Tre storie, un romanzo

Maja Lunde, Gli ultimi della steppa, Marsilio 2020 (pp. 507, euro 20)

Un romanzo fatto di tre romanzi, scritti in prima persona. Il narratore onnisciente c’è, ma non si vede, non interviene con la sua voce ma con la sua regia, che fa avanzare in parallelo, alternandole nei capitoli, le tre storie, i diversi personaggi che le animano, le differenti epoche in cui le loro vicende si svolgono.
Uno zoologo di San Pietroburgo all’inizio degli anni Ottanta dell’Ottocento, una veterinaria tedesca all’inizio dei Novanta del secolo scorso, una contadina – anche se non per vocazione – del 2064. Michail, Karin, Eva. Ognuno con il suo bagaglio di esperienze e dolori. Tutti mossi da un unico fine: la sopravvivenza dei takhi, i cavalli selvatici della Mongolia. I cavalli più antichi, quelli che si vedono nelle pitture rupestri: una storia vera la loro, vedi alla voce Equus ferus przewalskii (in wikipedia, ovviamente). Parenti dei nostri cavalli, anche se con due cromosomi in più.
Li si credeva estinti, verso fine Ottocento, ma il giovane zoologo russo va a cercarli, sull’onda dei sogni che fin da bambino gli hanno ispirato gli avventurosi membri della Società Geografica Imperiale Russa che gli accadeva di incontrare nella sua città. E dunque, trovata la guida ideale in un “cacciatore di animali vivi” – che poi rivende a giardini zoologici e a circhi come quello di Barnum –, lascia a malincuore la madre, con cui vive, e parte per la lontanissima, ai tempi, Mongolia, dove dovrà fare i conti con paesaggi, uomini e culture che sembrano di un’altra epoca. E qui il profumo che si sente è quello del Capitano Arseniev e della spedizione che lo aveva portato a incontrare Dersu Uzala, “il piccolo uomo della grandi pianure” protagonista del film russo-nipponico del 1975, diretto da Akira Kurosawa.

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Il tempo del lago

“Credevo di aver trovato finalmente un posto per vivere”. Tornato dopo molti anni nel luogo dove era nato e aveva vissuto fino alla prima giovinezza, Remo trova altro: l’occasione ineludibile di fare un bilancio del proprio lavoro di fotografo che si allarga a una riconsiderazione della propria vita, dei desideri e degli amori che l’hanno attraversata.
L’approdo è una consapevolezza nuova: “È il posto per guardare questo che ho ritrovato. Il posto dove sto imparando a guardare. Da solo. Senza sentire come una condizione indispensabile che ci sia qualcuno, vicino a me, a condividere il mio sguardo”.
E sono il lago, il suo ambiente, il suo paesaggio il tramite di questo cambiamento, vissuto in tempi nei quali la fatica di vivere è gravata da un inedito, pervasivo senso di insicurezza: “Imparare a guardare non chiede maestri né compagni. Significa arrivare a sentire che il lago, il monte, il cielo, le piante, gli uccelli che guardi non sono lì per te, a lasciarsi osservare come se tu ne fossi fuori, non ne fossi parte. Imparare a guardare signifi ca arrivare a non vedere altro che un mutamento sempre in corso. Di tutto. Anche di sé stessi. Anche di questo lago”.

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:

Mi sembra di non averlo mai visto tanto vicino, il monte dall’altra parte del lago: a seconda dell’ora, della luce, del vento che spira sulle acque, sembra allontanarsi, perdersi in una massa indistinta, quasi del tutto uniforme nei colori, chiuso in sé stesso, o venire a farsi vedere invece, come un animale in cerca di attenzione. I crepacci che per un buon trat­to lo tagliano dall’alto fino a mezza costa sembra­no rughe profonde, come quelle scavate dal sole e dall’aria nella nuca dei contadini. La cresta, con le sue cime, è nascosta nelle nuvole. Le case dei paesi a lago, nitide, lucenti, sembrerebbe di poterle contare una ad una.
Ha piovuto tutto il giorno. Solo adesso, alla fine del pomeriggio, prima di tramontare dietro i monti della nostra sponda il sole ha illuminato il lago, che però è rimasto di un colore fra il blu e il grigio, riflesso dei nuvoloni densi, foschi, che pesano bassi sulle acque ma lasciano vedere il verde brillante del­le pendici del Baldo.
Sul balcone sono rimato solo io. I pochi ospiti che non hanno ancora lasciato l’albergo già a me­tà settembre, sono andati a cena in uno dei paesi vicini o, quelli che s’accontentano dello spuntino freddo che di questi tempi è tutto ciò che l’albergo offre, si sono rifugiati nelle loro camere al primo rinfrescare dell’aria.
Non una vela, né motoscafi. Il lago è vuoto.
È acqua, monte, nuvole, brezza che ondula le acque, fremito degli ulivi e dei lecci qui sotto.
Smetto di scrivere.
Guardo.


Eravamo in viaggio da poco più di sei ore quan­do, appena fuori dalla galleria sopra Salò, il lago è apparso. Lucerna, Bellinzona, Como: le soste che avevo messo in conto, arrivato il momento, aveva­no perso ogni richiamo.
Poi Salò, Gardone, Villa: dove ci fermiamo? hai prenotato un posto dove dormire? mi ha chiesto quando erano ormai le sei del pomeriggio. Non le ho risposto, solo un cenno di rassicurazione: quan­do abbiano parcheggiato la macchina nel piccolo spiazzo del Miralago ha pensato che mi fossi ferma­to per guardare il panorama spettacolare che si gode da quel punto, e poi proseguire per uno dei paesi di cui le avevo fatto il nome.
L’ho guidata attraverso la sala fino al balcone, l’ho fatta sedere all’ultimo tavolino, quello da cui si vedono il lago e il Baldo come dalla prua di un battello, e in quello stesso momento Piero ci ha portato due bicchieri di vino bianco: benvenuti, vi aspettavamo. Sono il fratello di Remo, piacere…
Aurélie mi ha guardato, ha riso, ha alzato il bic­chiere ma poi l’ha rimesso giù e ha abbracciato Pie­ro, che ho visto arrossire, commosso.
Un volo di anitre, a fior d’acqua, mi ha fatto di­stogliere lo sguardo. Le ho seguite per un lungo trat­to finché sono sparite alla vista mentre distinguevo, lontano, le sagome dei due traghetti che nel loro andare e venire fra Maderno e Torri si incontrano a mezza strada e visti da qui sembrano sfiorarsi, come a scambiarsi un saluto, ogni volta.
Il lago era lì.
Era sempre stato lì.


