Passioni spente, biografie a pezzi

Tommy Wieringa, Una moglie giovane e bella, Iperborea 2019 (pp. 117, euro 14)

“Collezionista di prime volte” nella sua vita sentimentale, il virologo Edward, finché non incontra Ruth, di parecchi anni più giovane di lui. Al solo vederla prova “una nuova sensazione: la bruciante nostalgia di qualcuno che ancora non conosceva”. La sposa, la tradisce con una collega, hanno un bambino, che non smette di piangere, neanche la notte, e cui la moglie si dedica in modo esclusivo attribuendo al marito un’indefinita responsabilità: il piccolo, sostiene, percepisce che lui non lo desiderava. È meglio che non abiti con loro, dunque, e al virologo non resta che accamparsi, all’insaputa dei colleghi, nel suo laboratorio, fra le cavie. Senonché, la sensibilità animalista della moglie l’ha contagiato: “A volte guardava gli animali nelle loro gabbie con gi occhi di Ruth e vedeva che la prima forma di sofferenza a cui venivano sottoposti era la noia. Smettevano di prendersi cura di sé (…). Più spesso e a lungo li guardava, più si affievoliva dentro di lui la negazione della loro sofferenza”, sulla scorta delle idee non solo della moglie ma anche di Jeremy Bentham, secondo il quale la domanda da porsi se si vuole tracciare un confine tra uomini e animali «non è: “Possono ragionare?”, né “Possono parlare?”, ma “Possono soffrire?”».

La riflessione sul dolore animale si intreccia sempre più strettamente con quella su di sé: la gallina bianca che trent’anni prima, ancora ragazzino, aveva salvato dall’allevamento intensivo è forse l’unico essere che ha davvero amato, o per il quale aveva provato “una sorta di compassione”, mentre col passare degli anni quella sensibilità è scomparsa e riesce difficile  ricordare “com’era… avere un cuore, un cuore che ti mette in condizione di lasciarti trasportare e sentirti parte della vita sulla terra…”. Ma il tempo è passato, e ormai “le singole parti della sua biografia non volevano saperne di amalgamarsi in un insieme, in un’unica vita che mostrasse significato e coerenza.”

Ecco il punto: Edward è uno di quegli uomini che, superati i quaranta, si rende conto di aver continuato “a salire e scendere la scala della (loro) vita” e faticano a cogliervi qualcosa che possa riconoscere come una biografia: come i depressi (si pensi all’io narrante di Emanuele Trevi, in questi Appunti lo scorso 26 maggio), così anche questi personaggi sembrano aggirarsi con assiduità nei romanzi che l’editoria oggi ci propone. Ne fa parte, per fare un esempio, anche lo psichiatra Kadoke di Terapie alternative per famiglie disperate di Arnon Grunberg (Bompiani 2019), afflitto da una pervasiva “stanchezza di vivere” che “bisogna scavalcare come si scavalcano le pozzanghere”, assorbito da un rapporto con la figura materna dai tratti patologici, eppure privo di passioni al punto che “talvolta va all’opera per vedere e ascoltare emozioni che non gli sono del tutto estranee, ma che non vive più in forma diretta.” Chi sono questi uomini? Hanno forse alle spalle l’esperienza dei giovani di cui spesso si parla: espropriati di futuro, più o meno apparentemente anaffettivi, incapaci di un progetto biografico?

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Ascoltare gli altri per vivere il nostro tempo

Rachel Cusk, Transiti, Einaudi 2019 (pp. 196, euro 17)

Una scrittura, una narrazione all’altezza dell’epoca? Forse in questo modo si potrebbe definire l’obiettivo – e, a seconda dei giudizi, il risultato – del lavoro di Rachel Cusk, che fin dalle prime pagine ci propone giudizi precisi sul nostro tempo, appunto. “Quest’epoca di scienza e incredulità (in cui) abbiamo smarrito il senso del nostro significato”, e la vita scorre per molti “priva di storia”, in una sostanziale solitudine e nella assillante “paura di non essere desiderati”. Al punto che, a chi si aggira nel deserto della depressione, può accadere “di commuoversi fino alle lacrime di fronte alla preoccupazione per la sua salute e il suo benessere espressa dal lessico degli slogan pubblicitari e delle confezioni alimentari”. Ma nulla è più lontano dalle intenzioni dell’autrice del costruire una teoria circa il mondo in cui viviamo: quello che dice lo riporta, non lo presenta mai come l’esito del suo pensiero, ma sempre come il frutto della sua attitudine ad ascoltare gli altri, le persone fra loro diverse che la vita quotidiana le fa incontrare. In ciò proseguendo la strada intrapresa con Resoconto (in questi Appunti lo scorso 9 dicembre), ma dando ancora più spessore a un senso di irrealtà che permea l’esperienza, “come se vivessimo in una vetrina”, dove la vita “è una messa in scena, ma nello stesso tempo è reale”. Una realtà nella quale tuttavia molti degli adulti fra i quali ci muoviamo a mala pena riescono a nascondere la loro natura di bambini mai davvero del tutto cresciuti, e perfino gli studenti di un corso di scrittura creativa danno l’impressione di non “credere a sufficienza nella realtà umana per costruirci sopra delle fantasie”. Né maggiore consistenza paiono avere i matrimoni, che sembrano funzionare “come si dice che funzionino le storie, grazie alla sospensione dell’incredulità” e si reggono secondo uno dei “resoconti” raccolti, “non tanto sulla perfezione, quanto sull’elusione di determinate realtà”, come ad esempio i sentimenti del compagno. Ma non si tratta solo di esperienze coniugali: tutta la vita è dominata da una sorta di rimozione, dalla tendenza a “sottovalutare ciò che ci ha formato di più, e a replicarlo ciecamente”.

E lo scrivere? è forse il segno di un destino diverso, più consapevole, più responsabile? Pare di no: “Tutti gli scrittori sono in cerca di attenzione (…) Il fatto è che nessuno – sostiene un collega nel corso di un incontro pubblico – si è preso cura di noi quando eravamo piccoli e adesso gliela facciamo pagare. Se uno scrittore nega, per quanto lo riguarda, una componente di vendetta infantile in ciò che fa, è un bugiardo. Scrivere è solo un modo di farsi giustizia con le proprie mani”.

