Non fare resistenza al tempo che passa

È morto Gianni Celati, la notte fra il 2 e il 3 gennaio.
Ne rileggiamo qualche pagina, un modo per dargli un saluto.
Una delle prime fra queste Note di lettura (all’inizio del febbraio del 2016) segnalava l’uscita del Meridiano che raccoglie romanzi, cronache e racconti dello scrittore. Fra questi, Verso la foce, del 1989:

“Quand’ero giovane, leggevo sempre, avevo paura di perdermi qualcosa. E adesso ho l’idea che il perso e il trovato vadano nello stesso alveo.
Forse l’unica cosa da capire è quanto siamo estranei e inadatti alla ‘vita piena di pena’, l’unica che c’è (calamità, dolore, morte). E come tutto lavori a dismemorarci, ci aiuti a mettere degli argini, per poter dire che ‘ha i suoi lati buoni’ (…); insomma per dire e mostrare sempre e dovunque che è una cosa tutta diversa da quello che è”.

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La penna e la pena

Elena Ferrante, I margini e il dettato, e/o 2021 (pp. 160, euro 15)

Richiesta di tenere tre lezioni sulla sua attività di scrittrice, la sua poetica, la sua tecnica narrativa, Elena Ferrante accoglie l’invito ma quello che offre, più che resoconto istruttivo o vademecum di raccomandazioni, è racconto: ci sono scrittori che non amano, o non sanno, parlare di sé, altri invece per i quali il loro scrivere è materia dello scrivere stesso. La Ferrante cita in proposito Beckett, ma quel che ne dice si adatta bene anche a lei: “È raro che chi dedica la propria esistenza alla scrittura non abbia lasciato almeno qualche rigo sull’io ficcato a forza in un angolino del cervello a far parole scritte. E non ho dubbi che in quelle righe non ci sia semplicemente una sorta di omaggio alla passione di scrivere, ma una porta o porticina aperta sul senso della propria opera, difetti e meriti”. Questo libretto è appunto quella porta, che ci fa entrare nella storia di una vocazione che si fa strada dal momento in cui la futura, potenziale scrittrice, mette a fuoco il fenomeno “sorprendente”, descritto da Svevo, per cui “l’io di chi vuole scrivere si separa dal proprio pensiero e, nel separarsi, quel pensiero lo vede” e si sente tenuto a metterlo sulla carta, o a cercare di farlo quantomeno, perché deve fare i conti con il fatto che “il presente – tutto il presente, anche quello dell’io che scrive, una lettera dopo l’altra – non ce la fa a trattenere con nitore il pensiero-visione, che viene sempre prima, che è sempre il passato, e che perciò tende a offuscarsi”.

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Vivere nel posto che ci fa felici

Paolo Cognetti, La felicità del lupo, Einaudi 2021 (p. 146, euro 18)

A quarant’anni Fausto lascia la città e torna alle montagne sotto il Monte Rosa, che conosce fin da ragazzino (starne lontano è probabilmente la causa dei “problemi con la donna che era diventata sua moglie”). E là incontra la titolare del ristorante del posto – “arrivata anche lei dalla città”, trentacinque anni prima –, che non tradisce il nome evocativo e promettente che si è scelta, Babette, e sa infatti “cercare soluzioni pratiche a problemi esistenziali”. Ne è assunto come aiutante in cucina, facendosi così, anche lui, una comparsa nel “travestimento collettivo” cui si prestano pastori e boscaioli diventando per tre mesi all’anno, durante la stagione sciistica, “macchinisti di seggiovia, addetti all’innevamento, gattisti e soccorritori”. Che cosa manca a questa favola alpina? Lei, la bella, ed eccola dunque: la ragazza che serve ai tavoli, “giovane, allegra, aria da giramondo”: “un segno dei tempi pure lei come le fioritura fuori stagione, o i lupi che si diceva fossero tornati nei boschi”.

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Luoghi piante animali uomini / Marco Aime

“Ogni società ha costruito una propria visione del mondo, una propria antropologia e in qualcuna di queste la natura non è al di fuori dell’umano, così come l’uomo è immerso dentro la natura. (…) Se ci può apparire bizzarra l’idea che le foreste pensino, è perché concepiamo il pensiero come una relazione convenzionale con il mondo”.

Oggi, domani / Valentina Pisanty

“Due fatti sono sotto gli occhi di tutti. 1) negli ultimi vent’anni la Shoah è stata oggetto di intense e capillari attività commemorative in tutto il mondo occidentale. 2) negli ultimi vent’anni il razzismo e l’intolleranza sono aumentati a dismisura proprio nei paesi in cui le politiche della memoria sono state implementate con maggiore vigore. Sono fatti irrelati, due serie storiche indipendenti, oppure un collegamento c’è, ed è compito di una società desiderosa di contrastare l’attuale ondata xenofoba interrogarsi sulle ragioni di questa contraddizione?