È steso a terra, il muso poggiato su una zampa, e guarda, di sotto in su, qualcuno che lo sta foto­grafando.
Monte, il cane dei nonni, sussurro, come lo di­cessi solo per me quel nome che chissà quante volte avevo chiamato e che da più di cinquant’anni non pronunciavo. Monte. Il cane che aveva accompa­gnato gli anni della mia prima infanzia.
Era il cane dei nonni, il mio cane quando non avevo ancora sei anni: ricordo persino il giorno in cui la signora che aveva affittato delle stanze in una casa vicina, una villeggiante, gli aveva fatto questa fotografia. Poi ce l’aveva mandata evidentemente, ma questo no, non lo ricordavo.
Piero dice qualcos’altro ad Aurélie, ma io non li ascolto: resto a guardare Monte. I suoi occhi.
Non ho mai fotografato animali, se non lontani, immersi nel paesaggio. Non ho mai fotografato il loro sguardo. Mi è sempre risultato insostenibile. Una vicinanza e insieme una distanza che evocano la morte. Un nodo di fratellanza ed estraneità che non ho mai saputo sciogliere. E adesso stavo sotto lo sguardo di questo cane cercando di non fuggire il dolore che mi suscitava, un dolore che sentivo di non poter addomesticare, di non poter in nessun modo aggirare, perché non c’è rimedio all’ingiusti­zia scandalosa della morte di esseri come Monte. Innocenti, mi è venuto da pensare, per via della lo­ro onestà, della loro coerenza, della loro adesione al presente, alla realtà. Le altre fotografie che avevamo visto, tutte immagini di persone morte, per quanto care non avevano generato in me un senso altret­tanto tagliente del non più. Perché?


Ho pensato che di una persona, la fotografia dà un’immagine che subito leggiamo come parziale, casuale, per sua natura contraddetta, o comunque messa in questione, dal prima e dal dopo del mo­mento in cui la foto è stata scattata; di un animale offre invece un’immagine totale, del tutto aderente al chi era. Definitiva.
Mi sono tornate alla mente le parole di un auto­re che della fotografia ha detto cose indimenticabili: che cosa c’era prima della fotografia? si chiedeva, e la risposta era sorprendente: la memoria. Ecco, mi sono trovato a pensare davanti alla fotografia di Monte: forse la memoria è il modo umano di fare i conti con il non più. La fotografia ne offre uno diverso – da tempo, ma ancora perturbante – e sotto questo profilo è, nella sua essenza, violenta. Capace di ridare, in un’immagine come quella che avevo davanti, il senso bruciante di perdita che in ciascuno torna di quando in quando, come non ne aspettasse che l’occasione, a risvegliarsi. Non più, mai più: una cosa è pensare in astratto a questo vuoto lancinante e irreversibile, da filosofi, un’altra esserne attraversati alla luce dello sguardo vivente di un essere singolare, che la fotografia ci restituisce all’improvviso.
Di un essere del quale mi erano di colpo torna­te presenti le movenze, la voce, il modo di stare al mondo, e sentivo dunque, nella carne, l’irripetibi­lità.


Ora saprei dirlo, solo ora saprei dare forma alla domanda che io stesso mi ero fatto su quelle mie fotografie del lago che avevo scattato su commissio­ne, per lavoro: non c’era solo l’intento di destare la meraviglia di un altrove che sfuggisse ai cliché della carta patinata, che desse l’emozione dell’ecceziona­lità, dell’unicità del paesaggio dell’alto lago. Questo era quello che mi dicevo allora, ma c’era altro, l’ave­vo capito col tempo. Volevano essere, quelle, anche foto ricordo, foto che conservavano in sé il calore della memoria, di una memoria che non era solo la mia, quella sopravvissuta al mio abbandono del lago, ma era la memoria che non può non apparte­nere ad ogni fotografia di paesaggio. Ad ogni foto­grafia, anzi: l’immagine di un luogo non è diversa in questo da quella di un volto, o di una cosa. Ci deve essere del tempo in una fotografia. Lo si deve sentire, lo deve comunicare il sentimento del tempo.
Non si tratta di cercare espedienti per farlo ri­sultare evidente, come in quella foto famosa di una vecchia che guarda nell’obiettivo e tiene fra le mani, mostrandola bene, un’altra fotografia di lei quand’era ragazza. No, è negli occhi velati, nella pelle avvizzita di quella stessa donna, nelle sue mani deformate dall’artrite, nel modo di stare, insaccata sulla sedia, davanti alla macchina fotografica che sta il tempo.
Il tempo c’è, in quel che si sta fotografando: si tratta di farlo venire alla luce, di renderlo percepi­bile, protagonista.
La memoria del lago: forse il titolo di quel libro non significava solo che le immagini raccolte custo­divano il passato dei luoghi. Forse voleva dire che i luoghi hanno una propria memoria, e quelle foto­grafie avevano cercato di rappresentarla.
Ha ancora una memoria il lago? sopravvive la sua memoria ai milioni di fotografie che non la vedono, non la cercano, la ignorano senza averne il minimo sentore? La memoria dei luoghi è una relazione, fra i luoghi stessi e chi li guarda. E non diversamente il ritratto. E allora, anche qui: resiste la verità di una persona, la verità che sta in quel che è, in quel che è diventata, in fotografie come quelle che i turisti si scattano reciprocamente sullo sfondo del lago, o è proprio il sorriso che ci si mette in faccia quando si è fotografati a cancellare ogni sto­ria, non solo il passato che si è vissuto ma anche il futuro che ci si attende, e quell’altro che ci aspetta, che aspetta tutti?
Non si sorrideva una volta, nelle fotografie, e se lo si faceva era perché l’occasione lo chiedeva: una festa, una gita, un anniversario… Se no non lo si faceva.


Guardo accendersi i paesi dell’altra sponda, e ma­no a mano confondersi uno con l’altro: lo facevamo, Aurélie ed io. Lo faccio ancora, quasi ogni sera: pen­sare che questo avveniva anche prima che noi due stessimo a guardarlo, e continuerà ad avvenire dopo, quando neanch’io sarò più qui, attenua lo strappo che sento ancora nell’esserci da solo, mi fa apparire piccolo l’intervallo che separa il tempo in cui i nostri occhi guardavano insieme da questo in cui i miei non hanno compagni.
Il Baldo si spegne per ultimo, ma intanto si è via via allontanato, come se si lasciasse sprofondare nel ri­cordo di quel che era solo un paio d’ore fa, e non atte­nua il senso di commiato, che avverto in questo lento cambiamento del volto del grande monte, un pensiero che non sa in questi momenti farsi certezza: che do­mani tornerà a risplendere maestoso, imperturbabile. Sempre sono stato portato a vedere più le fini degli ini­zi, ma è soprattutto in momenti simili che si ripresenta questa mia inclinazione.
Al di sopra della linea di luci che segnano la strada a lago, oltre i grappoli di quelle dei paesi che risalgo­no di poco le pendici del monte, se ne vedono poche, isolate: è un monte disabitato, il Baldo. Non ha gli altipiani e i paesi in quota della nostra sponda. Ci sono case abbandonate, là, addirittura un intero borgo disabitato – mio fratello me ne ha detto il nome, che non ricordo più.
Resta visibile nel crepuscolo, più in alto, un casale bianco, là dove termina il bosco e iniziano i pascoli: il malgaro che ci abita nella bella stagione scenderà solo a ottobre. E più in alto ancora, lungo il crinale, solo col buio si vede la luce di quello dei tre rifugi del Baldo – il primo appena sotto la cima più alta, gli altri due vicini, più sotto – che, ho sentito, resta aperto tutto l’anno.
Non so staccare gli occhi dalla massa scura del monte: mi appare più antico del lago, anche se solo la notte in grado di far valere questa sua superiorità severa, paziente, risolta in sé stessa.
Un’altra luce si è accesa a poca distanza dal casale bianco. Un’altra malga probabilmente. Immagino i due uomini che vivono lassù, coi loro animali, soli, non incontrarsi mai quando sono là e poi, l’inverno, bere allo stesso tavolo d’osteria.
La prima stella brilla sopra Torri. Non è una stella, probabilmente: è Venere, credo.
Proprio dritto sopra la luce della malga è ora ap­parso un chiarore, simile a quello che si vede all’alba, appena di là dal monte: sta sorgendo la luna. Dal mo­mento in cui ne spunta un sottile arco luminoso, la si può seguire e vederne il cammino. Pochi attimi ed è fuori, staccata dal monte, libera. E allora sembra fer­marsi, adeguandosi all’immobilità solenne di quello che le sta attorno, come il ritardatario che entra in chiesa a messa già iniziata.
Il lago, che s’era fatto buio – abbandonato da ogni colore, più che nero – è attraversato da una striscia ri­splendente che fa rivivere le acque illividite: la strada di luce le fa palpitare, fremere in una brezza che non c’è.