Ma lei, l’autrice, in proposito come la pensa? O meglio: come la pensa la protagonista, voce narrante del romanzo (del tutto somigliante all’autrice stessa, si giurerebbe comunque)? Lo dice, con chiarezza: ritiene un bene “il fatto che ogni lettore si avvicina al tuo libro come un estraneo che devi convincere a restare”, persuasa com’è della necessità di un “fondamentale anonimato del lavoro di scrittura”. Ed è un impegno mantenuto, questo: il personaggio di cui meno sappiamo, alla fine, è proprio lei, la narratrice, anche se il suo sguardo è pagina dopo pagina divenuto il nostro. Uno sguardo distaccato abbastanza per riportare con scrupolo le storie udite, ma partecipe in misura tale da permetterle di far di quelle storie l’occasione di riflessioni, di interventi in prima persona sommessi quanto penetranti, che solo il contatto stabilito con l’estraneo del momento pare aver reso possibili.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

L’eredità

Le luci della sala si sono spente, e siamo rimasti al buio: lo schermo non si è illuminato. È nero. Il film però è cominciato, senza immagini. Solo un rumore. Il rumore che facevano i treni fino a non molti anni fa. TuTUM-tutum… TuTUM-tutum… TuTUM-tutum…
Quando l’immagine appare vediamo un signore, un vecchio, più in là dei settant’anni, che tiene un libro in mano, aperto, ma sta guardando fuori dal finestrino.
Il treno non è di quelli di oggi, appunto: ci sono ancora gli scompartimenti. Roba di una quindicina d’anni fa almeno.
Davanti al vecchio c’è un bambino. Lui non guarda i tralicci, i capannoni, i campi piatti e deserti che scorrono di fuori. Non distoglie lo sguardo da quello che tiene in mano, ma non ha pagine da girare. Sta giocando. Un videogioco. Guarda fisso e schiaccia, ora sul lato destro ora sul sinistro della scatolina di plastica rossa che tiene fra le mani, emettendo di tanto in tanto, sottovoce, qualcosa di simile agli urli della folla allo stadio quando fanno goal. Gioca e mastica. Ai suoi piedi la carta del chewing gum che ha in bocca.
Accanto a lui siede una donna, giovane, sottana corta e stivali, un maglione con dei brillantini che disegnano un fiore sulla lana lilla. Parla al cellulare. Sbocconcella un biscotto, l’ultimo, la scatola che c’è sul sedile, vicino alla borsetta, sembra vuota. L’uomo seduto verso il corridoio invece ascolta, soprattutto. Il cellulare all’orecchio anche lui. Si direbbe addormentato, non fosse per il cenno di assenso che ogni tanto fa, a intervalli regolari, e per i sorsi che ogni tanto dà alla bottiglietta di plastica che tiene fra le gambe.
La voce della donna però non si sente. Solo quel TuTUM-tutum… TuTUM-tutum…
Forse il regista vuol farci capire che non c’è nient’altro da sentire.
E poco da vedere anche, si direbbe: lo schermo è di nuovo buio.
Dev’essere uno di quei film in cui tra una scena e l’altra succede così.

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Un giallo a passo d’uomo

Louise Penny, Case di vetro. Le indagini del commissario Armand Gamache, Einaudi 2019 (pp. 552, euro 15)

Dopo cinquanta pagine non è ancora successo niente: si può reagire così alla lettura del primo dei romanzi dedicati dall’autrice canadese al commissario Gamache. Il primo pubblicato in Italia di ben quattordici. Sì, la lentezza: è come guardare un film in bianco e nero di qualche decennio fa, uno di quei romanzi che si permettono di lasciare che i personaggi si costruiscano per minime pennellate successive. Così avviene per il protagonista, e proprio il processo che a poco a poco ci rende familiare questo personaggio è al centro della narrazione. Armand Gamache “credeva fermamente alla legge, aveva lavorato tutta la vita a servizio della giustizia, ma l’unica a cui sentiva di rendere conto era la propria coscienza.” E la storia si può leggere, infatti, anche come l’assommarsi delle circostanze che portano questo integerrimo poliziotto a far sua senza esitazioni o mezze misure la massima di Gandhi – secondo la quale “Esiste un tribunale più alto di quello degli uomini, ed è quello della coscienza. Il primo tra tutti i tribunali” – e a metterla in pratica correndo sul limite di quella che potrebbe apparire assenza di scrupoli. Quella stessa che qualcuno imputò a Churchill quando lasciò che i nazisti bombardassero Coventry per impedire che potessero rendersi conto che loro, gli inglesi, avevano decifrato il loro codice segreto: non opporsi alla morte di centinaia di persone per scongiurare quella di un numero molto maggiore di innocenti. Lasciare che un carico ingente di droga passi il confine fra il Canada e gli Stati Uniti pur avendone avuto notizia non è diverso: servirà al commissario a decapitare i due potenti cartelli, americano e canadese, dei trafficanti di morte.

Senonché, questo è solo un ramo della vicenda, l’altro si svolge in un tranquillo, minuscolo villaggio fuori da Montreal, lo stesso i cui abitanti – non numerosi, cui si aggiungono qualche turista e anche  Gamache e la sua famiglia – sono sconvolti dalla comparsa di una figura misteriosa, addobbata come la Morte nell’iconografia tradizionale: un cobrador, un misterioso personaggio la cui presenza, muta e di per sé innocua, suscita in ciascuno dei residenti il rimorso per un atto che avrebbe potuto evitare e invece ha compiuto, o si è colpevolmente astenuto dal fare. Tutti colpevoli, ma qualcuno – uno in particolare – più degli altri.

Il rapporto fra la ricerca dell’identità del personaggio mascherato e, poi, di quella che viene ritenuta dal paese come la sua vittima, da un lato, e dall’altro la lenta, paziente lotta ai padroni del mercato della droga, resta in sospeso per gran parte delle oltre cinquecento pagine del romanzo, persino agli occhi di personaggi decisivi come la giudice che, a fatti avvenuti, sta conducendo un processo nel quale, inspiegabilmente, il procuratore e il commissario chiamato a testimoniare, contrariamente a quanto sarebbe naturale, sembrano schierati su fronti opposti. L’andirivieni fra la cronaca del processo e quanto avviene al villaggio è frutto di una tecnica narrativa consumata, che permette di tener ferma l’attenzione del lettore, oltre che su quanto avviene, sui risvolti inaspettati del carattere di Gamache, uomo ironico, gentile, disincantato, ma al tempo stesso determinato, capace della pazienza lungimirante di uno stratega come dell’intervento tempestivo e se necessario violento del soldato: lo si scoprirà verso la fine, quando l’autrice dimostrerà di saper accelerare il ritmo narrativo fino alla tensione di un film d’azione. A colori.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Stromboli