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Nostalgia della vita nella vita

François Jullien, La vera vita, Laterza 2021 (pp. 149, euro 18)

“La vita si restringe”, giorno dopo giorno, ma non è tutto qui: su di essa può a un certo punto gettare un’ombra il dubbio che non sia davvero vita. Anche se “tutti, chi più chi meno, facciamo in modo di andare avanti, come se non avessimo davvero provato questo dubbio”, senza tuttavia riuscire a dissipare una vaga, intermittente “nostalgia della vita nella vita”, la sensazione – del tutto fondata – che la vita non coincida con sé stessa, non si lasci “mordere, nella sua immediatezza presente”. Quello che non fa la vita cercano di farlo i romanzi, sforzandosi di “esplorare la vera vita”. La letteratura, non la filosofia che – in conseguenza dei “pregiudizi” affermatisi a partire dai Greci (dal privilegiamento dell’Essere rispetto al Divenire al principio di non contraddizione, fino a un mondo delle idee distinto da quello in cui viviamo) – “ha lasciato perdere il vivere” nella sua singolarità, nella ambiguità e nella contraddittorietà, nell’imprendibilità che lo costituiscono.

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Scrivere, leggere / Daniele del Giudice

“Il mestiere di scrivere per me non è un mestiere; sostanzialmente io non ho mai preso la scrittura come un mestiere. Anche se poi, in realtà, i miei redditi vengono da quello. Non lo penso come un mestiere non perché ci sia – per l’amor di Dio – un’ispirazione o qualcos’altro di astratto, solo che per me scrivere è un modo di vivere prima ancora che un lavoro. È una passione: il leggere prima ancora dello scrivere. Quando avevo undici anni, mi sono fatto un mio mondo, che non immaginavo certo di usare come lavoro. Era un mondo parallelo, di immagini e di racconti. Prima di morire, mio padre mi fece due regali: uno era una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana con la tastiera italiana; l’altro era una Bianchi 28, una bicicletta. Invece di andare a scuola, andavo con la bicicletta sulla statale Appia, e giravo i colli attorno a Roma.

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Il solitario sforzo di capire le cose di ogni giorno

Emanuele Trevi, I cani del nulla. Una storia vera, Einaudi 2021

La protagonista del romanzo – pubblicato la prima volta nel 2003 – la vediamo in copertina, fotografata dalla moglie dello scrittore, Martina. Le due danno vita con lui a un ménage à trois in cui, scrive Veronesi nell’introduzione, “Trevi è l’allievo; sua moglie è la compagna di banco; la loro cagnetta Gina, con le sue misteriose manifestazione di dio minore, è la maestra”. Alla quale sono riservati passi nei quali chi ha o ha avuto dimestichezza con un cane non può non riconoscere la propria esperienza: “Dormicchiava, la cagnetta; oppure, di quando in quando, ci guardava insonnolita dalle strette feritoie degli occhi semichiusi. Con un lievissimo movimento ad arco della coda, in quei crepuscoli fra sonno e veglia, confermava e testimoniava l’immenso, incrollabile, fanatico amore provato per noi: indiscutibilmente, i suoi padroni. (…) Concordi, io e mia moglie, la ignoravamo. Ma Gina non si scoraggia mai, non si offende mai”.

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La pietà e la colpa

Bohumil Hrabal, Io e i miei gatti, Guanda 2021 (pp. 180, euro 16)

“Io scrivo sempre di quelle cose straordinarie che mi sono capitate, e di quelle cose invidiabili che sono capitate agli altri. Per cui il mio punto di partenza è sempre qualcosa di autentico, all’inizio c’è sempre un avvenimento, un’esperienza. Ma il gusto che fa parte dell’essere umano non impedisce che io, con l’aggiunta di un po’ d’immaginazione, non riorganizzi in maniera diversa la successione dei fatti, e che quindi in quell’autenticità io non ci rovesci poi dentro il lievito di una fantasia che vada a precisare meglio i contorni, così come avviene col succo d’uva che si trasforma in vino, o il mosto in birra”.

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Luoghi dell’inaccessibile

Jazmina Barrera, Quaderno dei fari, La Nuova Frontiera 2021 (pp. 128, euro 15)

Un libro sui fari senza immagini di fari. Non uno dei tanti libri fotografici su queste strutture che sono luoghi, ma un libro di storia e di storie, di pensieri e divagazioni. In ciò accostabile a Il ciclope di Paolo Rumiz (Feltrinelli 2015), ma rispetto a quello più marcatamente segnato da digressioni autobiografiche e, soprattutto, considerazioni esistenziali. Storia dei fari per sommi capi, da quello di Alessandria che diede il nome a tutti gli altri a quelli moderni che non han bisogno di un uomo del faro. Storia dei fari ma anche dei loro guardiani quindi, della loro vita del tutto unica, di per sé generatrice di storie: “Nel confino del faro, il guardiano è come un naufrago. Naufrago per volontà propria. Che sia un uomo in fuga da un passato oscuro, da una delusione amorosa o ideologica, o in cerca di un rifugio nella solitudine fisica da quella che si porta dentro, il guardiano del faro sceglie il proprio esilio.”

