Un vitalismo disincantato

Jón Kalman Stefánsson, La tua assenza è tenebra, Iperborea 2022 (pp. 608, euro 21,50)

Un uomo che non ricorda più nulla di sé, una donna che sembra riconoscerlo, come tornasse da un lungo viaggio che l’ha tenuto lontano, forse, dal suo amore… Ma non c’è da illudersi: dopo questo inizio, che potrebbe essere quello di una narrazione come tante, lineare nel suo svolgimento, la trama si complica in una miriade di vicende, racconti e racconti di racconti che non solo hanno protagonisti diversi ma si dispongono in momenti diversi entro un arco di un paio di secoli, e ritornano su sé stessi per procedere, a distanza di pagine, non in sequenza ma secondo un tracciato a spirale che, appunto, contempla riprese e avanzamenti. Non sembra curarsi, lo scrittore, della fatica che chiede al lettore, tranne che in qualche raro caso nel quale lo avverte (o avverte sé stesso?): “fermati un attimo, perché qui c’è un intoppo, una storia, un destino, e per questo abbiamo bisogno di tornare indietro, nel passato (…). Torniamo indietro nella speranza di comprendere meglio, di orientarci meglio. Quindi rallenta. O meglio: rallentiamo il tempo. Altrimenti non si può raccontare”.

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Luoghi piante animali uomini / Piera Ventre

“La tartaruga si era ritratta nel suo guscio e (…) poteva assimilarsi a un sasso, un grosso sasso dai colori accesi. Come può un essere vivere in una pietra? mi stupii, come se per la prima volta ci pensassi. Tuttavia, pure pensai che forse l’unico modo autentico per abitare veramente fosse quello che passava attraverso una costruzione attiva. Come gli antenati, i primi uomini che cercarono un asilo, avremmo dovuto saperci costruire una capanna per dirci realmente a casa. E quella tartaruga nel suo guscio, ossa e nervi, sangue e linfa, con gli organi adesi alla corazza, ne era la prova più evidente. Un corpo che si faceva abitazione, un edificio vivente che si sarebbe dissolto con la dissoluzione del suo unico abitante”.

La felicità: un desiderio, non un dovere

Marco Balzano, Cosa c’entra la felicità? Una parola e quattro storie, Feltrinelli 2022

“Un racconto sulla felicità e sul potere che possiede di condizionare ogni istante della nostra vita” a partire dalle “immagini originarie che indicano la felicità” nelle lingue che l’autore conosce o sente comunque vicine (greco, latino, ebraico, radici della civiltà occidentale, e inglese, “codice universale del nostro tempo”), e l’etimologia come fecondo punto di vista critico che collega tempi diversi e come strumento per contrastare il deterioramento della lingua, e quindi del pensiero. Questo il programma di lavoro che Balzano si è posto per sondare una parola che è “forse la più soggettiva del vocabolario”, diversa da persona a persona ma anche nelle età della vita “perché a cambiare siamo prima di tutto noi con il nostro orizzonte di desiderio”. Unica invariante: tutti vogliono essere felici.

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Oggi, domani / Slavoj Žižek

“(…) il riscaldamento globale e altri problemi del pianeta sono diventati invisibili. Potremmo perfino dire che le nuove guerre non ignorano semplicemente il riscaldamento globale e altri problemi del pianeta, sono semmai una reazione ai nostri problemi globali, il ritorno a una «normalità» perversa delle guerre. L’idea è: va bene, si prospettano tempi difficili, allora assicuriamoci una posizione forte per sopravvivere meglio degli altri alle sfide che verranno. Il momento che stiamo vivendo quindi non è il momento della verità, quando le cose diventano chiare, quando si riesce a intravedere distintamente la contrapposizione di fondo. È il momento della menzogna più profonda”.

