo più smesso.
Fu questo che disse quando si decise a togliersi i vestiti.
Mi aveva sorpreso il suo arrivo nello studio. Lo chiamo così, “studio”, ma non sono che due stanze attrezzate per soddisfare una clientela di periferia. E’ qui che lavoro, in un quartiere lontano dal centro, abitato da gente comune. Sulla porta d’ingresso, una vetrofania recita “Estetista Mafalda”; è il mio nome Mafalda.
Le mie clienti non hanno grandi ambizioni. Si accontentano di avere gambe lisce e levigate in estate, definire le sopracciglia, far sparire la peluria sotto le ascelle o i baffetti che adombrano il labbro superiore. Qualcuna, ma non sono molte, aspira ad apparire abbronzata anche nei mesi invernali, e io ho acquistato un lettino solare coi raggi ultravioletti.
Ho una clientela fissa, prenotata di settimana in settimana, donne semplici che vengono da me per dedicare un’ora di tempo solo a se stesse. Vengono da me per sentirsi più belle, e mentre le accudisco con trattamenti semplici, alla loro portata, parlano, parlano e mi confidano segreti che non affidano neppure alle sorelle o alle amiche più intime.
Per questo quando lei entrò rimasi di stucco. Intanto era nuova della zona.
Aveva capelli neri, folti, belli, avvezzi alla cura di parrucchieri esperti; indossava abiti eleganti e costosi, ma fu soprattutto il portamento che mi colpì. Il suo atteggiamento altero era come oscurato da una ritrosia, da un impaccio riflesso negli occhi, accesi da una luce tremula come la fiamma incerta di una candela.
Non mi guardava, e anche i gesti esprimevano un timore vago.
Teneva la testa un po’ piegata, la bocca coperta da un lembo del foulard che le avvolgeva il collo nascondendole in parte il viso.
Non sono bella io, o almeno non più. Con gli anni ho messo su qualche chilo, e i miei lineamenti delicati, ora smarriti sul volto impinguito, mi danno un’aria pacioccona, accogliente e benevola.
Le sorrisi, volevo metterla a suo agio.
Vorrei una depilazione completa, disse.
Certo, anche subito se vuole. Capita al momento giusto, mi si è appena liberato un appuntamento e ho un’ora libera.
Non credo sia sufficiente un’ora, disse. continua a leggere
Il tempo raggiunto
Mariagrazia Fontana, Il tempo raggiunto, secondorizzonte/Liberedizioni (pp. 280, euro 16)
Misurarsi con il proprio corpo, i segni che ne giungono, le paure e i desideri che indistintamente esprime, nell’esperienza della malattia come nella pratica della corsa.
Soccorrere quello ferito e sofferente – tanto più da interpretare nel suo muto linguaggio se chi ricorre alle cure è straniero – nell’esercizio del proprio lavoro, un lavoro – l’autrice è chirurga, presso l’Ospedale Civile – che non si lascia mai ridurre al protocollo né alla semplice procedura tecnica dell’intervento; confrontarsi con il corpo che attraversa le età della vita, nella relazione, densa di ricordi e significati sedimentati, con la madre che invecchia, così come in quella sempre in via di nuova definizione e anche per questo rigenerante con le figlie che, da bambine che erano, sono già donne.
Sono queste le coordinate principali entro cui si delinea il corso di un’esistenza che per dirsi non ricorre al romanzo autobiografico ma a una sequenza di racconti che rimandano uno all’altro in una medesima trama, entro l’orizzonte aperto di un tempo che solo la scrittura sa raggiungere. Una scrittura che sa aspettare in solitudine le parole che, sfuggendo all’inflazione e al brusio assordante delle molte che si pronunciano, sanno conservare traccia dei giorni, e far uscire dallo spazio del silenzio la voce che può tenere in vita la vita, nella sua unità profonda.
Come la pratica della corsa è seguita alla malattia, nascendo dalla “pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci”, così la scrittura trova radice nel corpo: “Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve. (…) Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. (…) Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate.”
—
Il testo che segue è tratto dal primo racconto, La traccia della corsa:
E’ necessaria la disposizione dell’animo al silenzio, al vuoto, all’ascolto di quello che la corsa porta.
Non so bene descrivere cosa c’è da ascoltare. Si comincia con il cinguettio degli uccelli, il frusciare delle foglie sui rami, l’improvviso sgambettare di uno scoiattolo. Poi si ascolta il rumore delle suole sull’asfalto, sul terreno del sentiero, ripetitivo, sempre uguale eppure diverso. Ritmo veloce, muscoli contratti nello sforzo, che gradualmente si sciolgono.
Ma per sciogliersi devono attraversare la fatica e il sudore, evolvere dallo stadio di contrattura serrata a quello di abbandono che regala movimento gratuito, fluido, passivo, liberato dal controllo cerebrale. (…) Motore principale silente, semplice ripetizione ossessiva, danza di dervisci, taranta, soppressione del controllo della coscienza.
(…)
La corsa induce all’ascolto del corpo, alla confidenza con i muscoli e dunque con il cuore, ma non con il cuore dei sentimenti, con il cuore pompa formidabile, magico motore silenzioso, scrigno segreto.
(…)
La chemioterapia aveva cancellato anche l’equilibrio fisico, mi accorgevo di sbandare per strada, di pencolare sotto la doccia come un giunco, vittima di una lieve vertigine che non mi ha più abbandonata del tutto. Attraverso lo yoga ho ripreso una parte del vecchio equilibrio (…)
Per qualche anno lo yoga ha funzionato (…)
Finché l’ambiente della palestra yoga ha cominciato a guastarsi. Le pretese atletiche crescevano e con loro cominciava a fare capolino la competizione e il gusto per la perfezione del corpo che mi disturbava.
(…)
Ho abbandonato la palestra yoga, ma a quel punto il corpo aveva le sue esigenze e reclamava spazio. Non potevo chiuderlo in cantina un’altra volta.
La corsa nasce qui, da questa pressante richiesta del corpo che si era risvegliato, che voleva guarire, riprendere fiato, rimarginare le ferite, semplicemente esserci. Un richiamo forte, ineludibile. Il bisogno di riprovare ad immaginare una sopravvivenza, di rigiocarsi.
(…)
Corsa e scrittura emergono dallo stesso magma profondo, alle volte oscuro, torbido, alle volte limpido e lieve.
Quando mi siedo alla scrivania, per lo più non so cosa voglio scrivere, obbedisco a un bisogno interiore, al richiamo di parole che chiedono di essere messe in fila su un foglio, di essere tirate fuori dal silenzio, direbbe Maria Zambrano.
Certi giorni la scrittura viene fluida, la penna corre da sola sulle righe e le parole corrispondono perfettamente a ciò che sento necessario dire. Altri giorni ricado nella scrittura analitica, indagatrice, anatomica. Quella scrittura che spolpa la carne, che asserisce, spiega, fa ordine. Scrittura rigida, metallica, non diversa dalla scrittura scientifica e neppure da quella intimistica che vuole svelare il sé in successione logica.
Quando finisco in questo vortice sento la fatica, e ora ho imparato che devo lasciare, deporre la penna e infilare le scarpette. Nei giorni fortunati la corsa fa pulizia, opera una spoliazione, mi libera dalla verbosità. So che, quando spreco troppe parole, non ho chiaro ciò che va detto o obbedisco ad un vizio antico che mi allontana dalla verità.
Quando la corsa fa il suo lavoro, ricevo il grande dono dell’intuizione. Mentre sudo in salita, mi si spalanca davanti quella verità che mi aveva messa davanti al quaderno e dalla quale mi ero lasciata sviare. Limpida, pura, perfettamente ripulita dalle parole in eccesso, dalle parole viziate. Allora so che quando avrò finito di correre, dopo la doccia, la scrittura sarà essenziale, scarna, adesa al vero. Devo appuntare subito le parole che sono venute correndo, urgenti, ancora prima di lavarmi, per non lasciarle scomparire. Come faccio nelle mattine in cui mi sveglio ancora preda di un sogno: scrivo subito poche parole, per tenerle prigioniere, per accalappiare quel sogno prima che la veglia lo disintegri nell’ordine logico. I sogni sono soffi parlanti, ma leggeri come l’aria.
Le parole in cui più mi riconosco, quelle che mi calzano addosso come un vestito cucito su misura, sono quelle che sono comparse nella corsa, trasparenti, semplici, che sgomberano il campo, che vanno dritte alle viscere, alla sorgente della parola.
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La Muraglia e altre genealogie
Questa breve e variegata raccolta di scritti testimonia di uno sguardo curioso e critico, ironico e partecipe, a volte stralunato. Le diverse sezioni raccolgono testi che hanno lungamente accompagnato l’autore negli anni costruendo rimandi e assonanze pur nella diversità dei toni, che vanno dal lirico al sarcastico.
Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal primo dei racconti, La Muraglia
(…)
Da dove viene, il barbaro?
Ha lasciato anch’egli una città circondata da muri e fortificazioni? Quanto lontana, quanto diversa?
E’ reduce dalla distruzione della sua città, è forse esiliato?
No, certamente non è così. Venisse da un’altra città non sarebbe lui, non sarebbe il barbaro.
Avrebbe nome e insegne e vessilli e il suo disegno di guerra sarebbe, per quanto terribile, chiaro ed aperto.
Ma da dove viene, il barbaro?
Viene da polvere e invidia, da povertà, sudore e cieca determinazione alla vita.
Viene dalle zone franche, dalle periferie, dai bordi, dalla cintura…
Da fuori.
Da tutti i fuori.
(…)
La città agita il deserto della notte con bagliore di incendio lontano, pallida lava trattenuta dall’abbraccio della Muraglia. Da tutti falò notturni che la circondano i barbari guardano la città, misurando il loro desiderio e la loro pazienza spietata. I loro sguardi tessono trame, invisibili ragnatele geometriche che solcano il cielo sopra la città. Dentro la Muraglia la volta celeste è suddivisa ordinatamente, censita in ogni parte, classificata dai suoi abitanti nel catasto dei sogni.
Dalle loro solitarie torri, disposte lungo la Muraglia secondo un ritmo che più nessuno riconosce e frequenta, gli astronomi puntano le stelle con i loro caleidoscopi.
Celti e caldei, cinesi e maya, da lungo tempo hanno portato le loro lingue a confondersi dentro la città, oltre la Muraglia.
Il barbaro, fuori, è spinto da stelle furibonde.
(…)
La città cresce sommandosi a se stessa, cresce per sovrapposizione. Anche le parti che vengono sostitute non scompaiono mai veramente, non fosse che per la frettolosa visione quotidiana dei suoi abitanti, per la loro distratta conoscenza e la loro imprecisa memoria.
I vuoti della città non sono mai davvero vuoti, sono ferite, riscritture, palinsesti; i muri nuovi non cancellano le storie scritte dai muri vecchi.
La città cresce anche per gemmazione e per partenogenesi, per meiosi e per mitosi, con ogni mezzo e strategia la città aumenta, si ingrandisce, si complica, si allarga.
La città cresce piega su piega, si ritaglia da se stessa, sembra contraddirsi e si riafferma.
Uno stucco, un ornato barocco, un frattale.
La città cresce sempre, anche di notte, nel silenzio e nella calma apparente degli arnesi e dei rumori, nella pace e nella brezza che asciuga la pelle ai lavoranti.
La città cresce e volge le spalle alla Muraglia, cercando invano di dimenticarla. La città cresce per ignorare il suo limite, per nasconderne l’esistenza, per seppellirne la memoria.
Ma è un tentativo vano.
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Recensioni
Dal Corriere della Sera del 15 dicembre 2016.
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Anime pezzentelle (omaggio a Napoli)
Antefatto.
Della notte prima della partenza, ricordo un sogno.
Mi trovo in un luogo pieno di luce, dove non si può discernere la separazione fra dentro e fuori. Con me ci sono altre donne, sono serena in mezzo a loro.
Sono lì per scrivere, sto bene, posso dedicarmi alla scrittura per tutto il tempo che mi è necessario, senza altri impegni, senza fretta, senza obblighi.
Indosso una sottoveste di raso, chiara, di un colore avorio.
Mi sento pacificata e molto, molto bella; sono parte della luce.
Del risveglio, ricordo la piacevole sensazione di alterità.
Adesso so che nei giorni in cui ho soggiornato a Napoli la percezione di me stessa è stata definita da quella mancanza di separazione di cui il sogno segnava una traccia.
Deve essere stato questo a rendere possibile che la città mi abbia attraversato.
Senza che ne fossi cosciente, e senza sceglierlo, le ho accordato il consenso di manifestarsi.
D’improvviso piazze, vicoli, strade, persone, volti, scorci mi richiamavano alla mente brani di romanzi e di testi teatrali di autori napoletani che non sapevo più di rammentare e che si sommavano a ciò che gli occhi osservavano. Ho potuto così vedere anche ciò che non era palese, costruendo dentro di me una rete di conoscenza, una mappa che, senza delineare confini, mi ha mostrato percorsi possibili, fuori e dentro di me.
Avrei dovuto dedicare tempo e attenzione ai pezzetti di carta di recupero che via via riempivo di frasi minuscole, appunti, stralci di immagini che parevano volteggiarmi intorno con la casualità distratta di ritagli di giornale sollevati dal vento e sparpagliati davanti ai miei occhi. Volteggi repentini che lo sguardo afferra e pone a dimora, per scriverne più tardi.