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 16 marzo 2021.
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Da Bresciaoggi dell’8 aprile 2021.
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Dal Corriere della Sera Brescia del 16 aprile 2021.
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Dall’Eco di Bergamo del 28 giugno 2021.
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Da Brescia si legge, 12 marzo 2022.
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“Il tempo del lago”: il Garda come approdo dell’anima e palestra dello sguardo, nel romanzo di Carlo Simoni

di Francesca Scotti

Talvolta è necessario andarsene per poter un giorno ritornare e, ritornando, trovare veramente se stessi. Proprio come accade all’anziano fotografo Remo, quando si decide a ritornare nel luogo che gli ha dato i natali e in cui ha vissuto sino alla prima giovinezza: il lago di Garda. Questo ritorno sarà infatti il pretesto per ricucire il rapporto a lungo interrotto con un luogo che si rende conto di non aver mai guardato con occhi attenti, in un dialogo con il paesaggio che diventa dialogo con il proprio io e che permette di esplorare nuovi orizzonti di pensiero.

Le riflessioni di Remo e il suo rapporto con il Garda sono i veri protagonisti del libro “Il tempo del lago” (LiberEdizioni 2021 – acquista qui), nuovo romanzo dello scrittore bresciano Carlo Simoni. Un libro raffinato, poetico e disincantato, le cui pagine non promettono una lettura divagante, bensì un’immersione totale nelle rapide di pensieri, ricordi e prese di coscienza del protagonista. Un romanzo profondo, che apre la mente e che disvela ai lettori nuovi significati dei verbi “guardare” e “fotografare”.

Sullo sfondo e tutt’attorno, un Garda non descritto nelle sue principali attrattive, nei suoi scorci più celebri e nei suoi angoli più frequentati e turistici, bensì nella sua anima di elemento naturale e di luogo geografico che ha la pazienza e il silenzio eloquente di una persona rimasta ad aspettarci. Non il Garda delle brochure e dei siti web di vacanze, quindi, ma il Garda tridimensionale di chi lo vive, di chi ci è stato e di chi vorrà esserci. Perché, nel suo eterno mutare a ogni refolo di vento e raggio d’alba, il lago è anche un custode del tempo: di un tempo che è memoria del paesaggio, ma anche dell’esistenza di tutti coloro che vi si sono specchiati.

Tutto inizia con un ritorno

Di un guardare determinato si trattava in questo caso: del guardare il lago. Questo lago. […] Questo era il passaggio essenziale che in qualche modo, non sapevo ancora quale, sentivo coinvolgere anche me. Seguire questo filo mi ha portato a riflettere sul fatto che se mio padre non aveva opposto divieti o minacce alla mia decisione di mollare la scuola e andarmene a Milano, non era stato solo perché ben altro lo preoccupava in quel momento, ma anche perché aveva riconosciuto in me l’aspirazione a rompere con la propria condizione, l’energia necessaria per vedere le cose da un diverso punto di vista, la determinazione a cercare altrove di realizzare quello che non importa se confusamente si desidera. Un altrove che lui non aveva avuto bisogno di cercare lontano; che per me era essenziale fosse distante. Dal lago.

Carlo Simoni, “Il tempo del lago”, p. 55

Il sessantenne Remo ritorna dopo anni sul lago di Garda, il luogo natale che ha abbandonato per Milano nella prima giovinezza. A incontrarlo ci sono il fratello Piero e la sorella Amelia, figli del secondo matrimonio del padre ormai defunto e gestori dell’albergo Miralago. Lo accompagna Aurélie, una gallerista d’arte di trent’anni più giovane che ha conosciuto grazie al suo lavoro di fotografo.

Ciò che si propone inizialmente come una tranquilla vacanza all’insegna di tuffi, scatti fotografici e rispolverate di ricordi familiari, si rivela tuttavia molto di più. Ben presto, infatti, Remo si ritrova a fare un bilancio della propria vita, della propria professione di fotografo e dei propri affetti. In un’età dell’esistenza in cui anche gli ultimi amori si dileguano, il lago di Garda diviene per lui non solo l’antico luogo di casa o un qualunque posto a cui non si riserva che un effimero ritorno, ma un autentico approdo dell’anima.

E sarà proprio il Garda, insieme ai paesi della riviera e dell’alto lago in cui hanno vissuto i genitori e i nonni, a insegnargli tutto quanto credeva di sapere già, senza averlo mai realmente afferrato, riguardo al guardare e al fotografare. Ciò lo porterà ad acquisire una nuova concezione di se stesso, che solo i posti che l’hanno visto crescere e che l’hanno lasciato libero di andarsene si dimostreranno capaci di dischiudergli.

Guardare in profondità e fotografare la memoria

Guardare il lago non è solo vederlo, per quel che è oggi, per quel che oggi è diventato. È immaginare anche quello che forse sarà.

[…] Torno allora a guardare. Senza cercare niente. Aspettando se mai. Aspettando il momento che mi lasci intravedere lo scorrere del grande fiume nel lago che ogni giorno mi sembra di ritrovare uguale davanti a me. Aspetto, come avessi il ricordo di aver potuto vedere, anche se per poco, quello scorrere e quello stare come fossero una condizione dell’altro. Al punto, anzi, di non poter distinguere l’uno dall’altro.

Carlo Simoni, “Il tempo del lago”, p. 120

In un’era nella quale scattare fotografie con il proprio cellulare è ormai un rito compulsivo e quasi una convenzione sociale, tendiamo a immortalare ciò che già vediamo in brochure e dépliant, ciò che ammicca dalle locandine delle agenzie di viaggio e che troviamo, a portata di click, sui siti web turistici o anche solo scorrendo gli archivi di Google. Fotografiamo per poter dimostrare che ci siamo stati, che abbiamo visto una tale attrazione dal vivo, che eravamo in un dato posto in un dato momento e con determinate persone.