In un’estate che non potrà dimenticare, luoghi e situazioni coinvolgenti, ricordi che non cessano di turbarlo e figure che stenta a decifrare, si avvicendano attorno a Lucio, diciottenne alle soglie di una nuova vita, insicuro tuttavia nel comprendere i desideri e i sentimenti che avverte, tormentato dalla sensazione di non saper prendere decisioni, di non riuscire a chiarire a se stesso quel che davvero vuole.
È solo alla vigilia della partenza, osservando i gabbiani che si librano come aquiloni accanto al barcone che lo porterà a Stromboli, che gli pare di capire: occorre l’indifferenza di una cosa per star così, nell’aria, ma insieme la concentrazione di un animale che ha fiutato la preda, preso in quello che sta facendo, nel momento in cui lo sta facendo, tanto da dimenticarsi quasi dello scopo del suo fare e fin di se stesso.
Occorre essere distanti da sé e allo stesso tempo mai così raccolti, ma non basta volerlo. Occorre confondersi con il vento, smetterla di difendersene.

Quelle che seguono sono alcune pagine tratte dal romanzo:

La bambina tende le mani. Vorrebbe che si avvicinassero ancora di più a prendere il biscotto che tiene sul palmo. I suoi richiami si mescolano ai loro stridi. La madre cerca di farle fare un passo indietro: ha paura dei becchi uncinati, e di quelle zampe, che potrebbero artigliare la manina tesa verso di loro, anche se pendono inerti sotto quei corpi tozzi che si direbbero troppo pesanti per stare sospesi nell’aria, controvento. Immobili.
Guarda come si lasciano portare, dice una ragazza al suo compagno: stan su senza far niente…
Lucio non lo sa se è così davvero: i loro occhi sembrano quelli di chi sta lavorando, seri, concentrati.
La donna è riuscita a convincere la figlia a lanciare il biscotto: un gabbiano lo afferra strappandolo a quello che l’aveva già nel becco e scompare. La bambina vuole continuare il gioco, piange quando la madre la trascina via.
Lucio prende dallo zainetto un sacchetto di cracker e ne tira pezzi ai gabbiani. Ce n’è uno, in particolare, che gli sembra lo guardi dritto negli occhi.
Si rovescia via nel vento ma poi ritorna, e sta lì, così vicino che lui, quasi, potrebbe toccarlo. Non fa niente per prendere i bocconi che Lucio tira in mezzo agli uccelli. Non sembra lì per quello. Sembra stia fermo nel vento perché così fa un gabbiano, perché vuole fare come i gabbiani che stanno sospesi intorno a lui in quel momento stesso, e come tutti gli altri che hanno sempre fatto così, da che mondo è mondo…


Rumori metallici di lamiere percosse, rimbombi cupi che risalgono tubature invisibili lo svegliano ogni pochi minuti. O così gli sembra. Quando sono voci a farlo uscire dal sonno gli occorre un momento per rendersi conto che è steso in una cuccetta, sulla nave che lo porta alle Eolie.
Si riscuote. Ricorda che quando veniva con i suoi voleva che lo svegliassero prima delle sei per vedere il vulcano. Stromboli.
La prima volta era rimasto deluso: dov’erano la lava, il fuoco? Aveva immaginato che il cratere si vedesse dal mare. Invece c’era solo una montagna, verde di cespugli bassi, ripida, chiazzata di terra scura.
Quando la nave aveva lasciato il molo di Scari, sotto San Vincenzo, e aveva costeggiato l’isola si era visto il fianco grigio, quasi nero, senza un filo d’erba: la Sciara del Fuoco. È da lì che scende la lava, quando scende. Ma quel giorno non se ne vedeva. Una nuvoletta bianca sulla cima, quando erano stati ormai distanti dall’isola: segno che il vulcano era sveglio, gli avevano detto. Sveglio anche se non in fase di eruzione.
Questo aveva visto, la prima volta, quando era un bambino di sei anni, e di tutto quello che il padre aveva via via spiegato, e tornato a spiegare, a lui e alla mamma, negli anni successivi – l’età del vulcano, la formazione della Sciara del Fuoco, la presenza di tre crateri – a Lucio era rimasta in mente soprattutto una cosa che aveva letto in uno dei romanzi che il nonno, il papà della mamma, gli regalava al suo compleanno: Viaggio al centro della terra. Era di lì, dal vulcano di Stromboli che Axel, con lo zio professore e la loro guida islandese, erano tornati sulla terra. Dallo Sneffels, il vulcano spento in cui si erano calati, a Stromboli. Dall’Islanda all’Italia.


Dorme fin quasi alle sei. Succede con il vino bianco, gelato, se ne bevi come fosse acqua.
Resta a guardarsi intorno. Aveva sempre dormito di là, in cucina c’è ancora la sua poltrona letto. Il letto dove dormivano i suoi è di quelli a una piazza e mezza, infossato al centro. Anche lì, vicino alla porta del bagno, un acquerello – non di Doriana però, di sua madre: ci s’era messa anche lei, incoraggiata dalla vicina. Il mare, e lontani, sulla destra, tre gabbiani in volo.
Li vede ancora, Lucio, gli occhi di quell’uccello fissi per qualche secondo nei suoi: come si aspettasse che lui intuisse quel che aveva da dirgli, gli vien da pensare adesso. Come si fossero riconosciuti e non ci fosse bisogno di parole fra loro.
Sul tavolo della terrazzina trova un cesto di cedri e arance. Non mancava mai quando i suoi erano a Salina. E i Parisi se ne sono ricordati.
Gli sembra di vederla, Lara, che lo appoggia lì, in punta di piedi, e poi se ne va. Ma è la figura di Doriana a sovrapporsi subito a quella della figlia: la immagina entrare in casa e affacciarsi alla camera, e restar ferma un momento a guardarlo dormire.