Il Nord e il Sud di ogni scrittore

Ian McEwan, Lo spazio dell’immaginazione. Riflessioni sul saggio di George Orwell Nel ventre della balena, Einaudi 2022, (pp. 48, euro 12)

Un’altra prova, questo piccolo libro, di che cosa ci riservano i grandi scrittori – lo abbiamo verificato ad esempio leggendo i saggi critici di Gianni Celati, in queste note a fine marzo 2020 – quando parlano, come Calvino sapeva fare da mestro, dei libri degli altri.
Quelli di Henry Miller e George Orwell, nel caso di McEwan.
“Nonostante una buona dose di reciproca ammirazione, i due autori non pensavano allo stesso modo su molte cose”. Il bohémien pessimista e edonista “nutriva un profondo disprezzo per la politica e ogni genere di militanza”: “era, per usare la definizione di Orwell, “nel ventre della balena”, “con metri di grasso” che mettono al sicuro dal mondo, una condizione dalla quale l’inglese era “uscito da un pezzo” impegnandosi “nella causa antifascista [in Spagna] e nella lotta contro l’ingiustizia sociale nel suo Paese”.
Nel loro incontro, nel dicembre 1936, a Parigi, Orwell si dichiara convinto che “libertà e democrazia garantivano l’indipendenza dell’artista – compresa quella di Miller”. Questi, convinto che “la civiltà moderna fosse agli sgoccioli”, riteneva considerazioni del genere solo “fesserie”. Eppure i due si stimano, e Miller regala a Orwell, in partenza per la Spagna, una giacca. Quasi un anticipato contraccambio della tesi che quattro anni dopo l’autore di Omaggio alla Catalogna avrebbe espresso: “a Miller doveva essere riconosciuto il diritto di rifiutare, come artista, l’impegno politico”.

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Il tempo, la vita, gli altri / Julian Barnes

“Ci incoraggiamo a vicenda al raggiungimento del paradiso profano e moderno dell’autorealizzazione: lo sviluppo della personalità, le relazioni che contribuiscono a definirci, la professione che ci garantisce uno status, il possesso di beni materiali, l’accumulo di prodezze sessuali, la pratica sportiva, il consumo di cultura. Tutto contribuisce alla nostra felicità, non è così? – o no? Questo è il mito che ci siamo scelti, ed è tanto illusorio quanto quell’altro che prometteva appagamento ed estasi quando la tromba del Giudizio universale avesse suonato (…)”.

Ogni cosa ha la sua fine, niente è per sempre

Kader Abdolah, Il faraone d’Olanda, Iperborea 2022 (pp. 288, euro 17,50)

La narrazione procede con il passo dei due anziani personaggi, un professore e un operaio. Il primo è un insigne egittologo olandese che dopo aver indagato per una vita sul lontano passato ha perso la memoria, ma non del tutto: non ricorda il proprio nome ma lo pseudonimo che aveva adottato; durante le sue quotidiane uscite non di rado si perde e dev’essere riportato a casa, ma non ha dimenticato nulla di ciò che riguarda la mummia che, non saprebbe dire come portata con sé dagli scavi in Egitto, conserva nella propria cantina; stenta a riconoscere anche le persone va lui vicine ma ha mantenuto l’ormai antica consuetudine con l’operaio – ecco il secondo personaggio, vero protagonista del romanzo – che gli aveva molti anni prima portato a casa una lavatrice, uno dei tanti gastarbeiter emigrato dalla terra delle piramidi in Olanda, il quale, rispolverando un’abilità acquisita nell’infanzia, ha negli anni dipinto i muri della cantina dello studioso facendone una perfetta imitazione d’una tomba faraonica.

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La non appartenenza dell’intellettuale pubblico

Tomaso Montanari, Cassandra è ancora muta, Edizioni Gruppo Abele 2022 (pp. 176, euro 14)

“Un libro dedicato al silenzio del pensiero critico nell’Italia di oggi”. La quale non è cambiata da quando è stato pubblicato la prima volta, per vedere adesso, a cinque anni di distanza, questa nuova edizione. Anzi: la pandemia e poi la guerra lo hanno zittito ulteriormente, com’era accaduto a Cassandra, condannata a vedere il futuro senza mai essere creduta. Come accade all’“intellettuale pubblico”, studioso che accumula conoscenza ma “vuole rimanere nel mondo, e condividere quella conoscenza con tutti”, senza rinchiudersi nella visione ristretta e alla comunicazione circoscritta cui costringerebbe la specializzazione, accettando piuttosto la non appartenenza, la “solitudine di chi dice la verità”. Se affermazioni del genere possono destare il sospetto di trovarsi di fronte all’ennesimo capitolo dell’eterno “dibattito tra intellettuali sugli intellettuali”, come diceva Norberto Bobbio, è dallo stesso che Montanari trae la sua “bussola”: “il primo compito degli intellettuali – scriveva infatti Bobbio – dovrebbe essere quello di impedire che il monopolio della forza diventi anche il monopolio della verità”.