Che ne è allora del guardare? È ridotto a una pura ammirazione subito mozzata da uno scatto necessario, senza il quale ci sembrerebbe di non aver vissuto nulla, perché nessuno sa che siamo stati in un dato luogo e pertanto, se nessuno sa, nell’era dei social media è come se non fosse mai accaduto?

È proprio sul senso del guardare e del fotografare che si interroga Remo, mentre rivisita posti che, racchiusi nella cornice del lago di Garda, lo spronano a un tenace confronto con se stesso, oltre che con la memoria della sua famiglia e dei luoghi che essa ha abitato e abita. Guardare non è vedere, né posare gli occhi con superficialità, ma nemmeno è fermarsi all’aspetto presente delle cose: guardare è voler abbracciare ciò che si guarda nella sua totalità, nel suo passato e presente, immaginando al contempo ciò che sarà in futuro.

Perciò, anche quando si scatta una fotografia, come se volessimo fermare il tempo e intrappolare il soggetto nel suo stato presente, dovremmo scattarla in modo tale da instillare in chi guarda il desiderio di considerare tale soggetto da tutti i punti di vista. Così, anche un lago cessa di essere unicamente un lago, ma diviene, come tutte le cose, un’entità che dispone di una propria memoria, arricchita dai ricordi di tutti quelli che vi hanno vissuto e che ancora ci vivono.

Ed ecco allora l’invito del breve ma fortemente intenso romanzo di Simoni: quello di oltrepassare i confini del mero vedere e di imparare a guardare veramente ciò in cui siamo immersi. È l’inizio di un lungo cammino per imparare a guardare, senza remore e con assoluta sincerità, dentro noi stessi, riallacciando i rapporti con il passato, perdonando il presente e capendo che il futuro dipende da ogni prezioso attimo dell’oggi.

“Scrivere è una solitudine finalmente abitata”

Carlo Simoni è nato a Brescia nel 1949. Storico della cultura materiale, è autore sia di narrativa che di saggistica. Ha pubblicato, fra i tanti altri, romanzi che ricostruiscono figure e paesaggi del lavoro fra Settecento e Ottocento – “L’orizzonte del lago”, “I tempi del mondo”, “Il segreto dell’arte” (Cierre Edizioni, 2010 e 2012) – e che spesso incrociano le vicende di scrittori e artisti – da Goethe e Klimt (“L’ombra dei grandi”, LiberEdizioni, 2006) a Thomas Mann (“L’incompleto conoscersi”, LiberEdizioni, 2016) – restituendone aspetti inediti e offrendo pregnanti e attuali spunti di riflessione.

Con Castelvecchi Editore, ha dato alle stampe due romanzi di particolare interesse: “Il miserabile” (2018), in cui compare Walter Benjamin, e “Quei monti azzurri” (2019), incentrato sulla figura di Giacomo Leopardi.

Il lago di Garda, la sua riviera e i suoi comuni sono per Simoni luoghi dell’anima a cui torna ripetutamente in cerca di un ritiro benefico che non è mai fuga, ma ricettacolo di riflessioni profonde che fa confluire con eleganza ed esattezza nelle sue opere.

È di sua penna una splendida e illuminante definizione dello scrivere: “Occorre lasciare la città per scrivere, non allontanarsene tanto da non veder vivere gli altri. Scrivere è una solitudine finalmente abitata. La casa dove non inviti nessuno ma a nessuno vieti d’entrare. L’isola che un istmo lega alla costa.”

Il desiderio di scomparire

Valentina Durante, Enne, Voland 2020 (pp. 169, euro 16)

Una “vita fatta di viaggi all’estero, alberghi lussuosi, fiere prestigiose e spettacoli, cene e concerti” quella del “Responsabile Marketing in una multinazionale del fashion” che Giorgio Nazareni è stato. Fino a quando “la donna che (avrebbe) dovuto sposare” se n’è andata. Per sempre. E allora ha cambiato vita. Un’altra professione? No, o forse sì: fa tre giorni alla settimana la coda in un ufficio postale per conto di anziani e malati e si è sistemato nella dépendance di una villa disabitata facendo in cambio il custode e qualche lavoretto di giardinaggio.

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“Probabilmente hai una buona padronanza della lingua e sei in grado di comunicare idee usando le parole…”

“Probabilmente hai una buona padronanza della lingua e sei in grado di comunicare idee usando le parole. Ma questo non significa che tu possa scrivere un libro. Mettiamola così: corro da quando avevo circa un anno. Da quasi 40 anni! Ma non potrei mai correre una maratona. Non ne sono fisicamente capace, anche se posso correre per qualche miglio di seguito. Scrivere un libro è una maratona. Devi allenarti per farlo, fare pratica, capire i tuoi punti di forza e i tuoi punti deboli e lavorare duramente per superarli. Hai bisogno di un aiuto, di un riscontro, di un sostegno e ci devi provare molte volte prima di correre la tua gara migliore. Scrivere un libro che qualcun altro vuole leggere è correre la tua maratona più veloce. Nessuno ci riesce al primo tentativo e pochi scrittori possono aspettarsi di avere la resistenza necessaria senza un allenamento rigoroso”. (Kate McKean)

Prima siamo bambini

Ridhal&Kazinski, Morte di una sirena, Neri Pozza 2020 (pp. 208, euro 15)

Non è la Londra delle incisioni di Hogarth dedicate alla Carriera di una prostituta o del Doré dei suburbi infernali della città, né è la Londra sordida e sinistra di Dickens e del suo Oliver Twist, o laParigi dei Misteri di Sue. Ma somiglia a queste città la Copenhagen di questo romanzo, che rimanda anche agli ambienti urbani e in generale al clima del Profumo di Patrick Süskind (chi non ha letto il libro conosce forse l’adattamento cinematografico, del 2006).

Una Copenhagen che è “più che altro una fabbrica che produce malattie e indigenza”, nella quale si muove – forsennatamente, secondo il ritmo in crescendo che pervade il romanzo – un Hans Christian Andersen che per liberarsi dall’accusa di aver barbaramente ucciso una prostituta deve farsi detective. Non è il primo scrittore, il primo personaggio storico a imboccare questa via. Molti l’hanno fatto, dal grande Aristotele, niente meno (nei romanzi di Margareth Doody, tradotti da Sellerio), al più modesto Pellegrino Artusi, in tempi recenti (Il borghese pellegrino di Malvaldi, pubblicato dallo stesso editore, è di quest’anno).