Avrei dovuto farlo subito, mentre ero ancora lì, mentre mi assordava il frastuono del traffico in continuo movimento, frastagliato dai richiami sonori dei clacson e delle voci, un sottofondo mai muto che sembra provenire dalla facciata delle case, dal manto stradale, dall’aria stessa che si respira in città.
Avrei dovuto svuotarmi le tasche e ripagare la generosità con cui questa città si è lasciata scoprire, compiacente e un po’ sfacciata, impudica, capace di mostrare insieme la sua bellezza e l’anima nera che la attraversa.
Mi è sembrato che non avesse occhi che per me, che abbia cercato il mio sguardo sfoggiando i suoi tesori – ma questo lo sanno fare tutti – e mostrandomi le sue debolezze.
Napoli mi ha concesso l’intimità degli incontri speciali, raccontandomi in confidenza qualcosa di me.
UOMINI E CANI
Era chiaro. Il ragazzo accasciato sul marciapiede non possedeva niente.
Indossava abiti riportati dalla furia di vite trascorse ai margini, passati di corpo in corpo, sudari raccattati a casaccio dalle bocche spalancate dei cassonetti per l’immondizia, assai numerosi in città.
Sembrava prestato anche il cartone troppo corto su cui si appoggiava, né sdraiato né seduto, il dorso un po’ sollevato, sostenuto da un gradino; la spalla sinistra abbassata a facilitare l’abbraccio in cui avvolgeva il sonno del suo cane.
Suo, come suo avrebbe potuto essere un figlio.
Del resto l’animale gli si affidava, senza riserve. Gli si consegnava, ogni muscolo rilassato, senza difese e senza dubbi, sicuro di lasciargli, per il tempo breve del suo riposo, l’incombenza di vigilare su entrambi.
Quell’attestazione di fiducia pareva inchiodare il ragazzo alla propria responsabilità.
Lo stanava, arpionato alla fiocina acuminata di un sentimento d’amore che non sospettava di poter onorare, e di quello si nutriva, proteggendo se stesso e il suo cane.
A destra, la mano e il braccio inscenavano sovente la mossa della questua, ma non sempre, non con costanza ed attenzione; così come il volto, solo di tanto in tanto rivolto dolente ai passanti.
Con quell’animale addormentato racchiuso nel suo abbraccio, il ragazzo sembrava acquisire il potere di esercitare la sua libera volontà. Da quella posizione livellata al suolo rivendicava la sua porzione di vita, di spazio occupabile, di luce e di relazione persino. C’era, si mostrava e si lasciava guardare, uno fra altri, e niente nel suo atteggiamento proponeva vergogna, chiusura, riluttante presenza. Aveva da fare, doveva vigilare il riposo del suo cane, e la bestia compiacente gli si donava, perché del suo sonno il ragazzo potesse fare esperienza, scoprendosi atto alla cura, al rispetto, all’affetto.
Deve essere stato questo a restituirgli dignità. Non possedeva niente il ragazzo, neanche la misura del suo valore, forse giocato d’azzardo e perduto, e niente sapeva dell’amore che covava nel cuore, pure germogliato e lasciato annerire di freddo e di sete per non vederlo umiliare. Nemmeno il cane di questo sapeva, e neppure gli importava. Era semplice La grammatica delle sue relazioni, articolata in regole chiare leggibili tutte nello sguardo che strusciava in faccia al suo padrone. E lui, il giovane mendicante, teneva con sé il cane e di giorno in giorno saziava la sete di quel germoglio gelato. Imparava i gesti di molte premure che apertamente venivano nominate e liberamente scambiate, perché fra loro, paritariamente e con lealtà, si era pattuito il reciproco assistersi, sostenersi, tutelarsi.
Vicino al suo cane, il ragazzo stava, come chiunque altro in quel momento su quell’angolo di via, davanti alle vetrine dei negozi, alle facciate scrostate delle case, più esposto degli altri alla fanghiglia residua formatasi dalla pioggia dei giorni precedenti e incastonata a bella vista fra i ciottoli del selciato.
Esisteva, incontestabile presenza mescolata ad arte con i passi della gente, lo stridio incauto delle ruote, il transitare distratto di altre vite, altre storie, altri pensieri.
Nessuno avrebbe di certo potuto escluderlo dall’immagine riprodotta di quell’angolo.
Il ragazzo e il suo cane ne facevano parte, ne rivelavano un dettaglio prezioso, costituivano una parte essenziale della scena.
Spesso il suo sguardo, ora amorevole, si rivolgeva all’animale addormentato e la mano sembrava richiamata da una necessità impellente verso quel corpo riverso fra le sue braccia.
Bisognava controllare che dormisse tranquillo il cane, e carezzarlo, il palmo della mano avanti e indietro sul costato, le dita aperte a scorrere nel folto del pelo, per accompagnargli i sogni e nutrirsi del suo tepore.
Era chiaro, non possedeva niente il ragazzo, a parte il sorriso che gli sfuggiva dal viso quando guardava il muso assopito del suo cane.
GIAN BURRASCA
A precederli era stato il chiasso del loro vociare.
Non correvano, neanche giocavano. Facevano scorribande, rumorosi e prepotenti, nella piazza antistante al sagrato della chiesa, una delle più importanti della città.
Sembrava che fossero ruzzolati fuori dai vicoli circostanti, un po’ per volta, incerti e guardinghi, e che si fossero ritrovati lì.
Da soli avevano attraversato la strada insicuri come uccellini sgusciati fuori dal nido, insieme assumevano la forma di uno stormo organizzato e agguerrito, pronto alla caccia.
A contarli saranno stati una decina, tutti maschi, e sembrava che nemmeno uno tacesse.
Portate dal vento, le loro voci si chiamavano, si rincorrevano, contornavano la scena di una sonorità sguaiata che faceva eco ai loro gesti e riempiva la piazza.
Avevano una bicicletta e un pallone, cui tiravano calci con convinzione esasperata. Imitavano le espressioni e le movenze dei calciatori famosi che di sicuro guardavano alla televisione. Si sfilavano le magliette, incuranti del vento e del cielo buio, gonfio e teso come un ventre, pregno di gusci di temporale, e correvano in tondo, ciascuno proteso a soverchiare l’altro, una questione d’onore che avrebbe confermato il potere del più forte.
Di tirar calci alla palla si erano stufati presto. Avevano bisogno di una sfida più definita, che consentisse risultati precisi e mettesse in gioco il coraggio e la forza di ognuno.
Allora c’era da saltare al volo sulla bicicletta in corsa, prendere velocità e lanciarsi a tutta forza contro la scalinata che conduce alla chiesa e al portico che la circonda.
Via via che uno si sfilava dal gruppo, gli altri restavano compatti, incitandolo o deridendolo con grida sempre più alte, eccitate dall’euforia del rodeo e un poco intimidite dall’ apprensione per l’esito incerto della prova, che avrebbe stabilito la sorte dell’amico e quella di quel pomeriggio domenicale.
Un attimo prima dell’impatto ogni sfidante serrava le mascelle e le leve dei freni, governando con le gambe e le braccia lo sbandamento delle ruote. Contraeva i muscoli, per evitare l’urto ed effettuare una virata stridente che arrestava la corsa e lo depositava sull’asfalto, il volto rosso e sudato, disarcionato dalla bicicletta che da sola urtava sferragliando contro i gradini.
Facevano tutto rapidamente, con avidità, dovevano liberare quell’energia arrabbiata, trattenuta a stento nelle magliette troppo strette e nei calzoni, continuamente tirati verso l’alto, le mani alla cintola, con un gesto impreciso che rivelava l’inesperienza della loro minima età.
Disseminati nella piazza, si erano improvvisamente ricomposti in gruppo quando, all’unisono, uno aveva scovato lo scheletro malandato di un ombrello – raggiera di spade acuminate atta a ferire – e gli altri avvistato un barbone addormentato.
L’uomo, avvolto in un trapuntino lurido che gli lasciava scoperto solo il viso, dormiva – abbattuto al suolo dalla stanchezza, dalla fame o dall’alcol – seminascosto tra due colonne del portico.
Non avevano avuto bisogno di parlarsi, era chiaro, quello che c’era da fare ora era accumulare punti al tiro a segno.
Si lancia l’ombrello, vince chi fa centro.
Sul portone della chiesa il mendico accovacciato, affetto da sindrome di down, doveva aver captato l’eccitazione che i bambini spargevano sul sagrato, seminata con gesti ampi delle braccia che mentre gettano il seme a terra auspicano un buon raccolto.
Si era sollevato dalla posizione con cui implorante tendeva la mano e ora saltava sul posto, a gambe unite, di continuo, la faccia spalancata in un riso sfasciato che urlava lo sgomento e l’incitazione.
I bambini anche gridavano, si auguravano l’un l’altro vittoria.
Paura ed umiliazione per quel fagotto accasciato che stentavano a nominare uomo.
Non avrei davvero saputo come farlo, ma le gambe mi conducevano verso quella nidiata minacciosa. Adesso bisognava interrompere quella scena in crescendo, palesarsi a sorpresa sul palcoscenico e introdurre un elemento di novità, un impedimento che smascherasse quella ghigna da fiere e riportasse alla luce i loro visi bambini.
Prima che li raggiungessi, li incrociò il passo claudicante di una donna. Li richiamava, con parole in lingua. Doveva conoscerli uno ad uno, alzava benevolmente il suo bastone per attirarli a sé, li convinceva.
La riconobbero, gettarono l’ombrello spezzato, formarono di ancora uno stuolo per starle intorno e scortarla fin dentro la chiesa, dove rimasero con lei.
Contemporaneamente una ragazza, scesa velocemente da una macchina fermata in corsa sulla piazza, saliva rapida i gradini e lesta prendeva per mano il mendico, che ancora vociante si lasciava condurre via.
Come a rispettare un ritmo che non avevo compreso, come se davvero avessi assistito al cadenzato svolgersi di una scena teatrale.
Sul sagrato della chiesa era rimasto il sottofondo rumoroso del traffico, fra le colonne del portico il corpo dell’uomo ancora immobile e lo scheletro sbrindellato dell’ombrello.
Nella piazza, le prime gocce di pioggia benedicevano le spoglie dimenticate di quell’infanzia malmenata, e il vento le ruzzolava per aria per poi seminarle ancora, farle diventare più forti e vederle fiorire.
ANCORA BAMBINI
C’è il sole oggi! Il cielo è azzurro, le nuvole sventolano, bianche come il bucato appeso ai fili tesi fra i vicoli.
La giornata ideale per visitare il Monastero di Santa Chiara e il suo portico maiolicato.
Venite, per i bambini dell’ospedale Cardarelli, signora, lo volete donare il sangue?
Cortese, la voce si introduce fra i miei passi. A parlare è stata una giovane donna, bella, il volto sorridente. Un foulard colorato le avvolge le spalle e smarrisce l’uniformità nera del suo abbigliamento.
Impossibile non fermarle gli occhi in faccia.
Signora, la volete fare una donazione per i bambini del Cardarelli?
Quella seconda persona plurale rivolta al mio aspetto e alla mia età marca il rispetto della distanza e pure stabilisce una familiarità, una vicinanza, la ricerca di un pertugio che possa farla germogliare.
Non la si può in alcun modo liquidare con il rifiuto garbato riservato ai seccatori in genere. La ragazza non intende vendere niente, non mi imbroglia.
Sorridendo chiede in pegno un po’ del mio sangue, come se glielo dovessi, per quell’accento accomodante e marcato che ritma la prosodia del suo domandare, per le strade della sua città, per le piazze, per i volti che mi sono venuti incontro, per la bellezza di cui mi hanno nutrito e per le immagini di cui mi sono riempita gli occhi.
Ma può bastare? Perché proprio in questo momento mi sembra che quella richiesta – un po’ del mio sangue – si faccia spazio dentro di me e vada ad aderire perfettamente con la matrice profonda di un desiderio? A cosa risponde quella domanda, da dove proviene la disponibilità imprevista a mettere in gioco il mio corpo?
Una freccia di Cupido scoccata all’improvviso all’inizio di un giorno qualsiasi, che di speciale vanta la qualità di vacanza e la bellezza del luogo in cui mi trovo.
Cosa rende possibile qui un atto che tante volte ho immaginato di compiere senza mai lasciarne seguire un esito concreto?
Qui l’esposizione cui sottopone la città mi appare evidente, il concetto generico di bisogno si trasforma, rendendo visibile la trama del tessuto e insieme il suo rovescio.
Mi sembra che la commistione, la miscela di bellezza e bruttura, forza e debolezza, speranza e rassegnazione, pervada gli incontri, i giochi dei bambini, ogni scorcio, allungando i suoi tentacoli verso la diffusa, vociata quotidianità che tracima dai vicoli, si riversa nelle strade eleganti e le confonde.
Confusamente penso che quel dono possa compromettermi, erodere la separazione fra me e la città, rendermi parte di essa.
Qui avverto come concreta la possibilità fisica, tangibile di dare vita. Non di generare, no. Piuttosto di salvare, richiamare dalla morte, infondere forza vitale.
Un alito sparuto che pure possa riaccendere la scintilla del respiro. Una carezza capace di sollecitare la contrazione sincrona degli atri e dei ventricoli, resuscitando lo scalpiccio delle pulsazioni.
Il corpo si nutre di questa eventualità, acquista potenza, mi soverchia e infrange lo schermo vetrato del mondo di parole che mi avvolge.
Non ho il tempo di investigare a fondo la mia volontà. Sto già salendo i gradini che conducono al camper dell’Avis parcheggiato poco distante e ora porgo il dito da pungere per la prima verifica della mia idoneità.