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Recensioni

Dal Giornale di Brescia del 13 giugno 2019.
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Dal Corriere della Sera – Brescia del 22 giugno 2019.
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Un libro serio che si legge sorridendo

Michele Serra, Le cose che bruciano, Feltrinelli 2019 (pp. 174, euro 15)

Politico del “fronte progressista”, non sa accettare che non sia accolta la sua proposta di legge – avanzata in tempi non sospetti, e dal fronte progressista, appunto – per la “reintroduzione dell’uniforme obbligatoria” nelle scuole (una proposta volta a “rimediare a quella forma subdola di banalità che è l’anticonformismo”, l’ossessione di distinguersi cercando, velleitariamente, di vestirsi in modo diverso dagli altri). E dunque se ne va. Se ne va proprio, in montagna, a fare (anzi, a imparare a fare) il contadino, sicuro della sua scelta ma non della propria condizione: “fuggiasco vittorioso” o “dimissionario soccombente”? Di certo, convinto da tempo che “La politica è commovente, e commovente è chi fa politica”. Perché la politica, oggi, oltre che disarmante è disarmata: “con le sue presuntuose divinazioni sul destino degli uomini” si è ridotta ad essere una “branca della metafisica”, superata dai fatti, affogata nelle mene di potere, svuotata di senso da notiziari che sgranano il loro “rosario quotidiano di catastrofi” dicendo del disordine del mondo e nel contempo riordinandolo “nella struttura a rullo delle news”.

E intanto, “abbiamo troppe cose tutti quanti”, ne riempiamo le nostre case, ne accumuliamo continuamente e in aggiunta ne ereditiamo: “siamo cresciuti in una religione antropomorfa, che crede nella resurrezione della carne e colleziona reliquie con entusiasmo feticista. Le penne sono dita, le scarpe piedi, i cappelli scalpi, gli occhiali lo sguardo che hanno contenuto”. E si tratta invece solo di “scorie delle vite altrui che rimiriamo impotenti (…). Il passato che ci imprigiona è solo in piccola misura il nostro. Si tratta del passato degli altri che si traveste, pur di sopravvivere, da nostra memoria.” Una memoria che coincide con un “micidiale ricatto”: “quello che, per onorare il passato, ostruisce il presente.” E allora, ecco l’idea che fin dal titolo si annuncia: “Libertà è un rogo ben congegnato”. Bruciare, disfarsi di vecchi mobili e soprammobili, di carte e soprattutto di fotografie di famiglia, “volti di morti e di vivi che l’eternità irrisoria dello scatto fa sembrare comunque morti anche quando siano sopravvissuti”.

Trovata la soluzione, dunque, perché l’abbandono della città non si tiri dietro zavorre ingombranti? No, purtroppo: come il viaggiatore socratico che, per quanto si allontani, porta sempre con sé le proprie ossessioni, così il nostro ex politico non può fingere di aver reciso legami che lo gravano: “Mi rendo conto, con un certo fastidio  – deve ammettere –, che rischio di sentirmi legato a quel vecchio strumento di misura – l’opinione pubblica – che qui a Roccapane [il paese dove si è ritirato] vale quanto un peto di capra, ma giù nel mondo, dove tutti vivono addosso a tutti, ci rende oppressi.” Tanto più in questi ultimi anni, perché è “Incalcolabile quanto sia ingigantita, la sensazione di essere osservati, da quando hanno inventato la rete, la ragnatela a forma di mondo dove siamo impigliati a miliardi”.

Un libro serio che si legge sorridendo: potenza della scrittura di Serra, e del suo sguardo disincantato a ancora divertito sul mondo. E sul tempo, nonostante si sia costretti a constatare che “il passaggio del tempo non è uno spettacolo del quale si può essere semplici spettatori”, perché “Tornare indietro è impossibile, recriminare inutile. Bisogna inchinarsi al tempo che passa. Passiamo insieme a lui, e prima ce ne facciamo una ragione, meno doloroso sarà quando qualcun, tra una manciata d’anni, brucerà con pieno diritto le nostre vecchio cose.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Il mondo di oggi, dalla propria finestra

Halldóra Thoroddsen, Doppio vetro, Iperborea 2019 (pp. 128, euro 15)

Il lavoro “è regredito all’automazione e ormai si occupa esclusivamente della propria crescita esponenziale”, “Il mercato divora con una forza finora sconosciuta, è diventato un predatore globale e nessuno riesce a contenerlo. Non è solo l’ambiente a soffrirne, siamo tutti a rischio di estinzione. Noi e tutto ciò che abbiamo di più bello, l’immaginazione e la solidarietà”: chi è l’autore di diagnosi critiche tanto radicali?

Non un sociologo o un filosofo. È una donna di settantotto anni, che da tempo vive ritirata nella sua casa, osserva il mondo ma, “In fondo è una donna da soglia di casa”. Alla quale comunque “importa di come va il mondo” e che “ha a cuore che i giovani se la cavino e possano godersela un po’”. Perché il mondo non è dei vecchi come lei, è delle “nuove generazioni”, che della “saggezza stantia di una vecchia come lei non sanno che farsene”. È così: “ogni generazione si rintana nel proprio settore, infanzia e vecchiaia sono destinate all’isolamento. Urliamo nella nostra caverna e sentiamo solo la nostra eco”.

Cionondimeno, questa donna “Non vuole morire proprio adesso che sono in corso tanti cambiamenti. Vuole poter continuare a seguirne gli sviluppi. (…) Invece di scuotere la testa come una garbata vecchietta e lasciare che al futuro ci pensino gli altri, è avida di capire.”

Di capire, ma anche di sentire, di provare sentimenti. E qui la storia richiama l’Haruf di Le nostre anime di notte*, perché il tema è quello dell’amore fra vecchi, come quello che sboccia fra la protagonista e un vicino settantacinquenne. Titubante lei, all’inizio (“non può certo esporsi a una pena d’amore alla sua età”), ma poi poco a poco persuasa – da una voce interiore – che “i desideri non si avverano in un animo pavido”: “Gli telefona e gli dice sì”. Una storia intensa, felice, la loro, proprio perché calibrata sulla loro età (“non fingono di essere diversi da quello che sono, di serbare ancora il vigore di un tempo”) e forte di una precisa consapevolezza, riassumibile nel fatto che “L’amore tra persone anziane non è un amore coniugale sano, che ambisce a riempire la terra”.

Una storia intensa, dunque, ma breve: lui muore prima che sia stato loro assegnato l’appartamento in una residenza per anziani dove volevano vivere, insieme. E lei? Dopo il dolore della perdita, “La sofferenza non la travolge più a ondate. Ormai la conosce, ci si è abituata. Ora riesce a osservarla dall’esterno, a salutarla con un cenno del capo. Certo che soffriamo, dal momento che ci troviamo in questa tragedia greca sappiamo che la fine è inevitabile.”