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“Che colpisca un individuo o un popolo, che sia episodica e deflagrante oppure continuativa, non c’è esperienza traumatica…”

“Che colpisca un individuo o un popolo, che sia episodica e deflagrante oppure continuativa, non c’è esperienza traumatica che, per salvarsi, non richieda un racconto. Epopea letteraria o rivelazione fatta dal bambino abusato a un caregiver alternativo, ogni trauma ha bisogno di una storia per essere, quando possibile, elaborato. A maggior ragione quando è così precoce da non poter far altro che rifugiarsi, sotto mentite spoglie, nel corpo. (…) Possedere la nostra storia, il suo racconto, ci restituisce a noi stessi. Troppo spesso la sofferenza è storia non raccontata: dare parole al passato è curarlo”. (Vittorio Lingiardi)

Un Simenon giapponese

Matsumoto Seichō, Un posto tranquillo, Adelphi 2020 (pp. 195, euro 18)

Una relazione extraconiugale che emerge dopo la morte improvvisa della moglie, la ricerca del marito e la sua vendetta (o quella che potrebbe apparire tale): tutto qui. Ma ci sono i personaggi, il protagonista soprattutto: Tsuneo Asai è un funzionario ministeriale come tanti, la cui vita coincide con il suo lavoro, le sue aspirazioni con la carriera, i suoi rapporti sociali con le conoscenze dell’ufficio. Apprensivo, ossessivamente dedito a perseguire il proprio obiettivo di avanzamento nella gerarchia delle sezioni e dei dipartimenti del ministero, potrebbe essere uscito dalla penna di Čechov, se in lui non si registrasse un’evoluzione che è poi il filo del racconto: lo vediamo dapprima come uno che “Aveva fatto la gavetta, costruendo la sua carriera passo dopo passo. E quando si era reso conto che contestare l’assurdità e l’ingiustizia del sistema non serviva a niente, aveva deciso di competere con i raccomandati”; lo seguiamo mentre si guadagna, grazie alla la sua preparazione, la fama di “Manuale vivente” o addirittura di “eminenza grigia” che conviene farsi amico; lo ritroviamo omicida non pentito ma incapace di spiegarsi il gesto che ha fatto: un po’ come il Meursault dello Straniero di Camus, “era stata una disattenzione, un errore”, “nel suo gesto non vi era stata premeditazione Si era trattato di pura casualità”…

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“(…) ricreando, rivivendo immagini, persone, vicende, situazioni psicologiche e morali…”

“(…) ricreando, rivivendo immagini, persone, vicende, situazioni psicologiche e morali già celebrate nella propria poesia, si vive ulteriormente, e non d’obbligo nel rifugio del passato. Semmai nella riflessione che è riflesso scalfito sulla coscienza interrogata, riscossa. Nel tempo ritrovato si ritrova lo spazio per l’eco, la proiezione in avanti delle prove passate, sullo schermo dove tornano ad agire le ombre concrete della irreversibile fusione, o diciamo pure confusione, di scelte di vita e di poesia”. (Nazim Hikmet)

Storie, non numeri

Andri Snær Magnason, Il tempo e l’acqua, Iperborea 2020 (pp. 333, euro 19,50)

Dati, notizie, valutazioni: l’accelerazione del cambiamento climatico è un fatto. Come è un fatto che viviamo come se non ci credessimo. Niente di nuovo, dunque, in questo libro, niente di nuovo rispetto a quello di Franzen segnalato lo scorso mese e agli altri che in quell’occasione si richiamavano? No, Magnason sa innovare la questione: non si tratta solo del fatto che “quando si tratta di qualcosa di infinitamente grande, di sacro e che oltretutto è il fondamento della nostra esistenza, non abbiamo una reazione proporzionata” ed “è come se il cervello non riuscisse a comprenderne le dimensioni”. È che per comprendere davvero certe parole, e farne derivare comportamenti nuovi, occorre molto, molto tempo: nelle prime fasi prima non creano consapevolezza, ma solo un “ronzio che ci inganna”, e che quindi facciamo finta di non sentire.

Ed ecco allora il quesito di fondo, quello che sa porsi all’altezza di una situazione simile: come scrivere della questione? Scriverne ed essere ascoltati? Magnason non fa teorie, ci prova: quando “la portata del discorso è tanto grande da risucchiare ogni significato” e neutralizzare gli argomenti che porto, è venuto il momento di capire che “posso solo girarci intorno, dietro, di fianco, di sotto, spostarmi avanti e indietro nel tempo, andare su personale e insieme essere scientifico, e usare la lingua del mito. Devo scrivere di queste cose senza scriverne, devo retrocedere per avanzare”.

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“Uno pensa di essere vuoto, e cerca affannosamente insegnanti e corsi che possano insegnargli a scrivere…”

“Uno pensa di essere vuoto, e cerca affannosamente insegnanti e corsi che possano insegnargli a scrivere. A scrivere si impara scrivendo. Sembra semplice, e lo è. Non s’impara uscendo da noi stessi per rivolgersi ad autorità esterne che secondo noi sanno come si fa”. (Natalie Goldberg)

Il modo più sano di essere malati

Susan Sontag, Malattia come metafora e L’Aids e le sue metafore, Nottetempo 2020 (pp. 238, euro 18)

“Il mio intento è descrivere non ciò che realmente significa emigrare e vivere nel regno dei malati” – nei reparti di terapia intensiva, ci viene subito da pensare –, “ma le fantasie punitive o sentimentali elaborate attorno a questa situazione”: dove ho sbagliato, come ho fatto a prendere il virus anch’io? e adesso? cosa mi aspetta, qui, da solo?

È impossibile leggere il classico saggio di Sontag, più di quarant’anni dopo la sua pubblicazione e da poco riproposto, senza rapportarlo alla nostra esperienza e all’immaginario che il Covid 19 ha determinato. “La mia tesi – dichiara fin dalla prima pagina l’autrice – è che la malattia non è una metafora, e che il modo più veritiero di concepirla – nonché il modo più sano di essere malati – è quello che meglio riesce a purificarsi dal pensiero metaforico, e a opporvi resistenza”. E, vista la tendenza oggi dominante, a opporre resistenza alla psicologizzazione della malattia, tentativo contemporaneo di “fornire un controllo su esperienze ed eventi” del tutto o quasi refrattari alla nostra volontà.

La tubercolosi nel secolo scorso e il cancro oggi. Queste le due malattie sui cui in particolare il discorso verte, in quanto “sovraccaricate dalle bardature della metafora”, ma sono le note riservate alla seconda – di cui la stessa Sontag è stata vittima – a risuonare maggiormente in noi: “una malattia vissuta come un’invasione spietata e furtiva”, che sottopone i malati “a pratiche di decontaminazione” e fa percepire il contatto con loro una sorta di “trasgressione”, nella cerchia amicale ma anche all’interno del nucleo familiare, pur non trattandosi, nel caso del cancro, di una malattia contagiosa quanto piuttosto di un male (“un brutto male”, si diceva fino a qualche decennio fa) circondato da un alone metaforico difficile da smantellare. “Non c’è niente di vergognoso in un attacco di cuore”, mentre la “malattia oncologica” (questa l’espressione oggi usata in ambito medico-scientifico, ma che nessun malato né i suoi familiari usano…) “la si considera oscena – nell’accezione originaria del termine: nefasta, abominevole, ripugnate per i sensi”.