Dentro di me si conferma il desiderio profondo di accondiscendere alla richiesta che mi è stata rivolta.
Sì, glielo devo un po’ del mio sangue a questa città.
Il volto dell’uomo corpulento che con gesto preciso mi infila l’ago nella vena sembra velato dal manto di un sorriso.
Mi guarda, mentre il sangue colora di rosso la cannula infilzata nella sacca di raccolta.
E così signora, vi volete imparentare con i napoletani?
Non mi pare un’affermazione qualunque. Al contrario, quelle parole sembrano colmare e dare sostanza a quel mio sentire sospeso.
Metto in serbo l’emozione di quel pensiero, mentre si avvia uno scambio qualsiasi di battute sulla sua professione, che interdetto si arresta quando lui mi guarda ancora.
Questo è il lavoro. Poi facciamo altro. Prima persona plurale, noi.
Pure mi sembra certo che si parlasse solo di lui, ma quel noi lo sdoppia, come se la sua individualità potesse duplicarsi e scomporsi permettendogli azioni diverse che lo rendono superiore all’unità.
Non ci vuole niente per sentirgli dire scrivo, e ancor meno per chiedergli vorace cosa.
Mentre il sangue defluisce lentamente, si appoggia al lettino su cui sono distesa e parla.
Storie, sono quelle la sua passione. Adesso ne sta scrivendo una nuova.
E’ difficile, dice, e racconta.
Un camorrista, un delinquente feroce che nella vita non aveva avuto riguardo per niente e per nessuno, uno che aveva commesso crimini tanto efferati quanto pregni di malvagia volontà.
Impunito, aveva lasciato la sua città e da anni viveva in America.
Incastrato per reati fiscali e processato, si fa difendere dal miglior avvocato della città, scoprendo in seguito che questi è figlio suo, un figlio che non aveva mai saputo di avere.
Quando la giuria emetterà il suo verdetto, gli sarà inflitta la peggiore delle pene.
Mentre mi libera dall’ago svela il sorriso e mi domanda qual è, secondo me, il castigo peggiore che possa toccare. Non rispondo.
Quell’uomo sarà condannato per sempre all’amore.
Non trovo parole da dirgli. Trattengo le sue, che lui ha liberato soave, sicuro, intonandole con quel suo accento melodioso. Le accantono nello spazio compreso fra diaframma e cuore, le lascio attecchire.
Dopo, quando riconquisto le strade della città, è una festa.
Mi sento la pelle cosparsa di un brulichio diffuso, anche il corpo fa festa, deborda dalle paratie ossute del mio costato, si espande, spalanca il passo vincolato dalle redini attaccate alle anche e lascia sbocciare lo stomaco, che si dilata e reclama cibo, lo pretende, lo chiama, lo implora.
Mi sono fatta spora, nettare, polline. Sperimento l’incastro perfetto.
Come in sogno, non c’è confine che mi distingua, anch’io mi sdoppio e mi moltiplico, mi riproduco infinite volte fino ad occupare lo spazio che mi contiene, ne divento parte, come fossimo un tutt’uno.
Sulle maioliche delle colonne del portico di Santa Chiara si rincorrono le luci e le ombre di questa giornata assolata.
Mentre le guardo i miei pensieri si specchiano nei volti dei bambini in guerra sul sagrato della chiesa e ne fanno tutt’uno con quelli, mai visti, ricoverati all’Ospedale Cardarelli.
Per tutto il giorno, per me la città si fa cornucopia e mi dispensa i suoi beni, in segno di prosperità.
Per tutto il giorno i miei passi rimangono sospesi a mezz’aria, e stento a sopportare il peso della condanna che mi grava sul cuore, obbligandomi per sempre all’amore.
SALONE DI BELLEZZA.
Ora che ho preso un po’ di confidenza con la città, posso permettermi di entrare nei Quartieri Spagnoli. Lo faccio con garbo, chiedendo permesso, non voglio intralciare la vita sporta direttamente sul vicolo, esternata nella strada, affacciata senza riserbo dalle porte a vetri delle casse basse, esposte sul marciapiede.
Sono aperte le case. Ne tracimano gli odori del pranzo, il sonno inquieto dei lattanti, l’amore delle giovani coppie, il lamento intermittente dei malati, i passi strascicati degli anziani. E’ tutto lì, senza che niente disegni confini, senza separazioni, a vista.
Mi imbarazza guardare dentro, eppure senza volere lo sguardo inevitabilmente coglie lo scorrere dell’intimità riposta in quelle stanze il cui soffitto mi sembra così vicino al suolo.
Mentre cammino, il fuori e il dentro si confondono, la distanza annullata dall’andirivieni dei bambini, dalle voci che si spingono all’esterno, dai dialoghi frammentati rimbalzati dalle soglie alla sosta rumorosa di motocicli il cui soffermarsi è come una visita, un passaggio breve, uno scambio di battute rapido su qualcosa che avviene e che necessita accordi, domande, impegni.
Mi paiono palloni, le parole lanciate dalla casa e rinviate dalla strada. Accolte e rimandate dal selciato al pavimento, una schiacciata, un calcio, un lancio preciso delle mani.
Assisto allo svolgersi di relazioni di confidenza come avvenissero al riparo dalle indiscrezioni degli estranei.
Mi incuriosisce la bottega di una giovane donna che racconta storie non scritte né narrate, solo ricamate sulla copertura di stoffa degli ombrelli. Su ciascuno dei triangoli uniti a formare la calotta sferica che ripara dalla pioggia, applicazioni e cuciti a segnare la traccia inconfondibile di un paesaggio, della biografia di attori e cantanti famosi, di fiabe conosciute in tutto il mondo.
Mentre mi racconta, questa volta a parole, la storia dell’arte familiare che le è stata tramandata e che porta avanti con passione, mi guardo riflessa in uno degli specchi appesi alle pareti del suo negozio. Non mi piacciono i miei capelli, appesantiti dalla pioggia e come spessiti dal tempo trascorso fuori, nelle strade e nelle piazze continuamente esposte agli sfiati dei tubi di scappamento.
Desidero lavarmeli. E se andassi da un parrucchiere?
Non se ne parla. Qualcuno che non conosco, figuriamoci. Non mi faccio toccare la testa da uno sconosciuto. E l’igiene? La prevenzione di malattie contagiose?
No, non se ne parla.
Ma non c’è verso. Questa città si insinua dentro di me, mi accoglie e mi scioglie, dilegua le reticenze della mia volontà e mi prende. Acconsente ai miei desideri, li prevede e li esaudisce come se mi intuisse, se sapesse qualcosa di me che desidera farmi imparare. Liberato dalle briglie della fermezza e della determinazione, il corpo galoppa, va in avanscoperta, annusa, assaggia e già scorge, sull’altro lato del vicolo, un basso adibito a salone di bellezza.
Vi si accede da una porta a vetri dalla cui soglia digradano tre scalini. Si entra scendendo in un locale unico, decisamente ridotto nelle dimensioni, con i soffitti a volta, organizzato in quattro zone: il banco dell’accoglienza che ha anche funzioni di cassa, i divanetti per l’attesa, i lavabi e la consolle con grandi specchi per l’asciugatura e la messa in piega.
Non c’è nessuno, sono l’unica cliente. L’uomo seduto dietro il banco, informato sulle mie necessità, dà indicazioni alla parrucchiera. E’ piccola di statura, in carne. E’ lei che, senza proferire una parola, mi fa sedere al lavabo e con gentilezza mi lava i capelli. Spalanca le dita delle mani e le infila nel groviglio che le porto, avanti e indietro, a destra e a sinistra, sopra e sotto, non trascura niente, paziente e accurata, decisa a riportare ordine in quel guazzabuglio. Mentre ricevo le sue cure, percepisco il piacere di quella pulizia meticolosa, non temo nulla, mi distendo, la lascio fare, sapiente e morbida com’è.
Accennando semplici gesti, ora mi fa accomodare all’asciugatura. Sollecita da dietro il busto per farmi piegare in avanti, ancora usa le mani per restituire una forma alla mia chioma incapricciata. Si aiuta con creme, balsami, unguenti che massaggiano la cute e lucidano i capelli. Da quella posizione non posso vedere altro che i miei piedi. La sagoma della parrucchiera si smarrisce, rimaniamo d’intesa legate attraverso i miei crini e i suoi polpastrelli. E’ come se le avessi consegnato una parte di me, con quella fiducia un po’ sfrangiata con cui a volte si affidano intime confidenze a sconosciuti di passaggio.
A ciocca a ciocca li convince, li sollecita, chiede loro volume, luminosità, leggerezza.
Me ne fa dono, forse intuendo il legame sotteso fra l’intrigo di quei filamenti ingrigiti e la massa dei miei pensieri.
Sospinta da una sua lieve pressione sull’omero, lascia che risollevi il busto e che i nostri sguardi si incontrino nello specchio.
Lei mi incrocia con un’occhiata in tralice, benevola, sapiente, che mi richiama alla mente la complicità di incontri sbandati eppure generosi, scambi d’occasione che pure germogliano negli occhi l’affetto di chi si è dato senza riserve, sia pure senza conoscersi o parlarsi.
Il mio, grato, le sorride, perché fra me e lei si frappone una capigliatura che mi è ignota e che pure mi somiglia, pare dare sostanza a quel mio sentire svagato.
Sembra che poggi appena sul cranio, libera, semovente, vaporosa.
Anche lei piega la bocca al sorriso e un cenno del capo risponde al grazie che le lascio, come se le risultassi straniera. Le pare forse inefficace, del tutto inutile cercare parole.
Quando risalgo alla luce ombrosa del vicolo mi ritrovo nei piedi passi aerei.
Il peso ora lieve dei capelli, imprime un ritmo incorporeo al mio cammino e lascia svaporare i pensieri, che si dileguano. Nemmeno io, adesso, necessito di parole.
Mi accontento dei profumi, dei rumori, delle strade e della gente.
Cammino, appesa ai fili grigi sospesi sulla testa, burattino sorridente in volo sulla città.
FACCIA GIALLA
Sì, deve essere così, questa città mischia.
In lingua, viene usata l’espressione me lo ha mischiato, mi mischia, per affermare di essere stati contagiati.
Questo modo di dire mi richiama alla mente l’intimità ancestrale di corpi che si uniscono, si incrociano, si accavallano, tanto profonda da farmi pensare al legame di carne e di sangue, aprioristico e inviolabile, che lega il feto al suo utero materno.
Napoli mescola così, senza riguardo per gli anticorpi e le difese immunitarie, annulla le distanze, le separazioni, confonde il piano reale con quello fantastico, il sacro con il profano, l’arte e il sudiciume, il mondo dei vivi e quello dei morti.
Eppure non manca di rispetto, no. La morte è onorata, considerata e tenuta alla giusta distanza, in una relazione paritaria nella quale ciascuno ha il suo peso e il suo ruolo.
La devozione per i defunti – forse un poco intrisa di superstizione – si fonde con la vita di tutti i giorni, riferita sulla facciata delle case dai tabernacoli, ove dimorano foto di cari estinti amalgamate ai panni stesi, ai motocicli in sosta, ai sacchetti della spesa o dell’immondizia. Anche la venerazione per i santi, disseminata sotto forma di statue e immagini allocate nelle numerose nicchie sparpagliate sugli angoli dei muri della città e abbellite dai più stravaganti ornamenti, mi sembra intrisa di familiarità, la stessa che ritrovo nel modo affettuoso con cui i napoletani si rivolgono a San Gennaro, appellandolo faccia gialla, per il colore del volto della statua che lo rappresenta.
Nel Quartiere Sanità lo raccontano i teschi del Cimitero delle Fontanelle, e l’antico culto delle anime pezzentelle. Allineati in bell’ordine, puliti, qualcuno lucido, altri poggiati su morbidi cuscini, contornati di lumini e fiori o riposti in teche di legno o di vetro, nelle quali dimorano soavi in compagnia di piccoli pupazzi, animali di peluche, monete, centinaia di teschi rammentano di essere stati a suo tempo adottati da fedeli che pregavano per le loro anime poverelle, in cambio di una grazia. Si trovavano in sogno, unico mezzo di comunicazione fra vivi e morti, la povera anima che chiedeva suffragi per alleviare le pene del suo purgatorio e il povero devoto che a lei si affidava per ottenere una benedizione o i numeri da giocare al lotto. Se l’anima prescelta non esaudiva le richieste, veniva abbandonata al suo destino. Così il miracolo, fatto di per sé straordinario e superiore alle possibilità comuni, spogliato dal suo significato diventa cosa quasi terrena, che si contratta, si baratta, si fa oggetto di patto e di scambio e pone sullo stesso piano la dimensione sovrannaturale e quella umana.
Entrare nella profondità di quella vecchia cava di tufo mi provoca la sorpresa dirompente di trovarmi in un ossario dove ciò che altrove rimane celato per decenza, pudore, ritegno, perché non si guarda l’effetto prolungato dell’azione della morte, qui viene esposto senza riserve.
E’ proprio questa esibizione a purificare quelle ossa da qualsiasi accezione macabra; l’ordine che gli è stato attribuito, quelle file composte di tibie e di crani sovrapposti sembrano il risultato di un compito eseguito con scrupolosa perizia. Le mani che vi hanno provveduto devono averlo portato a compimento con delicatezza, facendo attenzione che nemmeno uno dei teschi ruzzolasse a terra. Per ciascun avranno cercato il punto esatto di equilibrio, facendo combaciare ossa frontali e temporali e completando poi con quelle lunghe.
A ciascuno il suo posto, un lavoro ben fatto che infonde pace e serenità.