E allora non resta che prenderne atto, aderendo alla propria condizione, tornando ad osservarli, gli altri: “Là fuori tutti stanno cambiando il mondo. Lei resta in disparte, seduta alla finestra”. Il che non significa affatto chiudersi in se stessa, prova ne sia che quando i cittadini islandesi protestano contro il governo nel periodo della crisi economica che non ha risparmiato l’Islanda, anche lei va in piazza con mestolo e tegame a manifestare sonoramente il proprio disappunto, partecipe al punto da chiedersi se “finalmente sia diventata parte della collettività, anche se per un brevissimo momento”. Per poi tornare tuttavia dietro la sua finestra, dietro il doppio vetro da cui guarda il bambino che gioca con la sabbia, e sentire che la sua esperienza “non le arriva più di riverbero”, ma che “lei è l’esperienza”; sentire che “Si fonde con il mondo che sta fuori”, e dunque “È compiuta”.

Scrivere di vecchiaia in un Occidente sempre più vecchio testimonia dell’apertura del romanzo agli avvenimenti davvero epocali che viviamo, ma Thoroddsen fa di più. Ci racconta di un cammino umano compiuto senza infingimenti, e senza indulgenze né accanimenti verso di sé, fino alla fine.

* K. Haruf, Le nostre anime di notte, NNE 2017, in questi Appunti di lettura il 19 marzo dello stesso anno

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Una versione narrativa di noi stessi

Emanuele Trevi, Sogni e favole. Un apprendistato, Ponte alle Grazie 2018 (pp. 224, euro 16)

Il senso della caducità della perdita, innanzitutto: “Quando consideriamo il passato, l’estinzione di tante cose che ci apparivano ovvie e addirittura necessarie al nostro stesso esistere non stupisce affatto. Perché le vediamo fragili…”. Ma non solo le cose. Anche “il tempo degli artisti” ancora verificabile sul finire del Novecento, quando “erano esseri umani investiti di una vocazione”, o lo stile di vita, la dimensione dell’esistenza, che “godeva di larghi margini di lentezza” perché “era fondamentalmente sconnessa – ossia: disconnessa –, in una maniera che per chi ha oggi venti o trent’anni è difficilissima da immaginare. (…) Era normalissimo assentarsi, non dare notizie di sé per giorni o per settimane. E dunque, com’è logico supporre, le persone si pensavano con maggiore intensità…”. Un vissuto diverso del tempo, nella sostanza, che in certi luoghi, come il “cineclub” frequentato a diciott’anni conservava una “qualità speciale”.

È proprio così, o dipende dalla postura psicologica? L’autore non ha problemi, in ogni caso, ad ammetterlo (e siamo così a un secondo tema decisivo): “sono sempre stato una persona poco vitale, diciamo pure depressa”. Tema non casualmente ricorrente, la depressione, nella  letteratura recente, ma in Trevi non appare questione con cui fare i conti, da risolvere, in qualche modo – come ad esempio ne L’uomo che trema di Andrea Pomella, in questi Appunti lo scorso 18 novembre –, bensì un tratto distintivo del carattere, di un modo di stare al mondo che consegue alla netta percezione che “non facciamo che trapassare”, “possiamo illuderci di essere qui per qualcos’altro (…) ma di fatto non c’è un singolo secondo in cui non trapassiamo” e “l’esistenza, dal punto di vista individuale, non possiede nessun valore – conta solo la specie”, anche se ci abita la “certezza illusoria di essere destinatari di un messaggio”: “possedere un destino è la suprema finzione”. Per tutti, anche per chi crede di trovare nello scrivere una ragione per attribuirsi una personalità irripetibile: “la condizione dell’«autore» può rivelarsi un ostacolo, un ulteriore gabbia”, e uno stato di connivenza, forse, con il “gioco” imperante di “tener buona la gente a colpi di consenso narrativo e identificazione emotiva”. Lo sapeva già Metastasio, del resto, che pure ne faceva oggetto di un sonetto grazioso, quanto sia assurdo, per lo scrittore, commuoversi di fronte ai sogni e alle favole che inventa. Assurdo ma necessario, perché “solo nel riparo delle nostre finzioni l’esistenza è tollerabile se non sempre felice e “costruire una versione narrativa di noi stessi” è l’unico modo di preservarci “dalla follia e dalla disperazione sempre in agguato”: “il vero fondo è quando non ti racconti più nulla in cui puoi credere, quando per qualche motivo finisce il carburante, la possibilità di collocarti in una storia anche minima, anche misera, e di collocare a sua volta quella storia nel mondo che altrimenti ti apparirà per quello che è…”.

Eppure. Eppure ci sono autori incontrare i quali apre spiragli nella “cortina di buone maniere in cui consiste la vita sociale”. Si può trattare di un fotografo ritrattista come Arturo Patten, di una poetessa disperata come Amelia Rosselli, o di un letterato originale quanto spigoloso come Cesare Garboli. La capacità di guardare del primo, di vedere oltre la maschera che “l’alveare sociale” ci ha assegnato e alla quale abbiamo finito per credere; la “sovrabbondanza di destino” che gravava sulla seconda; la lucidità – rispecchiata nel logorarsi delle cose, nella “senescente dignità” che si coglieva nella sua casa – con cui il terzo sapeva individuare “l’oggetto della scrittura, inseguito durante i giorni passati a raccogliere, selezionare, interpretare tracce”, ossia “la vita, e il suo segreto di Pulcinella”, “l’assoluta mancanza di significato”, “l’illusorietà di ogni singola esistenza trascorsa in questo mondo.” E con questo il cerchio sembra chiudersi: la ricerca, sulla scorta dei maestri incontrati, ha se mai reso ancor più chiara la consapevolezza che “tutti noi, vivendo tra gli altri, desiderandoli e temendoli, sviluppando infinite forme di aggressività e dipendenza, orgoglio e sottomissione, finiamo per smarrire, in maniera più o meno grave, la strada della somiglianza a noi stessi. Come cani che a forza di fiutare tracce non sono più in grado di tornare a casa.”

Perché non si esce prostrati dalla lettura di un testo che non lascia margine alla speranza, se non a quella ravvisabile nel fatto che “noi sopravviviamo” non nelle “cose che abbiamo portato a termine”, ma “in tutto quello che non siamo riusciti a fare, nel tempo che non ci è bastato, nei rimpianti, nelle imprese interrotte”?