Manuali di medicina di ieri e di oggi, dizionari, opere letterarie: il libro è da leggere anche per i rimandi che l’autrice ha ritenuto necessari per argomentare la sua tesi e ricostruire i diversi percorsi dell’immaginario relativo alla tubercolosi e al cancro nelle loro relazioni con il corpo, il sesso, la morte.

Si direbbe che Sontag esplori i caratteri e l’evoluzione della percezione della tbc al fine di mettere in luce, per contrasto, quelli attinenti al modo di rapportarsi al cancro: nello stesso senso possiamo muoverci noi leggendo Malattia come metafora, non tanto cercandovi corrispondenze puntuali o conferme di una generica attualità, ma rintracciandovi stimoli a riflettere su quel che stiamo vivendo da un anno a questa parte. E lo stesso vale per l’altro saggio, contenuto in questa edizione, sull’Aids: anche la diffusione di questa infezione appare legata all’aumento degli scambi e dei contatti, ed ha evocato significati di punizione, o meglio, di responsabilità: individuale, legata ai comportamenti sessuali, nel caso dell’Aids; collettiva, derivante dall’indiscriminato sfruttamento del pianeta, per quanto riguarda il Covid 19.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La centralità perduta delle montagne abitate

Sara Luchetta, Dalla baita al ciliegio. La montagna nella narrativa di Mario Rigoni Stern, Mimesis 2020 (pp. 146, euro 14)

Degli autori amati – quelli dei libri che teniamo separati dagli altri, riservandogli uno spazio a sé, privilegiato – è piacevole leggere profili e commenti scritti da chi condivide la nostra predilezione. Non saggi accademici, ma testimonianze di letture partecipi quanto la nostra ma più della nostra documentate, sistematiche, penetranti. È il caso di questo libro, dedicato a un autore che ci ha lungamente accompagnato, Mario Rigoni Stern. Ed è la sua montagna innanzitutto, una montagna vista con l’occhio dell’insider e insieme dell’outsider – quale Rigoni è stato – a venirci incontro dalle pagine di Luchetta: non la montagna “delle ascensioni, delle vette, dell’alpinismo, dell’immaginario simbolico legato al turismo”, ma la “montagna minore, abitata, intermedia, spesso lontana dalle riviste patinate”. Un territorio contraddistinto dalla “coralità” della “saga stratificata delle sue genti”, per cui sono più riferimenti e simboli collettivi che personaggi singoli a risultare fulcro della narrazione, più “la baita e il ciliegio” che personaggi pure indimenticabili come Tönle o Giacomo, perché quella di Rigoni è una “letteratura senza eroi”, la sua narrazione “non vuol essere romanzo”, i suoi racconti “volutamente nascondo la mano di chi scrive o vedono lo scrittore osservarsi come uno tra i tanti nella saga altopianese”.

Chiariti questi presupposti, la lettura dell’opera dello scrittore si articola nell’analisi di temi specifici, essenziali nella sua visione del mondo come nella sua poetica: una natura “senza maiuscola”, in primo luogo, lontana dalla retorica della wilderness e coincidente con “la naturalità come prodotto domestico” e come domesticazione del “selvatico”; il senso del tempo, in secondo luogo, che emerge dalla fedeltà ai nomi dei luoghi – non per acribia toponomastica, ma per rispetto delle “temporalità diverse”, storiche e geologiche, sedimentate in quei nomi – ma anche dal racconto della “mobilità di uomini e animali”, del “movimento di diastole e sistole che è di ogni montagna, in dialogo con le sue stagioni e la varietà delle sue risorse” e scalza il “cliché spesso anche autogenerato di un forzato e innaturale immobilismo da nonno di Heidi”, così come lo “schema” etnografico che ha a lungo insistito sui “caratteri comunitari” degli insediamenti montani, in cui è invece possibile distinguere i segni concreti “di una cooperazione necessaria alla manutenzione di un territorio difficile e alla gestione oculata delle sue risorse”.

Lo sviluppo di questi temi si realizza pagina dopo pagina in una trattazione che al suo centro trova la lettura puntuale dei romanzi di quello che Paolo Cognetti ha definito “il nostro più grande scrittore di montagna”. Un autore di riferimento per ogni discorso sui temi ambientali che, come lui stesso diceva a proposito del suo Uomini, boschi e api, non ha mai tenuto a dire di “primavere silenziose” e di “alberi rinsecchiti” quanto ad augurarsi che “tutti potessero ascoltare il canto delle coturnici al sorgere del sole, vedere i caprioli sui pascoli in primavera”, manifestando un atteggiamento imprescindibile per un impegno ecologista che voglia efficacemente basare le proprie necessarie e fondate critiche e denunce sul prerequisito essenziale che consiste nel contatto diretto – incantato, nel senso più pieno della parola – con la natura.

La sintesi offerta in apertura da Mauro Varotto – docente della stessa università, a Padova, in cui la giovane autrice si è laureata sul ruolo dei nomi di luogo in Rigoni Stern – mette opportunamente in luce l’intento di libri come questo, ravvisabile nell’appello a ridare alle “montagne abitate” una centralità che hanno perduto.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

La storia, le storie / La memoria di un giorno

La memoria di un giorno. Il giorno in cui in un villaggio della campagna ungherese arrivano due ebrei, trasportano due casse, affittano un carro per portarle dalla stazione al paese. È di quel giorno che racconta 1945, un film del 2017, di Ferenc Török. Trasmesso da Rai storia la sera del 25 gennaio, tuttora presente fra le proposte di Rai Play.

È lo stesso giorno – lo sentiamo dalla radio all’inizio del film: il 6 agosto 1945 – in cui una  bomba atomica  viene sganciata su Hiroshima. Ma si tratta di un evento che avviene lontano, e cade nella disattenzione generale: per i paesani è un giorno di festa, si sposa il figlio del notaio comunale, il boss della comunità, che il capostazione si precipita ad informare: sono tornati. Gli ebrei. Sono solo due ma potrebbero esser venuti a rivendicare anche per le famiglie degli altri, deportati e uccisi nei lager, le proprietà loro confiscate e poi “riassegnate” ai locali.

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L’estinzione dell’Homo ruralis

Dörte Hansen, Tornare a casa, Fazi 2020 (pp. 310, euro 18,50)

L’atmosfera, il paesaggio, i personaggi fanno tornare alla mente Heimat, il fluviale film del 1984 di Edgar Reitz. Oggi la si chiamerebbe una serie, forse. Era la storia di un villaggio di campagna nella Germania profonda, nella regione della Renania-Palatinato: la vicenda del paese di Schabbach e della famiglia Simon, dagli anni Venti agli Ottanta del Novecento.

Il villaggio, nel romanzo di Hansen, si chiama Brinkebüll, uno dei tanti sparsi in una terra, la Frisia, in cui “di bellezza (non c’è) neanche l’ombra. Solo terra nuda, una terra che sembrava devastata e sfinita”. Una terra che non sembra avere altra storia che quella che Ingwer, ricercatore universitario, cerca sottoterra, nei reperti che trova. Una terra inospitale che trova un corrispettivo nella brutalità della sua gente, violenta, invidiosa, vendicativa.