Cosa, penso, riesce a tessere questa tela che intuisco e che, mi sembra, unisce gli opposti e li mette in relazione?
Mi ritornano in mente le persone che ho incontrato per caso, camminando, e con cui ho scambiato quattro chiacchiere. Così come, immediatamente, le loro voci hanno intonato la premura dell’accoglienza, indagando un mio possibile bisogno, senza riserbo alcuno hanno anche nominato le meraviglie della loro città insieme alle ferite, ai rischi, alla presenza di attività ai margini della legalità, quando non decisamente pericolose ed illegali.
Come a dire questo è, questo siamo, se vuoi questo possiamo donarti.
Così penso, forse è la capacità di comunicare che mischia, sono le parole il veicolo della trasmissione per contagio che la città opera fra i suoi opposti.
Qui la parola stabilisce una relazione che rende concreto il sostantivo comunanza e ammette a partecipare.
E’ innegabile. Come nessun’altra città che conosca, qui l’ombra determina e contiene lo svelarsi della luce, che mi regala immagini allestite ad arte per scavare nella profondità del mio animo.
Quando riparto, porto sulle spalle compassione e in mano la misura della vita.
novembre 2016
Notturno. Risalita.
Stanotte che abbiamo raggiunto il pascolo tardi, una e piena la Luna, nel suo assoluto, nel suo silenzio e nella pace, è paradigma di ciò ch’è compiuto.
Approdo ideale in quel cielo, dà misura e mistero alla nostra distanza. Perfetta voragine, da lì si riversa la luce d’un sole notturno, oltre nascosto.
Cespi qua e là, gli ultimi prima del pascolo aperto, s’allungano e stortano calando il pendio. Lo zaino pesa oramai.
L’aria olivastra, l’aria fresca, l’aria odorosa. La sagoma del monte. Nelle foglie chissà quali maree muove la Luna, nelle fonti, nelle pozze alle malghe, negli abbeveratoi.
Passo passo si sale di quota e lenta diventa la notte, perde gravità e dondolante s’appoggia nelle impronte che lascio per terra, dove si rompono un momento la luce e l’affanno.
L’affanno… E superato un nuovo salto del monte la piana fa giungere il suono d’uno scorrere d’acqua. Il passo è più dondolante e sul bordo d’antica torbiera si para d’innanzi, gettata in controluce, la nera architettura del portico per gli animali.
Lunghe e dense le ombre, come in un quadro di De Chirico dalle sghembe prospettive; tempio profano il colonnato e nel tutto è cangiante la luce se nel riquadro del portico vedo lontana e azzurra la Terra.
Si percepisce ormai chiara la diversa gravità e i gesti sono larghi sebbene non si proceda proprio a balzi. Tutto è nuovo, nell’essere il primo uomo deposto in questo paesaggio, ma ciò che colpisce è l’assenza di brezza, l’immobilità delle poche cose, l’orizzonte di cui non si sa dire la distanza, la secchezza, la solitudine di un luogo dal quale nessuno, ancora, è mai partito, che stranamente non ha conosciuto transumanze.
Gli avvallamenti qui non sono dovuti all’erosione, ma solo a muti urti di meteore ora in frantumi, massi divenuti monte dove mai ciondoleranno armenti. E senza erosione non c’è tempo, è chiaro, non c’è confronto né memoria. Perfino la fonte che vedo ma non sento, goffo ribollire d’acqua nell’acqua sembra ora polvere ora fango senza un divenire, ma solo nell’essere semplicemente stato diverso.
Da una cavità escono bolle che sorprende trovare così nel profondo e dato che nella stanchezza oramai, bastano poche scomposte bracciate per non aver cognizione dell’alto e del basso, e ciò che prima era suolo ora è soffitto d’una grotta, quelle vacue tracce, vuote di materia, è opportuno seguire per la risalita.
Filtra la luce in fasci e più non si sa se il giorno o la notte avvolga il pianeta, se ancora sia l’alba dei primi animali in uscita dall’amnio, o se già la guerra sia la più precisa invenzione.
Trovato dove risalire lasciamo la fossa più fonda e troviamo la cima, il pelo dell’acqua a portata di mano, gli ultimi passi. Volgendomi ammiro, in basso, nostro sogno usuale, la valle quieta nel sonno.
(2016)
Lividino
I Corni rossi stanno sullo sfondo del paese. Ci sali per una fila di posti di caccia sopra S. Bartolomeo: radure dove ho fatto l’amore, una volta, con Marisa, nascosti dai cespugli. Un cane in cerca, ce n’eravamo andati da poco, muti lo guardammo impazzire ai nostri odori, dove ci eravamo abbracciati nell’erba.
Sopra i Corni rossi c’è la conca di Lividino con la malga. Sotto, le rocce a strapiombo dei Corni e, sopra, quel pascolo verde celato alla valle. A Lividino ci sali da Caregno per una strada ghiaiosa e ripida che quasi metti le ginocchia in bocca. La dolomia si sfalda in pietre bianche e asciutte, perfino polverose, e in settembre ci brillano le bacche del sorbo e l’argento di foglie accartocciate. Il sorbo di monte qui prende un portamento da principe, con piume di sangue e metallo.
Salendo non fai che guardare il sentiero a una spanna dal naso, però quando al passo si arriva si apre, di là ci sorprende il più lieve declivio, e senti quasi il desiderio di qualche bracciata, come in un lago di aria distesa. Allora, ti dico, guarda a sud il crinale nel sole e dimmi se non pare un’immobile onda sospesa quella cresta oltre la quale percepisci il dirupo. Puoi sentire la forza che spinse in alto quel lungo spruzzo di pietra?
Se vuoi salire in vetta al Guglielmo da qui vedi bene il percorso che resta, ma non sai dire se sia vicina, la meta, o lontana.
Da questo cielo di Lividino scendevano in picchiata gli aerei durante l’ultima guerra, per bombardare il paese. Le prime volte risalivano la valle da sud, ma la vicina parete dei Corni rossi li costringeva a mantenersi in quota. Quella volta che non volli andare a scuola e salii di nascosto a S. Bartolomeo, invece, mentre guardavo sul fondovalle il paese me li trovai alle spalle che scendevano bassi sopra di me. Dal Lividino scendevano rasenti i Corni rossi, passavano sopra S. Bartolomeo e si calavano diretti sulle fabbriche d’armi, col loro sibilo pauroso.
E io allora giù a correre perché nelle fabbriche ci lavoravano le mie sorelle e il papà e mia mamma era a casa; e io, bambino, a correre giù per la scarpata con quegli aquiloni bestiali sopra di me.
Dal passo del Lividino si può scendere alla malga per i morbidi dossi ammirando, mi raccomando, l’antico circolo di pietre del bàrec, evocazione di ancestrali raduni di vacche per la mungitura, coll’accompagnamento di suoni e richiami: Sà, sà! Uéssa, uéssa!
Un fremito, però, lo si prova oltre il limite della conca, sopra il dirupo e a picco sulla massa compatta di edifici e traffico che in basso fanno ormai città la nostra valle. Un incerto sentiero ci porta a traboccare tra le rocce scoscese superando un arco di pietra fino ad un giardino incastonato nella rupe, un anfratto colmo di muschio perenne, titillato da perle trasudate dalla volta. Sempre, in estate e in inverno, nell’arido e nella neve, quel guscio di dolomia, quella grotterella discreta offre tepida umidità al minuscolo giardino, un metro quadro, allo smeralo vulvare, conservato all’insaputa dei più, nel corpo della montagna.
(2016)
Una vacanza al lago
Mi piace guardare i libri, averli vicino. Lo sguardo scorre sugli scaffali come su un paesaggio lontano, l’occhio si rilassa, si cheta. Li sento dentro i libri, e ho l’impressione che la loro semplice presenza mi arricchisca comunque, come per osmosi, compresi quelli che non ho mai letto, ma che sono lì e mi guardano, mi aspettano e un giorno leggerò spero. Alcuni sono veramente vecchi, al punto che le copertine delle edizioni lussuose hanno ormai perso l’odore di pelle e l’oro dei caratteri è diventato color rame. Quando li prendo in mano cavandoli dallo scaffale osservo lo stato di consunzione delle confezioni, i piccoli segni di biro, le macchie di chissà che cosa, le piccole notazioni a matita. Le pagine non sono tutte intonse, c’è qualche piccola orecchia o piegatura accidentale, ma in sostanza tutto denuncia una cura attenta dei volumi, anche se non maniacale. L’Ulisse, pressato dagli altri volumi della mia libreria, che ho letto alla carlona, spesso senza finirli, denuncia un’usura particolare, che evoca ricordi, che racconta quanto è stato stretto dalle mie mani e quanto ha viaggiato nella mia borsa. Lo prendo e ora che ce l’ho in mano, vedo che ha gli angoli della copertina di pelle scoloriti e piegati verso l’interno del volume, come le valve di un’ostrica che non vuole aprirsi. E invece è stato aperto moltissimo, e letto e riletto. Da quell’estate del ’71 me lo porto dappertutto; è un rituale, apro il libro, dove capita e leggo, rileggo, penso, guardo il soffitto e torno a leggere l’Ulisse. E’ domenica pomeriggio, nella vivida luce del sole d’inverno che entra dalla finestra, apro il libro a caso, a pagina 35 e leggo:
– non pianger più, dolente pastore,non pianger più
Ché Lycidas, tuo duolo, non è morto,
Benchè sia sprofondato sotto l’equoreo piano…. –
Mi accorgo che ci sono dei piccoli rigonfiamenti su tutta la pagina. Non delle pieghe, ma dei rigonfiamenti grinzosi, circolari, di vari diametri. Ne scorro con le dita la superficie e sento distintamente queste vascolarizzazioni anomale della carta, che osservate in controluce, descrivono una serie di bugne come dune, con piccole grinze a raggiera e sotto i polpastrelli diventano un Braille che racconta solo per me. Solo delle gocce d’acqua abbattutesi sulla pagina, possono produrre questo effetto. E’ indiscutibile: la pagina si è bagnata. Guardo anche le pagine successive e ci sono sempre gli stessi segni, via via meno evidenti che scompaiono del tutto a pagina trentanove, dove la carta ha di nuovo la sua perfetta planarietà e leggo:
– Amor matris: genitivo soggettivo e oggettivo. Col suo sangue debole e il suo latte sieroso l’aveva nutrito e aveva nascosto agli altri le sue facce. –
L’acqua è penetrata per alcune pagine, ma non ha rovinato il testo e pur rimanendo compresse tra gli altri libri, esse non sono tornate perfettamente lisce, ma conservano queste cicatrici. La pagina trentacinque parla di un annegato e la trentanove di latte, sangue e inquietante amore materno, e queste pagine, proprio queste, si sono bagnate.
Ora ricordo.
Era il settembre ’71, eravamo in vacanza a Idro, un piccolo lago alpino, freddo e tetro, meta di villeggiatura di olandesi e tedeschi, per loro quello era già un paesaggio mediterraneo. Mio padre si era invaghito di una signora olandese che qui gestiva una locanda e così aveva temerariamente portato tutta la famiglia, moglie compresa, in vacanza su questo lago. Lui scompariva continuamente, – Va dalla vacca olandese – diceva mia madre schiumando rabbia. Aspettavamo tutti in questo piccolo paesino, senza auto, né telefono, né una bicicletta, il ritorno di mio padre dalle sue escursioni erotiche. Gironzolando per i vicoli e prendendo il sole sull’unico pontile del paese, conobbi dei ragazzi, un olandese, due tedesche, un’italiana figlia del barista e una ragazza inglese lentigginosa e in sovrappeso. Facevamo il bagno e poi sul pontile stesi sugli asciugamani a fantasticare e tentare i primi approcci amorosi. L’inglese era la più disinvolta, ma non mi piaceva, troppo in carne, mentre la figlia della barista, era carina e minuta, era italiana e amava la poesia. Le ragazze tedesche, spilungone e bionde, avevano occhi solo per l’olandese, anche lui sedicenne, ma molto più alto di me e con quell’aria vissuta di chi ha già provato gli eccessi della beat-generation, il che mi annichiliva. Unica consolazione: io mi tuffavo e nuotavo meglio di lui.
Quasi tutti i giorni, istigato da mia madre, passavo davanti alla locanda della signora olandese per sbirciare dentro il suo ufficio e vedere se ci fosse mio padre, ma non lo beccai mai da quella “puttana“, e poi giù al pontile con gli altri. Lui, l’olandese, ostentava il vinile di “In a gadda da vida degli Iron Butterfly “, riviste beat olandesi, illeggibili per me, e misteriosi rotolini di stagnola che promettevano viaggi allucinogeni, scatenando i lascivi gridolini delle ragazze. Volevo che mi notassero e tentai l’ostensione del quotidiano “Lotta continua” e dell’Ulisse di Joyce, che suscitarono la morbosa e pressante curiosità solo della grassottella inglese e la completa indifferenza delle ragazze, ma anche uno sguardo di riprovazione della figlia del barista: da quelle parti i comunisti non sono mai stati popolari. L’olandese stava sdraiato sulla schiena, gli occhi piantati sulle tette della tedesca inginocchiata al suo fianco che si spazzolava i capelli, l’inglese mi sorrideva ammiccante, mentre l’unica che volevo mi guardasse se ne stava lontano a leggere “Ciao 2001”. Dovevo fare qualcosa per attirare la sua attenzione, quindi saltai in piedi e con un balzo, arrivai al bordo del pontile esibendomi nel tuffo più plastico di cui ero capace. L’entrata in acqua perfetta; mentre riemergevo, mi aspettavo di vedere tutte le ragazze sporgersi dal pontile per sorridere al miglior tuffatore del paese, ne ero certo, invece solo l’olandese si sporse per lamentarsi che gli schizzi d’acqua l’avevano molestato mentre rollava la sua canna. Risalito, grondante e deluso, sul pontile mi gettai sul mio asciugamano, sul quale era appoggiato l’Ulisse aperto a pagina 35. Ero talmente avvilito che non mi curai delle gocce che colavano dai miei capelli sulla pagina. Pagina 34 si salvò perché protetta da un volantino di Lotta continua piegato in due che usavo come qualificante segnalibro. Subito asciugai l’acqua tra mille imprecazioni e l’indifferenza di tutti, tranne che dell’inglese che mi offrì un “ kleenex” come disse lei. L’acqua però aveva già fatto il suo percorso ed era penetrata fino a pagina trentanove.