Perché non è un lamento, né una deprecazione, quello che l’autore ci consegna. La sua non è la voce di un uomo disperato, ma di chi s’è a lungo sforzato di vedere un senso nel non senso, ossia di smetterla di cercare un senso. Di qui uno sguardo inesorabile, e tragico, certo, ma limpido, pacato: un po’ come quello di Annie Ernaux, di cui non a caso Trevi cita un incipit indimenticabile, l’incipt de Gli anni: “Tutte le immagini scompariranno”.

Anche quello, di Ernaux, un romanzo sui generis, per certi aspetti avvicinabile a questo, che pure porta in copertina la dicitura “Romanzo” ma si potrebbe, come qualcuno ha fatto, definire saggio autobiografico. Non certo un saggio concluso, necessariamente riferendo – come non è possibile fare altrimenti parlando della vita – di “un apprendistato”.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Non si scrive narrativa per affermare principi e credenze che chiunque sembra condividere, né per rassicurarci sulla giustezza dei nostri sentimenti…”

“Non si scrive narrativa per affermare principi e credenze che chiunque sembra condividere, né per rassicurarci sulla giustezza dei nostri sentimenti. Il mondo della finzione ci libera dalle gabbie in cui la società rinchiude i sentimenti; una delle facoltà dell’arte è permettere tanto allo scrittore quanto al lettore di reagire all’esperienza in modi non sempre contemplabili nella quotidianità (…)- Possiamo anche non sapere di avere uno spettro di sentimenti e di reazioni così ampio, finché non vi entriamo in contatto grazie all’operato della narrativa. (…) Cessando per un po’ di essere cittadini integerrimi, precipitiamo in un altro stato di coscienza. E questa espansione della coscienza morale, questa esplorazione della fantasia morale, è preziosa, è preziosa sia per l’individuo che per la società.”

(Philip Roth)

La nostalgia, un sentimento necessario

Antonio Prete (a cura di), Nostalgia. Storia di un sentimento (Nuova edizione ampliata), Cortina 2018 (pp. 203, euro 14)

Eugenio Borgna, La nostalgia ferita, Einaudi 2018 (pp. 114, euro12)

Tra gli scritti sul concetto di nostalgia raccolti dal curatore già nella prima edizione di questo libro, nel 2004, continua a meritare di essere (ri)letto soprattutto quello di Jean Starobinski, inequivocabile nel mettere in luce come il termine abbia “assunto poco a poco una connotazione spregiativa”, passando “a designare il vano rimpianto di un mondo sociale o di un tipo di vita ormai svanito, di cui è inutile deplorare la scomparsa”.

Sarebbe un rapporto di sinonimia quello che corre fra la nostalgia e il rimpianto, dunque? Nient’affatto, spiega Borgna: “nel rimpianto ci si sente dolorosamente colpevoli e responsabili delle cose perdute, e non ci sono mai le increspature talora elegiache della nostalgia che ci fa guardare alle esperienze del passato come a esperienze che continuano a vivere nel cuore e nella memoria, e che rimarginano le ferite del presente, aiutandoci a resistere all’assenza di persone e di luoghi che abbiamo amato.”

Ma prima di meritare questi distinguo essenziali, il concetto di nostalgia ha accumulato una lunga storia, a partire dall’invenzione del suo nome, fatto di ritorno e di dolore. Prete ci accompagna nel cammino che dal neologismo coniato da Johannes Hofer nel 1668 per designare quella che si considerava una malattia, anche mortale, ha portato ad acquisizioni successive che ne hanno fatto un sentimento: un percorso inverso, sotto certi aspetti a quello della melanconia, passata da presenza naturale e inevitabile nella vita degli uomini ad un’affezione senz’altro da curare, la depressione, non a caso contemplata nel DSM (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali).

Sono molti i nomi che segnano l’evoluzione del concetto di nostalgia. Uno per tutti, Kant, secondo il quale “il nostalgico desidera ritrovare non tanto lo spettacolo del luogo natio quanto le sensazioni della sua infanzia”. Un desiderio impossibile da realizzare, se non si vogliano considerare i doni miracolosi della memoria involontaria di Proust: per i più, un ritorno che non si può non desiderare ma è destinato a restare un desiderio. E più del filosofo è allora il poeta a soccorrerci: in Caproni, ad esempio, “il ritorno accade, ma accade senza che ci sia stata partenza”, la sensazione è quella “del perduto senza poter nominare la cosa perduta”; la nostalgia, “una nostalgia senza nostos”.

E insieme a Caproni, nel nuovo denso capitolo che Prete ha aggiunto nella nuova edizione, troviamo il “disio” di Dante, la “ricordanza” di Leopardi, la melanconica critica del moderno di Baudelaire, le diverse declinazioni di una sostanziale ridefinizione del rapporto fra passato e presente – attraverso la lingua poetica, appunto – oltre che dello stesso Caproni, di Ungaretti, Montale, Luzi. Perché “la poesia ha contribuito – in una misura decisiva – a trasformare la nostalgia da malattia a sentimento”.

Un sentimento per nulla regressivo. È lo psichiatra ad assicurarcelo, sulla base della propria esperienza così come della sua vasta e appassionata frequentazione letteraria: “non c’è solo la nostalgia che fa male, la nostalgia che si fa talora malattia, ma c’è (anche) la nostalgia che sollecita a vivere, e fa nascere in noi un passato che sarebbe altrimenti perduto per sempre.” Nella sua prosa ricca di immagini e straboccante di aggettivi che richiamano la complessità e l’ineffabilità dello spazio interiore, la nostalgia viene indagata “nelle sue dimensioni arcane e segrete, umbratili e luminose, fragili e strazianti” per giungere alla constatazione conclusiva: “Così noi viviamo, e ogni volta diamo l’addio a qualcosa di noi che la nostalgia misteriosamente ci consente di ritrovare”.

Un tema da non smettere di sondare, due libri (oltre quelli cui sia Prete che Borgna rimandano) da leggere e rileggere. Tanto più in tempi di rotture col passato spavaldamente invocate e palingenesi disinvoltamente annunciate.

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Diffido della parole pessimismo e ottimismo. Un romanzo non afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande…”

“Diffido della parole pessimismo e ottimismo. Un romanzo non afferma niente; un romanzo cerca e pone delle domande. (…) Io invento storie, le metto a confronto l’una con l’altra e in questo modo pongo delle domande. La stupidità della gente deriva dall’avere una risposta per tutto. La saggezza del romanzo deriva dall’avere una domanda per tutto.”