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La nuova bussola del mondo, finanziaria e tecnologica

Maria Rosaria Ferrarese, Poteri nuovi, il Mulino 2022 (pp. 172, euro14)

Un libro che vuole “dare conto di una doppia dinamica avvenuta negli ultimi decenni del ’900: un trasloco e una metamorfosi del potere”, l’affermarsi di poteri nuovi che oggi governano il mondo. E questo proprio mentre la guerra in Ucraina “si presenta come una forma di violenta irruzione, proprio nel cuore dell’Europa, del potere nella sua forma più arretrata”, tale da minacciare “la narrazione di un mondo interconnesso e pacificato” nel segno della globalizzazione. “Saranno i prossimi mesi e i prossimi anni – riconosce limpidamente l’autrice nella premessa – a stabilire quanto reggano le coordinate adottate in questo libro”. Tra le quali una constatazione fondamentale: lo “scivolamento [del potere] – dagli anni ’80, “in un mondo che mancava di infrastrutture fisiche e giuridiche per far funzionare un’economia globalizzata” – verso il privato e la coincidenza con forme finanziarie e tecnologiche.

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Oggi, domani / Luigi Ferrajoli

“Dobbiamo evitare il pessimismo disfattista e paralizzante, destinato a convertirsi nella rassegnata accettazione dell’esistente. Senza la speranza di tempi migliori, scrisse Kant, un serio desiderio di fare qualcosa di utile per il bene generale non avrebbe mai eccitato il cuore umano. Giacché la speranza nel progresso [sociale e civile] forma il presupposto dell’impegno morale e di quello politico, e si oppone perciò all’accettazione passiva di quanto accade o non accade. Questa speranza non è il frutto di un generico ottimismo. Essa si fonda sulla ragione, cioè sulla convinzione che la soluzione dei problemi globali dipende dall’espansione a livello sovranazionale del paradigma garantista e costituzionale e dall’unificazione, a tal fine, delle energie e delle passioni di tutti gli esseri umani intorno a battaglie comuni, contro minacce comuni, per la salvezza comune”.

Una specie incapace di imparare dai propri errori

W.G. Sebald, Tessiture di sogno, Adelphi 2022 (pp. 243, euro 19)

“L’inconfondibile figura del viandante solitario che si guarda d’attorno”: Sebald pensava a uno scrittore con il quale si è per molti versi identificato, Robert Walser, quando scrisse – in Soggiorno in una casa di campagna – che era la sua immagine a tornargli alla mente appena sospendeva per un attimo il suo lavoro quotidiano, ed è appunto la figura del viandante che ci conduce, nella prima parte di questo libro, a visitare luoghi, come sempre nei viaggi di Sebald fuorimano, della Corsica. Luoghi scelti per la rispondenza con il proprio stato d’animo, in questo caso la “sensazione di essere libero e senza legami”, “senz’altra occupazione sino alla fine della vita se non lo studio del tempo: del tempo passato e di quello che passa”: un definizione sintetica del tema, della ragione stessa, della scrittura di un autore che del tempo – nella duplice accezione segnalata – , della memoria e della storia, dell’osservazione disincantata e critica di ciò che si definisce contemporaneo ha fatto lo scopo del proprio lavoro.

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L’incerto confine tra gli animali e gli uomini

Bernardo Zannoni, I miei stupidi intenti, Sellerio 2022 (pp. 248, euro 16)

Vivono in tane arredate come appartamenti, cucinano, allevano galline e coltivano l’orto, parlano e, in alcuni casi, scrivono. Ma non sono gli animali del tutto umanizzati di Disney, né sono – come nella Favola selvaggia di Filelfo – portatori di una saggezza che gli uomini dell’Antropocene hanno perduto. E neanche, pur essendo caratterizzati secondo i clichés tradizionali – a partire dalla volpe, che non può che essere la più furba – sono ridotti a rappresentanti delle doti e dei vizi degli uomini. Zannoni non è Fedro. I suoi animali restano animali e il gusto della narrazione prevale su ogni possibile morale della favola. Che pure non manca, ma resta ancorata a una domanda che, per quanto non esplicitata, percorre il romanzo e riguarda la pretesa certezza che un confine netto distingua gli animali dagli uomini. Sono numerosi gli episodi nei quali il protagonista – Archy, una faina – si pone la questione. Quando, per esempio, non acconsente alla proposta del fratello maggiore di rispondere alla loro disperata fame divorando il più piccolo e debole di loro e ne deve quindi trarre una prima, decisiva conclusione: “Da lì cominciai a capire che fra me e Leroy c’era una leggera, orribile differenza: era più animale di me”.