Il giorno dopo l’olandese, che parlava un italiano discreto, veniva a Idro fin da bambino, mi disse: – Che ne dici se dopo la nuotata andiamo a casa mia, ti voglio far vedere i miei dischi, così ci togliamo dalle palle ‘ste befane. – M’invitava a sentire i suoi dischi, il tuffo aveva avuto un esito, anche se non quello sperato.
Con Joyce avvolto nell’asciugamano, lo seguii fino a casa sua: era la locanda della signora olandese. Entrai con meraviglia e un fondo di vergogna e il senso di colpa per tutte le volte che avevo sbirciato dentro. La signora olandese mi venne incontro sorridente, radiosa, il mio nuovo amico era suo figlio e mi vergognai ancora di più. Era molto gentile e feci la fantasia che lo fosse perché sapeva che ero il figlio del suo amante. Mi guardava con dolcezza, mi mise la sua lunga e morbida mano sulla guancia per una carezza leggera, sorrise con i suoi grandi occhi azzurri e m’indicò la scala per salire di sopra, nel loro appartamento, dove il mio amico teneva lo stereo e i dischi. Frastornato, mi guardavo attorno, ero imbarazzato e spaventato, temevo che mio padre potesse sbucare da qualche angolo riempiendomi di ceffoni per essermi intrufolato lì. Certamente avrebbe pensato che mi fossi messo a disposizione di mia madre per pedinarlo e che avessi fatto amicizia col figlio della sua amante solo per stanarlo. Ero terrorizzato. Entrai in camera, avevo di fronte un poster del Festival dell’Isola di Wight e sulla parete di lato un altro, con una ragazza a gambe incrociate che si accendeva una canna. I dischi sparsi sul letto e impilati sulla scrivania, e uno stereo bellissimo mi fecero morire d’invidia. Chiuse la porta, si rollò una sigaretta e senza guardarmi chiese:
-Tu conosci I Doors?- e senza aspettare risposta, era scontata, e sempre senza guardarmi – Ho il disco, me l’ha portato mio padre da Amsterdam. E tre mesi fa ho visto il loro concerto, una bomba.- E mise il disco a volume folle, si lasciò cadere in estasi sul tappeto fumando a occhi chiusi.
– Ma tua madre ti lascia fumare e tenere la musica a questo volume senza incazzarsi? non ci posso credere. –
– Mia madre si fa le sue cose, io non le rompo le palle e lei non le rompe a me, in Olanda è così. Tieni, vuoi un tiro? –
Mi porse la sigaretta, era umida della sua saliva ed io avevo un po‘ schifo, inoltre non fumavo ma, quel giorno, cominciai. Ero felice, musica da sballo, il brivido della prima sigaretta e stare lì, con l’amico così sicuro di sé e disinvolto come avrei voluto essere io, ma allo stesso tempo non vedevo l’ora di andarmene.
Tornato a casa ripensai a mio padre, alla signora olandese e a mia madre che bruciava di gelosia. Erano due donne così diverse, da tutti i punti di vista, che mi piacevano e inquietavano, e per un attimo l’immagine di quei due universi femminili si sovrappose nella mia mente in un’unica immagine confusa e nebulosa. Ero disorientato, mamma era così poco attraente, mentre la signora olandese lo era, mi piaceva molto, anche fisicamente. Pensai come sarebbe stato averla come madre e senza accorgermene giustificai papà. Subito mi vergognai molto di quella fantasia.
Le mie sorelle giocavano sul balcone di casa, i pochi pescatori attraccavano le barche al pontile e mio padre uscì dal bar del paese barcollando, vistosamente ubriaco, tirando voluttuose boccate di fumo che poi faceva uscire dalle narici, con gli occhi arrossati e umidi, sembrava un drago. Lo vedevo venire verso casa, era stato al bar a giocarsi lo stipendio a carte e si era ubriacato: allora non era dall’olandese. Del resto, pensai, la signora olandese era troppo alta, lo sovrastava e lui, orgoglioso attaccabrighe proletario, non ci sarebbe mai stato con una così alta. Sorrisi e pensai che mamma forse sbagliava e con sollievo mi sentii esonerato dal compito di pedinatore, di delatore, di spia.
La mia famiglia aveva rotto tutte le relazioni con gli amici in modo turbolento per le scenate di gelosia di mia madre, o per quelle di qualche marito che accusava la propria moglie di farsela con mio padre.
Come mio papà mise piede in casa e si scatenò l’inferno. Mia madre l’aggredì e tentò di colpirlo con la paletta di ferro del camino, lui nonostante la sbronza schivò il colpo, aveva ancora tutti gli automatismi attivi, ma indietreggiando inciampò in uno sgabello e cadde a terra bestemmiando come solo lui sapeva. Mia madre imprecava pur senza bestemmiare, ma cominciava a comparire quel rantolo che sapevo, l’avrebbe portata a uno dei suoi svenimenti. Al culmine della rabbia impallidiva e uno spettrale suono gutturale le usciva dalle labbra e dalle narici, e poi grondando sudore gelido, stramazzava a terra, immobile, occhi chiusi, improvvisamente silente. Credevo sempre che fosse morta e mi disperavo. Poi, di solito dopo qualche minuto e con mio padre che le teneva la testa, intonava una nenia sommessa e malinconica, incomprensibile, così penosa che mi angosciava ancor più della paura che potesse essere morta. Non volevo godermi di nuovo quello spettacolo. Mi caricai in spalla la sorella piccola, presi per mano la grande e li lasciai ai loro rituali perversi, seguito dalle urla etiliche di mio padre e dai tetri rantoli di mia madre.
Girai un po’ per i vicoli, lungo la spiaggia e senza accorgermene mi trovai, con le mie sorelle, davanti alla locanda della signora olandese. Ci vide, si affacciò alla porta e c’invitò a entrare, diede delle bibite alle bambine e una sigaretta a me.
– Non fumo signora- ma lei, spingendo ancora di più il pacchetto aperto verso di me, insistette:- Ma va là, se sei amico di mio figlio fumi e non solo sigarette. Comunque qui puoi e rimarrà un segreto tra noi.-
Accendendo la sigaretta, guardai i suoi tratti signorili e gentili: provai un affetto intenso e languido, quasi filiale. Per un attimo dimenticai i due disperati che avevo lasciato a casa. Le mie sorelle giocavano con la signora olandese come fossero sempre state lì, sembrava tutto così normale. Tornai a casa e mia madre distrutta, piena di lacrime, mi disse: – Ti sembra questa l’ora di tornare? Cretino! Le tue sorelle non hanno ancora mangiato. –
Mio padre si era chiuso in bagno. Apparecchiai un tavolo striminzito, mia madre riempì tre piatti di minestra per noi e se ne andò sul balcone a piangere silenziosa. La guardai e non capii. Sapevo solo che non volevo essere lì, con quei due che avevo amato alla follia: lui con le sue auto sportive, gli amici piloti e play-boy, e lei con le sue storie di partigiani, di sindacalisti e di lotta contro la “razza padrona”. Volevo solo essere da un’altra parte, qualsiasi altra parte, purché non ci fossero loro.
Misi a letto le mie sorelle, tentai di leggere ma non ce la feci. Ero esausto, chiusi gli occhi e fantasticai di baciare la figlia del barista, era un desiderio dolcissimo e mi addormentai.
Nel cuore della notte, saranno state le tre del mattino, mia madre mi svegliò scrollandomi una spalla:
– Alzati e vieni in cucina, tuo padre deve parlarti. –
– Cazzo – pensai – neanche di notte questi due la piantano. Fanculo. – e mi alzai. In cucina sotto la fredda luce del neon, mio padre era seduto sulla sedia, vestito come se stesse per uscire, e fissava le due valigie posate davanti ai suoi piedi. Il viso contratto in uno spasmo di rabbia, non era più ubriaco ma rabbioso e affranto, impotente e sconsolato, incazzato e pieno di rancore, come fosse vittima di un grande torto. Mia madre aveva riacquistato energia e colore, gli occhi determinati e l’espressione altera di chi pensa di aver fatto suo il punto partita. Fu lei che parlò, non lui:
– Tuo padre voleva dirti che se ne va, perché non sa rinunciare alle sue puttane. Del resto se sta qui, rischia che una di queste notti io gli pianti un coltello in gola, per cui è meglio così.- Poi gli si avvicinò, guardandolo dall’alto in basso e spingendo col piede una valigia verso la scala continuò: – Le tue sorelle sono piccole, ma tu devi vedere e sapere perché io non lo voglio più. Deve andarsene! è un puttaniere drogato, non gliene frega niente della famiglia e preferisce scoparsi le altre donne, che comunque sono tutte puttane!- un’ultima spinta col piede e la valigia precipitò giù dalle scale, poi raccolse l’altra e la lanciò direttamente in strada. Mio padre si alzò, mi guardò con un’espressione mista di rabbia e di ricerca di compassione e sospirò: – Di a tua madre che da qui non me ne vado! Voi siete la mia famiglia e senza di voi muoio, mi ammazzo!-
Cristo, che pensare? Che fare? Cazzo stavolta facevano sul serio, lui se ne andava ed io che potevo fare? Mi sentii schiacciato, la gola secca e non riuscii a dire nemmeno una parola ma mia madre m’incalzò: – Diglielo che anche tu non lo vuoi più in casa un padre come lui, un traditore, un giocatore che si è fatto persino la moglie di suo fratello. Un pervertito, sporcaccione. Nemmeno i fratelli rispetta. Diglielo di andarsene. – Non sapevo più che fare, a sedici anni che cavolo c’entravo io: volevo solo essere un artista e un intellettuale, leggere Joyce e ascoltare i Doors. Dentro di me si affacciavano tutti i sentimenti, dalla codardia all’opportunismo, dalla rabbia al dolore, dalla paura alla disperazione e alla fine cedetti. Guardai mio padre che ormai piangeva a dirotto e lo implorai: – Per favore vattene papà, la mamma ha ragione. – Mi guardò stupito, pianse e sconsolato mi disse con enfasi: – Tu hai il coraggio di dire questo a tuo padre? Sei uno stronzo che non capisce niente. – Si alzò, gli occhi rossi e gonfi, varcò la porta e scomparve.
Mia madre si affacciò alla scala per essere sicura che se ne fosse andato, si girò verso di me e scoppiò in un pianto nervoso irrefrenabile, che aveva poco di liberatorio.
– Che fai ancora qui? Vai a letto.-
Mi sentii un vigliacco e pensai:-… forse sarà un bene tutto questo, avrò forse anche dei vantaggi materiali, magari un giorno potrò confessare che in quello schifoso giorno avevo cominciato a fumare e mia madre forse sarà comprensiva e, come la signora olandese, mi offrirà delle sigarette.-
Di mattino fui svegliato dai rumori della colazione in cucina e vidi mia madre radiosa che serviva il caffè a mio padre, suo marito. Le sorelle giocavano sul balcone ed io capii che la mia giornata sarebbe stata complicata, dolorosa e che mi avrebbe procurato comunque guai e sensi di colpa. Entrai in cucina, mi fissarono tutti e due e mia madre sorridendo disse:- Papà ha deciso di restare, non può rimanere senza di me e i suoi figli, ha capito quello che è giusto. Vieni che facciamo colazione.- Mi sedetti, lui sorrise nervoso senza guardarmi negli occhi, e lei, mia madre, si girò di scatto verso di me e mi fulminò: – E tu… che volevi cacciare tuo padre per fare i tuoi porci comodi signorino, ma stavolta ti è andata male e farai bene a rigare dritto, perché ormai ti ho sgamato.- Presi il caffè a testa bassa, più in fretta possibile e scappai al pontile, ma a quell’ora c’è solo qualche pescatore: ero solo.
Dopo alcuni giorni arrivò il fratello di mio padre, il professore, confabularono sul balcone, lo zio gli diede un plico, salutò frettolosamente noi figli, salutò freddamente, molto freddamente mia madre e con aria di sconsolato rimprovero suo fratello, mio padre.