(Milan Kundera)

Te non ti puoi ricordare

Paolo Teobaldi, Arenaria, edizioni e/o 2019 (pp. 160, euro 16)

“Te non ti puoi ricordare, non eri ancora nata”, “e poi vai a sapere che lingua, quali lingue, quante lingue parlerai…”: è un lungo racconto alla nipotina questo libro, un racconto fatto di divagazioni (di cui l’autore rivendica la legittimità “Melville, in Billy Budd, dice che le divagazioni in un racconto sono un po’ come dei peccati: ma, come quelli, altrettanto gustosi”); un racconto del, sul Tempo, letto nei cambiamenti, e nelle perdite. In quelle subite dalla lingua in primo luogo: è anche un grande repertorio di parole andate, questo libro. Di parole della parlata locale, lì nel Pesarese come dovunque: fuori dalla città non si trovavano solo campi o incolti, ma anche “gerbidi, cannicce, rimorte, orti, pozzi, guazzi, mazzacavalli a stufo”, così come giù sulla spiaggia, “sotto l’acqua di questa nostra bassura adriatica”, “nuotavano zanchette, raschia terra, aguglie, raguselli, branchetti di papalina e di baldigare”. Non viene neanche alla mente di cercare il significato preciso di ciascuno di questo termini: non è discorso quello che producono, ma musica, che resta nelle orecchie terminata la lettura, quando si guarda quella bambina che pedala vicino al vecchio in bicicletta, tabarro sciarpa e cappello, e una fisionomia che inevitabilmente richiama quella del nostro Franco Piavoli, un volto che ben si accorda con queste pagine. Dense non di rimpianto e recriminazione, ma se mai del rilievo puntuale, e sornione, di perdite non necessarie, che proprio non viene in mente di chiamare Progresso. Ma del resto, niente rimane identico a se stesso, né le cose né gli uomini. Neanche l’arenaria che forma l’altura che digrada verso il mare alle Rive del San Bartolo e che una volta non si lasciava “lambire e sgrottare” dalle onde come avviene oggi: “dove oggi vedi il mare lì c’era tutta terra, ma terra buona, ampi coltivati, filoni di grano, vigne maritate coi mori (…) una terra benedetta che una volta, favoleggiava mio padre (…) era propriamente, né più né meno, il Paradiso terrestre, quello della Genesi, dove Adamo ed Eva, tenendosi per mano, tra le ginestre in fiore, ciascuno col rispettivo umanissimo ballonzolio.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

“Forse pensavo che mettere le cose nero su bianco, tenere un resoconto scritto della mia esistenza…”

“Forse pensavo che mettere le cose nero su bianco, tenere un resoconto scritto della mia esistenza, fosse un modo per neutralizzare… la mia scomparsa. La mia cancellazione. Lasciare un segno nel mondo, come si suol dire. (…) Ma anch’io per esperienza posso dire che scrivere le cose non serve, se non per il fatto che più tempo passiamo a scrivere meno ne abbiamo per fare quelle cose che finiamo per dimenticare nostro malgrado.”

(Lisa Halliday)

La lezione della misura

Gianrico Carofiglio, La versione di Fenoglio, Einaudi 2019 (pp. 170, euro 16,50)

“Il fatto è che quando discutiamo con qualcuno, se l’argomento ci sembra importante e se i toni si accendono, vorremmo sempre stravincere. Vorremmo inchiodare l’altro, vorremmo che riconoscesse che noi abbiamo ragione e lui, o lei torto. (…) è una pura questione di ego. Mentre l’ego dovrebbe essere escluso dall’orizzonte di qualunque transazione con gli altri, di qualsiasi tipo, sia professionale sia personale”. Sono constatazioni, frutto di quell’esperienza vera che è riflessione mai conclusa sulle esperienze vissute, quelle del maresciallo Pietro Fenoglio, non insegnamenti. Ormai alla vigilia della pensione, è con un giovane casualmente incontrato nella palestra in cui entrambi fanno esercizi di riabilitazione (per conseguenze dovute ai raggiunti limiti di età uno, per quelle di un incidente l’altro), che il vecchio carabiniere si intrattiene: la vita sembra colorarsi di maggiore significato se, sia pure indistintamente, si individua un erede cui trasmetterne episodi e situazioni che non si sono lasciati dimenticare. Non necessariamente il proprio figlio – come in Alle tre del mattino -, ma un giovane comunque. In ogni caso, un interlocutore del quale prendersi cura, una cura che è socraticamente incoraggiamento all’altro perché prenda cura di se stesso. E difatti il ventenne Giulio prenderà via via coscienza della propria confusione esistenziale, della pigrizia con cui si rapporta a un possibile progetto biografico. Perché sono solo apparentemente regole dell’investigazione quelle che gli illustra il maresciallo – detective della stessa pasta di Maigret, per intendersi (”Bisogna sapersi adattare all’interlocutore per riuscire a convincerlo. In qualsiasi campo credo, ma di sicuro nelle indagini. E un’altra cosa importante è offrire, o prospettare, una via d’uscita dignitosa, non umiliante.”) In realtà, ben si adatta alla vita in generale la fiducia in una ragione che non è mai soltanto esercizio di razionalità, ma sempre virtù della ragionevolezza, senso della misura, consapevolezza dei limiti propri e altrui, disincantato ed empatico sguardo sui propri simili: “tutti in qualche modo mentono. Mentono agli altri e mentono a sé stessi. Mentono sulle loro azioni e mentono sui veri motivi di quelle azioni”, e “le testimonianze vanno trattate con cautela perché sono tutte, almeno in parte, false testimonianze; anche se il soggetto è sincero, in buona fede.” Perché “la nostra percezione è come uno specchio deformante”.