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Quel nodo saldissimo fra soldati e operai

Vasilij Grossman, Stalingrado, Adelphi 2022 (pp. 889, euro 28)

Non credo sia capitato solo a me di rimandare la lettura di questo romanzo, una volta che me lo sono trovato fra le mani: inondati come siamo da mesi di notizie sulla guerra in Ucraina, l’idea di ritrovare in un libro altri racconti di violenza e distruzione e persino nomi di luoghi, di città e di oblast, come abbiamo imparato a dire, che la cronaca ci ha reso quasi familiari, mi ha consigliato di posticipare l’impresa. Perché di un’impresa si tratta: se non si è lettori di fantasy, non capita spesso di cimentarsi con opere di questa mole. Sono però bastati un assaggio, poche pagine, e la renitenza è caduta: non è semplicemente la storia a sgombrare da subito il campo dalla cronaca, ma la letteratura. Quella che sa restituirci con immediatezza le figure dei personaggi che, come si dice, la storia l’han fatta: Hitler e Mussolini, dunque, che si incontrano a Salisburgo a fine aprile, nel 1942, e il primo annuncia al collega “l’ultimo, decisivo attacco all’Unione Sovietica”.

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Scrivere, leggere / Fernando Aramburu

“Proseguo nella mia campagna di spargimento di libri per la città. Sugli scaffali cominciano a formarsi dei vuoti. Verifico che, a mano a mano che la biblioteca si riduce, mi fa meno male separarmi dai libri, perfino da quelli che in un dato momento hanno avuto per me un significato speciale. (…) A che scopo ho letto tanto? Da cosa mi hanno salvato i libri? So benissimo che non mi hanno salvato da nulla: ma in qualche modo bisognava riempire il tempo e dare adito alla speranza di capire, di mettere insieme una manciata di conoscenze e, con un po’ di fortuna, di ampliare il mio orizzonte vitale”.

Condominio Futura

Dopo Sentieri in città, le nuove storie di Alfredo che, con la sua ironia bonaria, venata di un umorismo spesso involontario, si fa osservatore attento e partecipe  delle vite degli altri che abitano il suo stesso condominio, o che lo abitavano, e hanno lasciato dietro di sé ricordi che alimentano, nel protagonista, riflessioni disincantate.

Sono passati alcuni anni e Alfredo, il pensionato flâneur che abbiamo già conosciuto nei racconti di Sentieri in città, ha limitato le sue passeggiate quotidiane ai dintorni del condominio in cui abita, ma sono proprio gli inquilini degli altri appartamenti e le loro storie a richiamare la sua attenzione e, spesso, a coinvolgerlo in vicende impreviste. Come quella della scrittrice, a lungo anonima, di racconti che – dietro l’ispirazione letteraria che il professore, amico di Alfredo, sa cogliere – mettono in luce le vicissitudini di coppie che non è difficile identificare fra i vicini.

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Oggi, domani / Salvatore Quasimodo

“UOMO DEL MIO TEMPO / Sei ancora quello della pietra e della fionda, / uomo del mio tempo. Eri nella carlinga, / con le ali maligne, le meridiane di morte, / t’ho visto – dentro il carro di fuoco, alle forche, / alle ruote di tortura. T’ho visto: eri tu, / con la tua scienza esatta persuasa allo sterminio, / senza amore, senza Cristo. Hai ucciso ancora, / come sempre, come uccisero i padri, come uccisero / gli animali che ti videro per la prima volta. / E questo sangue odora come nel giorno / quando il fratello disse all’altro fratello:  / «Andiamo ai campi». E quell’eco fredda, tenace, / è giunta fino a te, dentro la tua giornata. / Dimenticate, o figli, le nuvole di sangue. / Salite dalla terra, dimenticate i padri: /le loro tombe affondano nella cenere, / gli uccelli neri, il vento, coprono il loro cuore”.