Gli incontri per sentire i Doors e i Led Zeppelin a casa dell’olandese erano diventati un’abitudine quotidiana, ma quel pomeriggio non ci andai, dovetti stare con mio padre, era molto agitato, il plico conteneva una convocazione in Questura per il giorno dopo e lui era spaventato. Mia madre pretese che stessi con lui e che il giorno dopo lo accompagnassi perché non facesse il viaggio da solo in quelle condizioni di nervosismo. Tutto sommato mi faceva comodo, mentre lui era in Questura potevo andare in libreria e all’edicola a comprare Lotta Continua che a Idro non arrivava. Il viaggio fu silenzioso. Mio padre guidava con lo sguardo fisso e perso davanti a sé, senza guardarmi in silenzio, quando si accorse che lo stavo osservando si infilò gli occhiali da sole e accelerò. Arrivati in Questura mi chiese di rimanere in macchina e di non andare nemmeno in edicola. Attesi più di un’ora e quando uscì ripartimmo a tutta velocità per Idro. Era allucinato, livido, non parlava, gli chiesi di fermarci a prendere il giornale, ma non rispose e si continuò a guidare come un pazzo. Prima di Idro c’è una località con un nome che mi ha sempre colpito: Ponte Re. Ecco proprio al cartello Ponte Re la strada fa una curva secca, a novanta gradi, s’infila nel ponte che attraversa il Chiese. Ebbene, mentre ci avvicinavamo ad alta velocità alla curva, osservavo mio padre e capii che non stava guardando la strada, era totalmente assente e non avrebbe frenato, non avrebbe fatto la curva e ci saremmo schiantati contro le rocce del greto del fiume. Lo guardavo e nulla faceva trasparire un briciolo di consapevolezza. Cosa aveva in mente? La curva era ormai vicina, puntai i piedi, mi aggrappai alla maniglia della portiera e urlai: – Papà la curva!- si scosse dal suo torpore, per fortuna guidava da dio, frenò, scalò le marce, il motore s’imballò, lo stridere delle gomme bloccate divenne assordante, ma la curva era ormai troppo vicina, impossibile percorrerla. Con sangue freddo e mia meraviglia, non fece la curva, ma riuscì ad imboccare il viottolo di campagna davanti a noi, ad evitare le rocce del greto e in una nuvola di polvere e un gran fragore la macchina si fermò. Eravamo in un prato, sul limitare del fiume, il cielo terso e le nuvole bianche e due mucche pascolavano davanti a noi, mentre un contadino ci guardava toccandosi ripetutamente la tempia con l’indice a significare:- Siete matti!- Mio padre impassibile si girò verso di me come non fosse successo nulla:
Grazie, non avevo visto la curva. Ti sei spaventato?- Feci di no col capo e tornammo a casa, era ormai la fine di Settembre. Mia madre, alcuni mesi dopo, mi confidò che era stato convocato in Questura perché un suo caro amico aveva fatto un esposto contro di lui, per avergli molestato la figlia diciottenne. Ma allora la maggiore età era ad anni ventuno.
Il primo di Ottobre, eravamo da poco tornati in città, il padre di mio padre, mio nonno, era venuto a trovarci. Stavamo pranzando ed ecco che scoppia una nuova violentissima lite che durò tutto il pomeriggio e alla fine, ormai a sera, papà uscì da casa sbattendo ancora una volta la porta, per andare a schiantarsi a tutta velocità contro il pilone di sostegno di un sottopassaggio ferroviario e morendo sul colpo.
La salma fu composta all’obitorio dell’ospedale, in un piccolo locale con una finestra che dava nel giardino interno al pianterreno. Parenti e amici, silenti e con aria di circostanza, stavano ammassati alle pareti dell’obitorio. Faceva caldo, aprii un po’ la finestra della camera ardente. Alcuni andavano fuori a fumare ed io li seguivo per chiedere una sigaretta. Mia madre piangeva disperata tenendosi alla bara. Ogni tanto alzava il capo e guardava fuori dalla finestra verso il giardino. Vidi un’ombra passare ripetutamente davanti alla finestra, esitante. Poi, come sorpresa del suo coraggio inaspettato, si affacciò per guardare dentro. Era una donna giovane, molto giovane, con gli occhi gonfi di pianto, le labbra tremanti. Appoggiò la mano allo stipite della finestra e si sporse verso la bara, sgranando gli occhi e singhiozzando pianissimo. Mia madre non se n’era neppure accorta, era a capo chino su mio padre, dai suoi occhi cadevano lacrime sul raso del sudario, mentre lo scrutava senza sosta. Le vedevo tutte e due, mentre piangevano, vedove dello stesso uomo, ma con un dolore così diverso, per quanto profondo e sconfinato, ed ero incantato da quella diversità così forte e così complementare, ma riconoscevo uguali diritti a tutti e due quei dolori disperati. Le guardavo in silenzio, stregato da quello strazio così intenso, come se tutto tutti fossero svaniti e dal fumoso nulla emergessero solo loro: mia madre, la ragazza, la bara con dentro mio padre. Amore, dolore, rabbia, rancore, impotenza, si mescolavano nei pianti di quelle due donne in un unica vasta lacrima. Guardai ancora una volta il volto di mio padre, mi sembrava sereno, imperturbabile, persino bello, e il pianto disperato di quelle due donne era per lui, solo per lui. Rimasi zitto, quasi senza respirare per continuare a guardarle senza che nessuno se ne accorgesse, ma tra i parenti si levò un lieve brusio e via via si fece più intenso:- Chi è quella lì? Sarà una di quelle che si faceva, una puttana. Come osa venire qui è roba da matti.-
Un cugino della mia stessa età, con una smorfia maligna e voce stridula urlò:- Zia zia, c’è quella di Fornaci alla finestra!-
Mia madre sollevò il capo dalla bara e urlò:- Nooo! anche qui mi tormenti, puttana rovinafamiglie, sei contenta adesso che è morto?-
Si scagliò verso la finestra, la ragazza terrorizzata scappò inforcando la sua bicicletta. Tutti inveendo si precipitarono fuori per vedere chi fosse quella donna e la insultarono e mio cugino la rincorse, raccolse un sasso e glielo tirò, colpendo però solo il parafango della bicicletta, urlando:- Troia! Puttana! Vacca!-
La ragazza accelerò la pedalata e si girò indietro per guardarci solo quando fu lontana, ma senza rallentare.
Le donne si strinsero attorno a mia madre, la fecero sedere, la consolarono. Mi sentii estraneo all’agitazione generale, al clamore di quell’episodio per tutti scandaloso, ma rimasi in disparte a cercare di misurare l’amarezza e la desolazione che mi assaliva, e mentre tutti rientravano nella camera ardente scuotendo la testa sconcertati, vedevo la ragazza in bicicletta sempre più lontana. Avrei voluto conoscere quella ragazza, capire cosa l’aveva affascinata di mio padre. Mi fece tenerezza.
Comunque di una cosa ero certo: mio cugino era proprio uno stronzo ed ero sicuro che non sarebbe mai migliorato.
Degli amici di quella vacanza non seppi più nulla, ma la figlia del barista mi scrisse una lettera molto commovente per la morte di papà. Le risposi, convinto che mi avrebbe dato il suo amore, ma lei si sottrasse, non rispose più e tornò nel nulla. Dopo qualche giorno mi ritirai da scuola e mi presentai in fonderia a fare l’operaio per mantenere la famiglia di cui ero diventato, mio malgrado, il capo.
E ho continuato a fumare.
La via della scrittura / Come possiamo non farci derubare della nostra vera biografia?
La via della scrittura / Lasciarsi guidare dal maestro interiore
La via della scrittura / Divieni quel che sei
La via della scrittura / Tra una partenza e l’altra
Le ciabatte di mamma
Per arrivarci bisogna alzarsi sulle punte dei piedi, sollevarsi il più possibile e tendere il braccio verso l’alto, più che si può.
Quando la mano riesce ad afferrarla, si sposta il peso del corpo e lo si concentra tutto lì, nella mano, così la maniglia si abbassa. Allora si sente un rumore sordo, piccolo, di ferro.
Un clic. Deve essere quello che permette l’apertura della porta, perché insieme al clic si sente un cigolio appena accennato e la porta si socchiude.
La porta è di legno chiaro. Grande. Larga, alta, e sta sempre lì, incastonata fra la cucina a legna, che la mamma chiama cucina economica, e l’angolo in cui teniamo la seggiolina.
Sulla seggiolina mi siedo io quando gioco ad essere la centralinista, con la cornetta telefonica nera e il tabellone pieno di leve colorate; oppure ci sta seduta zia Cecca.
La mamma mai, non ha tempo lei, e ce lo ricorda sempre.
Sulla sinistra della seggiolina il mettitutto.
Nei vani chiusi dagli sportelli teniamo le stoviglie e su un ripiano a vista la radio, con cui io e mio fratello, adesso che è estate e non andiamo a scuola, ascoltiamo ogni giorno la hit parade.
HIIIIIIT PAARAAAADE, così bisogna dirlo.
La porta mi piace moltissimo. Viene tenuta sempre chiusa e io so perché.
La stanza che protegge è la più bella della casa. C’è un letto, non piccolo come il mio e nemmeno grande come il lettone.
Si chiama a una piazza e mezzo. Prima che la zia Cecca venisse a vivere con noi ci dormiva mio fratello, ma io ancora non c’ero. La zia Cecca non ha figli, è la zia di mamma ed è venuta a stare con noi quando è morto suo marito e sono nata io.
Abita con noi per occuparsi di me, perché la mamma possa continuare a lavorare.
La stanza ha il suo odore. Borotalco, lana spessa e grezza, carta. Fogli di carta che tiene ben piegati nelle tasche a toppa dei suoi vestiti.
I vestiti di zia Cecca si assomigliano tutti. Sono abbottonati sul davanti e cuciti con stoffe dalle tonalità scure.
Li tiene appesi nell’armadio di legno a due ante poggiato sulla parete di destra della stanza. Un’anta è completamente ricoperta da uno specchio; anch’io mi posso vedere riflessa, tutta intera, se mi allontano un po’.
I fogli di carta le servono per imparare a scrivere. Io lo so già fare, e quando rimaniamo da sole glielo insegno. Ho cominciato dal suo nome, Francesca. Lei fa esercizio su quei foglietti di recupero di cui si riempie le tasche. Adesso è estate. Vuole riuscire a scrivere da sola le lettere che spediremo quando sarà Natale. La mamma le fa scrivere a me, anche quelle della zia, ma quest’anno, alle sue vuole provvedere da sè.
Cari nipoti. Noi stiamo bene e altrettanto speriamo di voi
La stanza dove dorme non è proprio una camera, ma è ordinata, fresca, luminosa.
Sulla parete opposta a quella su cui poggia la testata del letto, c’è una finestra, l’unica della casa dal cui vano si scorgono rami frondosi disegnati sullo sfondo del cielo. Riesco a vederli dallo spiraglio della porta socchiusa, e anche se sto vicino al letto.
Se mi avvicino scompaiono. Più mi avvicino alla finestra e meno riesco a vedere fuori.
Non mi importa però. La stanza è piena di cose che mi interessano.
Sulla parete di sinistra, opposta all’armadio, è tesa una lunga tenda colorata, la stoffa è uguale a quella che è servita per cucire uno dei teli a forma di sacco con cui la sera, prima di andare a dormire, la mamma copre il televisore. Non deve prendere polvere, dice, mentre sistema la fodera sull’apparecchio. Ne abbiamo un’altra, rossa, cucita come se fosse il sipario del teatro dei burattini, con due drappi che si sollevano lateralmente.
La mamma la usa quando abbiamo ospiti, per fare bella figura, dice.
Dietro la tenda cerco odori noti.
Lì dietro, su assi di legno allineate, la mamma ripone in ordine i fiaschi del vino, la stoppa, il tiraolio e due damigiane di vetro, grandi, che mio padre si fa riempire di vino dai suoi fratelli.
Abitano in campagna i miei zii, e qualche volta li andiamo a trovare la domenica, con la Topolino.
Mi piace quando andiamo a prendere il vino.
Mio padre mi tiene vicino a sé quando viene spillato dalla botte. Il getto rosso è profumato e scende gorgogliando, trattenuto dagli orli dell’imbuto bianco inserito nella bocca larga della damigiana.
La sera, a casa, babbo e mamma issano la damigiana sul tavolo della cucina, e mentre la mamma prende i fiaschi da dietro la tenda, mio padre, con gesto esperto, infila il tiraolio nella damigiana e aspira con un risucchio prolungato. Poi vi inserisce una cannula stretta e comincia a versare.
Via via che i fiaschi si riempiono, la stanza si colma di un odore che contiene il profumo dei filari delle vigne, dell’uva, del mosto, dei tini, della cantina degli zii e anche della nostra macchina, la Topolino, impregnata del sentore del garage dove rimane parcheggiata ogni settimana.
Sono nata così io, una sera che a casa infiascavano il vino.
Me lo ha raccontato la mamma, mi ha spiegato che è stato lo sforzo di sollevare la damigiana sul tavolo che mi ha fatto venire al mondo qualche giorno prima del previsto.
Se annuso dietro la tenda, ritrovo tutti i colori variegati della campagna e il rosso brillante della mia nascita.
Nella stanza, quello che mi piace più di ogni altra cosa è la piccola scansia incastrata fra l’armadio e l’angolo della parete con la finestra.
La scansia è coperta da un imballaggio fiorito, di plastica trasparente, che ha una cerniera sul davanti. Lì dentro la mamma ripone le sue scarpe, bellissime.
Ogni volta che posso, sguscio nella stanza e le guardo.
E’estate adesso, e i ripiani sono occupati da sandali e ciabatte.
Li guardo, modellati dalla forma dei suoi piedi, e immagino i passi veloci che la portano via ogni mattina, al lavoro, a Firenze.
Cammina frettolosa la mamma, anche in casa, e i suoi spostamenti sono ritmati dal ticchettìo delle suole sul pavimento, diverso a seconda delle stanze in cui si trova e dei movimenti che compie.
I sandali, blu o bianchi, hanno tomaie di pelle, lacci sottili che le si avvolgono alle caviglie e tacchi stretti.