Insieme a considerazioni del genere, a intervallare gli “arancini” (direbbe Camilleri) di Fenoglio, che sempre parte da sintetici racconti delle proprie indagini, sono anche riferimenti letterari, che risaltano spesso per la loro attualità – “Dumas diceva: preferisco i mascalzoni agli imbecilli, perché a volte si concedono una pausa”. Il maresciallo è infatti un uomo contraddistinto da un interesse di lunga data per la letteratura: “Non si può scrivere senza aver letto molto. Non ricordo chi ha detto che ogni vero scrittore è seduto su una catasta di libri altrui. Diciamo che la lettura è un presupposto necessario, anche se non sufficiente, per scrivere qualsiasi cosa.” Ma, del resto, il mestiere dello scrittore e quello dell’investigatore non sono poi così lontani: “Credo che la chiave sia: porsi domande su quello che si sta guardando e, più in generale, su quello che si sta percependo. Solo così smetti di dare le cose per scontate e cominci a vedere davvero ciò che ti circonda. Immagino sia una qualità richiesta anche a un bravo scrittore: registrare cose che hanno visto tutti e mostrarle come se fosse la prima volta, come se prima non le avesse mai notate nessuno.” Il che non è affatto facile, assicura lo stesso Carofiglio in una recente intervista (“Tuttolibri” del 2 marzo) richiamando una testimonianza autorevole: “«Scrittore è colui al quale scrivere riesce più difficile che a qualunque altra persona» ha detto Thomas Mann.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.

Un trascinante caos narrativo

Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza, Guanda 2018 (pp. 409, euro 19)

Perché si racconta dei propri genitori? ci si chiedeva dopo aver letto Tra loro, di Richard Ford (in questi Appunti il 30 luglio 2017). Per capire chi erano, dice Ford: “io cerco di affrontare la loro diversità ed essi mi eludono, come fanno tutti i genitori”. Perché i genitori  creano per noi “una sorta di ‘separatezza congiunta’ e un utile mistero”.  Perché, sostiene Vilas, “Tutto scompare tranne quel mistero, che è il mistero della volontà di essere, della volontà che ci sia un altro diverso da me; su quel mistero si basano la paternità e la maternità”. Parole simili, ma per Ford i genitori sono quello che loro hanno fatto, le loro scelte, la loro vita; per Vilas sono la ragione nascosta del proprio fare, o non fare, e continuano a segnare la trama della propria vita: “Tutto quanto successe a mio padre si ripercuote sulla mia vita con una precisione millimetrica. Stiamo vivendo la stessa vita in contesti diversi, però è la stessa vita.” “Il suo ‘cosa parto a fare?’ – era commesso viaggiatore, il padre – arriva a me in un ‘cosa scrivo a fare?’”. Ma non meno tenace è l’identificazione con la madre: “Tutto il mio passato sprofondò quando mia madre fece la stessa cosa di mio padre: morire. (…) Ciò che mi univa a mia madre era e continua a essere un mistero che forse riuscirò a decifrare un secondo prima della mia morte. (…) Chiamo madre il mistero generale della vita.”

E’ attraverso la lente fornita dal legame insuperabile con i genitori che si articola un’autobiografia discontinua, ricorsiva, fitta di cortocircuiti verbali che mimano il percorso solo apparentemente casuale delle associazioni libere (“Quando il cadavere di mio padre è bruciato, si è fuso il dente d’oro? (…) Si è tenuto il dente d’oro il medico legale che ha fatto l’autopsia a mio padre togliendogli il pacemaker? Ha fatto un pacchetto, dente d’oro e pacemaker? L’oro e il cuore? Mio padre ha avuto un cuore d’oro.”). “Mia madre era una narratrice caotica – ammette del resto l’autore. Anch’io lo sono. Da mia madre ho ereditato il caos narrativo”.

Studente, poi insegnante, l’alcolismo poi superato, il matrimonio, il divorzio, due figli che si rivelano ben presto due sconosciuti: finisce solo, il protagonista, e scrive, di sé, di loro, consapevole che “Il passato di qualunque uomo o donna di più di cinquant’anni si trasforma in un enigma. È impossibile risolverlo. Non resta che innamorarsi dell’enigma”. L’enigma di una famiglia che non si può annoverare fra quelle felici: “Eravamo una famiglia catastrofica, e allo stesso tempo avevamo la nostra originalità”, sintetizza l’autore, e sembra confermare l’aforisma di Tolstoj. Se il padre, uomo dinamico e volitivo per altro, era soggetto a ricorrenti “crolli della volontà”, la madre è stata “una donna-dramma”, i cui mali “erano enumerativi. Enumerava dolori, alcuni di un’originalità immensa.” Afflitta da ipocondria e malinconia, come chiunque del resto quando ha oltrepassato la metà della vita e “dedica il proprio tempo a favoleggiare sul tipo di malattia che lo strapperà al mondo. Simula e ordisce storie sulla propria morte che vanno dal cancro all’infarto, dalla morte improvvisa all’anzianità interminabile.”

La morte, la caducità, la “vanità” di tutto e tutti (anche delle idee e della politica, nella Spagna postfranchista) è l’altro filo conduttore (l’altra faccia?) del legame inestinguibile con chi ci ha messo al mondo, e giunge puntuale a svuotare di senso il presente: “Un giorno o l’altro ogni uomo finisce per affrontare l’inconsistenza del suo passaggio nel mondo” e per constatare “l’inutilità di tutte le conversazioni umane che sono state e che saranno”, leggiamo già nella prima pagina. La “transitorietà di tutto” è uno “scandalo” insopportabile, ed è un “transito scriteriato” quello che va dal movimento vitale al rigor mortis”.

Eppure, in questo fiume che non risparmia nulla e nessuno, in cui “Le cose non resistono come facevano anticamente, quando un frigorifero e un televisore duravano trent’anni”, e “la gente non seppellisce elettrodomestici vecchi” anche se c’è chi “ha passato più tempo accanto a un televisore o a un frigorifero che accanto a un essere umano”, ebbene: anche in questo fiume rapinoso c’è stata bellezza. “In tutto c’è stata bellezza”: che cosa nasconde quest’affermazione ricorrente, inattesa, intempestiva? Lo sforzo di abbandonare un punto di vista centrato su se stessi? di venire a patti con il senso tragico del passato e della morte? di accettare la vita, sia pure paradossalmente? Lo farebbe pensare quella che si può considerare una conclusione, anche se precede di parecchie pagine la fine del romanzo. Un romanzo che sa conservare fino all’ultimo la sua carica di ironia sofferta: “Può darsi che alla fine un uomo si innamori della propria vita. È questo che mi sta succedendo. (…) quello che non potevo immaginare è questa riconciliazione con me stesso. (…) Può darsi che alla fine a essere sconfitta sia la solitudine. E può darsi che alla fine tu scopra che l’unico essere umano che non è un’assoluta rottura di palle sei tu.”

Questo testo compare anche nel sito della nuova libreria Rinascita di Brescia, alle cui attività culturali Carlo Simoni collabora.