La famiglia è quella dell’oste Sönke Feddersen e della moglie Ella, con la figlia Marret e il nipote Ingwer. Sönke “aveva fatto tutto il possibile affinché quel bambino senza padre, figlio di Marret Fine-del-mondo, venisse su più o meno normale”, ma quello se n’era andato, in città, a studiare, rifiutandosi di continuare a servire boccali di birra nella locanda come gli avevano fatto fare fin da bambino. Se n’era andato, via dai nonni e via dalla madre che si era guadagnata quel soprannome perché per lei “i pesci morti (…), l’estate senza cicogne e i campi senza lepri erano tutti presagi della grande catastrofe”, della fine del mondo appunto. Il paese si era abituato a queste profezie strampalate: Marret era svitata. Ce n’era uno in ogni paese di personaggi del genere.

Senonché, Igwer non può restare lontano: il tempo è passato, il nonno ultranovantenne si ostina a restare dietro il bancone della locanda ma non ce la fa più, anche perché la moglie è andata fuori di testa e se non le badi scappa di casa. Del resto, la vita universitaria è stata avara di soddisfazioni e quella privata ancora di più: “La sua vita sentimentale era entusiasmante come una serata di giochi da tavolo in casa di riposo. Forse anche meno. Status relazionale indefinito, né carne né pesce. Due uomini, una donna, un triangolo strampalato, una convivenza fuori dagli schemi” condotta in nome della rivoluzionaria convinzione che “Chi ama una persona sola, in realtà non ama nessuno, tutti e tre avevano letto Erich Fromm. Nessuno di loro aveva mai voluto sentir parlare di casa di proprietà e di matrimonio e di tutti quei discorsi sul nido”. Però lui, Ingwer, è arrivato al capolinea. Non si è mai davvero ambientato in quella convivenza, perché “Hai voglia a laurearti con i massimi voti, prendere summa cum laude alla tesi di dottorato, Ingwer si sentiva ancora come l’impostore con il curriculum gonfiato che non stava al posto suo. Ingwer Feddersen di Brinkebüll, che aveva rifiutato la sua vita ereditata. Che aveva detto no a una locanda sul Geest, ai quindici ettari di terreno, alla casa e alla fattoria. No a tutto quello che Sönke Feddersen, il vecchio, voleva dargli. No alla moglie e ai figli. Semplicemente no, grazie mille. Ma a cosa aveva detto sì? Se Brinkebüll non faceva per lui e neanche la casa condivisa a Kiel, qual era la sua strada?”

E allora torna. Perché nonostante tutto “Lui era affezionato a quella terra ruvida, logora, come si è affezionati a un peluche sdrucito dalle coccole, a cui manca un occhio e che non ha più pelo sulla pancia”, ma anche perché “Lui voleva chiudere le cose per bene, avrebbero giocato a padre-madre-figlio scambiandosi i ruoli. Questione di mesi, forse un anno, ormai a loro non doveva restare molto. Ingwer Feddersen, studentello, topo di biblioteca, per una volta avrebbe fatto qualcosa di utile, di normale. Pulire, cucinare e stare al bancone … Mantenere la posizione finché Sönke Feddersen non avesse abbandonato la nave, in sostanza si trattava di questo. Ma anche di saldare un debito”.

Una storia dura, insistita nei suoi toni aspri, ancorata a un registro malinconico, ma capace di non chiudersi nella vicenda dei suoi protagonisti: l’accorpamento delle proprietà imposto dalla riforma fondiaria e il progresso tecnologico che surclassa i metodi di coltivazione e allevamento in uso da sempre scompone il precario equilibrio del paese. Mentre quelli che possono tentano di ammodernare le loro fattorie ma, senza saper bene che cosa hanno perduto, si riducono spesso in una disperazione cupa, senza futuro, fino a giungere al suicidio in molti casi, arriva la “gente di città”: “Tutta quella gente di Berlino e di Amburgo che improvvisamente si trasferiva nei paesini, non si capiva cosa stesse cercando. Compravano fattorie dismesse, vecchie fucine e scuole di paese abbandonate, stazioni ferroviarie in disuso e mulini che non andavano più. Sembrava che volessero prendersi tutto ciò che era particolarmente vecchio e sgangherato e fatiscente. (…) C’era stato un grosso equivoco. La gente che veniva dalla grande città cercava la natura e le radici, ma nei paesi se ne stavano disfacendo”: “Era come se si stessero vendicando di quello che avevano subito in passato, estirpando tutto ciò che volesse crescere, verdeggiare, fiorire e consumare inutilmente. Via tutto ciò che era storto, logoro e misero, da contadino, da bifolco. Si liberavano dalla natura come schiavi dai loro padroni (…). La gente che veniva dalle grandi città (…) non capiva che i propri vicini avevano un conto aperto con quel territorio. Loro abitavano lì da poco, su quella terra, non sapevano cosa volesse dire vivere di quella terra”.

È qui che il romanzo diventa potente, capace di render conto – senza mai rischiare di abbandonare il terreno della narrativa gravandolo di digressioni saggistiche – dei guasti irreversibili che una modernizzazione guidata solo da criteri economici e accelerata dalle innovazioni tecniche inevitabilmente porta con sé disgregando comunità già minate e destituendo di senso le vite dei singoli.

“Il tempo dei contadini giungeva al termine. Avevano spento il fuoco, tolto le tende e abbandonato gli ultimi residenti. Homo ruralis. Quasi estinto. Le ere cominciano e finiscono, niente di trascendentale. Per uno del mestiere – come il professor Ingwer Feddersen – era sorprendente averci messo così tanto a capirlo”.

Sua madre Marret-fine-del-mondo, a suo modo, aveva visto quel che stava accadendo. Ma “quel posto se ne infischiava totalmente dell’inezia umana”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“(…) pensa che per restare uno scrittore avrebbe dovuto ridiventarlo daccapo (…). È come se non riuscisse a ricordare ciò che…”

“(…) pensa che per restare uno scrittore avrebbe dovuto ridiventarlo daccapo (…). È come se non riuscisse a ricordare ciò che inizialmente, un sacco di anni prima, l’aveva trascinato verso le parole, benché le parole siano ciò con cui tuttora se la vede. Mi sa che è un po’ come il matrimonio, ha detto. Costruisci un intero edificio su un periodo di passione che non si ripeterà. È la base della tua fiducia e qualche volta ne dubiti, ma non ci rinunci perché gran parte della tua vita è fondata su quel terreno”. (Rachel Cusk)

Impedire che il mondo vada in pezzi

Albert Camus, Conferenze e discorsi, Bompiani 2020 (pp. 339, euro 22)

Alcuni libri più di altri possono essere letti in modi diversi. Questo può essere letto per esempio cercando, e trovando, conferma dell’attualità di Camus anche oltre La peste, il romanzo che è sembrato a molti la lettura più pertinente nella fase del (primo) lockdown. Il Camus che leggiamo qui non è il romanziere, infatti, né il saggista, ma il conferenziere, l’intellettuale che si pronuncia sulla condizione dell’uomo a partire dalla situazione seguita alla seconda guerra mondiale, che si interroga sulla crisi della nostra civiltà,senza abbandonare la speranza che l’uomo possa ritrovare “quell’inclinazione verso l’uomo senza la quale il mondo sarà sempre un’immensa solitudine”. Ma anche ponendo obiettivi concreti, come quello di riconoscere una “cultura mediterranea” e renderla operante, o individuando alla radice questioni irrisolte: “L’Europa – leggiamo ad esempio in una conferenza del 1949, pensando alla “fortezza Europa” che non poche decisioni politiche oggi annunciano o di fatto praticano – non guarirà se non rifiuterà di adorare l’evento, il dato di fatto, la ricchezza, la potenza, la storia quale si fa e il mondo così come va, se non accetterà di vedere la condizione umana così com’è”.