Quando li indossa vuol dire che esce, seguita da una scia di piccoli battiti ravvicinati, che mi lasciano custode dell’attesa del suo ritorno.
Se sta in casa o scende solo a fare la spesa, calza le ciabatte, ed è tutta un’altra musica.
I passi, pur affrettati, si allungano e si distendono. Ne deriva un fruscio diffuso che diventa la colonna sonora della sua presenza e della speranza che prima o poi si accorga di me.
Quando sono qui, protetta dalla penombra estiva che tracima dalle persiane verdi della finestra, le tocco una a una, le sue ciabatte.
Ce n’è un paio che mi piace più di tutte. La tomaia marrone sembra di seta, è lucida ed è tutta traforata da piccoli buchi orlati, di dimensione diversa, come una costellazione.
La zeppa di sughero, morbida al tatto e attraversata da una riga orizzontale dello stesso colore della fascia, pare una fetta di quella torta al caffè che di tanto in tanto prepara la zia.
Faccio passare la mano aperta sulla stoffa liscia, infilo le dita sotto la tomaia.
Mi sfilo dai piedi gli zoccoletti di legno e poggio le ciabatte di mamma per terra.
Con la mano destra mi reggo al pomello di un’anta dell’armadio, un piede per volta salgo sulla zeppa e scivolo in avanti.
Sono altissima! Senza staccare la mano, azzardo qualche passo verso la finestra, poi mi giro e mi specchio. Sono grande, una bambina grande come la mamma.
Piano piano prendo sicurezza, provo a camminare, mi guardo ancora e poi mi avvicino alla finestra. Con le ciabatte di mamma posso vedere le fronde degli alberi anche se sto poggiata al davanzale.
Mi giro su me stessa e sono già lei, il braccio piegato su cui infilare la borsa, sto andando a lavorare a Firenze con l’autobus e penso che prima di tornare a casa comprerò alla mia bambina quei panini salati che le piacciono tanto.
Non so da quanto tempo mi stia osservando.
Quando la vedo arrossisco e la guardo.
Le spalanco sulla faccia gli occhi ancora ridenti, distanti, smarriti nella fantasia del gioco, e stringo le labbra in un sorriso incerto, impaziente, mentre aspetto di sapere cosa dirà.
Toglitele, le sciupi, dice. Vieni di qua con me, vanesia, dice, e mi aiuta a calzare i miei zoccoletti.
La seguo senza capire come sta. Si è arrabbiata? Qualcosa nell’espressione del suo volto mi lascia intuire che sa, che ha capito, che da qualche parte, dentro di sé ha aperto un sorriso.
Alzo la testa verso di lei, e mentre chiude la porta i nostri occhi si incontrano.
Sei ancora piccola, dice.
In cucina volteggia il vapore della cena che sta preparando.
E’ in quelle spirali profumate che annega il tuffo del mio cuore.
Andiamo al mare
“Cosa vuoi ancora? Te l’ho già detto, lasciami stare che la mamma ha da fare”.
Ma i tuoi occhi non ne vogliono sapere.
Trattieni nello sguardo la gioia del futuro che verrà. Il domani vicino, alla tua portata, al quale ti affidi senza riserve e il cui garante è lì davanti a te, tua madre.
Lei va sempre veloce, ha sempre fretta. Il tempo non le basta mai.
Hai imparato che non devi darle fastidio, che non la devi intralciare, che devi fare le cose come vuole lei.
Si muove svelta, affannata. Prepara la cena mentre piega e stira la biancheria sul ripiano in marmo del tavolo della cucina, sul quale ha steso una coperta di lana e un telo bianco di cotone. Fa sempre così, quando stira.
E’ estate. Dalla finestra spalancata entra una luce che contiene tutte le promesse riflesse nel tuo sguardo.
Si avvicina ai fornelli frettolosa, e quando solleva il coperchio del tegame, la stanza si riempie dell’odore familiare del pomodoro e del basilico.
“Quanto manca mamma?”
Senza interrompere il movimento delle mani e delle braccia, si volta, poggia con forza il ferro caldo sulla stoffa, ti guarda per un istante e lascia uscire le parole con il respiro dello sforzo che sta facendo. “Te l’ho detto” soffia. “Due giorni. Oggi è venerdì, partiremo domenica”.
Domenica! Intrecci le mani e stringi, stringi forte per contenere l’euforia che richiederebbe di alzarsi dalla seggiolina su cui sei seduta e saltellare intorno a lei, al tavolo, scalpicciando a salti avanti e indietro per la stanza, una, due, dieci volte, avanti e indietro, cantando “Domenica, domenica!”.
Ma quando è domenica?
Rimani seduta, ancora la guardi e il tuo volto lascia trasparire tutte le domande che vorresti farle.
Quando arriviamo? E quando si vede il mare? E sul treno sto seduta vicino al finestrino?
E dove mangiamo? E andiamo subito alla spiaggia?
Piano, con calma, non bisogna farla arrabbiare.
Adesso ha finito. Ripone il ferro da stiro, ripiega il telo e la coperta e, con cautela, prende la pila di panni ben piegati e la porta in camera da letto.
Poggia tutto sul piano del comò, si alza sulle punte dei piedi e cerca di afferrare qualcosa dal ripiano più alto dell’armadio.
L’hai seguita, ancora canticchiando dentro di te “Domenica, domenica”, e la guardi, con la faccia illuminata dal sorriso che lascia trasparire tutta l’eccitazione che le tue mani piccole, ancora intrecciate, stentano ad arginare.
Non ce la fa, prende una sedia dal soggiorno e ci sale in piedi.
Quando riscende, ha in mano la valigia di pelle nera che deposita sul lettone.
Per te un tuffo al cuore: la riconosci, è proprio quella con cui si parte per il mare.
Le stai vicino, vuoi vedere, anticipando nel pensiero quel che sta per avvenire.
Sai già che adesso farà scorrere il cursore della lampo e che via via che i piccoli segmenti trasversali si separeranno, l’interno setoso della valigia lascerà intravedere il colore arancio del telo da mare, fregiato di una giraffa nera, e libererà l’odore di Antignano.
Si va sempre lì al mare, ad Antignano, dalle suore.
Per arrivarci bisogna prendere l’autobus fino alla stazione di Firenze, salire sul treno, che ha sedili di legno, e farsi portare fino a Livorno. Lì bisogna prendere un altro autobus, quello con la scritta che anche tu hai imparato a leggere, “Ardenza”.
E’ quello che rivela il mare. Dai finestrini si intuisce la luce blu che risale per le strade di quella città che ancora non conosci, e ad ogni svolta pensi “eccolo, eccolo, adesso si vede”.
Quando riesci davvero a vederlo ti mozza il fiato, e le tue manine si intrecciano.
Antignano si riconosce dal suo odore. Un miscuglio composto di salsedine, di catrame, con cui i pescatori riparano le barche sul molo, di resina profumata di pini marittimi che, nelle tue narici, si congiunge in un tutt’uno con l’odore delle stanze del pensionato gestito da suore in cui soggiorni e con i profumi che esalano dalle imposte verdi della finestra della loro cucina. Quando torni dalla spiaggia all’ora di pranzo – affamata, affamata! – quegli aromi ti raggiungono sul marciapiede prima ancora di arrivare al portone d’ingresso.
La sua voce ti riporta al presente. “Guarda cosa ti ha cucito la zia”.
Un vestito nuovo, per te, per andare al mare. E’ bellissimo.
Le dita si cercano, devono tenersi, subito, perché questo è troppo.
Il vestito è a quadrettini bianchi e rossi, ha le maniche corte e una gala sulle spalle, una striscia increspata di stoffa che, ne sei sicura, se corri si muove.
La guardi. Le apri sul volto un sorriso che non dicono le labbra, ma tutto ciò che sta loro intorno. Anche lei ti guarda. “Vediamo se ti sta bene”.
Un salto nei respiri, un vuoto, una mancanza d’aria che recuperi mentre alzi le braccia e lasci che la stoffa vi scorra sopra. Le sue mani ti aiutano a farla passare dalla testa, te la modellano intorno al corpo, tirano il tessuto davanti e poi dietro.
Alla fine chiude la cerniera che non si vede, ben nascosta su un fianco.
Veloce, quasi brusca, ti rimette le forcine nei capelli e ti lascia lì, davanti allo specchio lungo dell’anta centrale dell’armadio, mentre corre in cucina a mescolare la pomarola.
Ti guardi.
Anch’io, dal futuro lontano, da un tempo che neanche puoi immaginare, ti guardo.
Il tuo aspetto mi riempie di tenerezza, vedo i tuoi occhi che imprigionano l’esplosione di gioia per quel momento troppo carico di quello che c’è e di quello che sta per avvenire.
Nel fondo, in quell’abisso che contiene le orme dei passi che farai, scorgo quella preoccupazione che le tue mani stentano a frenare, attanagliate ai lembi del vestito.
E’ piena di domande, quell’ombra che appanna la trasparenza delle tue pupille scure.
E’ proprio questo che la mamma vuole? Che tu stia lì con quel vestito indosso, davanti allo specchio, in attesa che lei ritorni?
E’ così bello quel vestito nuovo, cucito per te, solo per te, che le domande ti assillano.
“Me lo merito?”, “La mamma davvero me lo farà indossare?”; e con le domande, i buoni propositi. “Devo stare attenta, non lo devo sporcare, non lo devo rompere o sciupare”.
E poi quella partenza, che solo a pensarci ti si infrange il cuore.
Il mare, domenica, ma quando è domenica?
Ti guardo, e dall’oggi distante da cui ti osservo, so che continuerai a cercare risposte
per quelle domande che non ti lasceranno mai, neanche quando sarai diventata grande.
So che per te ogni momento di gioia conterrà un’ansia sottile che ti farà muovere le dita, come se le tue mani si cercassero, come se le volessi intrecciare.
Trailer di vecchiezza
Gracile, incurvata, ripiegata su di sé. La guardo e di lei mi colpiscono soprattutto le mani, dove il tempo ha seminato chiazze di vecchiezza, dove la cute si scolla e si ripiega sovrabbondante, come stoffa in eccesso. Abbiamo sempre avuto mia madre e io, delle mani asciutte, dita affusolate, lunghe, non interrotte da nodosità. Anno dopo anno le sue mani sono andate assumendo l’aspetto di rami rinsecchiti, artigli spesso preda di tremori incontrollabili. La vista di quelle mani mi scatena fiumi di pena, mista a risentimento per lei che si permette di invecchiare, non mantenendo le promesse: una madre è per sempre.
Entrambe osserviamo quei tremori di sfuggita, come ladre, l’una colpevole di vecchiezza, l’altra di scarsa compassione. In realtà il suo tremore non é venuto con l’età, c’é sempre stato in quelle mani, quando l’emozione eccede il recipiente del cuore. Lei la chiama emotività, quella stessa da cui sono fuggita infilandomi in una professione dove per l’emotività non c’è spazio, concedendo all’emozione altre rappresentazioni.
La guardo, le mani in grembo, l’una sull’altra serrate a pugno per nascondere il tremore, tradita dal labbro superiore che si increspa appena appena. Guardo quella donna innegabilmente vecchia che é mia madre, che regge ormai a fatica il bagaglio dei giorni, abdicando spesso anche alla dignità minima del tenere per sé ciò che andrebbe celato.
Ha sempre avuto un’innata abilità nello svuotare il suo zaino addosso a me bambina, a me ragazza, a me a mia volta madre e ora donna più che adulta. Da sempre mi presto a essere il setaccio delle sue ansie, della sua angoscia, del suo terrore di invecchiare e di morire, fino ad abitare le sue paure, a svegliarmici dentro il mattino.
Mi lascio trapassare dalle sue parole lamentose, ne filtro la paura e gliene restituisco di chiare, trasparenti, piene di speranza. Ho ingoiato i bocconi amari delle sue rughe, delle sue rare patologie, della sua solitudine. Trascinata fuori da me, mi sono allenata alla vecchiaia e alla decadenza di corpo e mente, in un trailer ripetuto all’infinito. Per interposta persona, ho già sperimentato il collare di rughe sul collo, le chiazze di pigmentazione cutanea, i dolori articolari al punto di stupirmi quando lei mi butta lì l’impietosa previsione mista a minaccia e a vendetta di quel “Vedrai come è difficile invecchiare!”, senza vedere che sono già vecchia per osmosi, per il principio dei vasi comunicanti, parte degli anni e degli acciacchi materni mi appartengono, li sento nel corpo.
Eppure questa è la madre che mi sommergeva di fotografie fin dalla nascita, documentando ogni mio impercettibile cambiamento nel mirino della macchina fotografica, intercettando le mie prime, smorfie. E’ questa la madre che non sapevo lasciare sulla porta della scuola materna, che attendevo per ore sola, senza giocare, senza mescolarmi con gli altri bambini, seduta sulla panchina rossa nel cortile della scuola. E’ questa la madre che mi mancava fino a togliermi il respiro in colonia in montagna, quando tutte, proprio tutte le sere piangevo e mi struggevo nella nostalgia… E’ questa la madre che se ne stava seduta facendo la maglia mentre ripetevo gesticolando per casa il nome di ossa e muscoli prima dell’esame di anatomia, che mi ascoltava o fingeva di farlo, presente, silenziosa, pronta a caricare la caffettiera al primo intoppo.
A volte mi drappeggio intorno agli occhi una raggiera di rughe, così per prenderci ancora più confidenza, per portarmi avanti. Quelli sono i giorni in cui riesco a provare pietà per me stessa, a intravvedere la fatica inutile, dietro i pensieri che si snodano nel cervello di una brava figlia.