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Un romanzo di formazione, tra Natura e Storia

Benjamin Myers, All’orizzonte, Bollati Boringhieri 2021 (pp. 239, euro 16,50)

La guerra, la seconda guerra mondiale, è finita, ma è come una malattia – per alcuni “curabile solo col passare del tempo”, incurabile per molti che ne soffrono fino alla fine dei loro giorni –, e “gli unici vero confini non (sono) trincee, rifugi e posti di blocco ma quelli tra roccia, mare e cielo”: tra Storia e Natura si svolge la storia dei giovane protagonista, Robert, destinato a fare il minatore come i suoi e proprio per questo deciso, prima di inabissarsi a estrarre carbone, a vedere il mondo, che per lui è quello dell’Inghilterra settentrionale, le sue coste dirupate, i suoi villaggi sperduti. Descrizioni ariose di quei paesaggi, dei loro colori, odori, suoni occupano le pagine in un crescendo di entusiasmo che si apre a esperienze di immersione nelle atmosfere dei luoghi durante le quali “il tempo (gli sembra) statico” e ha l’impressione di “scivolare fuori dal presente – o forse, al contrario, di essere immerso così profondamente nel qui e ora – al punto da dimenticare chi è”. È in questa condizione di apertura e di adesione a ciò che lo circonda che il sedicenne incontra l’anziana e solitaria abitante di un vecchio cottage malandato, isolato di fronte al mare, e tutto cambierà. Perché i due si intendono subito: “ho semplicemente deciso di andare un po’ in giro”, le dichiara presentandosi il giovane; “Oh, mi piace – approva Dulcie.

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scrivere, leggere / Michel Foucault

“Questo legame [della scrittura con la morte] rovescia un tema millenario; il racconto o l’epopea dei Greci aveva lo scopo di perpetuare l’immortalità dell’eroe (…). In maniera diversa il racconto arabo – qui penso alle Mille e una Notte – aveva anch’esso come motivazione, come tema e pretesto, il non morire: si parlava, si narrava fino all’alba per evitare la morte (…). A questo tema del racconto o della scrittura fatti per scongiurare la morte, la nostra cultura ha fatto subire una metamorfosi, ormai la scrittura è legata al sacrificio, al sacrificio stesso della vita; è un eclissarsi volontario che non deve essere rappresentato nei libri poiché esso si compie nell’esistenza stessa dello scrittore. L’opera il cui dovere era di conferire l’immortalità ha ormai acquisito il diritto di uccidere, di essere l’assassina del suo autore. Guardate Flaubert, Proust, Kafka”.

La paura della morte che avvelena la vita

Gustavo Zagrebelsky, Qohelet. La domanda, il Mulino 2021 (pp. 162, euro 14)

“V’è tempo di nascere, e tempo di morire”, “di piangere e di ridere”: chi non ha sentito, o detto, in occasioni e contesti diversi, massime simili, magari dimentico della loro fonte? Il Qohelet – o Ecclesiaste, in quanto immaginato dal suo ignoto autore, fra il III e il II secolo a. C., come un seguito di proposizioni da proporre a un’assemblea di uditori – è una miniera di citazioni, assemblate senza un ordine preciso, a volte contraddittorie, ma collegate da un concetto preciso: tutto è vanità, comprese la vita e la morte, compresa la meditazione che su di esse si può fare. E questo proprio perché la morte azzera ogni significato, ogni scopo.

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scrivere, leggere / Luca Doninelli

“Solo con l’esperienza avrei capito l’importanza della pubblicazione, del libro rilegato con titolo, copertina, casa editrice, prezzo, codice a barre. Tutte queste cose formano un argine contro il Tempo e, insieme, ne istituiscono uno nuovo. È come se le parole varcassero i confini di un nuovo paese, nel quale vige una giurisdizione completamente diversa. (…) Una volta entrate nel meccanismo della pubblicazione, le mie parole sarebbero diventate prigioniere dell’aspetto economico del lavoro, del comprare e del vendere, e avrebbero perso la capacità di stabilire un rapporto fisico e mimetico con la geografia circostante: gli angoli delle vie, per esempio, o i cancelli, l’odore dei tigli e dei gelsomini, il piacere dei passi (…)”.

Tutti narcisisti, ma non allo stesso modo

Vittorio Lingiardi, Arcipelago N. Variazioni sul narcisismo, Einaudi 2021 (pp. 124, euro 12)

È un narcisista, si dice di una persona le cui qualità appaiono limitate da un tratto inaggirabile, da un vizio che ne mina le potenzialità, senza badare al fatto che “Il meccanismo auto-erotico allogasi, qual più qual meno, in tutte le anime”. Così Carlo Emilio Gadda, citato in esergo da Lingiardi che ne conferma la tesi: “Siamo tutti narcisisti, ma non allo stesso modo. E non tutti abbiamo un disturbo narcisistico di personalità”. Ecco il punto: c’è l’amor proprio e c’è l’amor di sé, diceva Rousseau – uno che di narcisismo se ne intendeva –, si tratta di considerarne le rispettive proporzioni. “Funambolo dell’autostima, Narciso cammina su una corda tesa fra un sano amor proprio e la sua patologica celebrazione”. Ma dove, come e perché, finisce la salute e inizia la patologia?

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