Ecco allora un altro modo di leggere queste pagine: verificare nel concreto del discorso che cosa significa(va?) essere un intellettuale. Avendo presente l’opzione che Camus dichiara senza mezzi termini: “Preferisco gli uomini impegnati alle letterature impegnate”. Opzione di cui danno ampia testimonianza gli interventi raccolti in questo libro, puntuali e calzanti rispetto agli eventi di cui lo scrittore è osservatore partecipe. Occorre però non dimenticare – e non possono non venire in mente le polemiche di oggi contro i colti e i competenti così come i vezzi battaglieri di non pochi facitori d’opinione – che “Se alla parola intellettuale si associano spesso tanto disprezzo e tanta riprovazione è perché essa implica l’idea del polemista amante delle astrazioni incapace di guardare alla vita e incline a preferire sempre la propria personalità a tutto il resto del mondo”. Camus è lontanissimo dall’illusione velleitaria di chi pensa che “spetta all’intelligenza di cambiare la storia”, ma è convinto che compito di essa sia “quello di agire sull’uomo, che invece la storia la fa”. E il primo passo è “non permettere mai alla critica di trasformarsi in insulto, ammettere che il nostro avversario possa avere ragione e che in ogni caso le sue ragioni, anche sbagliate, possano essere disinteressate”, senza per altro nulla concedere alle “filosofie dell’istinto”, a quel “romanticismo di bassa lega che preferisce il sentire al comprendere”: la parola populismo non faceva parte del lessico di Camus… Il quale comunque aveva esperienza diretta del fatto che “Colui che prova a comprendere senza preconcetti, colui che parla di obiettività viene subito accusato di sofisticheria e denunciato per le sue pretese” (neanche l’espressione radical chic era ancora entrata nell’uso…).

Ma tornando al tema cui si accennava, a quella crisi di civiltà che può esser letta come “crisi dell’uomo”, la constatazione della sua esistenza non richiede purtroppo argomentazioni complicate: “c’è una crisi dell’uomo poiché nel nostro mondo la morte o la tortura – metti, la tragedia della traversate mediterranee o quella dei lager libici – può essere guardata con un sentimento di indifferenza o di interesse amichevole, o di curiosità, o di semplice passività (…) senza l’orrore e lo scandalo che dovrebbe suscitare, poiché il dolore umano è accettato”, messo in conto, fatalisticamente o cinicamente (sempre che ci sia davvero una differenza sostanziale fra i due atteggiamenti). Le radici di questa “degenerazione dei valori” stanno comunque a monte, nel fatto che “un uomo o una forza storica non sono (…) più giudicati in funzione della loro dignità, ma in funzione del loro successo”, all’interno di un orizzonte di “incertezza assoluta dell’uomo occidentale rispetto al proprio futuro”: “la semplice parola futuro” è ormai “emblema di ogni sorta di angosce” – e, si badi: Camus non poteva annoverare fra queste quella suscitata dalla crisi ambientale – e non potrebbe sentire diversamente l’uomo “costretto – com’è – a vivere nel presente (lontano dalle verità naturali, dai passatempi tranquilli e dalla semplice felicità”. Costrizione, questa, che tuttavia non impedisce di sentire che “da tempo viviamo un profondo disagio e non siamo più sicuri del nostro futuro e che questa, insomma, non è una condizione normale per presunti uomini civili”.

Non deve scoraggiare il fatto che le occasioni alla base delle diverse conferenze appartengano a tempi e contesti relativamente lontani. In queste pagine, oltre a immagini che resistono al tempo – una per tutte, “I francesi della resistenza che ho conosciuto e che leggevano Montaigne sui treni dove trasportavano i loro volantini” – ricorrono prese di posizione, spesso espresse in forma aforistica, ancora in grado di parlarci. Qualche esempio: “Un uomo non pensa male perché è un assassino. È un assassino perché pensa male. Perciò si può essere un assassino senza apparentemente aver mai ucciso”; occorre “ridimensionare la politica attribuendolo il ruolo secondario che le spetta”: “far funzionare le cose, non risolvere i nostri problemi interiori. Ignoro, per quel che mi riguarda, se esista un assoluto. Ma so che non è di ordine politico” e “non concerne tutti; concerne ognuno di noi singolarmente. E occorre impostare i rapporti – eccolo, il contributo necessario della politica – in modo che ciascuno abbia l’agio interiore di interrogarsi sull’assoluto”. E ancora: “Vogliamo ritrovare la via verso una civiltà in cui l’uomo, senza distogliersi dalla Storia, non le sarà più asservito, in cui il dovere che ogni uomo ha nei confronti degli altri uomini sarà controbilanciato dalla riflessione, dal tempo a propria disposizione e dalla parte di felicità che ciascuno deve a sé stesso”. Fino a giungere al discorso pronunciato nel 1957 a Stoccolma, ricevendo il Nobel per la letteratura, nel quale Camus intende chiarire l’idea della sua arte e del suo ruolo di scrittore: “Non posso vivere, personalmente, senza la mia arte. Ma non ho mai posto questa arte al di sopra di tutto. Se mi è necessaria, invece, è perché non si separa da nessuno e mi permette di vivere, quale sono, alla pari con tutti”. E tuttavia, lo scrittore, “Per definizione non può mettersi, oggi, al servizio di coloro che fanno la storia: è al servizio di coloro che la subiscono”. Il che coincide con la consapevolezza che il compito più importante non è credere velleitariamente di poter cambiare il mondo: è un compito “persino più grande” e “Consiste nell’impedire che il mondo vada in pezzi”.

Non solo un invito alla lucidità esprime questo libro: sono anche coraggio – e speranza, nonostante tutto – che la lettura trasmette.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Se vi sedete al tornio della scrittura, e cominciate a dar forma a un racconto…”

“Se vi sedete al tornio della scrittura, e cominciate a dar forma a un racconto, vi accorgerete che di quanto tempo ci voglia. Un movimento dopo l’altro, con fatica, lentamente, la ruota delle parole scava dei suoni, nell’animo, negli eventi. Un personaggio nasce frase dopo frase, un rammarico dopo l’altro, una sconfitta segue la successiva. Il martello del subito non è tra gli strumenti di un grande scrittore”. (Giulio Busi)