La guardo mentre preda di un’ansia nuova, rifiuta di governare la paura e si abbandona al flusso di emozioni infantili che snocciola come i grani di un rosario, sicura che parlandomene se ne libererà. E’ così che funziona fra di noi fin dalla mia infanzia: lei apre il pozzo delle sue angosce, le sue parole si gonfiano come vele e fluiscono nel fiume dei miei giorni, da tempo immemore. E io, che ho anticipato il tempo, che ho superato in corsa la mia vecchiaia con la sua, non posso che diventare sempre più abile a portare pesi, inarcando un po’ la schiena, sempre più curva sotto una gerla altrui eppure mia.
La ricordo seduta sul bordo del mio letto quando un amore adolescente svaniva, pronta all’ascolto, sempre attenta, mentre mi pronostica una vita meravigliosa e si butta a cucinare un budino che divoriamo. Le sue parole sapevano attenuare dolori, aprire varchi in terreni aridi, pur nell’incapacità di gesti, nella negazione di abbracci o di baci. La fisicità le è sempre stata preclusa, il suo campo da gioco erano le parole.
La sento cantare canzoni d’amore in macchina o mentre camminiamo in montagna o accennare qualche aria della Carmen o della Traviata nei rari momenti in cui il dover essere si assopiva.
Ma anche allora, quando la vicinanza pareva intimità, sapeva brandire con arte l’arma invisibile del ricatto. Con fine intuito sapeva portarmi lì dove lei credeva dovessi stare, al punto da annebbiarmi completamente la vista, da trafugare il mio sentiero di soppiatto, aprendo il sipario su una strada asfaltata a doppia corsia di suo gradimento.
A volte la sento affannarsi a frugarmi nell’anima con il chiaro intento di rubare, non so bene cosa, forse quello che lei crede essere la mia riserva di vita cui potrebbe attingere senza riserve, se questo fosse decoroso. Detesto la sua rapacità celata in quell’aspetto inoffensivo che trattiene gli artigli, nella finta debolezza di una donna che non si è mai piegata e neppure flessa per un istante, ben concentrata su una bussola costantemente orientata verso di sé.
Le telefono da Maidstone, al primo anno di università, spaventata dalla mia disavventura britannica, nella speranza che mi richiami, che mi riaccolga a casa. E invece lei fa leva sul mio desiderio e mi spinge nelle fauci di Londra, dove sogno di andare da anni. Infonde fiducia nelle mie vene, mi garantisce che ce la posso fare, che devo solo allungare una mano e aprire le dita. E’ lei, più di mio padre, a farmi udire il richiamo del mondo, a sostenere la mia fuga, a dare voce alla mia inquietudine. Londra la devo a lei. A lei devo dunque anche l’uscita da casa, pur nel suo confuso tirare e mollare l’elastico della mia adolescenza.
Derubata, quando la guardo, istintivamente tendo a rannicchiarmi ancora di più in me stessa, immergendomi sempre più a fondo per non essere catturata dalle sue dita lunghe.
E’ in quei momenti che percepisco la sua volontà di trascinarmi con sé fino alla morte, oltre la morte, non per amore ma per non essere sola, per attenuare il suo terrore, per conservarmi come devoto balsamo filiale. Saprò sottrarmi quando sarà il momento o mi lascerò scivolare, ancora incapace di frapporre qualche centimetro fra di noi?
Con stravagante ingenuità provo a mettermi contro il suo tempo, contro il tempo, con i talloni puntati. Provo a lasciare emergere il buono che so esserci stato. La rivedo che mi fa compagnia ad ogni ciclo di chemioterapia, quando i farmaci inondavano di gelo le mie vene e cominciavo a battere i denti. Eccola che si alza, si procura un’altra coperta e mi asciuga il sudore freddo dalla fronte, senza una lacrima, lei che piange per nulla. Durante la mia malattia non ha mai ceduto in mia presenza, si è presa cura di me senza battere ciglio, come fosse stata certa delle mie chances, come se la mia sopravvivenza non fosse mai stata in dubbio. Lei, terrorizzata dalla sua morte, sedeva accanto alla mia con dignità, con fiducia, come un soldato al fronte, certo della vittoria.
Mi impegno a scrollarmi di dosso il risentimento e le antiche pendenze. E’ vecchia e a una vecchia non si fa la guerra. Semplicemente la si digerisce così, la si accudisce, la si sopporta clementi.
Ma la clemenza mi fa difetto e inciampo, riluttante, nelle mie stesse acrobazie scomposte. Sento il frastuono dei suoi ferri da calza che incrociano la falce della Grande Signora. So che si sta allenando al grande passo, ma il rovescio delle sue paure ha un sapore troppo amaro. Come un’attrice prima del debutto si sforza di contenere l’angoscia, nella vana ricerca di un appiglio, di un senso, di una seppur minima speranza. Interroga tutto e tutti: Dio, la scienza, il delirio ed ovviamente me che imbastisco balbettii compassionevoli che sopravvivono giusto una sera.
Nel suo inespugnabile tormento, vive nel terrore di quella prova suprema, di quel torrente che la porterà via e che percepisce vicino almeno da trent’anni, senza neppure il buon gusto di vedere che gli unici piedi che lì si sono immersi sono stati i miei.
Forse questo non lo può guardare, forse per una madre la morte di una figlia risulta così intollerabile da non poterla neppure sfiorare con il pensiero. E il suo amore materno non lo posso mettere in dubbio. Ma l’amore materno ha mietuto non poche vittime.
O forse è ancora lei al centro del suo mondo e del mondo intero. Forse invecchiando il mondo si restringe fino al cerchio che le proprie braccia possono disegnare intorno al corpo e quello diventa l’unico mondo visibile, la patria.
Il rancore si tende dentro di me come la corda di un arco, pronto a scoccare una freccia che non partirà, che non saprà ferirla, che non potrà difendermi. Le sue narici fremono nella sua quotidiana questua e lei annaspa in attesa che io spalanchi il mio cuore pavido e alleggerisca la sua ansia di oggi. Ma un muro sottile e trasparente si erige fra di noi, la mia volontà recalcitrante temporeggia, sta a guardare e la mano resta in tasca.
Il suo collo si inclina, sinuoso come un rettile, in quella postura sofferente che chiede la pietà che oggi stento a concederle, finché mi accascio esausta e offro i padiglioni auricolari che non riesco a scollegare dall’anima, alle sue lagnanze di oggi. Mi sforzo di ascoltare senza sentire, di anestetizzarmi saggiamente, come non ho mai saputo fare. Intercedo per me stessa e cerco di essere un vaso bucato sul fondo, da cui transitano le sue parole senza lasciare impronte, senza ferire, senza incidere ricordi. Fingo che non si tratti di mia madre ma del racconto di una paziente senza nome, cui non devo nulla se non un’empatica accoglienza. Provo a mettere distanza fra di noi a escogitare la giusta postura.
Sono in piedi sul tavolo della cucina mentre lei appunta gli spilli all’abito rosso che indosserò per la mia prima festa. Come tante altre volte, lei maestra, si cimenta con ago e filo e ne tira fuori capi graziosi che io indosso dall’infanzia all’adolescenza e anche oltre. La vedo china con gli spilli incautamente fra le labbra, che osserva prima l’orlo e poi l’insieme del vestito, visibilmente soddisfatta di sé. Così come quando finisce un maglione da sci stile jacquard, con le renne e i pini colorati che mi terrà caldo sulle piste.
La guardo con sconforto mentre, dimentica di me, incurante delle ferite che si producono sul mio corpo, versa i suoi fluidi, incontinente. Sento la sua fame di vita, della mia vita. La vedo mentre scavalca la montagna della sua paura attraverso il mio ascolto, grazie al mio orecchio, al mio timpano a brandelli. La osservo mentre si accarezza l’anima ormai rassicurata, riorientata nel suo tramonto.
Ora mi corregge i compiti e con la testardaggine della maestra mi convince a riscrivere tutto da capo, in bella calligrafia, ad essere brava, sempre più brava. Lei che la scuola ha dovuto implorarla con le lacrime, vuole che io studi, che ottenga ottimi risultati, che realizzi sogni…. io che posso.
Asciutta, scattante, angolosa, con quel che di arrogante sul fondo, quello sprezzo simil nobiliare che segna come un marchio le donne della sua stirpe confligge con l’immagine di madre accogliente, magari un po’ grassottella, rassicurante, avvolgente, silenziosa, serena che un tempo, nella furia di guadagnarmi un posto nel mondo, avrei liquidato come remissiva e scialba.
Ogni giorno mi presidio e mi propongo di non concedere nulla al suo crepuscolare lagnarsi e ogni giorno le consento di infilarsi nel mio spazio intimo, suo luogo d’elezione, melliflua, spargendo germi che non so arginare. Allora divento ostile, carica di una rabbia impotente che si spegne in tristezza.
Ed ecco che lei, eludendo il mio sguardo, fa la sua mezza giravolta e, come se avesse parlato di cucina, con il suo sguardo sicuro, intavola una chiacchera sull’opportunistico nulla quotidiano.
Sopporto il mio castigo consolandomi al pensiero che di lei conosco anche il non detto mentre lei di me sa poco e nulla. Ma non basta per continuare a fare da materasso delle botte.
Cerco di guardarmi come potrebbe vedermi un altro, di pensare ciò che un estraneo penserebbe di una donna attempata ancora ostaggio di sua madre. Ma ho troppa intimità con me stessa per potermi guardare a distanza. Un accenno di sorriso sghembo si fa strada al pensiero che lo faccio per lei, nel disonesto tentativo di spacciare per amore filiale l’incapacità di difendermi, di mantenere una distanza di sicurezza.
Ma nelle sue mani legnose affondano le mie radici, in quella terra scura in cui ha germogliato l’algida donna che è stata sua madre e l’austera vecchia che è stata sua nonna. Una genealogia femminile così poco femminile, orfana di dolcezza, incapace di carezze, maestra di regole, di sobrietà e di decoro. Quanto di quelle donne arcigne scorre nelle mie vene? Quali angoli mi è stato consentito smussare e quante le timidezze e le ritrosie che ho potuto solo sopportare?
I miei rami si allungano verso l’azzurro dove le mie figlie germogliano, stupende nella loro sfaccettata trasparenza. Quanto so di loro? Quanto sanno di me? Quanti baci ho saputo concedere e quanti negare?
Quanto ingombrano nei loro giorni le mie radici, quelle di mia madre, di mia nonna e di sua nonna? So per certo che di queste radici hanno consapevolezza e questo per ora mi basta.
Cerco di mettere la sordina ai ricordi ma lei compare sugli sci con il suo pullover azzurro cielo, o mentre cammina sui pendii di montagna o distesa al sole come una lucertola, o impegnata nel vano tentativo di imparare a nuotare. Eccola che sfodera la tovaglietta a quadretti bianca e rossa sul tavolino da picnic issato sulla neve. Ecco noi bianchi e rossi dalla fatica che ci godiamo le tagliatelle al ragù al sole d’inverno. E poi ancora neve, ancora sci e freddo secco sul viso e sole e tutto il bello e il buono dell’esser bambini.
Cerco le mie tracce mentre mi appoggio con i gomiti alla mia immagine sbiadita, tiepida e priva di coraggio, smentendo la mia propensione al taglio. Nel mio corpo si fa strada un’eco che non so decifrare ma che si sente sul fondo mentre increspa le onde, lì dove i sospiri si fanno supplica. Vado a caccia di vento e osservo il mio inutile insabbiarmi nell’autobiografia, in un’epoca del mio vivere che dista millenni dall’infanzia e che non mi dà titolo di appellarmi ad un’allora paleolitico.
Provo ad archiviare ciò che è stato, a interrompere quell’insensato ricordare, interrogare, attribuire responsabilità e meriti che non mi porterà da nessuna parte. Non ci sono matasse da sbrogliare, bisogna lasciare tutto lì dov’è, prendere quel denso magma che chiamiamo passato e metterselo in tasca, tenerlo lì senza continuare a stuzzicarlo a tormentarlo. Tenerlo lì con le sue grinze, con le sue spine e i suoi arcobaleni, a contatto con il corpo da cui non può separarsi.
Con mansuetudine, il mio cuore invertebrato e polveroso arrotola le mie scintille di irritazione, il mio impotente nervosismo che si distende come ragnatela sulle sue parole e sulla mia fiacca rinuncia a tenermi presente a me stessa. Liquido sommariamente le mie perplessità in un ennesimo avvitamento, amputando le mie possibilità di oggi e forse anche quelle di domani, nell’estremo tentativo di uscirne viva.
Cerco in me il perdono, per lei e per me. Cerco un po’ di tregua, provo a raschiare via gli strati di rancore dall’anima, a lasciare andare, prestando ascolto ad altro, nella ricerca di quel grembo che ho abitato, di quel confine incerto fra il nascere e il morire, in quel tempo irrecuperabile alla memoria in cui il suo desiderio mi ha messa al mondo.
Ma i nodi non si sciolgono nel mondo visibile e, nel mio confuso annaspare, cerco un ormeggio in quel miscuglio di bene e di male, di tentativi e di rinunce, arrendevole come l’acqua. Ascolto il risuonare del silenzio, guardo il disordine del mio presente, il mio quotidiano scacco totale. Lascio emergere la mia opacità impermeabile che per ora posso solo osservare.
Cerco in qualche mio doppio fondo un po’ di compassione per lei, per me, mentre sento la sua vita gocciolare via, e con la sua la mia.